Meno consensi per la pena di morte Bush resta convinto: è un deterrente
di Redazione
Il Giornale, 3 dicembre 2005
L'America registra il millesimo giustiziato (il detenuto Kenneth Lee Boyd, nel North Carolina) da quando la Corte Suprema riaprì le esecuzioni nel 1976. Ma molti segnali rivelano un Paese che è sempre meno convinto dell'utilità della pena capitale. Con un'eccezione di rilievo: per il presidente George W. Bush, che ha messo la firma sul 15% di tutte le esecuzioni degli ultimi trent'anni, "resta un deterrente che aiuta a salvare vite innocenti". Negli anni Ottanta, sulla scia del boom della criminalità nelle grandi città, 84 americani su 100 volevano la pena di morte. Nel decennio successivo i favori sono rimasti intorno all'80 per cento. Adesso, con il tasso di criminalità in forte discesa e la scoperta di non pochi tragici errori giudiziari, la approvano 66 americani su 100, e alcuni governatori decidono di graziare un condannato.
Due o tre cose sull'amico Sofri
Giuliano Ferrara su Panorama
Panorama, 3 dicembre 2005
Del mio amico Adriano Sofri non posso più dire niente altro che questo: che gli voglio bene e che si è comportato bene, ciò di cui non ho mai dubitato perché l'amicizia è questo "non dubitare".
La mia è dunque una testimonianza personale, non una column, non un'opinione.
Il caso Sofri è chiuso da tempo. È durato quasi vent'anni, dal 1988.
Ha implicato processi che nessuno può dimenticare, tra condanne assoluzioni nuove condanne e revisioni inutili. Ha comportato scritture e riscritture della storia italiana, divisioni profonde radicate in emozioni del profondo.
Ha evocato longanimità e partito preso, generosità e viltà di molti, malinconie e accensioni di rabbia, dubbi e certezze, qualche non rara canagliata.
Ha consegnato a un carcere per quasi dieci anni una persona che si è detta sempre non colpevole, che ha agito da cittadino nella buona e nella cattiva sorte, che ha protestato e dannato come oltraggi sentenze considerate ingiuste, procedure letali per il buon diritto, ma accettando un destino duro senza piagnistei, rigorosamente attenendosi allo status di detenuto e di condannato in via definitiva per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi, con una sublimazione del "sé" sconosciuta alla cultura e al comportamento italiano corrente, forse anche a quello più antico.
A Sofri non si rimprovera ormai da anni il delitto che non ha commesso e per il quale è stato condannato, cosa che succede, succede, succede, può succedere a molti, come tutti sanno. Gli si rimprovera di essere stato e di essere com'è, cioè vivo. Gli si rimprovera di aver trasformato in un magistero improprio, dalla cattedra di una cella a Pisa, il suo saper sentire, saper pensare, saper scrivere e umanamente comunicare con ironia, fragilità, forza fisica e virtù psicologica.
Io detesto chi si professa leale ai suoi ideali di gioventù, chi insegna agli altri il senso dei propri errori, chi afferma la continuità vanitosa del proprio circolare, piccolo ombelico che sempre se ne starebbe esposto al sole della storia, sempre abbronzato e seducente soprattutto per chi lo porta in giro. Amo invece Sofri perché la sua continuità, il suo persistere, non sono effetti speciali dell'Io, sono di un'altra pasta, passano al contrario per le rotture e le lealtà necessarie all'integrità della persona e della sua relazione con gli altri.
Visitandolo, cercandolo, abbracciandolo, parlandogli nella feroce rarità del tempo carcerario, invitandolo a esserci, a scrivere, intessendo le maglie del suo "caso", che non era lui, fino alla monotonia, fino alla noia, processo dopo processo, tra speranze e atroci delusioni, con quella coda surreale della grazia di stato negata ma anche promessa, fattibile e impossibile e sempre a lui estranea, e quella benedizione finale del lavoro esterno, che invece ha chiesto in coerenza con la sua condizione di detenuto a vita, di rieducando, di affettuoso ex ribelle che tornava nella sua alma mater, alla Normale, nelle stanze dei maestri di un tempo, l'ho conosciuto sempre più a fondo, e qualche volta ormai ci succedeva, e ci succederà di nuovo, di parlare per segni, per pause, per silenzi e nascondimenti ironici, dove tutto era stato detto e molto altro restava da dire di lui e di me e degli altri, e delle vite prigioniere e di quelle libere, dei tempi squinternati e dei libri compatti e delle idee che volano e non si lasciano afferrare tanto facilmente.
Un banale caso di amicizia, il mio caso Sofri.
A un certo punto l'amicizia nel suo aspetto pubblico era diventata uno scambio grottesco. Ogni tanto lui cercava di spiegare me ai miei odiatori, affibbiandomi di tanto in tanto qualche generoso rabbuffo, e io mi mordevo le mani perché non ero in grado fino in fondo di spiegare lui ai suoi, di odiatori. Ancora adesso mi spiace di non aver convinto Piero Fassino, a suo tempo, e Roberto Castelli al suo tempo, in una specie di piccola notte dell'Innominato tra le mura del carcere di Regina Coeli, della giustizia che ci sarebbe stata in quella grazia.
Tutto quello che riguardava il caso di Sofri, dalla battaglia innocentista perduta a quella umanitaria, dopo che tutto il resto era andato perduto, a me sembrava evidente, solare, chiaro come era chiaro quel comportamento, quell'ostinato perseverare, quella svolta del "prigioniero apolitico", quella lezione strana di pace nella rivolta, di conciliazione nella furia quieta e dolente contro il carcere, contro la condanna come diffamazione e la diffamazione come sigillo della condanna giudiziaria.
Con Silvio Berlusconi, che anche nel bene, e non solo nelle bizze di stato, è un uomo privato, uno che sente la persona prima del pregiudizio, invece ce l'avevo fatta, ma servì a niente.
Ora a unire Sofri al suo caso odioso, e me a una nuova rubrica giornalistica su di lui dopo mesi di necesssario silenzio-stampa, ecco la malattia, la vita in pericolo per via di quel delinquente del suo esofago, per le contrazioni dei nervi e del corpo ristrette nella sua anima di persona infinitamente seria, infinitamente libera, come in un piccolo carcere che ci si porta appresso anche nel lavoro esterno.
Ma passerà. E qualcosa succederà, se conosco il mio Paese, e il suo.
Iniziativa parrocchiale a
Bussolengo. Un'occasione agli ex detenuti
L'Arena, Il giornale di Verona, 3 dicembre 2005
Bussolengo. "Ero in carcere e siete venuti a trovarmi": è questa frase del Vangelo che ha spinto i preti delle due parrocchie di Bussolengo, assieme ai rispettivi Consigli pastorali, a sensibilizzare se stessi e le comunità cristiane sui problemi di chi vive in carcere. La prima iniziativa si è svolta durante le messe in Santa Maria Maggiore; erano presenti don Luciano Ferrari, già cappellano del carcere di Montorio e Francesco, ex-detenuto, che ha raccontato la sua esperienza e la riscoperta di Dio durante la detenzione. Ha lanciato anche un appello perché alle persone che terminano la carcerazione venga data un'altra possibilità, non vengano considerate dei mostri, ma dei cittadini che hanno saldato il loro debito e devono potersi reinserire, ritrovando relazioni, possibilità abitative e di lavoro.
Sono stati forniti alcuni dati sulla situazione carceraria a livello nazionale, con precisi riferimenti a Montorio, soprattutto al sovraffollamento: oltre 700 persone vivono in una struttura che potrebbe accoglierne non più di 280. I dati a livello nazionale hanno interessato i tempi della giustizia, la situazione igenico-sanitaria, la composizione della popolazione carceraria con circa il 40% dei detenuti alle prese con realtà di tossicodipendenza e un'altissima percentuale di problemi psichici (oltre 10.000 su 60.000 detenuti a livello nazionale). Infine il problema degli stranieri, privi di informazioni e strutture di accoglienza.
Tra le iniziative di solidarietà, la vendita di libri e lavori del progetto Alchimia della sezione femminile del carcere di Montorio, il cui ricavato, insieme a quello di altre iniziative, verrà devoluto ai preti che incontrano in carcere le situazioni di maggiore difficoltà. Una parte del denaro sarà destinata a detenuti stranieri per permettere loro di realizzare un contatto telefonico con le famiglie.
Oggi e domani l'impegno sarà riproposto nella parrocchia di Cristo Risorto. La sera di lunedì 5 dicembre, al Centro sociale parrocchiale, alle 20.45 don Luciano Ferrari, già cappellano del carcere di Montorio, insieme a ex detenuti e volontari, offriranno una testimonianza e riflessione sul tema della giustizia e del reinserimento sociale.
L'8 dicembre sarà la volta dei giovani, con attività di sensibilizzazione. Una partita di calcio con detenuti in permesso, organizzata per gennaio, sarà un'ulteriore contatto tra due mondi in apparenza lontani. Un altro appuntamento già fissato è per febbraio: musica antica e "scritti dal carcere" per un viaggio nel mondo della detenzione. (l.c.)
Secondo i sondaggi, gli americani favorevoli alla pena di morte sono il 66%, contro l'84% degli anni '80
Usa: eseguita la sentenza capitale numero mille, ma il consenso popolare cala
Il Giornale di Brescia, 3 dicembre 2005
WASHINGTON. Negli anni Ottanta, sulla scia del boom della criminalità nelle grandi città, 84 americani su 100 volevano la pena di morte. Nel decennio successivo i favori sono rimasti intorno all'80%. Adesso, col tasso di criminalità in discesa e la scoperta di una raffica di tragici errori giudiziari, l'approvano solo 66 americani su 100 e ci sono governatori che non temono più di giocarsi la carriera politica decidendo di graziare un condannato. Nel giorno in cui l'America tocca quota 1000 - il millesimo morto da quando la Corte Suprema riaprì le camere delle esecuzioni, nel 1976 - sono molti i segnali che parlano di un Paese che riflette ed è sempre meno convinto sull'utilità della pena capitale. Con un'eccezione di rilievo: per il presidente George W.Bush, che ha messo la firma sul 15% di tutte le esecuzioni degli ultimi 30 anni, "resta un deterrente che aiuta a salvare vite innocenti". Commentando la morte numero 1000, quella in North Carolina del detenuto Kenneth Lee Boyd, il portavoce della Casa Bianca Scott McClellan ha spiegato che il presidente ritiene la pena capitale uno strumento ancora valido a condizione che "sia amministrata in modo corretto, con rapidità e con certezza". Da governatore del Texas, Bush in sei anni diede il via libera a 152 esecuzioni e da presidente ha autorizzato la morte di tre detenuti nel circuito federale, tra i quali Timothy McVeigh, l'attentatore di Oklahoma City. Ma i numeri, oltre alle molte parole che hanno accompagnato il millesimo morto, parlano di un'America in netta frenata e di un boia sempre più disoccupato. Un segnale importante lo stanno mandando i governatori e al più celebre di loro, Arnold Schwarzenegger, toccherà nei prossimi giorni decidere in California sul caso di più alto profilo del momento: l'esecuzione il 13 dicembre di Stanley Tookie Williams, l'ex fondatore della sanguinaria gang dei Crips, diventato in carcere un attivista contro la criminalità giovanile. Circa due terzi degli americani, secondo la Gallup, restano favorevoli alla pena capitale. Il dato è assai inferiore agli anni Ottanta, ma quando alla gente viene chiesto se appoggi le esecuzioni anche in casi in cui sia disponibile l'alternativa dell'ergastolo senza libertà cauzionale, la percentuale scende al 50%. Lo scetticismo sull'effetto deterrente della pena di morte e soprattutto la scoperta di continui errori giudiziari, sta avendo effetti sulle giurie popolari che devono decidere le pene: le condanne a morte nel 2004 sono state 125, il minimo da trent'anni, sotto la media di 290 all'anno negli anni Novanta. A condizionare i giurati è anche l'eco che ricevono casi come quello, appena scoperto, di Ruben Cantu, giustiziato in Texas per un reato commesso quando aveva 17 anni e che ora, dopo un'inchiesta giornalistica, sembra rivelarsi un innocente. Schwarzenegger avrà l'ultima parola sul caso Williams e dovrà valutare se la "redenzione" che il detenuto sostiene di aver attraversato in 26 anni in carcere - insieme al fatto che si proclama innocente dei quattro omicidi che gli sono attribuiti - sia sufficiente per concedergli la grazia.
Sofri, il suo coma e il ministro Castelli
Quella sera, Sofri la catena occulta
La Gazzetta del Mezzogiorno, 3 dicembre 2005
GIUSEPPE GIACOVAZZO.
Lo incontrai a Pisa due giorni dopo Ferragosto. Da diversi anni non ci vedevamo. Quel pomeriggio andavo per Borgo Stretto, l'antico corso che taglia il centro storico, dai Lungarni a Piazza dei Miracoli. Senza saperlo stavamo andando allo stesso caffè, il mitico caffè Salza, delizia dei pisani e non solo. Mi accorsi del suo passo svelto, mi precedeva di pochi metri. Pensai alla sorpresa, arrivargli alle spalle. Ma lui si voltò prima. Ci abbracciammo. Sedemmo a un tavolo sotto i portici, Adriano Sofri aspettava amici da Genova: un professore di letteratura greca e una sua assistente. Parlammo di vecchi ricordi e nuovi fatti di cronaca. Adriano non dice come me Francavilla, dice "Francaidda". Per farmi sentire che non ha dimenticato il dialetto della sua infanzia nella città salentina dove fece le elementari. Di quella stessa patria - tenne a ricordarmi - è Clementina Forleo, il magistrato del tribunale di Milano che proprio in quei giorni era in prima pagina sui giornali per la polemica sui "terroristi" islamici sotto processo. "Vorrei conoscerla, perché non vai a trovarla?", mi disse. Cosa che feci tornato in Puglia. Decidemmo di vederci a Locorotondo. Ma quel giorno Clementina Forleo, che si trovava qui in vacanza, perdette padre e madre stroncati in un incidente stradale presso Manduria. Non avevo mai condiviso niente delle battaglie di Lotta continua negli anni di piombo. Dopo il "giovedì nero" del '77 scrissi per la S.E.I. un libro, "Dietro la rabbia", che raccoglieva contro Adriano e compagni le interviste da me fatte in Rai a eminenti politici e scrittori. Più tardi ho conosciuto Adriano. Ci siamo ritrovati durante un lungo viaggio in Cina col presidente Pertini, fine settembre '80. Era già un altro. Ma lo ritrovai cambiato soprattutto nel libro che scrisse per Sellerio, "L'ombra di Moro". Forse il più bel libro sullo statista democristiano ucciso dalle Br, insieme a quello di Leonardo Sciascia di cui ripercorre le orme. A Pisa parlammo di tutto, tranne della sua condizione carceraria. Da qualche mese lavorava alla biblioteca della Normale, la gloriosa Scuola fondata da Napoleone. Mi sembrava sereno, sollevato. Ma in un lampo s'interruppe. Guardò l'orologio: cinque minuti alle otto. "Oddio, sta per scattare la mia ora, se mi trovano mi arrestano. Non vedo carabinieri. Scappo, arrivederci". Correndo a gambe levate, manco fosse Pinocchio, imboccò una traversa dirimpetto al caffè e scomparve. Non amava parlare di quella sua catena invisibile che gli serrava il piede. Dignità e orgoglio gli impedivano di chiedere la grazia. Non si sente il mandante dell'omicidio Calabresi. Accetta di patire. Piegarsi mai. Aveva confessato ultimamente una sua scoperta: la solidarietà che nasce tra detenuti, la simpatia nel dolore, non importa se innocenti o colpevoli. Una forza di resistere che rasenta l'amore. Lui così laico, eppure soggiogato dalla Croce. Ora che giace in coma in un ospedale poco distante dal carcere, ora soltanto la politica cerca di "riaprire la pratica" archiviata con un "no" sprezzante alla richiesta del Quirinale. Sotto Natale il ministro della Giustizia si converte, cerca di cancellare una ingiustizia. "Non ho cambiato opinione - afferma - sono i fatti che sono cambiati". Ahi, ahi! Opinioni costrette a cambiare sui fatti, deboli opinioni destinate ad arrendersi ai fatti. Il presidente Ciampi aveva sollevato un conflitto di attribuzioni verso il Guardasigilli. Purtroppo la Corte costituzionale non si è ancora pronunciata. Speriamo che non abbia a farlo in articulo mortis, come per certi matrimoni riparatori. Nella patria del diritto può accadere che se non crepi non hai giustizia. Forza, Adriano. Verrò presto a trovarti. Buon Natale!
Caserta: È sempre imbattuta la squadra del carcere
Il Mattino, 3 dicembre 2005
SILVIO LAUDISIO, S. Maria C.V..
Dai risultati più che positivi che la squadra di calcio sta ottenendo nel campionato nazionale di terza categoria, e soprattutto dall'entusiasmo presente all'interno del carcere militare, il progetto "Sorgente educativa"di aggregazione sociale, il primo del genere in Europa che vede reclusi e militari giocare nella stessa squadra, può ritenersi più che riuscito. Il team biancoceleste, allenato da Riggio e di cui è presidente il comandante dell'istituto di pena ten. col. Antonio del Monaco, sta facendo parlare di sé positivamente anche in termini calcistici. La squadra, dopo quattro giornate, è ancora imbattuta ed occupa il terzo posto in classifica, a due punti dalla capolista Villa di Briano, incontrata sabato scorso in un match avvincente, finito in parità 2-2 . La compagine del carcere militare che gioca tutte le gare di sabato (oggi alle 14.30 affronterà il Don Rua di Caserta), all'interno del carcere militare su un ottimo rettangolo di gioco curato dagli stessi detenuti, si sta distinguendo non solo per il sano agonismo, ma anche per l'impegno e la bravura dei 18 giocatori, componenti la rosa, tra cui Iannotta, Carozza, Pesce, Faenza, Farina, Ottobre, Monas, Passaretta, Noto, Scozzari, Sepe, Cerrone, D'Alessandro, Salda e Simone. " Il nostro obiettivo finale - sottolinea il col. del Monaco -resta quello della Coppa disciplina. Per il momento abbiamo l'attacco più prolifico,in quanto la squadra è andata per ben dodici volte a bersaglio con D'Alessandro capocannoniere del girone con sette reti. La squadra è riuscita a trasmettere tanta euforia ed allegria. Lo spaccio è diventato il bar dello sport, in quanto non si fa che parlare della squadra e dei buoni risultati che sta ottenendo. Siamo tutti soddisfatti della bontà del progetto che punta soprattutto al recupero della devianza".
Ariano Irpino: penitenziari e riabilitazione
Al via i corsi professionali per detenuti
Il Mattino, 3 dicembre 2005
I detenuti del carcere di Ariano Irpino celebrano la Giornata della Formazione Professionale. Tutti coloro che hanno seguito per sei mesi i corsi di formazione professionale, regolarmente autorizzati dalla Regione Campania, per ceramisti, rilegatori e giardinieri daranno un saggio delle proprie capacità ai responsabili della casa penitenziaria, al Vescovo di Ariano Irpino-Lacedonia, monsignore Giovanni D'Alise, al sindaco di Ariano, Domenico Gambacorta, e alle altre autorità civili convenute. Una dimostrazione pratica di come si realizzano manufatti in ceramica, di come si rilegano preziosi volumi e del modo in cui è possibile rendere più accogliente e suggestivo il verde attrezzato all'interno dell'istituto penitenziario. Ci sono anche altri detenuti che hanno portato avanti un progetto di educazione musicale, grazie al maestro Franco Capozzi. Saranno proprio costoro ad allietare con uno spettacolo musicale la manifestazione odierna. Non è un mistero che il carcere di Ariano Irpino che si è sicuramente avvalso di ottimi collaboratori, sia riuscito a rispettare in pieno il dettato legislativo che vuole favorire l'inserimento dei detenuti nella società civile e nel mondo del lavoro, dopo che quest'ultimi abbiamo scontato la pena per i reati commessi. I corsi di formazione professionale sono concepiti per dare al detenuto un'opportunità in più. Le statistiche stanno a dimostrare che , nonostante i prevedibili disagi, ci sono sicuramente ex detenuti che sanno farsi valere e rispettare. Il carcere di Ariano Irpino, proprio per le tante attività svolte al suo interno, è da considerarsi un modello per altre case penitenziarie. Oggi se ne avrà una conferma. vi.gr.
Una mozione parlamentare per chiedere il trasferimento nei Paesi d'origine
(in particolare in Algeria, Marocco, Tunisia e Nigeria) dei detenuti in Italia
Il Corriere di Como, 3 dicembre 2005
L'ha presentata Alleanza Nazionale e ha quale primo firmatario il deputato lariano Alessio Butti. La mozione impegna il governo "ad attivarsi con immediata urgenza per stipulare con tutti i Paesi a forte pressione migratoria accordi che si basino sul principio in virtù del quale - su richiesta dello Stato di condanna - lo Stato di esecuzione deve consentire il trasferimento di una persona condannata senza il consenso di quest'ultima quando la pena nei suoi confronti o un provvedimento amministrativo definitivo comportino una misura di espulsione o riaccompagnamento alla frontiera".
È lo stesso Alessio Butti a sottolineare il significato del provvedimento. "Su questo tema - afferma il parlamentare - Alleanza Nazionale è favorevole a una posizione di assoluto rigore e, di riflesso, alla certezza della pena". "Tanto più in questo periodo - aggiunge il deputato comasco - in cui si ripetono gli episodi di violenza alle donne, sia italiane sia straniere, in taluni casi perpetrate proprio da stranieri".
An auspica dunque rigore e massima fermezza e, attraverso la mozione parlamentare, sollecita l'adeguamento della vigente legislazione italiana per consentire l'applicazione del principio che prevede il trasferimento dei detenuti stranieri ai loro Paesi d'origine e verificare l'inserimento del predetto principio nell'ambito degli accordi bilaterali già stipulati con Romania, Egitto e Repubblica Dominicana.
Carceri, emergenza stranieri.
An: li rimandiamo a casa loro
La Provincia di Como, 3 dicembre 2005
Como. Le carceri italiane pullulano di detenuti stranieri (sono ormai più di 19 mila), la gran parte dei quali recidivi e con scarsissima possibilità di recupero per mancanza di condizioni minime (famiglia, lavoro, socialità); inoltre, una buona percentuale è dedita a reati predatori e violenti, come dimostra la cronaca anche degli ultimi giorni, e addirittura è recidiva. Eppure una via d'uscita al problema c'è, secondo l'onorevole comasco Alessio Butti: "Diciamo con franchezza che chi commette certi reati, come le violenze sulle donne, che chi è recidivo e non ha nessuna possibilità di recupero o reinserimento, è opportuno che torni in patria a scontare la pena. Così otterremo anche il risultato di alleggerire la pressione carceraria e diminuire la spesa per il mantenimento della popolazione "con limitazione di libertà"". Butti ieri dopo un colloquio con il ministro degli esteri Gianfranco Fini ha redatto una "mozione d'impegno" rivolta al Governo che verrà presentata nel consiglio di martedì. "Stipulare appositi accordi per il trasferimento con tutti i Paesi a forte pressione migratoria, in particolare con Algeria, Marocco, Tunisia, e Nigeria - si legge nel lungo articolato - che si basino sul principio in virtù del quale, su richiesta dello Stato di condanna, lo Stato di esecuzione deve consentire al trasferimento di una persona condannata, senza il consenso di quest'ultima". "Come nella nostra tradizione - aggiunge Alessio Butti - c'è un forte richiamo alla legalità. Chi sbaglia paga, non è una questione di discriminazione in base alla nazionalità o alla razza: nessuno dice che tutti gli stupri sono opera di clandestini extracomunitari, ma non capisco perché dovremmo continuare a mantenere in carcere chi ripetutamente si macchia di reati violenti e mai potrà essere reinserito nella nostra società". "Questo - conclude l'onorevole di An - secondo noi è il modo corretto di affrontare un problema serio, senza proclami beceri o falsità di vario genere". Stando ai dati forniti dal Ministero di Giustizia aggiornati a giugno, i detenuti stranieri sono 19.071, di cui 4.098 marocchini ( il 21,5 % della popolazione carceraria straniera), 2.905 albanesi ( il 15,2 %), 1999 tunisini ( 10,5 %), nonché da altri Paesi africani ( il 10,1%). Nel primo semestre del 2005, inoltre, i nuovi ingressi negli istituti penitenziari ammontano a 44.345, di cui il 43 % stranieri. Presupposto necessario al trasferimento del detenuto nel suo stato d'origine, nella proposta di Butti, è che "il reato sia riconosciuto tale anche per la legge dello Stato in cui si prevede la dislocazione del detenuto, per cui la condanna sarà convertita in una condanna prevista dal codice penale dello Stato di destinazione per lo stesso reato. La posizione penale del reo non può essere aggravata dalla conversione (la sua condanna non sarà aumentata) e l'eventuale revisione del processo resta di esclusiva competenza dello Stato di condanna"". Alessandro Galimberti
Como: Polizia penitenziaria, festa tra mille problemi
Ieri pomeriggio la messa nella basilica di San Fedele e i discorsi ufficiali con le autorità nella sala consiliare Per la prima volta in centro la ricorrenza di San
Basilide
"Bassone sovraffollato, organico ridotto all'osso"
La Provincia di Como, 3 dicembre 2005
Una ricorrenza celebrata per la prima volta con tutti gli onori e con grande visibilità nel cuore della città. Così ieri pomeriggio la polizia penitenziaria ha festeggiato il protettore San Basilide coinvolgendo tutte le autorità civili e militari. Prima la messa officiata da monsignor Carlo Calori nella basilica di San Fedele, seguita da parole importanti per gli agenti penitenziari: "Il vostro è il compito peggiore... Non dimenticate mai di rispettare la dignità della persona...". Poi, i discorsi ufficiali - quelli del ministro della Giustizia, l'onorevole Roberto Castelli, letto da una poliziotta, della direttrice della casa circondariale comasca, la dottoressa Francesca Fabrizi, e del sindaco Stefano Bruni - pronunciati in uno dei luoghi più importanti del centro storico di Como: la sala consiliare di Palazzo Cernezzi, affollata da agenti (tanti i baschi azzurri), familiari e autorità (tra le quali il prefetto Domenico Lerro, il questore Angelo Caldarola, il comandante provinciale della guardia di finanza Rodolfo Mecarelli e dei carabinieri Renato Chicoli). Da venticinque anni alla direzione del Bassone, la dottoressa Fabrizi ha voluto fotografare la realtà quotidiana in cui si trova a operare la polizia penitenziaria comasca che è per nulla immune da problemi tutt'ora insoluti: il moltiplicarsi dei servizi, anche esterni da coprire con un organico che attende rinforzi da anni, le difficoltà nel gestire una popolazione detenuta giunta a livelli da record - al Bassone ora si contano 660 carcerati tra uomini e donne, più del triplo di quanto la struttura dovrebbe ospitare - e più che mai bisognosa di assistenza anche linguistica e sociale, la carenza di operatori malgrado gli sforzi degli psicologi e del volontariato. Però, la direttrice del carcere ha voluto ricordare i miglioramenti e le piccole conquiste ottenuti negli ultimi anni al Bassone: "i progressi dell'area educativa, il rifacimento delle sale colloqui con in contributo del Tribunale del bambino, l'avvio della lavorazione degli audiovisivi, il grande intervento con il Collegio delle imprese edili e l'Espe di un cantuiere scuola nel settore edile al maschile, il corso di moda con il prezioso apporto del Soroptimist e dell'istituto Ripamonti al femminile... Attività che si affiancano a quelle già in corso: tipografia, catechesi, scuola di alfabetizzazione elementare, media e superiore, quest'ultima affidata ai volontari, la comunità Il Murales, le borse lavoro interne per psichiatrici ed esterne che interessano complessivamente 150 detenuti...". La dottoressa Fabrizi ha poi avuto ringraziamenti per il comandante della polizia penitenziaria uscente Giuseppe Romano (un impegni di 36 anni) e per il sostituto commissario Giuseppe Marra, coordinatore del nucleo traduzioni e piantonamenti, prima di lasciare la parola al sindaco Bruni, che ha sottolineato come la direttrice abbia sempre tenuto ben presente "il valore delle persone". Brindisi finale. Andrea Cavalcanti