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Livorno: un detenuto di Porto Azzurro è stato ucciso in cella
La Nazione, 24 agosto 2005
Un detenuto campano di 47 anni, in carcere per il duplice omicidio della moglie e del figlio, è stato trovato morto nel tardo pomeriggio di ieri all’interno della sua cella nella casa di reclusione di Porto Azzurro, all’isola d’Elba. L’uomo, Alberico Somma, originario di Salerno, presentava sul corpo tracce di una probabile aggressione. In particolare aveva alcune ferite da taglio alla gola che potrebbero essergli state inferte da dietro con un coltello o con un altro oggetto tagliente. Gli inquirenti sospettano fortemente che possa trattarsi di omicidio. Quando, poco dopo le 18, è stato rinvenuto dagli agenti della polizia penitenziaria, il cadavere era riverso sul pavimento della cella. I rilievi scientifici, andati avanti fino a notte inoltrata, sono stati effettuati dai carabinieri del nucleo operativo della compagnia di Portoferraio, coordinati dal magistrato di turno presso la Procura di Livorno, il sostituto Maria Rita Cortellacci. Gli stessi militari dell’Arma hanno effettuato anche una serie di perquisizioni nelle altre celle ed in alcuni luoghi comuni del penitenziario alla ricerca dell’arma del possibile delitto. La conferma che "il detenuto trovato cadavere nella sua cella a Porto Azzurro è morto per ferita da arma da taglio" è arrivata nella tarda serata attraverso una nota del sindacato di polizia Sappe nella quale si ribadisce anche "il sospetto che si tratti di un omicidio, probabilmente conseguenza di una lite per futili motivi tra due persone, mentre sembrerebbe assolutamente da escludere che l’episodio possa essere scaturito da dinamiche conflittuali tra gruppi di detenuti". Il Sappe, escludendo responsabilità della direzione e degli agenti di polizia penitenziaria, conclude augurandosi "che la vicenda non segni un momento d’arresto della politica innovativa, dal punto di vista rieducativo, avviata dall’istituto". I vertici della casa circondariale non hanno voluto commentare il fatto. Alberico Somma era rinchiuso nella casa di reclusione di Porto Azzurro dal 2001. Da qualche tempo era impegnato in attività agricola nelle pertinenze carcerarie. Viene descritto come una persona schiva, dal carattere fragile, che non vantava amicizie. Attualmente il carcere di Porto Azzurro, che ha un regime molto aperto e ospita solo detenuti comuni, ospita circa 220 persone e risulta sotto utilizzato perché vi sono alcune sezioni in fase di ristrutturazione. Livorno: a Porto Azzurro ancora mistero sulla scena del crimine
Ansa, 24 agosto 2005
È il giorno degli interrogatori nel carcere di Porto Azzurro dopo la morte di Alberico Somma, il detenuto salernitano di 47 anni trovato con la gola squarciata ieri pomeriggio nella sua cella. L’ipotesi sulla quale stanno lavorando gli inquirenti è quella di un delitto maturato al termine di una lite improvvisa. Attualmente tutte le attività del carcere sono sospese e i detenuti restano "consegnati" nelle loro celle a disposizione dell’autorità giudiziaria. Tra gli elementi da chiarire c’è soprattutto la dinamica dei fatti: la cella di Somma è stata trovata in ordine e quasi senza la presenza di sangue. Resta da chiarire se chi lo ha colpito lo ha fatto in modo tale da procurargli una morte immediata senza un’eccessiva perdita ematica o se, invece, abbia avuto anche il tempo di ripulire la stanza. "Credo che il delitto non sia maturato nel contesto carcerario - ha spiegato Domenico Zottola, responsabile dell’area trattamentale del carcere San Giacomo di Porto Azzurro - ma sia il frutto di una lite improvvisa". Palermo: la "guerra" tra i famigliari per i colloqui in carcere
La Sicilia, 24 agosto 2005
Davanti al carcere dell’Ucciardone c’è una terra di nessuno. È la porzione di marciapiede dove i familiari dei detenuti affiggono ad un palo della luce un foglio con il turno per disciplinare l’ingresso per i colloqui. Accade però ordinariamente che questa lista diventi carta straccia per la prepotenza dei soliti noti. La denuncia è di Giovanni, padre di un recluso in attesa di giudizio, il quale sottolinea che l’appuntamento settimanale col figlio si trasforma in un piccolo calvario. Secondo una convenzione ormai consolidata, i congiunti degli ospiti della casa circondariale nel pomeriggio precedente al giorno dell’incontro con i parenti si premurano di scrivere in sequenza il proprio nome nel pezzo di carta attaccato al pilone dell’illuminazione pubblica. Meccanismo - ribadisce Giovanni - violato puntualmente l’indomani, quando si verifica che l’elenco del giorno prima è stato strappato e sostituito con un altro con una diversa progressione. Giovanni osserva che in questo caso si assiste all’ingresso in scena del prevaricatore di giornata, quello che, per dirla alla siciliana, si "annaca" (si dà tono), il quale fende la piccola folla e pretende, riuscendovi, di entrare per primo. All’eventuale rimostranza - annota Giovanni - si rischia lo scontro fisico, per cui normalmente si finisce per capitolare. L’uomo racconta che pure le donne, "certe donne", non sono da meno degli uomini di cui sopra, con la conseguenza che l’inevitabile diverbio debba essere sopito tempestivamente per evitare che si possa equivocare. "Con la mentalità che c’è da noi - sostiene Giovanni - se io provo a protestare con una donna, dalla sua reazione scomposta qualcuno potrebbe anche pensare ad un tentativo di molestia...". Peraltro - sempre secondo questa versione - il personale dell’istituto di pena si chiama fuori da questa querelle: lo scadenziario per entrare nell’Ucciardone è un fatto assolutamente privato. Non è infatti possibile appendere il foglio vicino alla garitta esterna di sorveglianza, dove - ipotizza Giovanni - probabilmente nessuno si azzarderebbe a modificarlo. "Basterebbe - conclude - destinare una delle guardie a raccogliere la lista e tutto sarebbe risolto". Giustizia: Procura Milano; con decreto Pisanu rischiamo disastro
Adnkronos, 24 agosto 2005
"Un disastro". Rischio di prescrizione dei reati e di scarcerazione di pericolosi criminali, certezza di allungare i tempi della giustizia e, paradosso finale, l’inquietante eventualità che una norma della legge creata per combattere il terrorismo possa avere ricadute negative anche sui processi con imputati che rispondono di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo. È l’allarme lanciato dalla Procura di Milano, impegnata da anni alla lotta contro la corruzione, la criminalità organizzata e l’eversione di qualsiasi matrice. Ed è proprio il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, che coordina il pool di magistrati che indagano sul terrorismo, a spiegare i rischi che si annidano nell’articolo 17 della legge Pisanu. "Dalle norme sull’impiego della polizia giudiziaria (art. 17), immediatamente deriva la impossibilità di utilizzare il personale di polizia giudiziaria per la citazione a giudizio degli imputati dinanzi al Giudice di Pace, per i compiti di partecipazione alle udienze dibattimentali dinanzi allo stesso Giudice di Pace - spiega Spataro all’Adnkronos - e al Tribunale in veste monocratica, nonché a parte delle attività di notificazione, tra cui quelle nei giudizi avanti ai Tribunali per il Riesame, le cui procedure, come è noto, sono caratterizzate da termini ristrettissimi e perentori". "È astrattamente comprensibile ogni sforzo teso ad assicurare il massimo di energie alla prevenzione e al contrasto del terrorismo e, comunque, l’utilizzo della Polizia Giudiziaria per compiti d’istituto, ma - sottolinea Spataro - in concreto, nella perdurante assenza di interventi normativi e organizzativi che valgano a compensare la conseguente sottrazione di personale all’ordinaria attività degli uffici giudiziari, la scelta rischia di apparire demagogica e determinerà, comunque, un ulteriore e immediato vulnus alla loro funzionalità, con ricadute negative anche nella gestione delle indagini e dei dibattimenti per reati di terrorismo". Il rischio è di "un disastro" per procedimenti che sono costati proprio tanta fatica alla polizia giudiziaria e alle altre forze dell’ordine per arrestare presunti terroristi. Replica a Spataro il presidente della commissione Giustizia della Camera, Gaetano Pecorella: "Era inevitabile che un magistrato da sempre schierato politicamente insieme all’opposizione trovasse il modo di accusare il decreto Pisanu di avere un effetto criminogeno. Mi sembra una presa di posizione assolutamente fuori luogo. Vorrei ricordare a Spataro che anche l’opposizione non si è schierata contro il provvedimento". Parla di "influenza sui termini della prescrizione e di rischio di estinzione del reato" Corrado Carnevali, procuratore aggiunto del dipartimento che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione. "Non lavoriamo più in tempi brevi - commenta l’alto magistrato all’Adnkronos -. La stragrande maggioranza degli ufficiali giudiziari espleta il servizio a mezzo posta con il risultato che le cartoline tornano indietro e che la notifica si deve ripetere. Tutti i procedimenti rischiano di essere protratti nel tempo perché il meccanismo deve essere perfetto e il pm deve avere la prova che l’atto sia stato ricevuto". Lancia un allarme anche più forte Ferdinando Pomarici, procuratore aggiunto e coordinatore della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano. "Non faremo più processi - afferma all’Adnkronos - e il rischio è che pericolosissimi narcotrafficanti e mafiosi escano di prigione per la scadenza dei termini. Gli ufficiali giudiziari già adesso restituiscono a distanza di mesi l’attestazione dell’avvenuta notifica". Proprio per questo il pericolo incombe su processi come quelli nei confronti della criminalità organizzata "che hanno centinaia di faldoni di indagine con decine e decine di imputati. Quando si concludono le indagini si devono notificare a tutti i difensori e a tutti gli imputati, a volte detenuti in diverse carceri in Italia, e solo quando il pm ha la conferma che tutti sono stati avvisati potrà presentare, dopo aver fatto trascorrere 20 giorni previsti per legge, la richiesta di rinvio a giudizio al giudice". Secondo Pomarici "è giusto il principio per cui la Polizia Giudiziaria faccia solo il suo lavoro, ma bisogna almeno raddoppiare l’organico degli ufficiali giudiziari". Cremona: padre chiede ai carabinieri di riportare in cella il figlio
Adnkronos, 24 agosto 2005
Un padre residente nel comune cremonese di Pizzighettone, ha chiesto ai carabinieri della stazione di riprendersi il figlio. L.V. che il giudice aveva obbligato agli arresti domiciliari dopo una lunga serie di rapine e di scippi avvenuti sia nel cremonese che ne lodigiano nel corso dei mesi scorsi. Quando si è presentato ai militari, il genitore ha spiegato che il giovane, solamente ventenne, rende difficile la vita a lui e alla moglie. Non potendolo cacciare di casa perché ai domiciliari, devono continuamente subire le sue angherie. Ora non resitono più e hanno preparato una lettera da inviare al giudice per le indagini preliminari del tribunale di Cremona per rinunciare alla disponibilità di concedere la loro casa al figlio ancora detenuto. Ai carabinieri hanno così chiesto riportare nel carcere di via Cà del Ferro il ragazzo, quest’ultimo è indagato anche dalla procura della repubblica di Lodi. Ferrara: lettera di 4 detenuti, nel mirino il vitto e il lavoro
Il Resto del Carlino, 24 agosto 2005
Una protesta con in calce quattro firme di detenuti nel carcere di Ferrara. Una lunga lettera che è soprattutto un quaderno di lagnanze sulla condizione carceraria all’Arginone, un atto che - come si legge - vuole essere "un modo per manifestare in modo civile e leale un malcontento generale che serpeggia in modo evidente tra i detenuti". Nella lettera i detenuti suddividono in capitoli i loro problemi. Nel capitolo intitolato "il sopravvitto", si mettono in luce presunte irregolarità riguardanti gli acquisti che ogni detenuto con i suoi soldi può effettuare. Nel mirino i prezzi praticati all’interno dell’istituto. Inoltre: "La maggioranza dei prodotti - scrivono - sono prossimi alla scadenza e più di una volta ci hanno portato prodotti scaduti". Poi il capitolo "La cucina detenuti". "Perché - si chiedono i detenuti all’Arginone - in altri istituti della regione il vitto dell’amministrazione è notevolmente migliore?". Una domanda che rimanda a un inciso polemico: "In questo carcere - si legge ancora - oltre a non essere esposta nessuna tabella vittuaria, il menù cambia sempre, ma questo non perché si voglia favorire il detenuto". I detenuti sottolineano poi problemi nel lavoro all’interno dell’istituto, la mancanza di un confronto con le autorità carcerarie, l’assenza di commissioni di controllo previste dall’ordinamento giudiziario. Infine: "Pacchi postali dalle famiglie che ti vengono consegnati dopo decine di giorni dal momento in cui firmi la cedola di ricevimento. Negli ultimi due anni - concludono i detenuti - non c’è mai stata una disinfestazione dei locali o dei cortili". Firenze: a rischio l’assistenza sanitaria per i detenuti toscani
La Nazione, 24 agosto 2005
Il personale medico e paramedico che opera all’interno degli istituti penitenziari della Toscana è sul piede di guerra. La motivazione che ha spinto i medici e gli infermieri dell’Amapi (Associazione Medici Amministrazione Penitenziaria Italiana) a decretare lo sciopero in programma il 14 settembre prossimo, che vedrà anche una manifestazione a Firenze davanti alla sede del Provveditorato regionale della Toscana, va ricercata nei tagli annunciati dal Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) sul capitolo che finanzia la sanità penitenziaria. Tagli consistenti che per l’istituto massese si attestano sul 20%: invece dei 460.000 euro stanziati inizialmente, ne arriveranno 410.000. Una decurtazione di 50.000 che sta portando ad un taglio delle prestazioni sanitarie per la popolazione detenuta. "Il carcere di Massa - ha spiegato il segretario regionale Amapi, Franco Alberti - è un punto di riferimento della Toscana sia per quanto riguarda il trattamento dei disabili autosufficienti, sia per i sieropositivi "intermedi", ovvero coloro che sono affetti da Hiv conclamata, ma non ancora allo stadio terminale. Alle prestazioni erogate ai "pazienti-detenuti" locali, si aggiungono quindi anche quelle per chi proviene da altre realtà carcerarie toscane. Purtroppo, però, a causa del taglio di risorse siamo costretti a tagliare anche le prestazioni sanitarie. Da una ventina di giorni, infatti abbiamo dovuto sospendere quelle specialistiche (odontoiatriche, cardiologiche...) per le quali il tempo di attesa massimo si aggirava intorno ai sei/sette giorni. I detenuti vengono, così, indirizzati presso gli ambulatori esterni dell’Asl con tutto ciò che questo comporta (iter burocratico, scorte...). Abbiamo, inoltre, dovuto ridurre anche l’attività di fisioterapia". Una ventina sono i medici che prestano la loro opera all’interno dell’Istituto di Pena massese, di cui otto sono quelli di guardia (presenti 24 ore su 24) e gli altri sono specialisti. Tanto per rendere l’idea, dal primo gennaio al 31 luglio di quest’anno sono state erogate dalle 5.000 alle 6.000 prestazioni: una bella mole di lavoro svolta in soli sei mesi e adesso, parte di questo lavoro, dovrà essere garantito fuori dalle mura carcerarie, allungando inevitabilmente i tempi di attesa per tutti quanti, sia essi detenuti che no. Firenze: direttore di Sollicciano respinge l'ultimatum del Comune
La Repubblica, 24 agosto 2005
I vertici di Sollicciano reagiscono duramente all’ultimatum dell’assessore Graziano Cioni. "Palazzo Vecchio vuol chiudere le celle per le cattive condizioni igieniche? Che lo faccia, se ne assumerà le responsabilità", commenta il comandante Masciullo della sorveglianza penitenziaria. "Da qui, a differenza di quanto sostiene Cioni, non diamo "risposte vaghe" ai rilievi della Asl ma lavoriamo per riparare, sostituire, mettere a norma, migliorare. Stiamo avviando un progetto di ecoedilizia per portare acqua calda e docce in ogni cella grazie ai pannelli solari. Ma ci vuole tempo. Il carcere è come un piccolo paese dove si aprono continuamente cantieri per le opere di manutenzione e di nuova realizzazione. Vogliamo parlare di igiene? Anche nelle strade del centro di Firenze vedo escrementi di cani e di uomini dappertutto ma nessuno si sogna di fare all’amministrazione comunale intimidazioni come quella che Cioni fa a noi. Il vero problema è il sovraffollamento, Sollicciano ospita il triplo delle persone per cui era stato progettato. Ma questa realtà non la si può "scoprire" nel cuore dell’agosto 2005" Fa discutere l’iniziativa di Cioni, che fissa due settimane di tempo per permettere alle autorità dell’istituto di pena di mettersi in regola con le prescrizioni sanitarie. Non un invito ma un ultimatum appunto, annunciato con tono perentorio. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Massimo De Pascalis replica direttamente all’assessore, senza usare giri di parole: "Quella di Cioni è una posizione provocatoria, mi sembra eccessivo dettare un ultimatum a un’amministrazione statale, che dovrebbe risolvere in 15 giorni questioni aperte da vent’anni e comuni a tutti i grandi istituti d’Italia. Io sono molto sensibile alla condizione dei detenuti e credo di lavorare seriamente. Se facessi un altro mestiere mi attiverei per diminuire l’affollamento delle carceri ma questo compito spetta ai politici e io non sono un politico". A Cioni e alla Asl il direttore del carcere Oreste Cacurri risponde con una serie di dati: "Rispetto a giugno la popolazione è scesa da 1030 a 930 detenuti, sempre troppi ma comunque meno di prima. Sugli impianti igienici stiamo intervenendo, i lavori in cucina sono completati mentre per i corridoi, dove è necessario impermeabilizzare le pareti, abbiamo chiesto fondi al Dipartimento, il problema delle risorse è un ostacolo notevole. E anche per questo certe uscite sarebbe meglio evitarle". L’unica voce in sostegno all’iniziativa di Cioni è quella - autorevolissima - di Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti a Firenze: "Finalmente il Comune prende una posizione decisa", dice Corleone, "avvalorando il lavoro dei tecnici che hanno ormai sviscerato ogni aspetto del caso Sollicciano. Il punto è che questo carcere è nato come un istituto di "trattamento e recupero", modellato anche architettonicamente in forma aperta. Anche per questo suo valore simbolico Sollicciano deve segnare un’inversione di rotta, la questione non è più rinviabile. E il primo obiettivo è il compimento del "giardino degli incontri" ideato da Michelucci, una grande opera d’arte e di umanità adiacente al muro di cinta: servono 300 mila euro, a dicembre potremmo inaugurarlo". È d’accordo sull’urgenza di una iniziativa politica il consigliere regionale Ds Enzo Brogi, che ha visitato Sollicciano a giugno: "Ho visto quattro detenuti chiusi in una cella di 12 metri, una condizione inaccettabile", racconta. "Credo che tutto quello che può servire ad accendere un riflettore sul carcere sia meritorio, compreso l’ultimatum di Cioni". Bologna: donate un libro per chi vive dietro le sbarre
La Repubblica, 24 agosto 2005
Il mese di agosto per le persone detenute è molto duro a causa del clima fisico e dell’aumento delle costrettività organizzative dovute anche alle carenze di personale. Per questo motivo, nel mese di agosto, da qualche tempo il Circolo "Chico" Mendes organizza l’invio di libro ad alcune biblioteche di carceri. Quest’anno dalla Dozza e dal Pratello vorremmo allargarci al Cpt di Bologna ed all’Opg di Reggio Emilia. E’ ovvio che l’invio dei libri rischia di essere un mero pannicello caldo apposto su una piaga profonda e cronica e che necessitano ben altre ed urgenti misure di risocializzazione. Alcune questioni le abbiamo denunciate ed alcune proposte le abbiamo fatte: ora vogliamo riproporre un gesto a nostro avviso utile, pur nella sua natura simbolica, che va nel senso di superare l’isolamento, i sentimenti di ostilità e di esclusione o, peggio, di indifferenza. Della comunità esterna. Che cultura ed autoformazione possano contribuire a mitigare il disagio e la sofferenza è una speranza concreta, speriamo condivisa da molti. Concluderemo la raccolta dei materiali entro questa settimana (27-28 agosto) per inviarla nei giorni successivi. Sassari: al San Sebastiano protestano detenuti e agenti
La Nuova Sardegna, 24 agosto 2005
Il clima di festa è durato giusto il tempo di vedere ballare il candeliere preparato con cura dai detenuti e interpretato da più parti, forse con troppa superficialità, come il segnale di un carcere che cambia e migliora su tutti i fronti. Invece, passata la "faradda", da San Sebastiano rimbalzano le voci di sempre: sofferenza, difficoltà, carenza d’organico. A lanciare l’allarme, ancora una volta, è la segreteria provinciale del Sappe (il sindacato della polizia penitenziaria) che nel denunciare "il disagio del personale che opera nella casa circondariale di Sassari" proclama anche lo stato di agitazione e annuncia una manifestazione pubblica. È una situazione che ripropone i disagi denunciati in più occasioni: dalle condizioni fatiscenti dell’istituto di via Roma ai problemi della carenza degli organici della polizia penitenziaria che, inevitabilmente, condizionano anche lo svolgimento di alcuni servizi. E al malcontento degli agenti, si aggiunge quello dei detenuti: gruppi di reclusi lamentano, in modo particolare, ritardi nella elaborazione degli appuntamenti per le visite specialistiche o nella definizione di terapie che - per essere assegnate - hanno necessità di un iter specifico che passa attraverso l’approvazione del medico incaricato. Anche ieri mattina - tanto per evidenziare una delle segnalazioni che arrivano da radiocarcere - il medico ha annotato sul registro l’impossibilità di effettuare le visite "per la carenza di personale della polizia penitenziaria" innescando ulteriore nervosismo. E sull’insufficienza degli organici prende posizione in maniera decisa la segreteria provinciale del Sappe: "Finita la festa (quella dei candelieri, ndc), la polizia penitenziaria deve fare i conti con gravi disagi. A causa dei provvedimenti di missione emessi dal provveditorato regionale, che ha inviato agenti in altri istituti dell’isola, è stata creata una situazione preoccupante: a seguito dei piantonamenti che vengono eseguiti in ospedale, il personale è costretto a prestare servizio senza riposi con cinque notti in 20 giorni, senza il turno di sosta dopo il lavoro notturno". Il Sappe - pur riconoscendo il prezioso lavoro svolto dalla direttrice del carcere, Patrizia Incollu - denuncia una questione evidenziata chiaramente anche nell’estate dello scorso anno: la difficoltà a garantire livelli di sicurezza ottimali nei reparti detentivi. "Dove in condizioni normali devono operare due agenti per piano, ora ci si trova con una sola unità che deve sorvegliare due livelli. E sul muro di cinta è raro trovare due sentinelle, anzi è più facile non vederne neppure una". Il Sappe parla di "probabile sottovalutazione da parte del provveditorato regionale che non tiene in debita considerazione i sacrifici fatti unitariamente per risollevare una struttura che era caduta in basso dopo i noti fatti di qualche anno fa". Critiche al provveditorato regionale vengono rivolte anche per le nuove competenze attribuite al Nucleo traduzioni di Sassari (è stato trasferito il lavoro relativo a Tempio e Alghero). Una situazione di complessivo disagio che ha fatto maturare la decisione dello stato di agitazione. L’ultima valutazione è rivolta proprio alla festa per il candeliere dei detenuti che ha animato il carcere. "Belle iniziative, tutte condivisibili - sostiene il Sappe - anche se resta il rammarico che solo il direttore dell’istituto ha espresso sentimenti di gratitudine per quanto fatto anche dalla polizia penitenziaria che per l’occasione ha sospeso i congedi e prolungato i turni di servizio per garantire la riuscita della manifestazione". Tempio Pausania: "Rotonda" inospitale, si aspetta nuovo carcere
La Nuova Sardegna, 24 agosto 2005
Un carcere, quello della "Rotonda", vecchio e inospitale, osteggiato dagli stessi agenti della polizia penitenziaria che, pur di starne lontani, si ammalano in massa. Costringendo il provveditore regionale a decretarne, a mesi alterni, la chiusura. Ora funziona a ranghi ridotti, con pochi detenuti e pochi agenti che si danno il turno tra gli spalti. In attesa della costruzione del nuovo carcere con annessa sezione da regime di 41 bis, uno spettro che molti vogliono allontanare dall’alta Gallura. Anche la situazione penitenziaria non fa che aggravare i disagi nel già collassato sistema giudiziario, con magistrati e cancellieri impegnati in gravose trasferta per sentire detenuti che si trovano in altri istituti di pena. I palazzi di giustizia sono tutti da ristrutturare. Completato da poco meno di due anni il rinnovo del vecchio tribunale di Tempio (per il quale è previsto e già progettato l’ampliamento, con la sopraelevazione di un piano per aumentare gli spazi), appena ultimati i lavori di ripristino al palazzo di giustizia di Olbia e in quello della Maddalena, restano i problemi di sempre: reperire spazi e strutture dove magistrati, impiegati e avvocati possano lavorare con tranquillità. Civitavecchia: era ubriaco, lo hanno portato in isolamento e picchiato
Il Messaggero, 24 agosto 2005
Emergono nuovi particolari nella vicenda che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di tre agenti di polizia penitenziaria del carcere di borgata Aurelia, conseguentemente ad una denuncia presentata alla procura della Repubblica da Massimiliano Ceccacci, secondo il quale, l’8 agosto scorso, i tre lo avrebbero picchiato all’interno del penitenziario locale dove era detenuto. A quanto pare Massimiliano Ceccacci avrebbe dato in escandescenze in quanto si era ubriacato nella propria cella. Secondo indiscrezioni infatti, all’interno della sua cella sarebbero stati trovati alcuni contenitori di vino "Tavernello", e per questo il "Biribino" (che come da certificazione non può bere) sarebbe stato accompagnato presso l’infermeria dello stesso carcere civitavecchiese. Poi, stando al racconto fornito dalla presunta vittima al magistrato inquirente, il sostituto procuratore Pantaleo Polifemo, già in infermeria un agente avrebbe iniziato a schiaffeggiarlo. Alla base dell’episodio comunque, come detto, ci sarebbe il fatto che il Ceccacci stava creando dei problemi al personale in servizio, in quanto aveva alzato troppo il gomito. Il vino peraltro, gli sarebbe stato regalato da altri detenuti del carcere, in quanto le dosi di alcol che vengono fornite ai detenuti non sono mai in quantità eccessiva, proprio per evitare situazioni di questo tipo. A chiarire la dinamica dell’accaduto comunque, sarà la magistratura locale che, come detto nell’edizione di ieri, ha aperto un fascicolo sull’episodio, che ha portato all’accusa di lesioni, minacce e violenza privata per i tre agenti di polizia penitenziaria del carcere di borgata Aurelia. Teramo: doveva tornare libera; trasferita in un altro carcere
Il Messaggero, 24 agosto 2005
Per "sfollamento", dal carcere di Teramo, era stata trasferita a quello di Potenza, la disposizione per la sua scarcerazione mai eseguita, invece, era rimasta sulla carta. La notizia è stata appresa nel corso della giornata di ieri. La rumena, la sedicente Marcela Petrica Radu di 19 anni, era stata arrestata per fatti accertati ad Alba Adìriatica ad aprile di quest’anno, perchè coinvolta in delitti in materia di favoreggiamento e di sfruttamento della prostituzione e per violazione alle normative riguardanti l’immigrazione clandestina. L’ultimo 12 luglio, con propria sentenza, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Teramo, condannava l’imputata a due anni di reclusione e a 18.000 euro di multa, e disponeva l’espulsione dell’imputata dal territorio dallo Stato e a questo solo fine ne disponeva l’immediata scarcerazione. Contro la sentenza del Gup, con la quale la scarcerazione dell’indagata è stata condizionata all’esecuzione dell’espulsione, il difensore dell’extracomunitaria, l’avvocato Vincenzo Di Nanna, ricorreva al Tribunale del Riesame. I giudici aquilani, dal canto loro, con provvedimento interlocutorio, l’8 agosto, hanno ribadito la necessità di eseguire immediatamente la scarcerazione della giovane. Nel dispositivo dell’ordinanza emessa dai giudici del Riesame si legge, fra l’altro: "resta compito dell’autorità preposta a procedere all’immediata scarcerazione della ricorrente". Intanto, la rumena ancora detenuta nel carcere teramano, senza che nel frattempo si fosse data esecuzione alla scarcerazione che era stata disposta dal Gup già il 12 luglio, nella giornata di lunedì 22 agosto, è stata trasferita "per sfollamento" nel carcere di Potenza. Di fronte a tale situazione, l’avvocato Di Nanna ha preannunciato azione civile di risarcimento danni per la carcerazione "sine tituli" sofferta dalla sua assistita, a favore della quale, una quarantina di giorni fa, era stata disposta la scarcerazione. Lo stesso avvocato, a quanto si sa, nella giornata di ieri si è messo in contatto con la casa circondariale di Potenza, attivandosi, poi, in tutte le procedure necessarie al fine di riportare in libertà la sua assistita. Usa: letto, lavabo e Bibbia, benvenuti nella cella della morte...
La Repubblica, 24 agosto 2005
La stanza della morte è un rettangolo di circa sei metri per cinque; pulita, asettica, simile a una stanza d’ospedale. Anche il lettino al centro potrebbe essere uno dei tanti che vediamo nelle corsie - strumenti a cui donne e uomini affidano la loro sopravvivenza - se non fosse per quelle due "ali" di legno e quei pesanti legacci che scivolano a terra. E in ospedale, accanto ai lettini, non c’è una sedia elettrica. La stanza della morte è nel blocco "L" del Greensville Correctional Center di Jarratt, Virginia, nome anonimo scelto dalla burocrazia carceraria; ma per tutti, condannati o secondini, questo squadrato edificio grigio, dai pesanti e impenetrabili cancelli, altro non è che Hellsville, la città dell’inferno. "Il grado di civiltà di una società può essere giudicato entrando nelle sue prigioni". La frase di Dostojevskij, incisa nel muro, accoglie i pochi visitatori che hanno il permesso di giungere fin qui, e a Hellsville fanno di tutto perché quel giudizio sia positivo, soprattutto quando si entra in quei pochi metri quadrati dove si muore per decisione dello Stato. "è tutto esattamente come un mese fa e resterà tutto così fino ad ottobre". Clyde Alderman, primo assistente del "warden" (il responsabile del carcere), spiega senza enfasi e senza falsi pudori - "non creda che divertiamo a vedere morire un prigioniero" - quanto successo a luglio, quando con una rarissima decisione la Corte Suprema degli Stati Uniti ha bloccato un’esecuzione quando al condannato erano rimaste solo quattro ore e mezza di vita. Il lettino è pronto, e dietro il lettino una pesante tenda rigida blu nasconde gli strumenti che il "tecnico" era già pronto a usare: i tubicini per inserire il veleno, una macchinetta per controllare il battito cardiaco. Accanto, massiccia come un trono di quercia, campeggia la vecchia sedia elettrica costruita nel 1908 e usata per la prima volta in quell’anno (il 13 ottobre) nel vecchio penitenziario di Stato di Richmond; venne portata qui nel 1991, quando il nuovo carcere di Greensville fu ultimato, e nonostante dal 1995 la Virginia abbia introdotto l’iniezione letale come forma di esecuzione, viene usata ancora oggi: "Il condannato ha il diritto di scegliere, può morire con la sedia o con l’iniezione; l’ultima volta usata? Nel 2003, e funziona perfettamente. Robin Lovitt? Lui aveva scelto l’iniezione". Di fronte agli strumenti di morte una vetrata divide il condannato dai testimoni. Nella saletta ci sono sedici sedie, ma per la legge della Virginia ne bastano sei, "donne e uomini che chiedono di assistere perché lo ritengono un dovere civico, amici o vicini di casa delle vittime, anche un giornalista locale ha il diritto di entrare; lì si siedono anche gli avvocati difensori e il prete, se il condannato ne ha chiesto la presenza. I familiari delle vittime? No, loro siedono lì a sinistra". A sinistra del lettino e della sedia si vede solo una parete grigia, ma toccando alcuni pulsanti si alza una sorta di veneziana dietro cui ci sono vetri a specchio che non permettono di vedere nulla all’interno: "I familiari stanno lì, vengono fatti entrare all’ultimo momento ed escono prima di tutti, quando ancora il corpo è qui". Accanto alla stanza dei familiari un telefono rosso è sempre acceso. è la linea diretta con l’ufficio del governatore, l’unica persona in grado di concedere la grazia all’ultimo minuto. A meno che non intervenga la Corte Suprema degli Stati Uniti con lo stay, il blocco temporaneo dell’esecuzione. "He got the stay!", ha ottenuto la sospensione, ha urlato il mese scorso Tonglya Carter, sorella di Robin Lovitt, un afroamericano di Arlington (Virginia), 41 anni e tossicodipendente, che il 18 novembre 1998 dopo avere barattato la sua televisione da venti dollari per due dosi di crack era entrato in una sala da biliardo per compiere una rapina e - secondo l’accusa - aveva accoltellato a morte con una paio di forbici Clayton Dicks, suo ex datore di lavoro ed amico. Condannato a morte dopo un rapido processo nel 1999, Lovitt doveva essere giustiziato l’11 luglio scorso. Ma alle 4 e 30 pomeridiane di lunedì 11 luglio, duecentosettanta minuti prima che nella stanza della morte il "tecnico" - Un medico, un chimico? "No, non posso dire che mestiere fa, è rigidamente top secret" - gli iniettasse nel sangue il veleno letale (le esecuzioni in Virginia sono per legge alle 9 di sera), con i suoi familiari che gli avevano già dato il definitivo addio, con quelli della vittima e i testimoni già da tempo dentro Hellsville, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha fermato il boia rimandando l’esecuzione fino al prossimo ottobre. Motivazione: la decisione di un funzionario del tribunale di buttare via, nel 2001, le prove del caso, nonostante gli appelli della difesa fossero ancora aperti; comprese le forbici, arma del delitto, e il Dna raccolto dagli investigatori. Lovitt deve ringraziare uno strano incrocio del destino: attraverso un programma della università di Notre Dame - che aveva "adottato" il suo caso di detenuto in un braccio della morte - la sua storia è finita nei file di Kenneth Starr, il famoso procuratore speciale del "Sexgate" (il caso Clinton - Monica Lewinsky), uno dei legali più costosi d’America e convinto sostenitore della pena di morte. Starr si è appassionato al caso: grazie al suo nome e ai suoi legami negli ambienti di Washington è riuscito a trasformare l’ennesimo, oscuro, caso di pena capitale in Virginia in una caso nazionale, e ha confessato al Washington Post di aver "rivisto" alcune delle sue convinzioni sulla pena di morte. Una sola porta divide la stanza della morte dalle tre celle, tutte uguali, in cui i condannati passano i loro ultimi cinque giorni di vita. Sono celle abbastanza grandi per gli standard abituali di un carcere, con un letto, un tavolo incassato a muro, un lavabo e un wc di metallo. Nella stanza che fino all’11 luglio fa è stata occupata da Robin Lovitt ci sono ancora le lenzuola verdine e, poggiata su un angolo del tavolino, una bibbia. Una sola porta e pochi passi, che per sua fortuna Lovitt non ha ancora dovuto compiere. Aveva però già compiuto tutti i rituali, obbligatori o meno, previsti dalla legge della Virginia: l’incontro con i familiari, la richiesta di cibo per l’ultima cena. "Non dia retta a romanzi e film, non è che un condannato mangia quello che vuole, qui da noi può scegliere tra i ventotto differenti menù che il carcere offre ogni mese; certo se proprio vuole una pizza e quel giorno non è prevista facciamo di tutto per accontentarlo". In queste celle il condannato a morte passa solo gli ultimissimi giorni. Il sistema carcerario della Viriginia prevede che le esecuzioni avvengano a Hellsville, ma il Greensville Correctional Center, dove si trova la stanza della morte, è in realtà un carcere di media sicurezza, che ospita oltre tremila detenuti per reati che in gran parte prevedono la prigione per dieci - quindici anni. Il braccio della morte vero e proprio è a circa trenta chilometri da qui, a Mecklenburg, dove gli "uomini senza speranza" - vestiti con le inconfondibili tute blu - passano per anni e anni 19 ore su 24 dentro una cella minuscola, nella disperata attesa di un appello che trasformi la loro condanna a morte in una prigione a vita, o di una grazia del governatore, che in Virginia non arriva mai, sia esso repubblicano o democratico come l’attuale. Come capita spesso ai condannati a morte, anche Lovitt era fino alle ultime ore "tranquillo e in pace con se stesso"; lo hanno confermato la sorella e gli altri parenti che lo hanno visitato, forse perché si era già convinto che Kenneth Starr avrebbe avuto successo. A uscire furibondi da Hellsville sono stati invece la madre di Clayton Dicks, Mary, e le quattro sorelle del gestore della casa da biliardo ucciso quella notte del 1998. Per loro la "closure", quel particolare sentimento che stando ai fautori della pena di morte permette ai familiari delle vittime di mettersi l’animo in pace, non c’è stata. Almeno fino al prossimo ottobre, quando, se non ci sanno novità Robin Lovitt tornerà a Hellsville. Informazione: Radio Maria, detenuti ascoltano i famigliari
Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2005
I detenuti non vanno in vacanza, e neanche la trasmissione di Radio Maria dedicata ai saluti dei loro familiari (Notturno "Il fratello"). La conduce,da anni, ogni sabato sera verso mezzanotte, Federico Quaglini. Quando qualcuno, scambiandolo per prete, lo chiama "padre", lui risponde, immancabilmente: "padre di due figli". Una certa risolutezza gli consente di troncare ogni situazione che accenna a dilungarsi o a finire tra le lacrime ("Non si piange"). A volte ci sono bambini che scambiano il conduttore per il loro papà, quando mamma gli passa il telefono: "Papà, papà... sei tu? Come stai?". Federico deve spiegare che "il suo papà sente ma non può rispondere". Molti chiamano dal sud. Napoli, Sicilia. Predominanza forse dovuta alla composizione della popolazione carceraria, forse a un’indole più incline a questo tipo di manifestazioni d’affetto. Il numero di persone che chiamano da Palermo è così alto che Federico a volte dice: "Questa è l’ultima telefonata da Palermo. Dalla prossima diamo spazio solo agli altri". Spesso qualcuno vuole salutare più persone. Una sfilza di "saluto a mio marito Carmelo, a mio figlio Antonio, a mio nipote Gennaro, a mio cognato Gandolfo"... Intere famiglie dietro le sbarre, e le donne sole a casa come in guerra. Il ritmo, dato il numero di persone che chiamano, è serrato, indiavolato. E comporta una mancanza di filtro. Qualche buontempone ne approfitta per bestemmiare in diretta. Federico non fa una piega, passa ad altro. Sentendo i nomi delle carceri, Ucciardone, Rebibbia, Opera, Poggioreale, si immagina gli istituti penitenziari appena nominati, immersi nel silenzio penoso di un caldo sabato notte estivo, risuonare di nomi e cognomi, voci femminili trepidanti, timidi saluti di bambini, magari tra problemi di frequenza, vicini di cella irridenti e chissà cos’altro. I condannati al carcere duro non possono ascoltare Radio Maria, a causa del totale isolamento, e dunque i familiari li salutano per interposta persona. Cioè mandano il messaggio di conforto nella speranza che qualcuno, ristretto meno rigorosamente, lo riferisca. Chiude la trasmissione un vecchio motivo, melodrammatico ma quanto mai pertinente. "Cancelli chiusi".
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