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Biella: i detenuti sono nati (anche) per leggere…
Social Press, 7 febbraio 2005
Sono uno dei 14 detenuti adesso rinchiusi nella sezione speciale ad "elevato indice di vigilanza" del carcere di Biella. La lettura dei vari articoli e commenti, pubblicati sui giornali locali e nazionali, aventi come oggetto la perquisizione qui avvenuta il 20 dicembre 2004, m’invita ad intervenire. La richiesta di attenzione avanzata, in quegli scritti, alla società civile ha trovato rispondenza speciale, forse maggiore di quanto tanti (e non solo tra noi) potevano immaginare. Sapevo, grazie alle relazioni che intrattengo con il territorio, quanto sia possibile dialogare con questa città ma l’interesse , offerto e stimolato nell’occasione, è stato, in ogni caso, una nuova positiva verifica. Ora vorrei trovare parole capaci di esprimere le ragioni di un no, i motivi di un opposizione (che è tutto fuorché banale polemica) all’illogicità. In questi giorni, la voce di noi prigionieri ("politici" e "comuni",) insieme con quella dei nostri familiari e di tanti altri, ha scelto di affermare il bisogno delle nostre menti di muoversi oltre le mura, oltre il silenzio imposto, sostenendo , in una continua e legittima ricerca, la nostra consapevolezza e la voglia di vivere. Difendere il valore della scrittura il diritto alla riservatezza non è materia facilmente eludibile, vorrei ricordare l’articolo 15 della costituzione italiana che testualmente dichiara: "la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge". Della lettura e della musica, c’è sempre necessità, ancor più quando l’evidenza, quella che qualcuno vorrebbe nascondere dietro il regolamento (da non confondere, si badi bene, con la "legge" né, tantomeno, con il buonsenso,) trattiene in sé il potere della chiarezza. Mi spiego. Quello che è avvenuto nella casa circondariale di Biella ha indubbiamente ferito la ragione: per avere conferma di questo basterebbe osservare le modalità (definiamole pure pesanti) con cui è stata eseguita quella perquisizione. Tuttavia, ben sapendo che spesso la forma definisce gli scopi (anche in assenza di cause razionali, come in questo caso), tutto appare ben più grave e, nel contempo, incosciente. C’è qualcosa di paradossale in quello che è accaduto, molti, anche tra i cittadini liberi, l’hanno fatto notare: generalmente gli addetti ai lavori (stiamo sempre parlando di galera, però la cosa può valere per qualsiasi altro luogo ove è previsto il "governo del tempo") dovrebbero ambire ad apparire agli onori della cronaca (cosa non obbligatoria, s’intende) per "azioni meritevoli", capaci di evidenziare le potenzialità del "tempo meditativo" (per usare un eufemismo, perché io auspico il futuro metta in discussione la necessità stessa del carcere): qui si è sviluppato, all’opposto, uno strano processo involutivo, quasi si volesse sostenere, attraverso esso, in modo enfatico e cerimoniale, la nostra stupidità, la nostra incapacità di interpretare le parole. Orbene, ognuno di noi, uomini privati della libertà, qualunque sia il motivo della detenzione, ben sa dove si trova: molto semplicemente, possiamo affermare che abbiamo cognizione di chi detiene gli strumenti del comando, sappiamo come è eseguito il controllo sul nostro corpo, ne distinguiamo quotidianamente gli effetti su di noi, lo vediamo colpire le nostre famiglie. Eppure, con un azione decisa e preparata, i responsabili di questo carcere hanno deciso di fare un passo in più. Qualcuno potrebbe dire che le decisioni qua prese sono cosa abituale e/o ovvia in prigione, tuttavia si evidenziano come particolari, se si tiene conto della composizione di questa sezione, se si esaminano gli anni da noi trascorsi in una condizione "pacificata" (noi detenuti curavamo i nostri interessi, nei limiti imposti dalla natura stessa dell’istituzione carceraria, e le guardie ci osservavano, ci monitoravano, senza difficoltà, talmente chiari erano/sono i nostri movimenti!) e se si considera la "miseria" delle prospettive che ci sono offerte.
NB: nel regime di massima sorveglianza sono interdette le richieste di agevolazione della riforma penitenziaria quali: permessi, art. 21 etc.
La nostra consapevolezza non è però sottomissione e la risposta data ad un operazione di "censura del pensiero", ha mostrato, nella sua compostezza, una verità tangibile: stiamo parlando di cose reali, accadute, non si tratta di piagnistei né di pretese indecenti né di domande inaccettabili. Questo è un posto ove si è deciso (come bel regalo di natale, tanto per farci andare rilassati al colloquio con i nostri familiari) di sequestrare i nostri libri, di limitare drasticamente il loro numero, di impedire, nei fatti, l’ascolto della musica, primo linguaggio umano, negandone di conseguenza la valenza culturale, sociale, perfino terapeutica. Si è voluto cancellare il semplice diritto del cucinare (la cucina e la tavola non sono forse strumenti eccezionali di socialità e conoscenza?) e si è cancellata dal dizionario (a patto ancora di possederlo, tra i 4 libri concessi) la parola "piacere". Il carcere non desidera alcuna "avventura" intellettuale, quello che si pretende, oltre al controllo dei ritmi fisici, è il possesso delle idee, del dinamismo delle nostre intelligenze. Hanno tolto ai corpi, negando ai corpi imprigionati il diritto all’affettività, ma adesso vogliono perfino decidere i nostri gusti: i modi, le forme ed i tempi attraverso i quali noi ci rapportiamo con la vita, con la storia, con la memoria e con l’attualità, con la speranza. È successo a Biella, città ricettiva, città dove, il caso ha voluto, sabato 22 gennaio si è tenuto un convegno (presso il museo del territorio), organizzato dall’assessorato alla cultura e politiche giovanili della città, in cui si è discusso del legame esistente tra lettura e bambini. Il titolo di quell’appuntamento mi ha fatto sorridere, visto il periodo: "nati per leggere". Beh, mi è concesso, visto quanto sono vitali la conoscenza ed il confronto, di farlo mio? Perché vale anche per i grandi! Ritenete voi lo possa adottare, per invitare ad una diversa comprensione, o mi è vietato perché, in quanto detenuto, smetto di esistere? In nome della "sicurezza", è giusto trasfigurare la cultura, lo studio, le note musicali, l’analisi logica, l’incontro delle idee, facendo di tutto questo materia di "pericolo", da confinare in un buco nero? Siamo vivi e lo sono, con le loro diversità, i nostri caratteri. Ma il nostro "luogo" è altrove: motivo in più per difendere la libertà di pensare, il nostro sognare!
Fabio Canavesi, carcere di Biella La giustizia nemica, articolo di Gaspare Barbiellini Amidei
Corriere della Sera, 7 febbraio 2005
La notizia è questa: "Due nomadi volevano prendere nel centro di Lecco una bambina ma sono già libere, dopo aver patteggiato otto mesi di condanna". In poche occasioni una sentenza ha fatto tanto male alla magistratura. Quando l’applicazione di una legge turba il comune sentire, se ne giovano soltanto i nemici della giustizia. La correttezza del meccanismo di interpretazione del codice da sola non scioglie il nodo dello sconcerto. Di rado una notizia va immediatamente a fondo nell’immaginario collettivo quanto l’impunita circolazione di due ladre di bambini colte sul fatto. Spaventa la gelida distanza fra la lettura solitaria della norma e la percezione generale del pericolo. Guai a lasciare spazio in mezzo alla gente alla sensazione di non essere difesa a sufficienza. Attraverso questa porta si infilano sentimenti irrazionali, dalla xenofobia allo "sceriffismo". Almeno in una notte inquieta della loro vita quasi tutte le madri hanno fatto il brutto sogno di un figlio rapito da una zingara. Pessima letteratura ha alimentato questi incubi. Ma la scomparsa di bambini non è soltanto fantasticheria. La cronaca tiene aperti alcuni casi drammatici e l’opinione pubblica non li dimentica (da Angela Celentano, scomparsa nel ‘96 sul Monte Faito, nella penisola sorrentina, quando aveva 3 anni; a Denise Pipitone, 4 anni, sparita il 1° settembre scorso a Mazara del Vallo). Non si può del resto ridurre la paura quando a ogni semaforo di città si assiste allo sfruttamento di piccolissimi accattoni, che donne a loro volta forse sfruttate tengono in braccio o per mano, e non sappiamo mai se sono figli loro o noleggiati o presi chissà dove. Non è previdente quindi lasciare crescere i timori, non lo è per chi fa allarmismo e non lo è per chi non collabora a creare un clima di sicurezza. L’asettico linguaggio giuridico spiega che nell’episodio di Lecco il reato è stato "derubricato". Da tentato sequestro si è passati a tentata sottrazione di minore. A una mamma che vede allungare le mani di donne sconosciute verso il passeggino della sua bambina spiegate voi la distinzione fra sequestrare e sottrarre. Chiaritele perché, a differenza del primo gesto, il secondo non merita il carcere, "derubricato" ma altrettanto criminale. La giustizia chiede di essere condivisa, sostenuta e soprattutto capita come fosse la sorella maggiore del comune buonsenso di ciascuna persona onesta. Questo vale ancora di più in un tempo sul quale incidono anche lupi che aspirano a un mondo senza tribunali. (Una parola sui rom. La memoria del mondo impone di rendere finalmente onore anche al loro martirio. Fu un vero genocidio di nomadi, perpetrato dai nazisti con la stessa crudeltà dimostrata contro gli ebrei e contro gli omosessuali. Quelle due nomadi sciagurate buttano ancora un’ombra sul loro popolo, che tanto ha sofferto. La cronaca della piccola criminalità è oggi purtroppo popolata di nomadi che avviliscono lo slancio dei molti fra loro che invece patiscono immeritatamente il pregiudizio sociale che li bolla tutti come "ladri". È un motivo in più perché quelle due ladre di bambini restino in carcere per un tempo credibile). Nuoro: mamuthone d’oro al cappellano dei detenuti
L’Unione Sarda, 7 febbraio 2005
La cerchia dei mamuthones consacra ad honorem don Giovanni Usai. Il riconoscimento ufficiale che il Comune barbaricino attribuisce ormai da tre anni a questa parte a personaggi del mondo sardo che si sono distinti per la forte personalità, ieri mattina è andato a un sacerdote che ha fatto della propria vita una missione per il recupero e il reinserimento sociale di detenuti. "Non sarà la croce dei cavalieri di Malta - ironizza il sindaco di Mamoiada Graziano Deiana - e forse la questione in sé può anche far sorridere, ma se un sorriso rappresenta un’occasione per riflettere su temi che invece sono del tutto seri, allora ben venga". Il compito di consegnare l’importante onorificenza è toccato a due giovanissimi in maschera, un mamuthoneddu e un issohadoreddu. "Sono tre le motivazioni con le quali quest’anno attribuiamo il riconoscimento - sottolinea Deiana - il coraggio nel dare una mano a persone dal vissuto così difficile, la coerenza nel portare avanti delle scelte senza tentennamenti e il grande impegno dimostrato". Uomo di grande cultura, ex preside, con un passato professionale che sconfina nel mondo accademico, don Giovanni Usai a un certo punto lascia perdere ogni velleità intellettuale e sceglie tutt’altra strada. L’occasione gliela dà l’essere diventato cappellano della casa di reclusione di Isili: "Qui mi sono reso conto di quanto tra la gente sia diffusa la cultura della vendetta nei confronti di chi si trova o è stato in carcere - spiega - quella che non da chance a chi ha sbagliato una volta, quella che purtroppo appartiene anche a molti di coloro che si proclamano cristiani, ma che poi non riconoscono l’espiazione di una colpa e impediscono anche a chi vuole chiedere perdono di dimostrare di essere cambiato". Don Giovanni Usai è il fondatore della casa di accoglienza, "Samaritano" ad Arborea, che attualmente ha 32 ospiti, tra ex reclusi, detenuti in affidamento e altri agli arresti domiciliari. Si tratta di una fattoria autogestita, con 38 ettari di terreno coltivabile, nella quale "si può davvero risalire la china - è la testimonianza di Gianni, 21 anni di carcere alle spalle e ora collaboratore di don Usai - quando avevo 18 anni e le tasche piene di soldi, non conoscevo il valore del denaro, ora di soldi ne ho pochi ma di tutti so con certezza da dove provengono. Devo la vita a questo sacerdote". Quindici le nazioni rappresentate nel microcosmo del "Samaritano": "Tutti i credo religiosi e colori della pelle - rimarca don Usai - eppure nella nostra comunità nessuno vuole abbattere chiese o togliere crocifissi dai muri". Nelle carceri sarde il 30 per cento dei reclusi sono extracomunitari "quelli che attraverso i mass media passano come originari di un non ben identificato altrove - commenta il sindaco - i piccoli numeri della società, privati di ogni diritto" Milano: a San Vittore mostra fotografica di Roby Schirer
Corriere della Sera, 7 febbraio 2005
Una mostra perché la gente veda, sappia, si convinca che il carcere non è un luogo di mostri o un immondezzaio. Conosco bene San Vittore e, sfogliando il catalogo, ritrovo luoghi e personaggi amici. Il gatto Matisse, re della sartoria femminile, attraversa liberamente le sbarre in una metafora di libertà sotto occhi che di libertà sono assetati. Ecco una galleria di peluche: soggetti da favola nella cella di una giovane detenuta. Una serie di mani in primo piano: mani di carcerati avvinghiati alle sbarre, mani di guardie, pazienti dietro la schiena. Sembrano vasi comunicanti di vite che scorrono sotto lo stesso tetto. Una bianca colomba vola nella Rotonda dove il cardinale celebra la messa di Pasqua. Poi il panorama si capovolge. Nel raggio dei cosiddetti "protetti" più che di celle si dovrebbe parlare di antri: ecco la struggente immagine di una transessuale con il suo sgarro genetico addosso. La faccia durissima di un ergastolano si staglia sullo sfondo di un prorompente nudo femminile. Anche questo è carcere. Come lo è il megaschermo installato, in occasione dell’inaugurazione della nuova Scala, nella solita Rotonda trasformata per una notte nella dependance del più famoso teatro del mondo. In alcune foto le sbarre diventano maglie della rete di un campo di pallavolo dove le donne di San Vittore hanno formato un’ottima squadra, capace anche di battere gli arbitri di serie A in occasione della visita annuale. E poi, vista dall’alto, la scena del sogno: due detenuti salutano, fuori dal portone di piazza Filangieri. Il soffio dell’arte e della solidarietà umana sulla bravura professionale e la curiosità del testimone: ecco la lezione di Roby Schirer. Questa mostra è un atto di civiltà di cui bisogna dare atto anche a chi l’ha sostenuta e a chi dirige oggi San Vittore - Gloria Manzelli - sulle orme di quel grande uomo-guida che è stato Luigi Pagano.
Exibart
Per la prima volta una mostra fotografica sarà allestita nel carcere di San Vittore: una selezione di settanta fotografie in bianco e nero del noto fotoreporter Roby Schirer, scattate nell’arco di 12 anni, presentate con il titolo "San Vittore, Custodiscili", testimoniano avvenimenti significativi di San Vittore ma ancor più situazioni psicologiche e ambientazioni particolari e saranno esposte alle pareti del primo raggio. L’iniziativa intende promuovere un approfondimento da parte della società civile nei confronti dell’universo carcerario. Ma sarà anche un momento di riflessione per tutti coloro che a vario titolo vivono e operano all’interno dell’istituzione e che speso non riescono più a "vedere" per colpa della quotidianità, dell’abitudine e qualche volta della rassegnazione. La mostra è stata organizzata dalla Casa circondariale con il contributo del Comune di Milano, Assessorato alle Politiche Sociali, ha il patrocinio del Consiglio regionale dell’Ordine dei Giornalisti. Si inaugurerà il 7 febbraio alle 16.30 e potrà poi essere vista , fino alla fine del mese, da chi percorre abitualmente il lungo corridoio che porta alla Rotonda: detenuti che dai raggi si recano ai colloqui, agenti della polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali e volontari che ogni giorno svolgono i loro compiti nell’ambito del carcere. Potrà essere un’occasione per rivisitare tante situazioni vissute quotidianamente e forse mai "messe a fuoco". L’immagine fotografica, nel rigore della documentazione, restituisce un attimo della memoria. Per l’occasione sarà edito un volume/catalogo che ospiterà le foto esposte, con una prefazione di Luca Rossi. La mostra uscirà poi dal carcere e dal 2 al 24 marzo potrà essere vista alla Stazione Centrale di Milano, al binario 21, per iniziativa di Grandi Stazioni. Saranno così i passeggeri, soprattutto i pendolari, a potersi avvicinare a un mondo lontano, che ha come condizione primaria l’immobilità. Pakistan: omicida "giustiziato" dopo 20 anni di carcere
Agenzia Radicale, 7 febbraio 2005
Fazalur Rehman è stato impiccato nel carcere di Kotlakhpat, per l’omicidio di Malik Arif, avvenuto nel 1984; l’Alta Corte di Lahore, la Corte Suprema pakistana ed infine il Presidente Musharraf avevano respinto tutti i suoi appelli. In Pakistan sono reati capitali: omicidio premeditato, rapina, dirottamento aereo, traffico di armi, traffico di droga e stupro di gruppo. La pena capitale è stata estesa anche ad alcune circostanze previste dalla Sharia, come rapporti sessuali extraconiugali e blasfemia. Secondo la Commissione Diritti Umani del Pakistan, 20 uomini sono stati giustiziati nel 2002 contro i 45 del 2001. Secondo la stessa fonte, nel 2003 sono state giustiziate 18 persone. I detenuti pakistani, in particolare quelli del braccio della morte, vivono in celle strette e sovraffollate e sono vittime di abusi. Le 812 celle dei 30 bracci della morte del Punjab sono di solito stanze di 2,7 per 3,6 metri con annesso un gabinetto circondato da un muretto alto un metro circa. A volte, in queste celle sono ristrette fino a dodici persone. Normalmente in una cella singola sono detenute da tre a sei persone. Medio Oriente: ex detenuti palestinesi, un aiuto per reinserirli
Swissinfo, 7 febbraio 2005
La Svizzera aiuta chi è alla ricerca di una vita in Palestina dopo l’arresto e la detenzione (Keystone). L’aiuto svizzero alla Palestina passa anche attraverso iniziative di nicchia, come il programma di reinserimento sociale degli ex detenuti. Nel corso del suo viaggio in Medio oriente, la ministra degli esteri Micheline Calmy-Rey ha visitato questo ed altri progetti elvetici d’aiuto umanitario. Nelle prigioni israeliane si trovano ancora 8000 palestinesi. La notizia della prossima liberazione di 900 detenuti, annunciata dalle autorità israeliane, è stata accolta con gioia. Certo, un’eventualità del genere eserciterebbe una pressione supplementare sul programma di reinserimento degli ex detenuti, lanciato con il sostegno attivo della Svizzera nel 1994, sull’onda del processo di pace di Oslo. Il centro di formazione di Abu Djihad, edificato nel 1998 a Ramallah, è il risultato concreto di questo programma. Cofinanziato dalla Svizzera con una somma di 1,5 milioni di franchi l’anno, il centro ha dato una formazione a 6000 persone, oggi attive in diversi settori, dall’elettronica alla meccanica passando per il design grafico su computer. È proprio a questo centro di formazione che Micheline Calmy-Rey ha riservato una delle sue prime visite. Secondo Mario Carera, responsabile dell’ufficio della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) a Gaza e in Cisgiordania, si è trattato di un gesto molto importante. "Rendendo visita ai nostri partner palestinesi a Ramallah, a Betlemme e a Gaza, la responsabile della diplomazia elvetica - che è anche a capo del settore della cooperazione - ha lanciato un messaggio di speranza e solidarietà. È straordinario". Proprio l’aiuto al reinserimento sociale degli ex detenuti può essere considerato una delle iniziative più importanti dell’aiuto elvetico ai palestinesi. Si tratta di un programma che deve molto ad Annick Tonti, la persona che ha saputo portarlo avanti. Nel 1994, Annick Tonti viene inviata a Gerusalemme come direttrice dell’ufficio locale della DSC e come rappresentante del governo svizzero presso l’Autorità palestinese, eletta da poco. Ma Annick Tonti non arriva certo in una zona che non conosce. Nel 1993, su richiesta dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), allora guidata da Yasser Arafat, erano stati creati dei contatti per affrontare la problematica del reinserimento degli ex detenuti. È allora che parte la riflessione sul "modus operandi" più opportuno. "Sapevamo già che, in seguito al processo di Oslo, Israele avrebbe liberato dei prigionieri palestinesi. L’OLP ha chiesto la nostra collaborazione per affrontare la questione", ricorda Annick Tonti, oggi a capo della divisione Medio oriente e Africa del nord della DSC a Berna. Perché proprio la Svizzera? Annick Tonti cita due motivi. Il primo fa riferimento al ruolo del Comitato internazionale della Croce rossa (CICR), la sola organizzazione ad avere accesso alle prigioni israeliane e ad occuparsi dell’assistenza e della difesa dei prigionieri palestinesi. Anche se il CICR è un’organizzazione internazionale, la sua immagine - così come la sua sede di Ginevra - è legata alla Svizzera. D’altro canto, le competenze elvetiche in materia non erano sconosciute ai palestinesi. "La Svizzera aveva già realizzato un programma simile in Mozambico, dove si era impegnata in favore della reintegrazione nella vita civile dei gruppi di guerriglieri e dei militari", spiega Annick Tonti. L’idea del programma, insiste Annick Tonti, è interamente palestinese. "Noi eravamo lì per consigliarli, per contribuire alla realizzazione del progetto. Abbiamo stilato un budget e da quel momento l’Unione europea si è aggiunta a noi". E le competenze svizzere continuano ad essere utili oggi come ieri. "Attualmente", racconta Mario Carera, "2000 ex detenuti frequentano il centro di formazione Abu Djihad". Ma che senso dare a questo corso di reinserimento sociale, se le condizioni di vita dei palestinesi continuano a deteriorarsi? "La disoccupazione colpisce la metà della popolazione di Gaza e il 30% degli abitanti della Cisgiordania, senza contare la disoccupazione nascosta", osserva Mario Carera. Per Annick Tonti, il programma è utile anche per permettere a giovani nel fiore degli anni di dare libero corso alle emozioni, in modo da poter raccontare in seguito il loro vissuto. Per farlo, la maggior parte ha bisogno di un sostegno psicologico. "Sappiamo come deve essere un uomo nel mondo arabo", spiega Annick Tonti. "Quando esce di prigione, non deve arrivare a casa in lacrime. Eppure, quando lasciano il carcere, sono in lacrime!" L’altra funzione del programma di reinserimento è chiaramente politica. "Vuole dare delle prospettive alla gioventù palestinese, per evitare che si radicalizzi", afferma Mario Carera. Per la Svizzera, conclude Annick Tonti, questo è un modo per contribuire all’edificazione di una pace durevole nella regione. Papa: detenuto in semilibertà gli porta dei doni e una lettera
Repubblica, 7 febbraio 2005
Un’arpa e uno scarpone costruiti con i fiammiferi. Sono questi i doni, costruiti con le loro mani, che i detenuti delle carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia hanno voluto far avere a Papa Wojtyla degente in ospedale, "per strappargli un sorriso". A portarli al Policlinico Gemelli è stato un detenuto in semilibertà, arrivato in compagnia di una suora assistente sociale. "Santità guarisca presto abbiamo bisogno di Lei", ha scritto il detenuto sul registro d’onore dell’Ospedale. Ai collaboratori dell’anziano Pontefice, poi, è stata consegnata anche una lettera in cui i detenuti esprimono la loro solidarietà al Papa e la gioia di averlo rivisto ieri all’Angelus. Ma nella lettera anche una tiratina d’orecchie ai giornalisti, criticati dai detenuti "per aver ingigantito" le notizie sulla malattia del Papa. "Santità, che questa povera lettera, lecitamente sfuggita dalle sbarre entro le quali noi viviamo, Le sia - è il desiderio dei detenuti - un poco di conforto e di grande augurio per il risolversi della Sua breve indisposizione, ricordandole comunque che il nostro pensiero e le nostre preghiere Le sono sempre vicine, dedicate a Lei come padre, e affettuoso amico di tutti noi". Firmato: "i detenuti di Rebibbia e Regina Coeli". Enna: arriva il nuovo cappellano, don Giacomo Zangara
La Sicilia, 7 febbraio 2005
La casa circondariale di Enna ha ritrovato quella guida spirituale che le è mancata da quando, mesi addietro, l’allora cappellano padre Giusto Marini, appartenente all’ordine dei carmelitani scalzi, ha dovuto lasciare il suo incarico perché trasferito a Palermo. E così, considerata l’effettiva necessità da parte dei detenuti di avere un sostegno morale e psicologico in un momento delicato qual’è quello della reclusione dentro le mura di un carcere, dove i momenti di sconforto non mancano, è stato nominato il nuovo cappellano, padre Giacomo Zangara. La designazione di Zangara da parte del vescovo della diocesi armerina, Michele Pennisi, è avvenuta alla presenza della direttrice del carcere, Letizia Bellelli, e dell’educatrice Nuccia Micciché, i quali insieme hanno valutato l’importanza della presenza di questa figura e hanno optato per una persona che possiede quelle capacità comunicative e relazionali necessarie per lo svolgimento di tale servizio. Padre Zangara, infatti, possiede un bagaglio di esperienze significative per ciò che concerne l’approccio con persone che si trovano in momenti di difficoltà poiché, già da qualche anno, assolve all’incarico di cappellano dell’ospedale Chiello di Piazza Armerina. "Il dialogo che si insatura tra il cappellano e i detenuti - spiega la Micciché - costituisce un prezioso supporto per il miglioramento delle condizioni psichiche delle persone recluse e rappresenta uno dei tasselli indispensabili che contribuisce a rendere meno gravosa la loro permanenza, sebbene oggi la vita carceraria, rispetto al passato, è nettamente migliorata". "La figura del cappellano - dichiara il presule Pennisi - risulta positiva, oltre che per la sua valenza umana, anche per il suo ruolo di mediazione tra i detenuti e il Signore, infatti uno dei suoi compiti primari è quello della celebrazione dell’Eucaristia che consente loro di entrare in comunione con Dio per ottenere, innanzitutto, la liberazione dalle catene del peccato, per poi ritornare a vivere, terminato il periodo di reclusione, in maniera autentica". Francia: protesta per maltrattamenti a immigrato, processato
Corriere della Sera, 7 febbraio 2005
Al processo non ci aveva proprio pensato. Non lo aveva messo tra i rischi e i disturbi che affliggono il passeggero moderno. Eppure credeva di averli elencati tutti nel suo "Jet-lag, antropologia del viaggio", scritto nel 2002. Magari per la ristampa. Sarà per il 26 maggio. Il professore e imputato Franco La Cecla dovrà presentarsi al palazzo di Giustizia di Bobigny per la prima udienza. Dopo un’istruttoria durata venti giorni, pausa natalizia inclusa, è arrivato l’equivalente francese del nostro rinvio a giudizio. "Per aver impedito la partenza del volo RN 322 della Air Horizons diretto da Parigi a Dakar (Senegal) incitando i passeggeri a far sbarcare una persona non ammessa sul territorio nazionale e la sua scorta, contravvenendo alle regole di sicurezza e alle procedure di decollo, e causando un ritardo di 4 ore e 9 minuti", si legge nel provvedimento. Se va male, rischia 5 anni di carcere. Si aspettava delle scuse, è arrivato il processo. Dopo aver esaminato la sua vicenda, il nostro consolato a Parigi ha inoltrato una nota di protesta al ministero degli Esteri francese. La procedura tra i due Paesi prevede che in caso di arresto e detenzione di un cittadino italiano vengano subito informate le sedi di rappresentanza. Magari così avrebbero potuto spiegare che Franco La Cecla è un mite professore e non un "provocatore", come viene definito nel rapporto di polizia. Un antropologo nato 54 anni fa a Palermo, che ha pubblicato una decina di saggi, ha insegnato a Venezia (lo fa tuttora), Verona, in più università negli Stati Uniti, ed è stato professore invitato alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, dove vive da dieci anni. I toni burocratici delle accuse, così come sono formulati nel "rinvio a giudizio" francese, riassumono male la storia. Il 15 dicembre scorso all’aeroporto Charles De Gaulle, ore 9 del mattino, La Cecla sale su un aereo diretto in Senegal. All’ingresso nella cabina sente delle grida e pensa a un "disturbo" classico, un bambino piccolo a bordo. Il suo posto sul charter della Air Horizons è in penultima fila. Scopre subito che non si tratta di un bimbo. Dietro di lui c’è un sans papiers , un cittadino congolese che sta per essere rimpatriato, seduti al suo fianco due poliziotti. L’immigrato urla, si dimena, piange. Cerca di alzarsi. Gli agenti gli sbattono la faccia contro il sedile di La Cecla, gli prendono la testa e la premono per terra, gli infilano un guanto in bocca per farlo tacere. L’aereo è fermo sulla pista. Le hostess fanno finta di niente. Ancora urla, ancora il clandestino che si dimena e prende schiaffi. I poliziotti si giustificano: "Fanno sempre così, poi quando si esce dal territorio francese si rassegnano". Piccolo dettaglio: il congolese è al suo terzo tentativo di espulsione. La legge francese prevede che se non rimpatria neppure questa volta, rimane. Si gioca tutto quindi, e tenta di impedire la partenza, ricambiato da ceffoni e insulti dei poliziotti. Una ragazza singhiozza, un altro viaggiatore grida "basta". La Cecla e altri due chiedono di scendere. Partiranno il giorno dopo. La decisione tocca al comandante. Non è in grado di garantire la "tranquillità" del volo, quindi scendono i tre passeggeri dell’ultima fila. Applausi a bordo. I poliziotti sfilano davanti a La Cecla: "L’avete fatto vincere, ma ve la facciamo pagare". Tempo un quarto d’ora e mantengono la promessa. Il professore e gli altri due passeggeri finiscono in una cella della stazione di polizia del Charles De Gaulle. Diciannove ore senza poter fare una telefonata. Interrogatorio, impronte digitali, foto segnaletiche. Una delle persone arrestate è un giornalista di Liberation , che organizza una conferenza stampa. I tre vengono riconvocati dalla polizia: "Bravi, bella conferenza. Ci vediamo presto". Si rivedranno il 26 maggio, in tribunale. La Cecla ammette di essere preoccupato. "Io non mi sono ribellato. Ero umanamente colpito dalla vicenda di questo sans papiers disperato, ma non l’ho fatto per lui. Poteva anche essere un assassino, e nulla sarebbe cambiato. Le scene che ho visto sull’aereo sono terribili. Eseguire i rimpatri con i voli di linea significa costringere i civili a collaborare, ad assistere a tutto quel dolore. E io non sono tenuto a farlo". Ma quello che brucia davvero all’antropologo siciliano è un altro aspetto di questa storia. Lo hanno trattato, dice, come un "macaroni". Non gli hanno concesso una telefonata all’ambasciata, non l’hanno contattata dopo l’arresto e neppure dopo la notifica del processo. "La polizia ha commesso un abuso di potere, mantenendo un atteggiamento razzista", è la sintesi. E la nota di protesta al ministero degli Esteri? È partita il 25 gennaio, due settimane fa. Al consolato italiano sono ancora lì che aspettano una risposta. Droghe: 7 regioni sottoscrivono documento "educare, non punire"
Redattore Sociale, 7 febbraio 2005
Un documento unico, elaborato e condiviso da sette Regioni (Emilia - Romagna, Friuli - Venezia Giulia, Marche, Campania, Sardegna, Toscana, Umbria) insieme alla Provincia autonoma di Bolzano, per ribadire l’impegno a "educare, non punire". È stato presentato stamani nel corso della "Conferenza per un progetto delle Regioni sulle dipendenze", organizzato dal Cartello nazionale "Non incarcerate il nostro crescere", con la collaborazione della Regione Emilia - Romagna. Come noto, il Cartello riunisce un ampio ventaglio di forze - operatori del pubblico e del privato sociale, volontari, educatori, magistrati e operatori del diritto, insegnanti, singoli cittadini – che intendono riaffermare il loro impegno di solidarietà, di vicinanza, di offerta di servizi di cura e di ascolto a tutti i soggetti che hanno incrociato, in momenti diversi della loro vita, le sostanze. Il documento presentato nasce dalla volontà di mettere in luce le scelte strategiche comuni a queste Regioni, evidenziando i punti di discordanza con il disegno di legge nazionale: "La nostra ottica è ben diversa dalla proposta di legge Fini sulle tossicodipendenze – ha ricordato stamani l’assessore alle Politiche sociali della Regione Emilia - Romagna Gianluca Borghi, insieme ai "colleghi" assessori Marcello Secchiaroli (Regione Marche) ed Ezio Beltrame (Regione Friuli-Venezia Giulia). E proprio rispetto a quella proposta, mi preme sottolineare che non è mai stato avviato o sostenuto nessun confronto istituzionale tra Stato e Regioni". A partire dalla strategia Ue in temi di prevenzione, trattamento e riduzione del danno, le sette Regioni e la Provincia autonoma di Bolzano sono concordi nel dire "no a messaggi punitivi", e impegnate a garantire tutti i trattamenti riconosciuti efficaci ed appropriati per le persone dipendenti da sostanze, valorizzando le competenze dell’utente e privilegiando i trattamenti integrati medici, psicologici e sociali. L’impegno è di attivare percorsi personalizzati di ascolto, supporto, accoglienza ed eventuale presa in carico e offerta di prestazioni, anche specialistiche, per i gruppi, le situazioni e i comportamenti a rischio; promuovere la partecipazione dei giovani e valorizzare le risorse presenti nei gruppi informali e nei singoli, sviluppare e qualificare il lavoro di prossimità (interventi sul posto) e gli interventi di promozione della salute nei luoghi del divertimento. Ancora, garantire la necessaria formazione e riqualificazione degli operatori e promuovere stili di vita sani e consapevoli. Stamani, nel corso della Conferenza, è intervenuto anche don Luigi Ciotti (Gruppo Abele): "Educare, per noi, vuol dire educarci, metterci in gioco - ha sottolineato -, mentre per qualcuno l’educazione è a senso unico. Non possiamo illuderci che la via privilegiata dall’educazione sia la proposta di legge, né di cambiare la situazione con leggi repressive. Servono, piuttosto, politiche reali per favorire un reale processo educativo". Don Ciotti ha denunciato inoltre la "truffa dell’Onu": "Le Nazioni Unite hanno finanziato una serie di ricerche, stanziando anche molti soldi, sulle droghe, sul traffico delle sostanze, ma nessuno di noi ne conosce i risultati. Danno fastidio, evidentemente, ad alcuni Paesi, così si preferisce non renderli noti: chiediamo, invece, di poter avere questi strumenti in mano". Stamani, nella Sala Europa del Palazzo dei Congressi, in piazza della Costituzione, erano presenti circa un migliaio di persone: "Questo governo - ha detto Riccardo De Facci, responsabile nazionale tossicodipendenze per il Cnca, che aderisce al Cartello "Non incarcerate il nostro crescere" - non ci ha dato altri spazi per un confronto possibile. Quella di oggi è un’occasione per dire a tutti a che punto siamo". La Conferenza proseguirà anche domani e si concluderà nel pomeriggio (ore 14,30) con una tavola rotonda cui sono invitati, tra gli altri, Guglielmo Epifani, Livia Turco, Rosi Bindi, Giancarlo Caselli, Vittorio Agnoletto, Don Antonio Mazzi, Marco Boato e Franco Corleone. Firenze: libro sulle persone senza dimora; "Gente di sentimento"
Redattore Sociale, 7 febbraio 2005
"Il barbone non è la persona che non ha casa, che vive in strada, che va a mangiare nelle mense; secondo me il barbone è una persona che ha avuto tante di quelle disavventure, tante di quelle disillusioni, che dice addio alla vita". Non è la riflessione di uno studioso ma il pensiero schietto e consapevole di una persona "senza dimora", che da circa dieci anni vive le strade di Firenze. Questa persona è tra i protagonisti di "Gente di sentimento", libro edito da Cisu (Centro di Informazione e Stampa Universitaria), in cui Sabrina Tosi Cambini presenta le sfide, gli obiettivi e i risultati della ricerca antropologica che ha condotto indagando le strade di Firenze e coloro che le vivono. "Il mio intento - spiega Tosi Cambini, docente di antropologia politica all’Università degli Studi di Firenze - era avvicinarmi a questa realtà attraverso l"approccio etnografico, in modo da contribuire con un nuovo punto di vista alla riflessione sul tema già presente in Italia". L’assunto di partenza è che lo studio delle persone cosiddette senza dimora da parte della sociologia tende solitamente, con modalità piuttosto univoche, a sottolineare la mancanza" che caratterizza la vita di queste persone. "È presente una sorta di "retorica della negazione" - sottolinea l’autrice - che mette l’accento sulle privazioni, che non considera o valuta in modo negativo il contesto di vita e le relazioni, definite dalla prevalente letteratura sociologica come strumentali". L’approccio etnografico dunque attraverso il "decentramento" e il "distaccamento" dello studioso, che mette da parte le proprie categorie culturali consente invece di condividere i tempi e i luoghi delle persone che si osservano e di far emergere la loro personale lettura del mondo e della loro vita. "La ricerca etno-antropologica implica un’immersione nella realtà che si vuole indagare, che io ho cominciato nel maggio 2001 per un lavoro complessivo di indagine che si è protratto per tre anni. "Immergersi" ha voluto dire avvicinarsi alle persone in strada e conoscerle, essere presenti nei vari momenti delle loro giornate, avviare un rapporto. L’etnografia in sostanza è un’esperienza di vita, solo stando a contatto con chi si vuole osservare si può ricostruire il suo punto di vista e il suo contesto". Il libro, dopo una prima parte che introduce la prospettiva del lavoro e alcuni concetti di fondo con cui si vuole guardare alla realtà dei senza dimora, si concentra sui luoghi - in primo piano la stazione di Santa Maria Novella - e sulle persone su cui si è focalizzata la ricerca. "La stazione è molto importante perché "è luogo" nella città e tramite con la città - precisa l’autrice - spazio antropologico non solo per chi vi dimora ma anche per i cittadini in genere. Durante le mie osservazioni, avendo come strumenti memoria e scrittura, ho conosciuto un universo di persone delle età più diverse. Tra queste ho isolato un nucleo di nove persone, consapevoli del fatto che conducevo una ricerca, tra cui avevo individuato legami più stretti, una frequentazione quotidiana, una memoria comune di anni trascorsi insieme. Avevo di fronte a me quindi un "gruppo" con i propri membri, abitudini e gerarchie". Si delineano così i percorsi quotidiani di uomini e donne dai quarant’anni in su, poco legati alla criminalità, che non fanno particolarmente uso di sostanze psicoattive (se non di alcol, senza essere necessariamente alcolisti), che fanno una vita di strada tout court, o che hanno un riparo per la notte di diversa natura (a volte anche una casa), ma che continuano a passare la giornata e la vita in strada. L’etnografia si sviluppa mettendo in luce non tanto storie di vita quanto sentimenti, relazioni, vita quotidiana ed emozioni di questo gruppo di persone, tra cui spicca la figura di Mariella (a cui appartiene il pensiero citato all’inizio dell’articolo, ndr), "La Regina", "collante", leader e punto di riferimento, appassionata distributrice del giornale di strada "Fuori binario". A cosa porta, alla fine del percorso, questo lavoro di immersione in altre vite? "Certamente la strada non si sceglie, alla base c’è sempre un dramma individuale. Ma la strada può diventare luogo di senso, perché il dramma individuale lì si trasforma in dramma collettivo, da condividere e comunicare. Si possono quindi trovare nuovi significati ed elaborare risposte". La strada dunque "non va vista con i nostri occhi. -prosegue Tosi Cambini - Bisogna riconoscere a chi la vive che sta appunto già vivendo un mondo, che non è una tabula rasa, ma ha le proprie priorità, i propri bisogni e necessità da rispettare". Seguendo questa linea la parte finale del libro dà spazio ai "mondi discorsivi", si allarga per strade e luoghi nuovi al di là della stazione, riportando fedelmente "scritture", pensieri, riflessioni, poesie di chi in strada ha la propria vita. In appendice anche un"utile mappatura dei servizi che Firenze offre alle persone "senza dimora". Arezzo: casa di accoglienza Caritas per i senza dimora
Redattore Sociale, 7 febbraio 2005
"È difficile avere un quadro preciso della realtà dei senza dimora. Il centro di ascolto fa luce in senso più ampio sulla povertà, accoglie molte persone ‘in movimentò, persone che vivono da anni in strada, che si spostano da una città all’altra, residenti che vivono situazioni problematiche". Chi parla è Manuela Esposito, una delle responsabili del centro ascolto della Caritas diocesana di Arezzo, uno dei capoluoghi di provincia più ampi della Toscana. "Non è consistente in città la presenza delle persone senza dimora, ci sono realtà di emarginazione che prescindono dal fatto che una persona viva in strada". In Via Fonte Veneziana 19, presso la sede Caritas, il centro ascolto è attivo dal lunedì al sabato dalle 9 alle 12.30. "Sono circa 200 le persone in carico - spiega Alessandro Buti, Vicedirettore della Caritas - tra cui senza dimora, persone che hanno bisogno di essere indirizzate ai servizi del territorio. Molti sono stranieri, negli ultimi due anni però abbiamo anche assistito ad un aumento del 30-40% nell’afflusso di italiani". Alla Caritas fa capo anche l’ambulatorio medico sanitario, attivo due giorni alla settimana (lunedì dalle 9 alle 11 e mercoledì dalle 15 alle 17), a disposizione di chiunque e naturalmente anche degli immigrati che non dispongono di un permesso di soggiorno. Inoltre la Caritas si occupa della distribuzione di vestiario e gestisce l’ingresso alla Casa di Accoglienza S. Vincenzo, che mette a disposizione 23 posti letto. La Casa, riservata agli uomini, fornisce un servizio gratuito di prima accoglienza e uno di seconda accoglienza (per agevolare l’inserimento socio lavorativo sul territorio), gestito in convenzione con l’assessorato alle politiche sociali del comune e per la cui fruizione è previsto è un contributo mensile. In Via Fonte Veneziana inoltre è possibile reperire i buoni per accedere alle mense attivate presso parrocchie cittadine. Presso la parrocchia del Sacro Cuore è attiva tutti i giorni una mensa diurna (12.30-13.30), che distribuisce circa 60 pasti al giorno. Sono poi attive, presso tre altre parrocchie della città, tre mense serali più piccole (18-19.30), ciascuna in grado di dare ospitalità a circa 15 persone. Altre parrocchie cittadine, una quindicina, si occupano di distribuire alimenti a chi ha bisogno, così come la Croce Rossa e il Banco Alimentare. Per accedere alla Casa di accoglienza ci si può rivolgere anche al Centro per l’integrazione gestito dal comune di Arezzo, assessorato alle politiche sociali. Il centro, attivo dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 13 in P.zza S. Domenico 4, offre informazione, valutazione ed ascolto dei bisogni dei cittadini extracomunitari ed emarginati attraverso l’orientamento e la consulenza nel disbrigo di pratiche burocratiche. Il servizio è svolto in collaborazione con Provincia, Prefettura e Questura. "Da quest’anno abbiamo attivato anche un servizio di ronda notturna - aggiungono Buti ed Esposito - che svolgiamo insieme a gruppi di volontari. Ci muoviamo per le strade della città fornendo a chi ha bisogno cibo e bevande, coperte, kit igienici. Si cerca in questo modo di tamponare le situazioni di emergenza, in aiuto a coloro che sono al di fuori del circuito dell’accoglienza. Non tutti riescono ad avvicinarsi all’accoglienza, perché fanno difficoltà ad accettare l’idea di un regolamento e di una disciplina a cui attenersi". Bologna: avvocato di strada, un progetto che si estende
Roma One, 7 febbraio 2005
Roma, 3 febbraio 2005 - Antonio Mumolo è un civilista. Esercita la professione forense nella città di Bologna, ma da più di quattro anni per molti è soprattutto "l’avvocato di strada". È lui il fondatore dell’omonimo progetto realizzato in seno all’associazione Amici di Piazza Grande. Nobile quanto esemplare l’obiettivo: tutelare i diritti dei senza fissa dimora, di quelle persone spesso dimenticate dalla società, ma ancora prima da se stesse. Il progetto "avvocato di strada" partì a Bologna alla fine del 2000. Oggi quell’idea è una realtà concreta che ha superato i confini cittadini approdando in centri come Verona e Padova, ma pronta a toccare altre realtà d’Italia. Un crescente gruppo di legali ha sposato il progetto ideato da Antonio Mumolo affiancandolo in quest’opera di recupero di diritti e dignità. Un programma, basato sull’applicazione della legge ma soprattutto sulla solidarietà, che ha ricevuto, dalla Fondazione Italiana per il Volontariato, il premio quale miglior progetto in Italia per l’anno 2001 rivolto alle persone senza fissa dimora. Raggiunto telefonicamente l’avvocato Mumolo ha spiegato a Romaone.it come funziona l’iniziativa e perché è destinata a crescere oltre le attese.
Avvocato, come e perché nasce il progetto? "All’interno dell’associazione Piazza Grande, una organizzazione a sostegno dei senza tetto. Venendo a contatto con molte di queste persone abbiamo capito che diventava sempre più urgente dar loro una tutela giuridica. Nel 2000 abbiamo presentato pubblicamente un progetto di patrocinio gratuito. All’inizio eravamo solo in due a prestare il servizio: oggi, dopo quattro anni e mezzo, siamo 30 avvocati solo a Bologna".
Come venite a conoscenza dei problemi giudiziari di queste persone? "Attraverso l’associazione Piazza Grande spieghiamo a chi incontriamo che esiste questo appuntamento presso uno sportello. Ma ora riceviamo anche nei dormitori bolognesi".
Quali sono i problemi che più spesso vi trovate ad affrontare in aula? "Non prestiamo solo la consulenza ma diamo anche una completa assistenza legale per le cause. Tutto gratuitamente. Uno dei casi ricorrenti riguarda la residenza: molti dei senza fissa dimora non ce l’ hanno. Questo impedisce loro di votare e lavorare, insomma di esercitare un qualsiasi diritto. Le altre cause riguardano il riconoscimento della pensione, il divorzio, l’eredità. Spesso le persone non sanno neanche di avere queste possibilità".
E in sede penale? "Parliamo di piccoli reati: alcol, tossicodipendenza, furto, resistenza a pubblico ufficiale. Ma in quattro anni e mezzo non ci è mai capitato un caso di omicidio. I reati amministrativi riguardano invece soprattutto multe e permessi di soggiorno".
La realtà dell’Avvocato di strada può essere trasferita in altre città? "Uno dei nostri obiettivi è proprio quello di allargarci. Siamo già arrivati a Padova e Venezia. Le prossime città saranno Roma, Bari e Napoli. Nella Capitale presenteremo lo sportello tra febbraio e marzo".
Come funziona il progetto a Bologna? "Tutto dipende dalla buona volontà e dalla disponibilità degli avvocati. In media, con le rotazioni tra di noi, dobbiamo dedicare al servizio un pomeriggio ogni quindici giorni".
È difficile avvicinare persone senza fissa dimora anche se volete aiutarli? "In certi casi non è semplice. Alcuni fanno fatica a chiedere un intervento, sono sfiduciati. È per questo motivo che siamo andati nei dormitori per informarli. La cosa più complicata è convincerli a fare ciò che gli diciamo. Non basta dire loro che dovranno andare in quel certo ufficio per ritirare la pensione. È per questo che il giorno dopo li incontriamo di nuovo per accompagnarli". Droghe: un comitato scientifico e una conferenza nazionale
Progettouomo.net, 7 febbraio 2005
Si terrà a Pescara dal 20 al 22 settembre la Conferenza nazionale sulla tossicodipendenza. Nel frattempo nominato il Comitato scientifico dell’Osservatorio e la Consulta delle tossicodipendenze. Nicola Carlesi, Capo del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha annunciato la data della quarta Conferenza nazionale sulla tossicodipendenza che si svolgerà dal 20 al 22 settembre 2005 a Pescara, a distanza di cinque anni (e non tre come previsto dalla legge) da quella di Genova. I temi dibattuti si concentreranno soprattutto su assistenza e trattamento delle "nuove dipendenze", "doppia diagnosi", interventi in carcere, prevenzione, informazione e comunicazione sociale. Ci sarà spazio anche per affrontare la questione dell’Intesa Stato-Regioni che attualmente vede nel Paese disparità nella riabilitazione e nel reinserimento dei tossicodipendenti. Nel frattempo Carlesi ha convocato per il 16 febbraio prossimo la Consulta delle tossicodipendenze, fresca di nomina, in cui sono rappresentate Regioni, Ser.T., Comunità terapeutiche e Associazioni proprio per meglio individuare i temi della Conferenza. Di seguito riportiamo i nomi dei nuovo Comitato scientifico e della Consulta del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga. Comitato scientifico dell’Osservatorio permanente per la verifica dell’andamento del fenomeno delle droghe e delle tossicodipendenze Il Comitato, composto da undici esperti di elevata qualificazione professionale nel campo degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, esercita le funzioni di consulenza tecnico-scientifica a supporto delle politiche di prevenzione, monitoraggio e contrasto del diffondersi delle tossicodipendenze e delle alcooldipendenze correlate. Presidente: Prof. Carmelo Furnari, tossicologo forense. Componenti: prof. Mauro Ceccanti, alcoologo; prof. Massimo Di Giannantonio, psichiatra; prof. Riccardo Gatti, psichiatra; dott. Alfio Lucchini, psichiatra; dr.ssa Teodora Macchia, biochimico; prof. Giuseppe Mammana, esperto psicoterapeuta; don Chino Pezzoli, esperto psicopedagogista; prof. Giovanni Pieretti, esperto sociologo; dott. Roberto Pirastu, medico del lavoro; prof. Pietrantonio Ricci, medico sociale.
Consulta delle tossicodipendenze
Organismo ad elevata specializzazione, rappresentativo degli operatori e degli esperti delle tossicodipendenze e delle alcooldipendenze correlate, che svolgerà compiti di consulenza e supporto tecnico-amministrativo nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche di prevenzione, monitoraggio e contrasto del diffondersi delle tossicodipendenze e delle alcooldipendenze correlate Presidente: Ministro delegato quale organo di governo del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga. Componenti: Capo del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga - Componenti della Conferenza dei dirigenti generali competenti per materia delle amministrazioni dello Stato di cui all’art. 127, comma 12, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e successive modificazioni. Esperti e operatori dei Ser.T.: Giovanni Serpelloni, Verona; Sonia Calzavara, Padova; Pietro Fausto D’Egidio, Pescara; Dora Di Ciano, Sulmona (AQ); Giovanni Di Giovanni Palestrina (RM); Giorgio Di Lauro, Napoli; Massimo Diana, Iglesias (CA); Guido Faillace, Alcamo (TP); Annarita Giaccone, Viterbo; Marcello Grasso, Palermo; Gerardo Guarino Alba (CN); Claudio Leonardi, Roma; Amedea Lo Russo Venezia; Raffaele Lovaste, Trento; Fernanda Magnelli, Cosenza; Stefano Margaritelli, Rieti; Maria Merlino, Roma; Vera Sambataro, Adrano (CT); Francesco Santangelo, Cava Dei Tirreni (SA); Cassio Scategni, Gallipoli (LE). Esperti e operatori delle comunità: Don Michele Barban, Centro Solidarietà Gulliver; Massimo Barra, Villa Maraini; Don Oreste Benzi, Comunità Giovanni XXIII; Roberto Cafiso, Comunità Rinascita; Renato Caforio Comunità Il Delfino, Andrea De Dominicis, Ceis; Sandro Diottasi, Mondo Nuovo; Leopoldo Grosso, Gruppo Abele; Vincenzo Leone, Comunità Emmanuel; Padre Salvatore Lo Bue, Comunità Padre Lo Bue; Teresa Marzocchi, Cnca - Vincenzo Masini Comunità Incontro - Don Antonio Mazzi Comunità Exodus; Giovanni Moschini, Gruppo Valdinievole; Andrea Muccioli, Comunità San Patrignano; Achille Saletti, Comunità Saman; Don Egidio Smacchia, Fict; Padre Vincenzo Sorce, Comunità Casa Rosetta. Esperti in rappresentanza di associazioni: Josè Berdini, Associazione Pars Macerata; Luigi Bertacco, Agaras; Angelo Cimillo, Ass. It. Cura Dipendenze Patologiche; Massimo Magagnoli, Associazione Anglad; Marco Scurria, Associazione Modavi; Don Mario Sozzi, Fondazione Promozione Umana. Droghe: disegno di legge governativo è fermo in Parlamento
Il Messaggero, 7 febbraio 2005
Si terrà a Pescara, dal 20 al 22 settembre prossimi, la IV Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze. Lo annuncia Nicola Carlesi, capo del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri. Intanto, per il 16 febbraio è stata convocata la Consulta delle tossicodipendenze, istituita di recente, che rappresenta Regioni, Sert, Comunità terapeutiche e associazioni. Carlesi sottolinea che durante la conferenza saranno affrontati i problemi relativi all’assistenza e al trattamento delle "nuove dipendenze", della prevenzione e dei tossicodipendenti in carcere, nonché della revisione dei rapporti tra Stato e Regioni "necessari affinché vengano garantiti uniformi livelli di cura e uguali possibilità di riabilitazione e di reinserimento". Carlesi è succeduto al prefetto Pietro Soggiu, nominato inizialmente da Gianfranco Fini. La legge proposta dall’ex vice premier, però, in Parlamento non ha fatto molti passi avanti. Dopo l’approvazione di Palazzo Chigi il ddl si è arenato. La linea dura del governo allora suscitò critiche anche all’interno della maggioranza. Porto Azzurro: la teleformazione entra nel carcere
Toscana Oggi, 7 febbraio 2005
La formazione a distanza entra nel carcere. I detenuti della casa di reclusione di Porto Azzurro potranno seguire corsi di formazione professionale attraverso il computer e le nuove tecnologie web messe a disposizione dal progetto Trio. A sancire questa possibilità è il protocollo d’intesa firmato oggi all’interno del carcere dall’assessore all’istruzione, formazione e lavoro Paolo Benesperi e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Massimo De Pascalis. Il progetto Trio, come si ricorderà, è nato per iniziativa della Regione con l’intento di garantire ai i cittadini la possibilità di accedere a percorsi di formazione semplicemente utilizzando un computer. È possibile individuare il settore di interesse e iscriversi al corso prescelto in modo del tutto gratuito. È una modalità che favorisce chi abita in zone disagiate, chi non è in grado di spostarsi da casa, chi per vari motivi non può frequentare corsi di tipo tradizionale. È il caso dei detenuti che, pur vedendosi riconosciuto il diritto alla formazione, anche per raggiungere l’obiettivo della rieducazione e del reinserimento sociale, sono necessariamente sottoposti a limitazioni. Grazie all’intesa di oggi, che sarà seguita da una più specifica convenzione con il soggetto attuatore di Trio RTI, anche coloro che sono sottoposti a misure detentive potranno, pur con le limitazioni dovute alla loro condizione, usufruire dei corsi in un’aula appositamente allestita all’interno del carcere. L’aula sarà dotata, così come i poli formativi esterni, di 11 computer. Da ciascuna postazione sarà possibile collegarsi, attraverso una rete interna, con un tutor che potrà seguire e orientare gli studenti lungo il percorso. L’intesa firmata oggi prevede, fra l’altro, che possano essere presi accordi per lo sviluppo di eventuali percorsi tematici personalizzati, in relazione a bisogni specifici dell’utenza del carcere, sempre in accordo, ovviamente, con il trattamento cui i detenuti sono sottoposti. Inoltre, se la Regione si impegna a mettere a disposizione del carcere, attraverso il soggetto attuatore, tutto quanto serve a rendere accessibile, in tutta sicurezza, il materiale formativo disponibile, il provveditorato si impegna da parte sua a garantire la diffusione dell’iniziativa all’interno della casa di Porto Azzurro. Sia la Regione che il Provveditorato si impegnano anche a valutare la possibilità di estendere, una volta verificata l’efficacia della sperimentazione, il progetto ad altre realtà penitenziarie della Toscana.
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