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Como: rumeno suicida in carcere, la procura indaga
Ansa, 8 settembre 2004
La Procura di Como sta indagando sul suicidio di un romeno di quarant’anni avvenuto un mese fa ma del quale si è avuta notizia soltanto adesso. L’uomo era stato arrestato lo scorso febbraio ed era in attesa di giudizio per violenza sessuale continuata sulla figlia oggi ventenne. A Como la Procura ha aperto un’inchiesta per accertare le effettive cause e circostanze della morte dell’uomo. L’accusato avrebbe lasciato uno scritto per spiegare come ormai non potesse più reggere il peso di una simile accusa. A denunciare l’uomo era stata la figlia, sostenendo di essere stata violentata ripetutamente sin da quando aveva 12 anni e si trovava ancora in Romania. A supporto delle sue accuse la giovane aveva fornito una cassetta audio. Il padre si difendeva sostenendo che la figlia lo aveva seguito volontariamente in Italia. In Romania era rimasta la prima moglie con altri figli. Secondo l’uomo, a scatenare la vendetta della figlia sarebbe stata la volontà di portare in Italia una seconda compagna. La Procura di Lecco, però, dopo aver raccolto la denuncia della figlia, aveva chiesto e ottenuto un provvedimento di custodia cautelare in carcere per l’accusato. Livorno: un altro suicidio, carcere nella bufera
Il Tirreno, 8 settembre 2004
Terza impiccagione in due mesi, più un nuovo tentativo sventato.La vittima doveva scontare una pena lieve. Blitz del provveditore toscano. Un altro detenuto trovato morto impiccato in una cella delle Sughere, nella sesta sezione. Più un altro tentativo di suicidio, sventato un’ora dopo dalla polizia penitenziaria, nell’ottava sezione. Il carcere livornese ha un problema. È un fatto, non un commento. E non era certo casuale ieri pomeriggio la presenza a Livorno di Massimo De Pascalis, provveditore regionale del Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), precipitatosi alle Sughere per capire cosa stia succedendo tra le mura di quell’istituto di pena dove si sono registrati tre suicidi nel giro di poco più di due mesi. Tre suicidi: tutti e tre trovati morti impiccati in cella. L’ultimo si chiamava Luigi Visconti, aveva solo 36 anni ed era stato appena trasferito alle Sughere dalla casa circondariale di Grosseto. Originario di Marano (in provincia di Napoli), Visconti doveva scontare una pena breve, otto mesi di reclusione per furto aggravato. Visconti, detto "Farenheit" (aveva la passione di rubare quella marca di profumo) era stato arrestato il 28 agosto dalla polizia ferroviaria di Grosseto, la stazione dove era sceso per cambiare convoglio dopo aver derubato una ragazza su un Intercity Torino-Roma. Gli avevano trovato addosso una ventina di compact disc, un cellulare e un po’ di soldi. Furto aggravato, patteggiamento e pena non sospesa per la violazione di un obbligo di dimora. Era "evaso" da Napoli, quindi quegli otto mesi doveva scontarli. Poi il trasferimento a Livorno, neanche una settimana fa. Aveva precedenti, Visconti, che conosceva il mondo carcerario. Non era un novellino, insomma. Ed era giovane. Eppure in quei pochi giorni alle Sughere ha maturato l’idea di togliersi la vita. Perché? Forse è questa una delle domande che si è fatto anche De Pascalis, ripartito in serata da Livorno "a bordo di un traghetto", ha detto. Diretto dove non si sa, lui che vive e lavora a Firenze. Visconti era recluso in una cella della sesta sezione del padiglione D, quello riservato ai detenuti comuni (150 reclusi). È stato ritrovato appeso a una corda legata all’inferriata della finestra del bagno. Una corda realizzata annodando strisce di un lenzuolo. La scoperta del cadavere è stata fatta alle 11, al rientro dei detenuti dall’ora d’aria. Visconti non era uscito, aveva detto di voler restare in brandina e pare che nessuno avesse dato peso alla cosa. Era arrivato da poco, doveva scontare soltanto otto mesi. Appunto. Ma quando i sorveglianti hanno fatto il giro delle celle per la conta, lui non ha risposto all’appello. Così un agente è entrato e lo ha visto, poco più in là. Era in bagno, i piedi sollevati da terra, il cappio che gli serrava la gola. Nessun ematoma, nessuna riga rossa sulla pelle: segno che era morto da poco tempo. Forse da pochi minuti. A quanto pare, aveva l’osso del collo rotto. In cella si è precipitato anche il medico del carcere, limitandosi a constatare il decesso. Più tardi anche il magistrato di turno, la dottoressa Paola Rizzo, accompagnata dal tenente dei carabinieri Fabio Imbratta. E anche De Pascalis ha varcato il cancello delle Sughere. Il provveditore non ha voluto rilasciare commenti, almeno per ora. Forse vuole prima capire. Capire perché si sia ucciso quel giovane, ovviamente. Ma soprattutto perché prima di lui abbiano fatto la stessa fine Carlos Requelme (il cileno di 50 anni presunto spacciatore, in attesa di giudizio, impiccatosi il 30 luglio con un sacco di nailon della spazzatura) e prima ancora Domenico Bruzzaniti (calabrese, 50 anni, 9 da scontare e un altro processo da affrontare, trovato il 29 giugno impiccato alla cintura elastica dei pantaloni in una cella del braccio di massima sicurezza). Le Sughere hanno un problema. Anche considerando i suicidi non portati a termine. Uno al giorno, secondo fonti interne al carcere. Come il giovane tossicomane che verso mezzogiorno - mentre tutti erano intorno alla salma di Visconti, nella sesta sezione - ha tentato di togliersi la vita allo stesso modo: impiccandosi in cella, nella sezione otto. Lo hanno fermato in tempo le guardie, per fortuna. Lui come tanti altri. Problema di numeri? Mancanza di strutture? O c’è di più? L’indagine interna avviata dal Dap punta a far luce su tutto. Certo i numeri assomigliano a quelli di tante carceri italiane. Capienza ottimale di 265 detenuti, a giugno gli ospiti delle Sughere erano 404 e in questi giorni il numero oscilla comunque intorno ai 370. Centodieci detenuti in più e quaranta guardie in meno rispetto alla scorsa estate. Da tre anni è questa la regola, mentre fino al 2001 non si era mai andati oltre il tetto dei 290. Tanti reclusi e poche guardie: ma anche pochi soldi. Il budget annuale del ministero di grazia e giustizia è di 19mila euro che, come disse tempo fa il comandante della polizia penitenziaria Emilio Giusti, "non bastano neanche a comprare le lampadine da sostituire nelle celle". Da circa un anno (dal 22 ottobre scorso) il carcere è diretto da una donna, Anna Carnimeo. In precedenza il penitenziario era diretto pro tempore da Pierpaolo D’Andria, già direttore di Porto Azzurro, subentrato a sua volta a Oreste Cacurri che partì in missione a Sollicciano il 12 luglio 2003, il giorno dopo la morte del detenuto Marcello Lonzi. Livorno: morte di Marcello Lonzi, no all’archiviazione
Il Tirreno, 8 settembre 2004
Niente archiviazione. Nello stesso momento in cui alle Sughere moriva un altro detenuto, il giudice delle indagini preliminari Rinaldo Merani respingeva la richiesta di chiudere un altro caso di morte in carcere. Il caso in questione è quello di Marcello Lonzi, il ventinovenne trovato morto nella sua cella la notte tra l’11 e il 12 luglio 2003. Un caso diverso, in cui il suicidio non c’entra. Un caso di cui non si è mai smesso di parlare anche per la tenace battaglia ingaggiata dalla madre di Marcello, Maria Ciuffi, nei confronti sia della polizia penitenziaria che della procura livornese. Lonzi era in carcere per una condanna a quattro mesi. Morì in un lago di sangue. I familiari vennero informati dodici ore dopo il decesso e nessuno li avvertì dell’autopsia alla quale non partecipò un perito di parte. Autopsia la quale stabilì che fu un infarto a uccidere il detenuto. Tanto che lo scorso 2 luglio il sostituto procuratore Roberto Pennisi chiuse le indagini e il fascicolo aperto a carico di ignoti per omicidio, suggerendo al gip l’archiviazione del caso. Il gip ieri mattina non ha accolto quella richiesta. Il giudice ha quindi fissato l’udienza in cui le parti dovranno comparire dinanzi a sé: il 10 dicembre. "Mio figlio non era un santo ma stava pagando il suo errore. Non doveva morire. Se qualcuno ha sbagliato, è giusto che paghi". Questo ha sempre detto e ripetuto la signora Ciuffi, rivolgendosi ai giornali e alle autorità, scrivendo ai ministri e anche al presidente Ciampi. Non è morto di infarto, ha sempre detto la donna. La sua è una convinzione di acciaio: "Marcello è stato pestato in carcere". Il suo grido d’accusa da alcuni mesi è stato raccolto da un noto avvocato napoletano conosciuto a Livorno il 14 maggio: Vittorio Trupiano. Il legale era in tribunale per difendere Paolo Dorigo, il veneziano irriducibile della lotta armata, presunto brigatista rosso. Dorigo era accusato di aver danneggiato le Sughere nella primavera 2002, Trupiano al contrario sosteneva che "lui è stato pestato da alcuni agenti nella sezione penale psichiatrica del carcere livornese". L’avvocato perfetto per la Ciuffi. E Trupiano si oppose subito alla richiesta di archiviazione chiedendo al giudice "di voler disporre nuovi accertamenti, anche autoptici sul corpo del Lonzi". L’avvocato rispolverò le foto di Marcello contenute del fascicolo del Pm, evidenziò "le tumefazioni da colpi inferti alla vittima". "Marcello Lonzi - concluse Trupiano - è stato prima ucciso dalle percosse ricevute e poi, forse ancora agonizzante, sbattuto ancor più violentemente col capo contro, si presume, le sbarre della sua cella". L’avvocato Trupiano: "Un piccolo passo verso la verità"
"È un piccolo passo verso la verità": così l’avvocato Vittorio Trupiano, legale della madre di Marcello Lonzi, commenta la decisione del tribunale labronico di arrivare a discutere dell’opposizione presentata all’ipotesi di archiviazione del fascicolo a carico di ignoti per omicidio. E "verità" è la parola chiave che Maria Ciuffi va ripetendo da quando, un anno fa, il suo unico figlio fu trovato cadavere in una cella delle Sughere dove era rinchiuso per una breve pena. Perché niente potrà ridarle Marcellino, ma solo la verità su cosa è accaduto davvero quel giorno di luglio potrà portarle un po’ di pace. "Tra i passi che faremo da qui al 10 dicembre - annuncia l’avvocato Trupiano - c’è anche l’acquisizione delle foto a colori del cadavere di Marcello Lonzi ripreso di schiena. Foto contenute nel fascicolo del tribunale che mostrano il corpo del ragazzo martoriato da colpi. Faremo gli ingrandimenti e le affiggeremo nei punti chiave della città, perché tutta la città deve sapere". È una procedura insolita, ammette Trupiano, ma - spiega Maria Ciuffi - "sarebbe una sconfitta per tutta Livorno se l’inchiesta sulla morte di Marcellino fosse archiviata". "Che si andasse al dibattimento non era scontato", sottolinea con forza l’avvocato Trupiano. Anche perché dopo il terzo suicidio in un mese e mezzo gli occhi di tutto il pianeta carcere sono puntati su Livorno. Tra l’altro, proprio agli inizi di luglio, i parlamentari diessini Cennamo, Siniscalchi, Carboni e Oliverio, hanno presentato un’interrogazione parlamentare su presunte violenze compiute, a danno di detenuti, nei carceri di Livorno, Prato, Parma e Napoli. I firmatari si sono mossi in seguito alla trasmissione radiofonica "Radio carcere" del 15 giugno scorso andata in onda su Radio radicale. Napoli: archiviazione per inchiesta su morte di Arturo Raia
Il Mattino, 8 settembre 2004
"Accompagnami nel bagno, ho bisogno di parlare". Carcere di Poggioreale, 8 gennaio. Un detenuto si confida con un altro recluso. È depresso, non riesce a prendere sonno. Scoppia in lacrime. Il tarlo di un’accusa gravissima lo tormenta, la prospettiva di una severa condanna non gli dà pace. "Mi ammazzo, mi impicco alla finestra", dice. Parlano per oltre quattro ore. L’amico lo tranquillizza, i due vanno a dormire. Ma il giorno successivo Arturo Raia, il pregiudicato di ventinove anni indagato per l’omicidio a scopo di rapina dello studente Claudio Taglialatela, viene trovato agonizzante nella cella d’isolamento dove era stato trasferito in mattinata a seguito di un litigio sotto le docce. L’articolata indagine della procura ha ricostruito così, anche attraverso alcune testimonianze, le ore che hanno preceduto la morte di Raia. Le conclusioni del pm Sergio Amato, accolte integralmente dal gip Fabio Dente, escludono qualsiasi giallo dietro il caso che destò profondo scalpore nell’opinione pubblica. Gli accertamenti svolti, argomenta il giudice, non hanno fatto emergere alcuna ipotesi penalmente rilevante, né sotto il profilo della istigazione al suicidio né tanto meno sul piano di un eventuale intervento di terze persone nella tragica fine del pregiudicato ventinovenne. Al contrario, dal racconto dei testi si delinea, ad avviso del giudice, il quadro di un Arturo Raia che, nonostante l’atteggiamento spavaldo ostentato al momento dell’arresto, era profondamente turbato dall’accaduto. L’uomo, spiegano i magistrati, aveva percepito l’estrema gravità della situazione ed era preoccupatissimo per le conseguenze che potevano derivarne. Raia fu fermato un mese dopo l’omicidio di Claudio Taglialatela dai carabinieri del Reparto operativo. Secondo gli inquirenti il pregiudicato, soprannominato "o pazzo", una lunga lista di precedenti sulle spalle, dalla rapina al tentato omicidio, era gravato da indizi assai consistenti. Ma va anche sottolineato che, davanti al pm Amato, Raia aveva negato energicamente qualsiasi coinvolgimento nell’omicidio del ventiduenne Claudio Taglialatela, ucciso a colpi d’arma da fuoco nella zona di corso Umberto. "Vi sbagliate, ero a casa a fare l’albero di Natale", aveva sostenuto tra l’altro. Tesi che avrebbe certamente ribadito anche nell’udienza di convalida del fermo che si sarebbe dovuta celebrare il giorno successivo alla sua morte. I familiari di Arturo Raia non hanno mai creduto alla versione del suicidio e, attraverso l’avvocato Giuseppe Ricciulli, si sono rivolti a un perito di parte. L’esperto ha sollevato una serie di perplessità che lasciano aperta la porta a soluzioni alternative, sostenendo fra l’altro che sul cadavere mancavano le unghiature sul collo provocate dall’istinto di sopravvivenza, di solito più forte anche della volontà di togliersi la vita. A favore della tesi del suicidio per impiccagione, sia pure atipico perché caratterizzato dal fatto che il corpo della vittima non risultava completamente sospeso, si era invece espresso il perito del pm. Il giudice Fabio Dente, nel suo decreto di archiviazione, non nasconde che a nessuna delle due ipotesi formulate dai periti può essere attribuita assoluta certezza, ma rimarca come la tesi del suicidio trovi conferma "al di là di ogni ragionevole dubbio" anche dalle testimonianze degli altri detenuti. Lo stato di turbamento attraversato da Raia può essere affermato, scrive il gip Dente, "con serena convinzione" e trova conferma anche nel litigio sotto le docce avvenuto il giorno dopo. Le verifiche hanno inoltre permesso di escludere che qualcuno sia entrato nella cella d’isolamento dove Raia era stato condotto dopo la lite e dove poi si sarebbe tolto la vita. Anche quando aveva chiamato un agente dicendo di non sentirsi bene, infatti, Raia non aveva manifestato alcun proposito suicida e pertanto il poliziotto lo aveva invitato ad aspettare l’arrivo dell’infermiere. Più tardi, annodando le lenzuola, si sarebbe ammazzato. Como: funerali per Sergio, morto in carcere per malasanità
La Provincia di Como, 8 settembre 2004
"Sergio aveva un cuore buono, e a rovinare il suo cammino sono state le cattive compagnie. Per questo ora dobbiamo batterci il petto, come famiglia, come società, come amici, per non averlo messo in guardia contro le strade sbagliate. Per questo ora è il momento del pentimento". Con queste parole, fatte risuonare ieri pomeriggio nella chiesa marianese di Santo Stefano, don Giovanni Montorfano ha invitato amici e parenti di Sergio La Scala, il giovane deceduto lo scorso 31 agosto nell’infermeria del carcere del Bassone a causa di un arresto cardiocircolatorio, a riflettere sulla tragedia, cercando di trarne un ammonimento per il futuro. Il ventottenne La Scala era detenuto presso il carcere comasco da poco più di un mese, in seguito a un movimentato episodio su un autobus di linea a Mariano, ma nelle parole del prevosto marianese - che ha concelebrato il rito insieme a don Lino Cerutti – c’è posto solo per l’invito a non condannare, a non ergersi censori di fronte a quel suo "gesto sbagliato", poiché "non tocca a noi giudicare. Giudice sarà solamente Dio". Un desiderio condiviso anche dalla famiglia affranta, che spera solo che il proprio caro sia finalmente riuscito a trovare quella pace che gli è mancata in vita, e non vuole che il ragazzo venga ricordato come il protagonista di una storia da prima pagina: "Ciao Sergio – comincia la lettera in sua memoria - parlando a te ci rivolgiamo alle tante persone che ti sono state vicine davvero, che ti hanno voluto bene e sanno chi è il vero Sergio La Scala. Dirottatore di pullman? No! Dirottatore di cuori, perché hai solo potuto strappare il cuore a tutti noi per la tua improvvisa mancanza. Sergio, noi ti saremo sempre vicini e tu ci proteggerai come hai fatto. Solo per questo noi andremo avanti, lasciando da parte il dolore della tua morte. La tua mancanza non avrà mai fine. Ti amiamo tutti". Il grande dolore per la perdita del ragazzo, però, non riesce a spazzare via il desiderio di conoscere la verità riguardo alla dinamica del suo decesso. E mentre la magistratura ha aperto un’inchiesta, gli amici invocano chiarezza e promettono che non lasceranno cadere nel dimenticatoio questa vicenda una volta concluso il clamore. "Nel corso dell’ultima settimana che ha preceduto la sua morte Sergio mi aveva scritto di sentirsi male" dichiara l’amico che con lui ha condiviso epistolarmente il periodo della carcerazione e che si dice incapace di sopportare tanto dolore. Ancor più dure le accuse di M.P, ex detenuto del Bassone dalla fine di agosto: "Le condizioni della sanità all’interno del carcere sono vergognose. Per qualsiasi malanno ci vengono dati gli stessi due farmaci e per ottenere una visita con il chirurgo bisogna aspettare dei mesi. Sergio stava bene, si allenava per il prossimo torneo di calcetto. Quello che è successo può capitare ad ognuno dei carcerati". Droghe: Ddl Fini; Radicali e Comunità Saman dicono no
Ansa, 8 settembre 2004
"Se la destra andrà fino in fondo troverà una forte opposizione antiproibizionista come quella che accompagnò la campagna referendaria del 1993". Così l’esponente radicale Giulio Manfredi commenta l’annuncio del sottosegretario all’interno Alfredo Mantovano di una approvazione della legge Fini sulla droga entro il 2005. "Spero Mantovano si sbagli - ha concluso Manfredi - anche perché a mio parere il ddl è solo sbandierato dalla destra e da Fini per motivi di propaganda". Preoccupato di fronte all’ipotesi di un’approvazione della legge si dice Achille Saletti, responsabile della Comunità per il recupero dei tossicodipendenti Saman. "Se lo vogliono hanno i numeri per portare a termine l’iter legislativo, ma si aprirebbe per l’Italia un periodo di carcerazioni e di grossi problemi. I disagi più grandi riguarderanno non tanto i consumatori abituali quanto quelli sporadici". Saletti ha infine sottolineato come un grosso limite all’applicazione della legge sarà la mancanza di adeguate coperture economiche, che possano sostenere la nuova realtà che i centri di recupero dovranno affrontare. Droghe: Mantovano, spinello 30 volte più forte che in passato
Ansa, 8 settembre 2004
"Oggi lo spinello ha al proprio interno una percentuale di principio attivo, cioè quello che determina l’effetto drogante, 10, 20, 30 volte superiore al passato". Lo ha detto il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano a margine di un incontro alla Festa Tricolore di Mirabello nel quale ha parlato del disegno di legge Fini sulla droga insieme al direttore del Dipartimento antidroga presso la Presidenza del Consiglio, Nicola Carlesi. "Dunque - ha continuato Mantovano - è difficile dire che lo spinello fatto in questa maniera fa meno male di una sniffata di cocaina". Insomma, l’esponente di An ha ribadito la linea da sempre sposata dal partito di Fini: "Non esistono differenze sostanziali fra droghe pesanti e droghe leggere: la droga fa male sempre e comunque". Mantovano ha risposto anche a quelli che negli anni hanno parlato di un uso terapeutico di alcune droghe: "Questi scienziati dovrebbero però documentare questa affermazione, posto che la comunità scientifica, quella seria, ogniqualvolta si è pronunciata ha sempre dato avvisi diversi. E purtroppo - ha chiuso Mantovano - la cronaca quotidiana è fatta per esempio di incidenti stradali e mortali inspiegabili in modo diverso. La droga fa male sempre e comunque". Droghe: Ddl Fini; Corleone, sarà una bella battaglia
Ansa, 8 settembre 2004
"Mi auguro che quella di Mantovano sia una previsione incauta": Franco Corleone, ex sottosegretario alla giustizia e presidente del Forum droghe, spara a zero sul ddl Fini sulle tossicodipendenze e annuncia battaglia. "È la legge peggiore del mondo - esordisce - peggiore anche della Iervolino - Vassalli del 1990", un testo, afferma, "antiscientifico, sanfedista, proibizionista, contro il giusto processo, contro l’autonomia delle Regioni" il cui "vero autore", precisa, non è il vicepresidente del Consiglio ma proprio Mantovano. Una legge che, aggiunge Corleone, "considera spacciatore il consumatore che possiede 251 milligrammi di canapa". Certo, aggiunge, i tempi tecnici per approvarla entro il 2005 ci sarebbero, ma "sarebbe un colpo di mano". Corleone si augura invece che il ddl sia esaminato "approfonditamente" in commissione al Senato, dove probabilmente approderà a ottobre. E questo, precisa, porterà via molto tempo, prima di Natale è difficile che la commissione possa licenziare il testo. Poi, deve passare al vaglio della Camera, ma è difficile che questo avvenga prima della primavera 2005, quando ci saranno le elezioni regionali, il cui risultato, secondo Corleone, non potrà non influire sulla discussione della legge. Insomma, "sarà una bella battaglia" preannuncia Corleone, che proprio nel luglio scorso ha messo su, insieme ad altre personalità "di vari schieramenti come Marco Taradash, Alfredo Biondi, Massimo Teodori", l’associazione "La società della ragione". Obiettivo: "raccogliere energie liberal contro una visione punitiva" del problema droga. Droghe: Sestini; Ddl Fini entro 2005 se c’è volontà politica
Ansa, 8 settembre 2004
Approvare il ddl Fini sulle tossicodipendenze entro il 2005? È possibile, secondo il sottosegretario al welfare, Grazia Sestini, "basta metterlo come priorità". Sestini ricorda che il provvedimento deve ancora cominciare il suo iter in Parlamento, e che l’unica decisione presa prima delle vacanze è stata quella di inviarlo prima in Senato, "dove sarà quasi sicuramente attribuito alla prima commissione, visto che molti aspetti del problema sono di pertinenza degli interni". Ma "c’è da parte dei gruppi parlamentari la volontà politica di approvarlo entro l’anno prossimo, tecnicamente ce la si può fare". Certo, aggiunge, si tratta di un "provvedimento complesso", e quindi "non sarà semplice". Quanto all’idea di istituire un Ministero ad hoc per la lotta alle tossicodipendenze, di cui si è parlato ad agosto, Sestini si dice perplessa: "non è necessario - afferma - e poi abbiamo il sottosegretario Mantovano che è bravissimo e molto competente in questo campo". Droghe: Ddl Fini; Capezzone, Mantovano? spero in cani poliziotto
Ansa, 8 settembre 2004
Il ddl Fini sulla droga è "assurdo, inapplicabile, illiberale". Daniele Capezzone, segretario dei Radicali italiani ne è convinto e confida "nei cani poliziotti", affinché alla fine convincano anche il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, che annuncia il via libera al provvedimento entro il 2005. "Il sottosegretario Mantovano - afferma Capezzone - annuncia tempi serrati per un ddl che, non dimentichiamolo mai, sbatterebbe in galera (con la sola alternativa della comunità di recupero) chiunque fosse trovato in possesso di sei-sette spinelli. Confesso di confidare, più che nella saggezza dei politici, in quella dei cani-poliziotto: se il ceto politico italiano di centro destra e di centro sinistra avesse solo un po' della loro intelligenza ed esperienza, scoprirebbe che questa norma, prima ancora che illiberale, è assurda, inapplicabile, pazzesca". "Affidiamoci, dunque, ai cani lupo - conclude Capezzone - forse, prima o poi, convinceranno anche Mantovano...". Agenti di custodia: domani sit-in a Regina Coeli
Il Messaggero, 8 settembre 2004
"Qualche politico ha dichiarato di voler costruire altri venticinque istituti di pena. Ma con quale agenti?". Nicola Maselli, vicesegretario del Sap Lazio, spiega così la protesta prevista per domani mattina davanti a Regina Coeli. Gli agenti penitenziari manifesteranno chiedendo interventi urgenti al ministero per fronteggiare l’emergenza del carcere romano. Maselli parla di una situazione ingestibile: "Una pianta organica di 620 agenti, di fatto 111 sono distaccati presso la presidenza del Consiglio, la Cassazione e il Dap, 120 destinati al nucleo traduzioni e piantonamento, 70 prestano servizio negli uffici dello stesso penitenziario. Attualmente gli assistenti si trovano a svolgere mansioni superiori di capo reparto. Conclusione: turni di 24 ore per chi è in servizio e le ferie a rischio - spiega Maselli - in caso di rivolta non possiamo fronteggiare la situazione. Abbiamo bisogno di unità di supporto". Venezia: 28.000 euro per 9 mesi di ingiusta detenzione
Il Gazzettino, 8 settembre 2004
Un risarcimento di 28mila euro per nove mesi trascorsi in carcere in relazione ad un’accusa per la quale è stato poi assolto. È la somma che la Corte d’Appello di Venezia ha accordato ad un veronese di 30 anni, James Casagrande, sospettato di far parte della banda dei giostrai che ha messo a segno numerose rapine in Veneto e Friuli tra il 1994 e il 1997. Casagrande era finito in manette nel febbraio del 1998 assieme ad altre undici persone, nell’ambito di una maxi-inchiesta condotta dai carabinieri del Reparto operativo di Venezia. Secondo i militari dell’Arma si trattava di una banda pericolosa e cruenta che, dopo aver preso di mira parroci di campagna e anziani, ristoranti e agenzie di cambio, aveva iniziato a colpire banche e gioiellerie. Rapine a mano armata con modalità sempre uguali: pistole semiautomatiche, mitragliette Skorpio e Spektra, auto station wagon, Volvo in particolare (sul bagagliaio prendeva posto il "palo", con arma lunga, per coprire la fuga in caso di inseguimento), esercitazioni di tiro in poligoni artigianali sulle grave del Piave e nel Bassanese, estrema violenza nell’azione. A James Casagrande veniva contestata la partecipazione ad una sola rapina. Il processo, celebrato davanti alla prima sezione del Tribunale di Venezia, si è concluso nel giugno del 2002 con pesanti condanne. Casagrande, detto "Mose", è stato invece assolto per non aver commesso il fatto, con sentenza diventata irrevocabile nel gennaio del 2003. Il suo difensore aveva chiesto un indennizzo di 129 mila euro per l’ingiusta detenzione subita. Procura generale e Avvocatura di Stato hanno dato parere favorevole al risarcimento, ma per un importo minore, quello normalmente accordato in casi del genere: 100 euro al giorno per il periodo trascorso in carcere e 50 per quelli passati ai domiciliari. Il conto finale della Corte (presidente Giacomo Rodighiero, a latere Umberto Zampetti e Luigi Lanza) è risultato di 28 mila euro, oltre a 800 euro di spese legali. Cosenza: che fine hanno fatto i lavori al carcere?
Quotidiano di Calabria, 8 settembre 2004
L’avvocato Pietro Perugini ha reso noto ieri il testo di una lettera aperta indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Jole Santelli. "Le cronache politiche di questa estate - scrive Perugini - hanno dato ampio spazio al tema dell’istituzione di un’autonoma Corte d’appello nella provincia di Cosenza e all’iter parlamentare che, al momento, escluderebbe questa possibilità. Anch’io mi unisco a quanti sostengono l’esigenza d’istituire nella nostra provincia un’autonoma Corte d’appello e i motivi, ampiamente spiegati da tutti coloro che sono già intervenuti sull’argomento, non sono di carattere campanilistico, ma rispondono unicamente all’esigenza di assicurare una efficiente amministrazione della giustizia nei nostro territorio provinciale". Pietro Perugini, quindi, sollecita l’attenzione del sottosegretario Santelli su un altro argomento di vibrante attualità: la ristrutturazione del carcere di Cosenza. "Sono trascorsi, ormai, due anni dalla sua chiusura - ricorda l’avvocato Perugini - e la prospettiva di riapertura della struttura penitenziaria cosentina è lontana, anzi lontanissima: in due anni è stato fatto ben poco rispetto alle promesse iniziali. Mi rendo conto che il mondo dei reclusi, delle loro famiglie e dei loro diritti interessa a pochi, ma desidero, con forza, chiedere un suo autorevole intervento affinché i lavori programmati venivano eseguiti con celerità. Spero che la ristrutturazione del carcere di Cosenza non rappresenti l’ennesima incompiuta dei lavori pubblici del nostro Paese". Castrovillari: deputati soddisfatti di visita casa circondariale
Quotidiano di Calabria, 8 settembre 2004
Parlamentari in visita al carcere di Castrovillari. Come annunciato, Enrico Buemi, Presidente del comitato carceri commissione Giustizia e i deputati Giacomo Mancini e Mimmo Pappaterra, si sono recati, ieri mattina, presso l’istituto di pena della città del Pollino, nell’ambito di una iniziativa nazionale che vede al centro della discussione parlamentare l’edilizia carceraria e la condizione di vivibilità dei detenuti allo scopo di ricercare le soluzioni più adeguate ed approvare una riforma atta a fronteggiare le varie situazioni. Sono le 11 circa e i parlamentari giungono davanti ai cancelli della casa circondariale, da lì a poco visteranno la struttura. Al termine della visita, abbiamo rivolto loro alcune domande. Dalla chiacchierata è emerso un dato molto importante: tra le strutture girate in tutta Italia quella di Castrovillari è risultata una delle migliori, per umanità, ordine, efficienza e condizioni di vivibilità. Durante la mattinata, Mimmo Pappaterra ha ringraziato Buemi e Mancini, per aver visitato anche la casa circondariale del Pollino, "la cui impressione- ha ricordato- è stata positiva perché ben diretta, ben custodita, con una qualità della vita interna, dignitosa ed accettabile. Inoltre, il deputato dello Sdi, ha ringraziato il direttore Rizzo per aver fornito una serie di elementi che potranno essere utili ai parlamentari nella relazione finale che faranno". La parola, poi, ad Enrico Buemi, a giudizio del quale, il carcere di Castrovillari si distingue, rispetto ad altri già visitati al nord e al centro della Penisola, per svariate qualità e, dunque, come modello positivo: "siamo stati abituati - ha detto Buemi a tal riguardo - ad una visione della realtà italiana piuttosto negativa questa è, invece, una specie di lampadina che si accende nel buio e che dimostra come è possibile avere, seppure in una realtà difficile come quella del sud, uno specifico di qualità. Il carcere è sempre il carcere- ha proseguito il parlamentare- purtroppo per le modalità in cui si vengono a trovare gli esseri umani, siano essi detenuti, operatori o agenti della polizia penitenziaria. Questo di Castrovillari è però un istituto che da una concezione palpabile di umanità, di pulizia, di ordine, di efficienza, e queste sono cose importanti, laddove ci sono molti individui che devono essere, rispettati, considerati, che non sono numeri ma esseri umani, con le loro problematiche". Una realtà, quella castrovillarese, che li considera. E questo, aggiungiamo noi, è un dato molto significativo. Nelle prossime settimane i deputati visiteranno la Sicilia, la Puglia e la Campania. Un altro fattore positivo a dire di Buemi è che nella città del Pollino ci siano stati buoni direttori prima, c’è un buon direttore oggi, ci sono operatori e agenti della polizia penitenziaria che fanno bene il loro lavoro, è anche la costruzione è buona. In rappresentanza dell’ordine degli avvocati, ha partecipato Gianni Grisolia, per dare l’attestato di presenza del consiglio ed anche per tutte le problematiche che ci potranno essere nel futuro e per le segnalazioni che dovranno essere fatte, in vista, anche, delle future strutture giudiziarie che si dovranno edificare a Castrovillari: "abbiamo creato questo aggancio con il Presidente Buemi - ha dichiarato Grisolia - lo terremo in vita anche per il futuro e per il bene della città". Il carcere di Castrovillari, ricordiamo, è stato costruito nel 1984 (quando lo stesso Grisolia era sindaco) partito e collaudato poi nel 1995. Non è un super carcere, ma un istituto di pena normale. Sull’iniziativa di ieri, Giacomo Mancini ha ricordato come: "sia dovere dei parlamentari essere presenti e consapevoli di ciò che succede all’interno degli istituti di pena che sono parte integrante del territorio. All’interno delle carceri - sussistono problematiche diverse che devono essere affrontate con la consapevolezza che la pena deve tendere alla rieducazione del cittadino che commette il reato. Non sempre è così, fortunatamente il carcere di Castrovillari rappresenta un modello positivo. Gli spazi sono ampi, le condizioni di vivibilità non sono allarmanti, come in altri istituti". Sulla questione a livello nazionale allora cosa bisognerà fare? "Ritengo - ha detto Mancini - che il legislatore e il Governo, debbano svolgere un lavoro di attenzione, di ispezione ma anche di intervento. Il Governo della destra avrebbe dovuto fare molto di più". Cremona: detenuti a lezione con i vigili
La Provincia di Cremona, 8 settembre 2004
Articolo 27 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Già, la rieducazione del condannato, il pilastro di un esperimento che ha coinvolto il carcere di Cà del Ferro, il comando della polizia municipale e i volontari dell’associazione Zona Franca. Sessantaquattro detenuti sui 350 reclusi, non selezionati, italiani e stranieri, hanno studiato le modifiche apportate al codice della strada: dalla rivoluzione della patente a punti all’obbligo del ‘patentino’ per i motorini, alle conseguenze penali e civili della guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di stupefacenti. C’è stato un interessamento curioso, approfondito da parte di chi sta dietro le sbarre, persone che un giorno (chi prima, chi poi) la società dovrà ri-accogliere, padri di famiglia preoccupati dalle stragi del fine settimana. Suddiviso in otto lezioni per due ore ciascuna, il seminario, partito in sordina il 20 agosto (domani ultima lezione), ha avuto un successo così grande che ieri, nel comando della polizia municipale è stato illustrato in conferenza stampa. Intorno al tavolo, Maria Gabriella Lusi, direttrice reggente della casa circondariale, Roberto Re, comandante della polizia penitenziaria, il presidente di Zona Franca Alessio Antonioli, l’assessore alla polizia municipale Caterina Ruggeri, il comandante dei vigili Franco Chiari, il vice Pieri Luigi Sforza, i vigili ‘docenti’ Roberto Ferrari e Annibale Rizzi, entusiasti dell’esperienza sia professionale, sia, soprattutto, umana. L’assessore Ruggeri ha sottolineato l’importanza di avvicinare il carcere il più possibile alla città "perché il carcere non è una realtà a sé, ma fa parte della vita di questa comunità". L’idea è nata nell’ambito dell’attività del vigile di quartiere. "Oggi il vigile ha un ruolo attivo e partecipativo nella vita del territorio, per ristabilire relazioni", ha detto il comandante Chiari. "Nonostante le risorse non siano molte" per la direttrice Lusi "il carcere può e deve fare molto, ma da solo non può fare nulla. Ha bisogno della comunità esterna sia per le attività interne (a Cà del Ferro è tra l’altro in funzione una falegnameria) sia per quelle esterne". Il comandante Re è tornato sulla funzione rieducativa della pena: "Il carcere deve insegnare il rispetto delle regole e se deve restituire persone migliori, passaggio obbligato è la legalità". E ha sottolineato come le attività che si svolgono in carcere (anche l’istruzione scolastica), grazie anche al lavoro dei volontari di Zona Franca, ha rasserenato gli animi dei detenuti "tanto che sono diminuiti gli atti critici, come l’autolesionismo". Coinvolgere i detenuti nelle diverse attività organizzate da Zona Franca (culturali, corsi formativi di teatro e di musica) perché, una volta all’esterno, non si sentano degli "extraterrestri". È lo scopo dei volontari dell’associazione presieduta da Antonioli, per il quale "chiudere la porta e gettare via la chiave non serve a nessuno, tanto meno alla società che, prima o poi, deve accogliere i detenuti". A pagina 6 di "Libertà dietro le sbarre" (Rizzoli, 278 pagine, prezzo 16 euro) Candido Cannavò scrive: "Il carcere fa parte di questa società, come le scuole, le chiese, gli ospedali.... Un giorno questa gente lascerà il carcere. È meglio accogliere cittadini recuperabili o relitti senza speranza? Le famose garanzie di sicurezza che tanta gente invoca passano anche per questo dilemma al quale una società organizzata dovrebbe saper rispondere nella maniera più ovvia e più utile, senza coprirsi gli occhi".
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