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Cagliari: 3 detenuti morti nel 2001, ancora incerte le cause
L’Unione Sarda, 11 febbraio 2005
Gli elementi non sono sufficienti per esprimersi in termini di certezza e i periti non sono in grado di stabilire se i tre detenuti morti a Buoncammino e Iglesias siano stati uccisi da un sovra dosaggio di farmaci o se invece la morte sia dovuta a cocktail di antidepressivi e medadone, alcol, fumo, addirittura gas propano aspirato dalle bombolette per i fornelli. Rita Celli ed Enrico Zanalda, nominati dal gip Massimo Deplano, nel corso dell’incidente probatorio, ieri mattina al palazzo di giustizia, hanno spiegato perché non hanno potuto stabilire le cause della morte dei detenuti. Sergio Fadda, un giovane cagliaritano che scontava a Buoncammino una condanna per ricettazione, morì il 16 settembre 2001; Claudio Camba, anch’egli in cella per ricettazione, morì la notte fra il 17 e il 18 ottobre dello stesso anno nel carcere di Iglesias; Claudio Murgia fu trovato senza vita tre giorni dopo a Buoncammino. Gli esperti hanno lamentato la mancanza di reperti istologici per le analisi cliniche: insomma, se avessero potuto, avrebbero rifatto le analisi, siccome non è possibile si sono arresi. Con grande rammarico dei familiari dei detenuti morti che, con le loro denunce, hanno sollevato il caso e che si sono fatti rappresentare dagli avvocati Emanuele Pisano, Antonella Giua e Massimiliano Ravenna. I sostituti Guido Pani e Daniele Caria non lo dicono ma l’esito dell’incidente probatorio lascia intuire che l’inchiesta sarà archiviata e che saranno prosciolti dall’accusa di omicidio colposo i medici Maria Laura Mangano, Giacomino Sassu, Maria Vittoria Macciò, Daniela Meneghini (difesi dagli avvocati Patrizio Rovelli e Roberto Rocca). I medici erano stati iscritti nel registro degli indagati per un motivo tecnico, e cioè per consentire loro di nominare un consulente che partecipasse alla perizia. L’indagine fu avviata nel 2001 quando, nei giro di un mese, tre giovani detenuti, tutti tossicodipendenti (due scontavano la pena a Buoncammino il terzo a a Iglesias) furono trovati morti dai loro compagni di cella o dalle guardie. L’amministrazione penitenziaria si allarmò e, per evitare dubbi e sospetti, decise di andare fino in fondo per chiarire che cosa fosse successo. Le diverse inchieste partite in seguito alla denuncia dei familiari dei detenuti furono unificate: si sospettava che ai tre tossicodipendenti fossero state somministrate dosi risultate letali di antidepressivi. Per quel che riguarda Camba i periti nominati dal gip Deplano hanno detto chiaramente che la terapia cui fu sottoposto non era adeguata, anche se non hanno elementi per sostenere un nesso di causalità fra i farmaci somministrati e la morte. Quanto invece a Fadda e Murgia, il perito ha ipotizzato un micidiale cocktail composto dagli antidepressivi somministrati dai medici del carcere e da metadone, alcol, fumo, perfino gas propano. Sembra comunque che non si riuscirà mai a sapere la verità su quelle morti in cella: i familiari dei detenuti ancora non si sbilanciano, attraverso gli avvocati Pisano, Giua e Ravenna fanno sapere che aspetteranno l’esito dell’indagine. La prima morte sospetta risale al 16 settembre 2001: Sergio Fadda era in isolamento e si stava sottoponendo a una terapia per la tossicodipendenza. Fu trovato la mattina a letto da un agente di polizia penitenziaria. Subito fu escluso il suicidio, la madre ebbe qualche sospetto e sporse denuncia. Qualche giorno dopo si registrò il secondo episodio nel carcere di Iglesias dove Camba venne trovato senza vita dai compagni di cella: inizialmente si pensò a una morte per cause naturali ma poi il medico legale trovò tracce consistenti di farmaci. Settantasei ore dopo perse la vita anche Murgia. Como: evasione di Tomas, il caso arriva in Parlamento
La Provincia di Como, 11 febbraio 2005
Quanto tempo deve passare perché un ragazzo che ha commesso un omicidio venga considerato un ex omicida? E perché, nei permessi premio, i detenuti sono liberi di uscire dal carcere senza guardie? La fuga di Thomas B è stata un caso o altri come lui potranno dileguarsi? Lo chiedono al ministro Roberto Castelli i parlamentari di An Alessio Butti e della Lega Nord, Cesare Rizzi. Quanto tempo deve passare perché un ragazzo che ha commesso un omicidio venga considerata un ex omicida? Quanti mesi di prigione, colloqui con gli psicologi, ore di lavoro, attività di riabilitazione, riflessioni col prete, visite della famiglia devono esserci per essere sicuri il detenuto è pronto per rinnegare il suo passato e vivere secondo le regole? E perché, nei permessi premio, i detenuti sono liberi di uscire dal carcere senza guardie? La fuga di Thomas B., il ragazzo rimasto con il cognome puntato perché all’epoca dell’omicidio del parrucchiere di Ponte Chiasso era ancora minorenne, è stata un caso o molti altri come lui potranno dileguarsi sulla strada che collega la prigione con il posto di lavoro ottenuto appunto come premio per la buona condotta? Il ministro Roberto Castelli ha già parlato dell’evasione del giovane di Ponte Chiasso che era finito al carcere minorile Beccaria di Milano per l’omicidio di Vito Pisciotta. Ha detto "di non farne una caccia alle streghe", ma altro dovrà dire per rispondere all’interrogazione che l’onorevole di An Alessio Butti ha presentato, coi colleghi Tommaso Foti, Marco Airaghi e Daniele Franz che si professano "ben distanti da ogni logica forcaiola e giustizialista", dicono di "credere nel principio rieducativo del carcere e nel reinserimento sociale di coloro i quali, dopo aver espiato la pena e maturato il peso delle proprie colpe, escono dal carcere" ma aggiungono di "essere convinti che 3 anni e 4 mesi di carcere siano pochi per tentare, così prematuramente, il processo di reinserimento sociale a qualsiasi omicida". E qui dovrà arrivare la prima risposta, sul quanto. "Nessuno intende trarre facili conclusioni da questa tristissima storia - scrivono Butti e i colleghi -, ma il cittadino onesto ha il diritto di richiedere la certezza della pena, specie per reati così gravi in quanto comminando pene così lievi (9 anni che poi diventano 6) per un omicidio si rischia di "banalizzare" il bene più prezioso, la vita dell’uomo". Diversa formula, ma identica preoccupazione, viene invece espressa in un’altra interrogazione presentata dal deputato leghista Cesare Rizzi. I fatti di cui si chiede conto sono sempre quelli legati al delitto, avvenuto domenica 19 agosto 2001 a Ponte Chiasso, ma soprattutto l’evasione del più piccolo dei due giovani condannati. Thomas B. doveva scontare 9 anni e mezzo, buona parte dei quali al Beccaria, la parte restante in un carcere da grandi. Ed è questo il motivo per cui è scappato. Perché era arrivato il giorno dei 21 anni e con esso la certezza di dover dire addio al carcere minorile. "Ma si può sapere come mai - scrive Rizzi - questo ragazzo era in giro a piede libero? Possibile che non ci siano controlli è in carcere per un delitto? Ma soprattutto come è possibile che, con un evaso in giro, la notizia sia stata tenuta segreta a tutti?". Chiede ancora An: "È normale concedere permessi di questo genere ad un omicida dopo soli 3 anni e mezzo di carcere, visto che peraltro in caso di buona condotta vengono condonati 45 giorni ogni 6 mesi di detenzione. Cosa farà il ministro per garantire, pur con tutte le eccezioni e con tutta la volontà politica di recuperare alla società qualsiasi detenuto dopo l’espiazione della pena, la certezza della stessa? Non è il caso rivedere urgentemente le disposizioni che consentono ai condannati, anche per reati gravissimi come l’omicidio, di lasciare il carcere dopo qualche anno di detenzione e rieducazione?". Sanremo: detenuto frattura naso ad agente con una testata
Secolo XIX, 11 febbraio 2005
L’episodio all’interno dell’infermeria. L’autore è un detenuto extracomunitario. Proprio alla vigilia della visita del nuovo prefetto Maurizio Maccari al carcere di Valle Armea, avvenuta ieri mattina, un agente della polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto extracomunitario, che gli ha fratturato il naso. Nella casa circondariale di Sanremo, dunque, sembrano non essere stati del tutto risolti i problemi denunciati più volte dal personale, primo tra tutti quello della carenza di organico, accentuata dal sovraffollamento della struttura. Dove, ormai, più della metà dei reclusi è composta da extracomunitari. Uno di loro, mercoledì mattina, ha colpito con una testata al volto un agente di 28 anni, all’interno dell’infermeria del carcere. I motivi dell’aggressione sono sconosciuti, resta il fatto che il giovane poliziotto ha riportato la frattura del setto nasale. L’agente, sottoposto ad intervento per la riduzione della frattura, guarirà in una ventina di giorni. Anche dell’episodio si è discusso, ieri mattina, nel corso della visita del prefetto Maccari. Il funzionario ha visitato tutti i locali della casa circondariale - comprese le aree di detenzione - accompagnato dal direttore Francesco Frontirrè, ormai rientrato dalla sua missione fuori regione. Il prefetto ha quindi incontrato alcuni rappresentanti sindacali, che hanno sottoposto alla sua attenzione le varie problematiche legate alla gestione della struttura di Valle Armea. Tra le richieste quella di poter partecipare più attivamente alla "vita" all’esterno del carcere, ovvero di poter essere presenti nelle varie occasioni istituzionali e non nelle quali si registra l’impegno delle altre forze di polizia. L’ultima protesta del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, era arrivata proprio in occasione della festa del corpo, celebrata il 22 ottobre. In quella sede erano state evidenziate alcune carenze organizzative - molte delle quali legate proprio alla missione del direttore, che secondo il Sappe era "raramente presente" in Valle Armea - con gravi ricadute sul rapporto tra detenuti e operatori. Tra le difficoltà segnalate, come detto, la carenza di organico - 200 agenti in servizio effettivo, per il Sappe insufficienti a far fronte ai carichi di lavoro - il ridotto numero di autobus da e per la struttura, la chiusura del bar della caserma nelle ore serali. Sotto accusa anche l’impegno dei trasferimenti dei detenuti, "centinaio all’anno, in tutta Italia, effettuato dal nucleo traduzioni e piantonamenti che è composto da sole 13 unità". La Spezia: detenuti - volontari ripuliscono il Castello
Secolo XIX, 11 febbraio 2005
Il castello di Coderone, che un tempo difendeva l’accesso all’abitato di Biassa costituendo una delle "porte" obbligate per passare dallo Spezzino alla Riviera, tornerà agli antichi fasti anche per l’opera di una ventina di detenuti che per tre giorni hanno lavorato per ripulire l’ambiente cirocostante l’antico maniero. Ieri mattina i volontari dell’istituto carcerario spezzino hanno ricevuto la visita del sindaco Giorgio Pagano e del vicesindaco Luigi Merlo. "Si tratta di un’esperienza molto positiva - hanno commentato Pagano e Merlo - che va sicuramente ripetuta. I detenuti impegnati nel progetto hanno operato volontariamente, cogliendo l’occasione, attraverso la fruizione di permessi premio, di attuare quel risarcimento sociale che appare positivo sia per la comunità sia per il loro difficile percorso personale. Circa la riqualificazione del Castello, il Comune è impegnato per ottenere dalla Regione i fondi necessari a completarne il recupero". Il progetto di recupero ambientale è stato organizzato dalla Casa Circondariale della Spezia, in collaborazione con il Comune e il Corpo Forestale dello Stato. L’iniziativa è stata resa possibile, in particolare, grazie all’impegno di Michela Mencattini, magistrato di Sorveglianza, Paola Tomassone comandante del Corpo Forestale dello Stato e Maria Cristina Bigi direttore del penitenziario. Giustizia: mobbing diventa reato, in pdl previste pene fino a 4 anni
Corriere della Sera, 11 febbraio 2005
Non sono dei lavativi. Al contrario: persone attaccate al lavoro, talvolta ambiziose, con posizioni ragguardevoli. Funzionari di alto livello, dirigenti in carriera. Un bel giorno diventano bersaglio di angherie diaboliche, finalizzate ad emarginarli. Come se in azienda fosse scattata una congiura silenziosa. Perfino i colleghi, alla fine, sembrano guardarli con espressione derisoria. Si vedono costretti con un ordine di servizio a cambiare ufficio, traslocando da un luminoso ambiente con segretarie e frigobar ad uno sgabuzzino asfittico, ingombro di scrivanie. Anche le loro mansioni vengono mortificate. Da manager a passacarte, scalda-poltrona. E loro soffrono, si macerano dentro. Fino ad ammalarsi e ad aver bisogno di aiuto psicologico. Depressione, ansia, crisi di panico. Mobbizzati. In Italia sono almeno 750 mila, il 4,2% dei dipendenti. Ma è una cifra sottostimata. Sarebbero un milione e mezzo. Per la prima volta il fenomeno è stato studiato dal punto di vista giuridico e scientifico in un dossier che verrà illustrato oggi in un convegno organizzato in Senato dal titolo "Mobbing oggi, dalla riflessione alla legge". Viene presentato il disegno di legge di iniziativa del senatore Luciano Magnalbò, An, avvocato, vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali, che riunisce i numerosi testi bipartisan depositati in Parlamento. Il mobbing assume la configurazione di reato. Chi lo attua rischia fino a 4 anni di carcere. Tra le novità, una serie di strumenti per la tutela delle vittime. È prevista, tra l’altro, l’inversione dell’onere probatorio (ma solo per quanto riguarda la tutela civilistica). Toccherà al datore di lavoro dimostrare di non aver voluto nuocere intenzionalmente. In caso di condanna, saranno annullati tutti gli atti che hanno messo all’angolo il malcapitato. L’articolo 8 chiarisce che le norme valgono anche per i dipendenti dei "partiti politici ed associazioni", gli unici ancora esposti a licenziamenti ingiustificati. "Il quadro normativo attuale è insufficiente - dice Luciano Tamburro, giuslavorista, da tempo impegnato in questi processi -. Serviva una legge specifica perché siamo di fronte a un fenomeno dilagante. Le grandi aziende ricorrono a questo sistema per sfoltire il personale, specie dopo le fusioni societarie. Anziché licenziarli li convincono ad andarsene". In questo caso si parla di mobbing strategico, distinto da quello di "perversione", perpetrato per il gusto di veder soffrire. C’è chi sa resistere agli assalti ( to mob in inglese significa attaccare, accalcarsi attorno a qualcuno) e chi soccombe. In genere uomini, 50 anni, dirigenti di alto livello in ministeri, Asl e società private, con laute retribuzioni. "A soccombere sono i soggetti più motivati. Gente forte, solida, ma la loro dignità si sgretola sotto i colpi delle angherie - li descrive Francesco Bruno, criminologo -. Gli scansafatiche non si ammalano". Droghe: la disobbedienza civile contro la legge Fini...
Vita, 11 febbraio 2005
Tutti d’accordo nel rifiuto della legge Fini sulle tossicodipendenze, un testo che "non è emendabile ma va riscritto daccapo": operatori, istituzioni e associazioni dei consumatori si sono ritrovati dalla stessa parte, alla Conferenza nazionale di Bologna organizzata dal cartello nazionale "Non incarcerate il nostro crescere", coordinato dal Cnca e del quale fanno parte sette Regioni e la Provincia autonoma di Bolzano. Gli operatori, in particolare, si sono detti pronti ad azioni di disobbedienza civile dinanzi a delle disposizioni ritenute "inaccettabili prima di tutto per ragioni morali e culturali". Al governo che sta organizzando, per settembre, la Conferenza nazionale sulle droghe a Pescara, gli animatori del cartello mandano a dire che sono pronti a partecipare solo se l’evento sarà organizzato per "favorire un reale, ampio e articolato confronto tra esperienze diverse, uno scambio non ipotecato da una proposta di legge che non è mai stata discussa con la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori". Le Regioni Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche, Sardegna, Toscana e Umbria, insieme alla Provincia di Bolzano, hanno presentato alla Conferenza di Bologna un proprio documento di indirizzo in materia di tossicodipendenze, che segna - rendono noto gli organizzatori - una "chiara differenziazione e una netta alternatività al modello difeso dal governo con la sua proposta di legge". Alle assise di Bologna, alle quali hanno partecipato oltre mille tra operatori, amministratori e studiosi, è stata inoltre riaffermata la "funzione strategica" della prevenzione che però "deve oggi partire dalla constatazione di un aumento generalizzato dei consumi e dal fatto che la sperimentazione di droghe sta diventando sempre più un elemento dei ‘normali’ contesti giovanili del divertimento". È stata inoltre riconosciuta l’importanza, anche scientifica, dei "servizi di prossimità", cioè di quegli interventi che si impegnano nel contattare i possibili consumatori di droghe, a cominciare dal mondo giovanile, nei luoghi dove essi si incontrano (la strada, le discoteche e i luoghi del divertimento, ecc.), che ora devono però trasformarsi da "progetti sperimentali" in "interventi di sistema". Infine, tutti gli addetti ai lavori si sono trovati concordi nel denunciare il rischio che l’approvazione della legge Fini rappresenta per il sistema carcere. I detenuti italiani, è stato sottolineato, già oggi sono costretti a vivere in una situazione di grave sovraffollamento, con una qualità della vita deteriorata e quasi ovunque al di sotto degli standard anche minimi di tutela della salute e degli altri diritti fondamentali. L’entrata in vigore della proposta governativa porterebbe in carcere un enorme numero di persone, "provocando, presumibilmente, tensioni e conflitti esplosivi". Genova: tribunale dei minori, un genitore picchia il giudice
Osservatorio sulla legalità, 11 febbraio 2005
Marina Besio, presidente facente funzioni del tribunale per i minorenni di Genova è stata picchiata selvaggiamente nel suo ufficio da un padre cui era stata tolta la patria potestà per il quarto figlio. Il fatto è avvenuto ieri mattina alle 10,30, nel palazzo del tribunale, nel centro di Genova. Il magistrato è moglie del sostituto procuratore generale di Genova Luigi Cavadini Lenuzza, il quale spiega che "i due soli carabinieri in servizio a palazzo erano a seguire un’udienza" e commenta che "le minacce, per chi fa il nostro lavoro, sono all’ordine del giorno". L’aggressore è stato arrestato con le accuse di lesioni e violenza a pubblico ufficiale e si trova attualmente rinchiuso nel carcere di Marassi. Oggi, un giudice per le indagini preliminari della procura di Torino - titolare dei procedimenti relativi a reati commessi o subiti dai magistrati genovesi - decide sulla convalida dell’arresto. L’uomo, che ha precedenti risalenti al 2001 per fatti avvenuti nella provincia di Sassari, ha già subito per tre volte la revoca della patria potestà. Ieri voleva sapere perché gli era stata tolta la quarta figlia ed ha colpito il magistrato al viso con una testata e con due pugni. Il giudice è stata dimessa con 12 giorni di prognosi e dei punti sul labbro. La giunta distrettuale dell’ANM di Genova ha preso posizione inviando un comunicato nel quale "esprime sentita solidarietà alla collega Marina Besio, per l’aggressione subita nel Tribunale per i Minorenni di Genova, mentre era in procinto di iniziare l’udienza". I magistrati genovesi commentano che "il rischio di manifestazioni di violenza incontrollata, da parte di persone che non sono in grado di tollerare decisioni giudiziarie che li riguardino, sussiste per tutti i magistrati e per il personale amministrativo, e ripetutamente è stata segnalata la scarsa o del tutto inesistente tutela della nostra sicurezza nel luogo in cui operiamo". I magistrati spiegano che "questa carenza è ancora più grave nel caso del Tribunale per i Minorenni, luogo ove vengono necessariamente adottate gravi decisioni nei confronti di chi, al di là della vicenda giudiziaria di cui è protagonista, è spesso portatore di profondo disagio". La giunta dell’ANM genovese aggiunge che "oltre a proporre l’abolizione dei Tribunali per i Minorenni e lasciar passare dei mesi per decidersi ad avallare la nomina del candidato designato dal Consiglio Superiore della Magistratura a presiedere quello genovese (Adriano Sansa, ndr), il Ministro della Giustizia dovrebbe preoccuparsi di garantire l’incolumità fisica dei giudici che ne fanno parte". Essi infatti, viene sottolineato, sono "esposti, come lo sono oggi tutti i magistrati, agli attacchi - come si vede non soltanto virtuali - della gente comune, ormai abituata, in una sorta di emulazione del violento dileggio che promana di continuo anche da ministri e parlamentari della Repubblica, a vedere il bersaglio di ogni propria frustrazione e rivendicazione nel singolo magistrato che si trovi ad avere di fronte". Reggio Calabria: quarto incontro progetto "giovani e legalità"
Asca, 11 febbraio 2005
Avvicinare il più possibile i ragazzi al concetto di legalità, riuscire ad instaurare un dialogo tra i giovani e i rappresentanti delle istituzioni, far comprendere loro come la formazione, basata su alti valori, sia l’input per un sano sviluppo futuro. Queste in sintesi le linee guida su cui si basa il progetto comunale "Giovani e legalità": un’idea destinata agli studenti, nella quale, l’amministrazione, guidata dal sindaco Giuseppe Scopelliti, con il contributo dell’ispettore Salvatore Mazzeo (consulente tecnico del primo cittadino per la diffusione della legalità), ha voluto coinvolgere, non solo le istituzioni scolastiche, bensì tutti coloro che lavorano costantemente a contatto con il territorio e le nostre realtà. Giovedì 10 febbraio sarà, dunque, il quarto incontro, previsto nel calendario delle conferenze organizzate proprio per confrontarsi con i ragazzi. E, dopo le scuole medie cittadine, sarà l’Istituto Tecnico per Geometri "Augusto Righi" ad accogliere il dibattito, inaugurando, inoltre, la serie d’incontri che animeranno le classi delle scuole superiori. Per questa conferenza è prevista la presenza del primo cittadino Giuseppe Scopelliti, del magistrato Carlo Indelicati, del Presidente Provinciale dell’Ordine dei Medici, Giovanni Cassone, e di Padre Umberto Papaleo. Uso, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti e psicotrope; effetti per l’uso dell’alcool e della droga; analisi medico scientifica di determinate condizioni; cultura dei valori della vita; sviluppo della coscienza civile. Questi alcuni degli argomenti che i relatori tratteranno - conclude il comunicato - rapportandosi con i pensieri dei più giovani su tematiche così delicate ed importanti. Perù: rivolta nel carcere di Lurigancho, decine di morti e feriti
Ansa, 11 febbraio 2005
Almeno cinque detenuti sono morti e una ventina sono rimasti feriti in una rivolta scoppiata nel carcere di Lurigancho, nel settore sudorientale di Lima: José Avila, della Defensoria del Pueblo (ufficio governativo per i diritti civili), è stato tra i primi a dare l’allarme quando un gruppo di detenuti, in possesso di armi da fuoco e esplosivi, ha aggredito una banda di rivali per il controllo dello spaccio di droga e alcol nel carcere. Proiettili ed esplosioni si sono uditi in un’ala dell’edificio, seminando il panico per diverse ore, fino a quando le forze dell’ordine sono intervenute per sedare la sommossa. Secondo Wilfredo Pedraza, direttore dell’Istituto penitenziario nazionale (Inpa), il bilancio dei disordini non è ancora definitivo, ma al momento "la rivolta sarebbe totalmente rientrata". Per il sovraffollamento, i continui incidenti, la mancanza di uno stretto controllo da parte della polizia, il carcere di Lurigancho è considerato una "bomba a tempo". Costruito per 1.800 detenuti, attualmente ne ospita 8.400, in larga parte divisi in gruppi che si contendono la vendita di generi alimentari e stupefacenti nei diversi padiglioni. Nei giorni di visita, il numero di persone all’interno della struttura supera facilmente le 20.000 unità, una folla che, in caso di rivolta, sarebbe estremamente difficile da contenere. Secondo un’inchiesta del quotidiano "El Comercioâ", i familiari dei detenuti arrivano a pagare anche 1.000 dollari ai secondini per assicurarsi che i loro congiunti abbiano una cella comoda, senza contatti con i criminali più pericolosi. Droghe: Ds; interrogazione al ministro su rette a Comunità
Repubblica, 11 febbraio 2005
Interrogazione del Gruppo Ds-l’Ulivo al ministro della Giustizia. "Molte strutture delle comunità terapeutiche che ospitano tossicodipendenti agli arresti domiciliari - si legge nella nota - ricevono dal Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) rette che sono solo il 60 per cento di quanto riconosciuto dalle Asl regionali. Rette che per altro sono pagate con tempi ampiamente dilatati, con conseguenti gravi difficoltà nella gestione dei centri. Questo quanto denunciato da un’interrogazione al Ministro della Giustizia del Gruppo Ds-l’Ulivo, di cui è il primo firmatario il Presidente Luciano Violante. Il Gruppo Ds ricorda che è stato proprio il Presidente del Consiglio Berlusconi in un messaggio inviato al convegno "La tossicodipendenza, il carcere, le alternative" organizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ad indicare il ricovero in strutture adeguate e gestite da professionisti preparati ad hoc il modo più efficace per combattere il problema della tossicodipendenza dei detenuti". Il Gruppo Ds chiede tra l’altro al Ministro di rivedere le rette attuali, di accelerarne i tempi di liquidazione e di valutare la possibilità di coinvolgere nel progetto Dap anche gli operatori del privato sociale. Siracusa: le iniziative per il carcere dei volontari Caritas
La Sicilia, 11 febbraio 2005
La Caritas diocesana di Siracusa opera in tanti settori, e fra tutti quello del volontariato nelle carceri assume certamente una valenza e una finalità che attualizzano il Vangelo. Per conoscere meglio l’essenza di questo specifico compito abbiamo chiesto al direttore della Caritas, don Giuseppe Galioto, perché l’attività pro-detenuti interessa un numero sempre crescente di volontari. "Da oltre un decennio - spiega il direttore - la nostra Caritas diocesana si è attivata per promuovere il volontariato nelle carceri con circa trenta persone, maschi e femmine, di tutti i ceti sociali, i quali attraverso colloqui personali, attività culturali, promozione dell’artigianato, del teatro, della scuola, sicuramente contribuiscono ad elevare il cammino spirituale sia dei volontari stessi che dei detenuti. Anche attraverso la Liturgia e la Catechesi. Ma c’è di più. Per la particolarità dell’intervento sono stati realizzati due corsi di formazione per volontari che sono stati pilotati e formati dalle più alte cariche istituzionali regionali nel campo della giustizia". Alla domanda se tutti i volontari hanno libero accesso nelle carceri, a seguito del progetto approvato dall’autorità competente, don Giuseppe Galioto precisa: "La Caritas diocesana non percorre mai la strada dell’allontanamento del volontario, ma preferisce la strada della correzione cristiana, come scritto nel Vangelo di Matteo. Qualche rara volta abbiamo chiesto al volontario di "sospendere" la sua presenza in carcere, in ottemperanza all’articolo 17 dell’Ordinamento penitenziario, in quanto l’attività Caritas legata al suo impegno era stata sospesa. Così come in altre occasioni (progetto teatrale, progetto editoriale), molti volontari hanno dovuto rimandare la nostra attività di ostegno nelle carceri perché il progetto proposto non poteva essere immediatamente attuato e non hanno sollevato alcuna obiezione. Anzi, in alternativa, hanno preferito le attività nel Centro di ascolto per ex-detenuti e famiglie di detenuti che si tengono nella Caritas". Brescia: lettera di protesta dal carcere di Verziano
Giornale di Brescia, 11 febbraio 2005
Caro direttore mi presento: sono Mara, una detenuta ristretta, per mia fortuna, presso la casa circondariale di Verziano. Dico per mia fortuna perché il Tribunale di sorveglianza di Brescia funziona molto bene, e rispetta i termini dei benefici, e così facendo rispetta il detenuto trattandolo come una persona. Soprattutto, non ho mai sentito, durante la mia permanenza qui per quasi cinque anni, che questo tribunale abbia mai perso dei documenti determinanti per la scarcerazione di un detenuto. Lei si chiederà, allora, il perché di questa lettera: ora chiarisco tutto. Purtroppo, il 16 novembre 2004, in quel di Monza, venne arrestato mio marito che, alla veneranda età di 70 anni, si vide notificare un mandato di cattura per un reato di cui venne incolpato nel luglio 1994. Il residuo di pena è di un anno, quattro mesi e quindici giorni, la pena totale era di un anno e otto mesi, di cui tre mesi e quindici giorni scontati dal momento dell’arresto al momento del processo, il 15 novembre 1994. Tutto regolare, direte voi, invece regolare sarebbe se prima di tutto i processi venissero celebrati velocemente, senza rimandare di dieci anni e mezzo la pena da scontare, considerando anche che mio marito era incensurato, durante questi anni ha continuato a fare la vita di persona per bene, continuando a non commettere reati. Comunque ora la mia rabbia non è per il passato, ma perché malgrado il nostro avvocato abbia presentato subito istanza di scarcerazione, il Tribunale di sorveglianza di Milano l’ha persa. Appurato il motivo del ritardo, l’avvocato riprodusse l’istanza, e tutto sembrava in via di risoluzione: il magistrato chiese informazioni ai carabinieri del nostro paese di residenza, e so che ciò avvenne il 19 dicembre 2004 perché io in quel giorno ero a casa in permesso natalizio. Io ero tranquilla e mi sono detta "forse facciamo le feste insieme!". Troppo bello! Magia, le informazioni si sono perse, il Tribunale di sorveglianza non le trova. Allora mi sorge spontanea una domanda: come mai tutti questi disguidi? O vogliamo chiamarla negligenza? O meglio ancora "menefreghismo"? Capisco che questo Tribunale è oberato da una mole di lavoro enorme, ma come mai lo stesso Tribunale non perde anche i mandati di carcerazione? E non perde nemmeno i mandati di scarcerazione di personaggi più importanti? Secondo il mio modesto parere ci sono detenuti di serie A e detenuti di serie B. Quelli di serie A vengono arrestati e nel giro di poche ore sono già agli arresti domiciliari, quelli di serie B, prima che le loro pratiche vengano evase, finiscono la pena. È una vergogna, perché giocare con la libertà altrui e con la vita dei poveri cristi? I mass media ci propinano ergastolani in semi libertà, feroci assassini liberi di tornare a commettere stragi, senatori e deputati non giudicabili o che, se giudicati, risultano innocenti, e, se condannati, si promulgano leggi a loro favore. Io verrei sapere se qualche volta riescono a perdere anche qualche detenuto, tanto siamo di serie B! Ora Basta! Gradirei che qualche magistrato mi desse una risposta e se possibile qualcuno faccia lo sforzo di prendere in mano la pratica di mio marito e di molti altri che, come lui (credetemi, sono tanti!) sono dimenticati nelle carceri italiane. Io mi prendo la responsabilità di quello che ho scritto e sono pronta a rispondere di persona, perché questa è purtroppo la verità di come va la giustizia italiana: che il nostro governo faccia qualcosa, e tutti la finiscano di prenderci in giro.
Mara Cagliari: istituti minorili all’esame della commissione "Diritti civili"
Redattore Sociale, 11 febbraio 2005
Dei 650 minorenni colpiti da provvedimenti giudiziari solo 20, in media, sono detenuti nel carcere di Quartucciu. Un numero limitato anche perché la legge prevede la reclusione per i giovanissimi che commettono reati solo come estrema ratio. La struttura, però, che ha costi altissimi, ha la possibilità di contenere 60 persone in condizioni ottimali e 100 in condizioni tollerabili. Quindi è semivuota. Davanti alla situazione delle altre carceri per adulti che invece sono sovraffollate, la commissione "Diritti civili" presieduta da Paolo Pisu (Prc), ha sentito in audizione il direttore e il vicedirettore del Centro di giustizia minorile della Sardegna Sandro Marilotti e Giovanna Allegri per conoscere la reale condizione delle carceri minorili e per sapere se è possibile destinare la struttura di Quartucciu agli adulti cercando un edificio più adatto alla detenzione dei minorenni. Il direttore Marilotti ha detto di non essere contrario ad una soluzione di questo tipo sempre che si trovi una struttura, all’interno della città di Cagliari, più adatta ai minori. "Di questa soluzione si parla da anni, ha aggiunto, ma non si è mai trovato un accordo". Ricordando che dei 20 detenuti presenti a Quartucciu, solo 6 sono sardi (ci sono 12 extracomunitari e 2 siciliani), Marilotti ha ricordato che la struttura era stata costruita come carcere per adulti, quindi per molti versi è inadatta a ospitare ragazzi, ma che, comunque, permette di svolgere molte attività ricreative e sportive. La sezione femminile poi non esiste: "Per assurdo, ha sottolineato, se esistesse una sezione femminile i giudici condannerebbero più donne, invece, molte ragazze che dovrebbero essere rinchiuse in carcere perché hanno commesso reati gravi non vengono recluse perché in Sardegna non esiste una sezione femminile per le minorenni e i giudici tendono a non inviarle nei carceri della penisola". La soluzione per i ragazzi che commettono reati, ha concluso Sandro Marilotti, non è certo quella del carcere: "Un ragazzo che non è mai entrato in un carcere minorile ha più possibilità di salvarsi". Lodi: cento cittadini per un giorno dietro le sbarre del carcere…
Redattore Sociale, 11 febbraio 2005
Cosa si nasconde dietro quel muro di via Cagnola 2? Chi sono gli "abitanti" della casa circondariale di Lodi? Chi sono i redattori di Uomini Liberi? Come si vive in un carcere? A queste ed ad altre domande saranno gli stessi cittadini a rispondere. Per la terza volta infatti, dopo le positive esperienze del 2004, la struttura carceraria di Lodi sabato prossimo, 12 marzo, aprirà le porte a un gruppo di cittadini e cittadine che vorranno trascorrere qualche ora dietro le sbarre per conoscere una realtà nascosta, lontana dalle consuetudini e dai luoghi che normalmente si frequentano, ma non distante dalle case vista la centrale posizione del carcere di Lodi. Ancora una volta un centinaio di cittadini avrà la possibilità di entrare in carcere per conoscere una realtà troppo spesso dimenticata. La città di Lodi sarà dunque protagonista di una iniziativa davvero singolare, che rappresenta una delle poche esperienze in questo genere. L’idea nasce dalla redazione di "Uomini Liberi" il mensile realizzato interamente presso la casa circondariale di Lodi: da settembre ad oggi numerosi lettori della rivista hanno imparato a conoscere la realtà carceraria attraverso i racconti, gli aneddoti, gli articoli di cronaca di Franco, Livio, Massimiliano, Carlo e di tutto il gruppo redazionale. Ma "toccare con mano", guardare negli occhi chi scrive, conoscere il lavoro del corpo di polizia penitenziaria, della direzione e degli operatori è ciò che permetterà a chi entrerà per un giorno in carcere di essere portatori di una testimonianza. Un incontro che nasce dalla richiesta dei numerosi lettori di "Uomini Liberi" che hanno chiesto alla redazione di potersi incontrare, di scambiare opinioni. Il carcere aprirà le porte in due momenti diversi della giornata (al mattino verso le 10.00 e al pomeriggio verso le 15) consentendo a due gruppi di conoscere la casa circondariale accompagnati dal direttore, dall’educatore e dal comandante Raffaelle Ciaramella. Durante l’incontro (di questo si tratta e non di "una visita") i cittadini che aderiranno all’invito avranno modo di conoscere la struttura e soprattutto la redazione del giornale che spiegherà dal vivo come si fa informazione dietro le sbarre. Milano: il carcere di San Vittore diventa una sit-com…
Redattore Sociale, 11 febbraio 2005
Il carcere italiano diventa una sit-com. Quello che molti considerano una tragedia - il carcere italiano con i suoi problemi di sovraffollamento, autolesionismo, suicidi e malattie - dal 13 febbraio si trasformerà in una commedia televisiva. Alle ore 23.30, su Canale 5, sarà trasmessa la prima puntata di "Belli Dentro", la prima produzione televisiva italiana che mette in scena storie di ordinaria quotidianità carceraria con ironia e leggerezza. "Belli Dentro", il cui soggetto è scritto da Giovanna Koch, nasce da un’idea di alcuni detenuti della sezione penale del carcere di San Vittore che, sotto la guida di Emilia Patruno direttrice del sito www.ildue.it (sito gestito da una redazione di detenuti), da tempo lavorano a innovare, attraverso una comunicazione auto-ironica, il racconto della vita "dietro le sbarre" al di là dello schema noto e già super frequentato di luogo di violenza, ingiustizia e isolamento sociale. Gli episodi durano 25 minuti. Una camera fissa, messa al posto della consueta finestra con le sbarre, "spia" la vita quotidiana di due celle della stessa prigione, una maschile e l’altra femminile. Nelle celle della sit-com ribolle la vitalità di sei personaggi, tre uomini e tre donne, che sono le presenze fisse della serie. I personaggi, detenuti, agenti di polizia penitenziaria, anche una suora volontaria, sono interpretati dai comici dello Zelig. Ogni giorno, non avendo nulla da fare, i "detenuti" devono inventarsi la vita e trovare nuovi stimoli nuotando controcorrente, perché fare qualsiasi cosa in carcere è un problema e cozza contro il regolamento. Come nella vita normale del carcere: per ogni cosa, anche la più semplice, bisogna fare una domandina, passare attraverso una burocrazia complicata e ottusa: teoricamente in prigione non si può far niente, di fatto con un pò di inventiva si fa tutto, o quasi. Belli Dentro è una produzione RTI, realizzata da Bananas e Grundy Italia. Belli Dentro è scritta da Federico Basso, Giancarlo Bozzo, Carmelo La Rocca, Renato Trinca e Lucio Wilson. La regia è di Chiara Toschi. Argentina: rivolta nel carcere di Cordoba, almeno 8 i morti
Ansa, 11 febbraio 2005
Una rivolta è scoppiata ieri sera nel carcere San Martin a Cordoba, in Argentina. Ci sono almeno otto vittime, secondo quanto riporta il quotidiano argentino Clarin. I rivoltosi hanno assaltato l’armeria e poi hanno preso in ostaggio il direttore del carcere e 24 agenti di custodia. Ci sono anche 25 feriti. I detenuti si sono rifugiati sul tetto dell’edificio minacciando di gettare nel vuoto gli ostaggi. La prigione si trova al centro del quartiere San Martin, una zona residenziale molto popolata. La tensione attorno alla prigione è altissima, e le autorità hanno ordinato la sospensione dell’erogazione dell’energia elettrica, mentre tre magistrati, accompagnati dai familiari dei reclusi, stanno cercando di intavolare una trattativa con i rivoltosi. Il ministro dell’Interno Anibal Fernandez ha disposto l’invio a Cordoba di 200 agenti speciali. Cagliari: proposta del Cgm, detenuti adulti "ospitati" al minorile
L’Unione Sarda, 11 febbraio 2005
Il carcere minorile di Quartucciu potrebbe ospitare detenuti adulti, sempre che si trovi una struttura alternativa per i minori, anche più piccola di quella attuale. Lo hanno detto ieri il direttore e il vicedirettore del Centro di giustizia minorile della Sardegna Sandro Marilotti e Giovanna Allegri durante l’audizione in commissione Diritti Civili del Consiglio regionale. Dei 650 minorenni colpiti da provvedimenti giudiziari solo 20, in media, sono detenuti nel carcere di Quartucciu. Un numero limitato - hanno osservato - anche perché la legge prevede la reclusione per i giovanissimi che commettono reati solo come estrema ratio. La struttura, però, che ha costi altissimi, ha la possibilità di contenere 60 persone in condizioni ottimali e 100 in condizioni tollerabili. Quindi è praticamente semivuota, mentre le altre carceri per adulti sono sovraffollate. "Di questa soluzione si parla da anni - ha aggiunto Marilotti - ma non si è mai trovato un accordo". Ricordando che dei 20 detenuti presenti a Quartucciu, solo 6 sono sardi (ci sono 12 extracomunitari e 2 siciliani), il direttore ha sottolineato che la struttura era stata costruita come carcere per adulti, quindi per molti versi è inadatta a ospitare ragazzi, ma che, comunque, permette di svolgere molte attività ricreative e sportive. La sezione femminile poi non esiste. "Per assurdo - ha detto Marilotti davanti ai commissari del consiglio regionale - se esistesse una sezione femminile i giudici condannerebbero più donne, invece, molte ragazze che dovrebbero essere finire in carcere perché hanno commesso reati gravi non vengono recluse perché in Sardegna non esiste una sezione femminile per le minorenni e i giudici tendono a non inviarle nei carceri della penisola". La soluzione per i ragazzi che commettono reati, ha concluso Sandro Marilotti, non è certo quella del carcere: "Un ragazzo che non è mai entrato in un carcere minorile ha più possibilità di salvarsi e di essere recuperato".
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