Rassegna stampa 14 settembre

 

Padova: cronaca di una morte forse evitabile

 

L'altra notte un detenuto di nome Paolo è morto nella sua cella del carcere "Due Palazzi". Lo hanno portato via in una bara "istituzionale", messa a disposizione dal Comune, perché all'esterno del carcere non aveva nessuno ad occuparsi di lui. Riviviamo le ultime ore di Paolo attraverso il racconto del suo compagno di cella, Graziano Scialpi.

 

"Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere"

 

Non conoscevo Paolo. Non eravamo amici. È "entrato" nella mia vita nel pomeriggio di giovedì 9 settembre. Il mio compagno di cella era stato appena spostato al quinto piano, quello dei lavoranti, e rientrando dalla redazione, due ore dopo, ho trovato Paolo come mio nuovo coinquilino.

Non conoscevo Paolo. Non abbiamo avuto modo di conoscerci, sia per la brevità del tempo che abbiamo condiviso, sia perché la nostra convivenza è iniziata in un momento poco propizio. Quel giorno avevo appena saputo che il martedì successivo avrei dovuto sostenere un esame universitario e la mia testa era concentrata solo su quello. Per cui, dopo averlo fatto accomodare e sistemare, mi sono scusato con lui per la scarsa attenzione che avrei potuto dedicargli per qualche giorno. Lui non ne ha fatto un problema, anzi, quando studiavo cercava di disturbarmi il meno possibile.

Però, anche se poco, qualcosa so di lui. Appena è entrato in cella mi è sembrato che fosse un "pesce fuor d’acqua". Impressione che ha trovato conferma quando mi ha spiegato che stava scontando tre mesi per resistenza a pubblico ufficiale: avrebbe dovuto tornare in libertà il 14 ottobre. In secondo luogo mi sono reso conto che non "era messo bene", nel senso che non aveva fonti di sostegno o qualcuno che lo seguisse nella carcerazione. Infine ho capito che aveva notevoli problemi a livello fisico. Ma in quel momento pensavo di avere tempo per approfondire la conoscenza, tutto il tempo della galera. Perciò mi sono informato con delicatezza, per non ferire il suo orgoglio, se avesse bisogno di sigarette o di qualcos’altro di essenziale, rinviando offerte di aiuto più sostanziali a quando avremmo avuto maggiore confidenza. Lui mi ha assicurato che aveva tabacco a sufficienza, insistendo anzi per contribuire alla spesa con i pochi euro di cui disponeva. Ma non ho avuto il tempo di fare di più. Sabato mattina (11 settembre), dopo aver bevuto il caffè insieme a me, Paolo si è vestito e, trascinando la gamba sinistra, è andato nella saletta ricreativa, dove è possibile trascorrere le ore d’aria, mentre io sono restato in cella a studiare.

Ma, dopo nemmeno mezz’ora, è ritornato, dicendo di non sentirsi bene. Dopo essersi steso sulla branda, si è alzato di scatto ed è corso in bagno, squassato da conati di vomito. Iniziando a preoccuparmi, gli ho chiesto cosa sentisse, se aveva male di stomaco. Lui mi ha risposto che sentiva i "sudori freddi", che stava molto male, ma che non era lo stomaco. Rendendomi conto della sua sofferenza, ho chiamato l’agente in servizio al piano, spiegandogli che il mio compagno si sentiva molto male. Dopo aver chiesto l’autorizzazione per telefono, l’agente è tornato per informarsi se Paolo ce la faceva a scendere all’infermeria da solo. Io mi sono offerto di accompagnarlo, ma lui ha declinato l’aiuto e si è avviato al piano terra, trascinando la gamba malata. Dopo una ventina di minuti è ritornato in cella. Gli ho chiesto cosa gli avesse riscontrato il medico e lui mi ha risposto: "Mi ha fatto un’iniezione, mi ha dato delle gocce e mi ha detto di mangiare in bianco". Quindi si è steso sulla branda girandosi e rigirandosi senza trovare pace. Dopo qualche momento si è rialzato chiedendomi se gli avrebbe fatto bene mangiare una mela.

Io gli ho risposto: "Male non può farti". Si è alzato, ha mangiato una mela, poi mi ha chiesto una sigaretta, perché non ce la faceva ad arrotolarsene una. Terminata la sigaretta, l’ultima sigaretta, si è di nuovo steso sulla branda, girandosi e rigirandosi, incapace di trovare una posizione che gli desse un po’ di sollievo. Dopo qualche minuto si è addormentato all’improvviso, girato sul fianco destro, in posizione fetale. Subito ha iniziato a russare forte e il suo respiro era sofferente, intervallato da apnee di dieci - quindici secondi. Per un attimo ho pensato di svegliarlo, ma poi ho preferito farlo riposare, nella speranza che il sonno lo aiutasse a riprendersi, anche perché sapevo che quel tipo di disturbo è frequente nei russatori. Ma il mio istinto mi diceva che qualcosa non andava perché, mentre studiavo, ho iniziato a contare mentalmente i secondi che duravano le sue apnee. È andata avanti così per una decina di minuti, finché il respiro si è interrotto per 15, 30, 45 secondi. Ho alzato gli occhi e l’ho guardato, cercando un segno che avesse ripreso a respirare senza che me ne fossi accorto, ma Paolo era immobile e i secondi passavano sempre più veloci.

Mi sono alzato gli sono andato vicino e l’ho chiamato, ho urlato il suo nome più volte, scuotendolo per un braccio. Poi gli ho tastato il collo, cercando un battito che non c’era. Mi sono affacciato alla porta della cella, gridando all’agente che era lì vicino di chiamare il medico, perché il mio compagno aveva smesso di respirare. Quindi sono tornato da Paolo, gli ho steso le gambe e ho iniziato a praticargli il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. La seconda volta che ho soffiato, dalla sua bocca è uscito un fiotto di rigurgito liquido. Nel frattempo l’agente ha aperto la porta della cella, permettendo di entrare a due lavoranti che si trovavano in sezione. Insieme abbiamo tirato giù dalla branda Paolo, adagiandolo sul pavimento di cemento nudo. Dopo averlo tenuto per qualche momento girato sul fianco, per permettere ai suoi polmoni pieni di liquido di spurgarsi, sono ripresi sempre più frenetici il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, i pugni sullo sterno, mentre altri detenuti si accalcavano sulla porta della cella, affannandosi a dare consigli del tipo: "fagli bere un po’ d’acqua", "tiragli su le gambe", "mettigli un po’ di aceto sotto il naso". Nessuno voleva accettare la realtà tragica della situazione, tutti preferivano pensare che era solo un malore e che Paolo si sarebbe ripreso. Dopo un’eternità, i cinque - sette minuti che sono necessari a percorrere il tragitto dall’infermeria al terzo piano, è arrivato il medico, ha auscultato il muto petto di Paolo e ha dato ordine di metterlo sulla barella. Mentre i ragazzi sollevavano il corpo, il medico ha guardato nel nulla del muro bianco di fronte a sé, mormorando: "Lo avevo visto cinque minuti fa…". Poi sono partiti verso l’infermeria.

 

Paolo è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto

 

Di Paolo in cella sono rimaste la macchia del rigurgito polmonare sul pavimento, la chiazza sulle lenzuola "di casanza" provocata dal rilassamento della vescica e le sue povere cose che, due ore dopo, ho dovuto mettere in un sacco nero di plastica e consegnare a magazzinieri meravigliati di quanto poco possedesse.

Qualcosa so di Paolo. So che aveva lavorato per 25 anni come verniciatore, emigrando anche in Germania, e che i solventi gli avevano corroso i polmoni, rendendolo invalido. So che aveva avuto un grave incidente che lo aveva sciancato, facendogli trascinare la gamba e costringendolo a fare iniezioni per il mal di schiena. So che viveva da solo perché aveva divorziato da poco e l’evento lo aveva fatto soffrire parecchio. So che aveva due figli piccoli che non lo conosceranno. Proprio venerdì sera, non so come, il discorso era caduto sulla morte e lui mi aveva detto: "A me interessa vivere solo finché i miei figli saranno maggiorenni".

Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe mai dovuto entrare in carcere per una condanna di tre mesi. So che, con le patologie di cui soffriva, non avrebbe dovuto finire in carcere nemmeno con una condanna a tre anni. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere.

Ma perché è morto Paolo? Puntare il dito solo sulle inefficienze del sistema medico carcerario e sui tagli che da tre anni a questa parte si abbattono sulla sanità penitenziaria sarebbe sin troppo facile e scontato.

Paolo è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto. È morto perché forse il suo avvocato non ha ritenuto remunerativo preparare le tre - quattro carte che gli avrebbero facilmente evitato di finire dentro. È morto perché non si chiamava Tanzi e quindi non meritava una veloce corsa in ospedale al minimo accenno di malore. È morto perché l’opinione pubblica, che è formata da poveracci come lui, continua a sostenere un sistema dove i ricchi, i potenti e gli ammanicati sono "più uguali degli altri". È morto perché la stragrande maggioranza della nostra società civile soffre di una comoda presbiopia congenita che la fa reclamare e acclamare solo per i problemi distanti, molto distanti, possibilmente oltremare, perché cominciare a salvare le vite sottocasa sarebbe indegno, troppo poco nobile, perché significherebbe sporcarsi le mani sul serio.

È morto anche per causa mia. Perché non ho dato retta al mio primo istinto che mi spingeva a svegliarlo quando forse non era ancora troppo tardi. La differenza è che il mondo continuerà a ignorare Paolo, che ormai è solo un numero di una statistica, mentre io per il resto dei miei giorni sarò tormentato dal dubbio se avrei potuto salvarlo e per il resto dei miei giorni i suoi occhi sbarrati e privi di vita continueranno a osservarmi, rivolgendomi la loro silenziosa domanda: perché?

Giustizia: Pecorella e Finocchiaro, sbloccare Ddl condivisi

 

Ansa, 14 settembre 2004

 

Effetto Iraq sulla giustizia: dopo l’incontro di Palazzo Chigi per salvare la vita alle due Simone, le prove di dialogo tra maggioranza e opposizione si sono aperte anche sulla giustizia nel teatro della Festa dell’Unità di Genova, dove sono stati invitati a confrontarsi il forzista Gaetano Pecorella e la diessina Anna Finocchiaro.

La proposta "forte" è venuta dal presidente della commissione Giustizia della Camera che ha proposto alla sua interlocutrice di sbloccare l’iter parlamentare di tutti i disegni e le proposte di legge sulla giustizia che giacciono da tempo in Parlamento "vittime" della polemica politica tra i due poli. La proposta è stata senz’altro accolta dalla responsabile Ds per la Giustizia che ha però ribadito che sui disegni di legge "politici" come quello sull’ordinamento giudiziario le opposizioni non faranno nessuno sconto al centrodestra.

Pecorella ha elencato una serie di leggi e leggine che possono essere subito liberate dagli scaffali parlamentari perché sono "sostanzialmente condivise dai due schieramenti vista l’indiscussa utilità per i cittadini". L’esponente di Forza Italia ha fatto l’esempio della nuova legge sui condomini, settore che registra una elevatissima conflittualità, e le cui regole vanno snellite.

Ma ha poi fatto accenno anche alla riforma del codice di procedura civile, alla legge sui fallimenti e all’ordinamento delle professioni. "Sono tutte iniziative - ha spiegato - che possono migliorare il funzionamento della giustizia al servizio del paese. Basta sbloccare il muro di incomprensione che si registra su norme sostanzialmente condivise e in qualche caso ovvie".

La Festa dell’Unità ha così fatto registrare un passo avanti tra maggioranza e opposizione e non è escluso che in Parlamento il ‘patto’ sottoscritto questa sera non possa essere davvero attuato. Al termine del confronto Gaetano Pecorella ha detto ai giornalisti di aver registrato per la prima volta "una simile apertura" e di nutrire per l’immediato futuro ottime aspettative.

Il confronto alla Festa dell’Unità tra i due esponenti politici non ha fatto però registrare passi avanti sui grandi temi della giustizia. Distanti sono rimaste le posizioni sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, sul mandato di cattura europeo e sul ruolo del Pm. Ma ai giornalisti Pecorella ha ammesso: "L’ordinamento giudiziario è ormai in dirittura di arrivo e la sua approvazione contribuirà a rasserenare il clima tra maggioranza e opposizioni".

Lecco: il carcere cittadino è tornato in attività

 

La Provincia di Como, 14 settembre 2004

 

Prima gli agenti della polizia penitenziaria e, da ieri, anche il direttore e i detenuti. Il carcere di Pescarenico ritorna ad essere il carcere di Lecco a tutti gli effetti anche se per vederlo a pieno regime si dovrà attendere un periodo compreso tra il prossimo ottobre e buona parte del 2005. Quando tutto sarà ottimizzato fin nei minimi dettagli a Pescarenico dovrebbero arrivare una sessantina di detenuti per reati comuni. I primi sei sono quelli tradotti dalle carceri di Como e di Monza nella giornata di ieri mattina. Luigi Pagano, ex direttore di San Vittore e provveditore dell’amministrazione penitenziaria in Lombardia, ci ha detto che "ieri a Lecco sono stati trasferiti i primi le prime sei persone che trascorreranno a Pescarenico i pochi mesi mancano dalla fine della pena, prevista entro l’anno". I detenuti sarebbero stati condannati per reati comuni e la loro presenza a Lecco è stata organizzata anche per portare a termine le opere di completamento del carcere cittadino. La giornata di ieri è stata quindi contraddistinta dalla riapertura del penitenziario cittadino chiuso dal giugno del 2000 prima di essere sottoposto alle indispensabili opere di ristrutturazione costate circa sei milioni di euro. Ma ieri è tornato anche a Lecco il direttore del carcere che sostituirà a tutti gli effetti Caterina Zurlo, l’ultima responsabile di Pescarenico prima della chiusura. Si tratta di Cristina Piantoni, bresciana, da un paio d’anni vice direttore di San Vittore, già direttore del penitenziario di Trento dal 1997 al 2002.

Un particolare curioso: il nuovo direttore aveva già fatto la conoscenza di Pescarenico durante due mesi del 1992, quando ha dovuto sostituire il titolare in missione altrove. La sua è una destinazione definitiva, a disposizione del direttore c’è un appartamento rinnovato come il resto dell’immobile. Ieri il primo approccio della dottoressa Piantoni che si è detta "estremamente soddisfatta per essere stata nominata direttore del carcere di Lecco. Malgrado la struttura fatiscente che ho avuto modo di conoscere durante la mia breve esperienza precedente, il carcere di Pescarenico si è sempre distinto per lo spirito di collaborazione a più livelli. Uno spirito che evidentemente conto di recuperare. È tra i primissimi argomenti che ho avuto modo di discutere con l’educatore. Intendiamo da subito privilegiare il rapporto con il territorio per integrarlo sempre più con la realtà carceraria, iniziando dal coinvolgimento del privato sociale nella partecipazione attiva. A Trento questa filosofia aveva prodotto buoni risultati". E a proposito dei lavori compiuti in questi anni, il neo direttore non ha dubbi. "Oggi quello di Pescarenico è un istituto davvero all’avanguardia sotto tutti i punti di vista".

 

Nel rione non si colgono reazioni negative

 

I primi ospiti della casa circondariale di Pescarenico sono arrivati ieri mattina, ma il quartiere non ha avuto reazioni negative. Sarà per quell’abitudine ad avere come vicini di casa i detenuti, un’abitudine interrotta il tempo di ristrutturare l’edificio. Per ora solo pochi ospiti, la maggior parte si attende per il prossimo ottobre. Arrivando da corso Martiri e imboccando la tranquilla via Cesare Beccaria la struttura carceraria riqualificata si nota immediatamente. Si staglia in fondo alla via con quei colori, giallo acceso e bianco, con la sua struttura antica e rimodernata all’interno secondo canoni di sicurezza, igiene, estetica.

Bello il palazzo, se non fosse per la sofferenza che nasconde dietro quelle finestre appena rifatte. E infatti il presidente del consiglio di quartiere 1 Roberto Sanfilippo pone l’accento proprio su questo aspetto: "Dal punto di vista della ristrutturazione le carceri di Pescarenico sono una delle cose migliori che abbiamo in città. Al di là del significato non certo allegro, la nuova casa circondariale ora è abitabile, degna di una città civile come la nostra. Le ho visitate a ristrutturazione avvenuta e mi sembra sia stato fatto un ottimo lavoro". La gente residente nel rione, come detto, ha accolto l’apertura del carcere senza timore o preoccupazione.

Le carceri a Pescarenico ci sono sempre state e c’è tra i residenti meno giovani del rione chi ricorda di esservi entrato ogni domenica come chierichetto ad accompagnare il sacerdote addetto alla funzione religiosa. In qualche caso, parlando con la gente del rione più che inquietudine si percepisce una sensazione di tutela maggiore sulla quale possono ora contare grazie alla presenza, di lì a pochi metri dalla loro abitazione, delle guardie addette alla sicurezza. Nemmeno in parrocchia sono giunti commenti. "Non ho sentito reazioni - conferma il parroco don Sandro Chiesa - né in un senso né nell’altro ". A celebrare la messa all’interno del carcere non sarà lui ma don Mario Proserpio. Non manca chi vede nella riapertura della Casa un altro aspetto positivo: "L’indotto della presenza dei familiari che vengono a trovare i loro parenti – spiega il titolare della tabaccheria "Nava" – si sentirà anche sulle attività commerciali della zona ".

Roma: la responsabilità di chiudere Regina Coeli...

 

L’opinione delle carceri, 14 settembre 2004

 

È passato un mese da quella che i giornali hanno definito la rivolta di Regina Coeli. Si è detto che i detenuti hanno protestato contro le condizioni di sovraffollamento e sanitarie. Tra coloro che hanno visitato i detenuti c’è Lillo De Mauro. Esponente dei Ds, dirige una cooperativa sociale, fondatore di un centro per il disagio minorile, è da 4 anni presidente della consulta cittadina permanente sul carcere e nelle carceri ci entra tutto l’anno. Fortemente voluta dalle associazioni di volontariato, la consulta è stata votata dal consiglio comunale di Roma ed è in vigore da otto anni.

 

Presidente, che cosa state facendo per i detenuti ed in particolare per quelli di Regina Coeli?

Nonostante i miliardi che l’amministrazione ha speso per ristrutturare il vecchio carcere di Regina Coeli, manca lo spazio per corsi professionali e attività rieducative. Una giornata tipo è scandita da alcune ore d’aria in un piccolo cortile e socialità nelle celle. La maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio e per reati minori. Ma nei giorni di ferragosto quando ho incontrato le delegazioni dei detenuti le loro richieste erano rivolte alla risoluzione di problemi giuridici come il protrarsi della custodia cautelare, la non applicazione della legge Gozzini e solo in un secondo momento si è posto il problema del sovraffollamento e delle condizioni igienico - sanitarie.

Ma d’altra parte è il cerchio che si chiude perché reati minori, tossicodipendenti e malati, e dove non sussiste la pericolosità sociale, si dovrebbero dare risposte alternative come l’affidamento ai servizi sociali, comunità, controlli di polizia. Invece il carcere resta ancora la sola risposta e Regina Coeli ne è un esempio. Basti pensare che il 30% dei detenuti è tossicodipendente, il 20% sono stranieri e il resto italiani in attesa di giudizio. I definitivi non superano il centinaio.

 

Dovrebbe contenere non più di 700 persone e invece la media oscilla tra i 950 e i mille detenuti. A Regina Coeli portano pure il ragazzino preso con lo spinello…

Il mio impegno personale e della consulta è quello di mettere in atto il piano cittadino sul carcere entro il 15 settembre, discutendone con i detenuti perché siano protagonisti e non oggetti da spostare. Esiste una legge dello Stato, la 328 del 2000, che chiama a rispondere del carcere gli enti locali perché intervengano per quanto di competenza a risolvere i problemi dei cittadini detenuti. La regione per gli aspetti sanitari, la provincia per la formazione e il comune per gli aspetti sociali. Parlare di meno ed operare di più, questo è lo spirito che dovrebbe muovere chi promette soluzioni e non lasciare che i problemi si incancreniscano fino a degenerare come abbiamo visto. I suicidi sono una spia significativa e le cifre parlano chiaro. E non dimentichiamoci del carcere minorile dove la situazione è altrettanto grave. In carcere la stanchezza è il sentimento più diffuso e non solo tra i detenuti.

 

Perché un carcere privo delle strutture necessarie, che non corrisponde ai criteri raccomandati dal Consiglio d’Europa e che continua a pesare sulle tasse dei contribuenti, dovrebbe restare aperto?

Per la sua collocazione al centro della città. È facilmente raggiungibile dai vari tribunali sia dai magistrati che dagli avvocati, ma nonostante la buona volontà degli operatori e i soldi investiti per migliorarlo, la struttura non si può trasformare. Andrebbe presa una decisione coraggiosa, ma dubito che qualcuno si assuma la responsabilità politica di cambiare.

Roma: investigatori del ‘900 in classe a Regina Coeli

 

Il Messaggero, 14 settembre 2004

 

Mezzo secolo prima della scoperta del Dna e tredici anni dopo il secondo congresso internazionale di antropologia criminale di Parigi, il ministro dell’interno Giovanni Giolitti incarica il professor Salvatore Ottolenghi, allievo di Lombroso, di tenere il primo corso di investigazioni scientifiche della storia italiana per allievi commissari e delegati di polizia. È il 1902: il corso ha come prima sede la sala dei riconoscimenti del nuovo carcere di Regina Coeli.

I metodi d’indagine guardano alle "scienze novelle" come psicologia, chimica e fisica; Cesare Lombroso e il suo "Uomo delinquente" del 1876 sono già storia, la nuova polizia studia materie come investigazioni giudiziarie, segnalamento e fotografia giudiziaria, medicina legale e tecniche di sopralluogo sulla scena del crimine. Già si dibatte, in termini moderni, di prevenzione oltre che di repressione del crimine e la parola d’ordine è "conoscere il pregiudicato, i suoi caratteri ereditari, regionali, somatici, psichici e morbosi". La materia prima, ovvero i pregiudicati, sono i detenuti di Regina Coeli, studiati sul posto.

Antropologia e psicologia conosceranno fasti e contrasti tra le varie scuole di pensiero all’esordio del ‘900, e sulla scia dei primi passi della scuola di polizia scientifica nascerà il museo delle scienze criminali dell’amministrazione carceraria, oggi Museo criminologico di via del Gonfalone (www.museocriminologico.it) dove sono esposte le foto dell’epoca delle varie tipologia di delinquenti, dei tatuaggi e dei sopralluoghi effettuati nei casi di omicidio, i manoscritti dei detenuti e le ormai antiche attrezzature per i rilievi scientifici e delle impronte digitali. Sbiaditi e un po’ ingialliti, sono stati conservati anche i primi cartellini segnaletici di delinquenti e prostitute, compilati con l’inchiostro svolazzante del 1903.

E inviati all’ufficio centrale di segnalamento e identificazione, a costituire il casellario centrale in cui confluiranno i dati raccolti in 19 gabinetti scientifici sparsi per l’Italia. Il primo bilancio degli esiti delle nuove tecniche di investigazione lo fa proprio il professor Ottolenghi, nel bollettino della scuola di polizia scientifica stampato nella tipografia delle Mantellate nel 1910. Al 1 giugno di quell’anno risultano inviati al casellario centrale del Regno d’Italia ben 16.034 cartellini e lo stesso Ottolenghi annota che gli scopi principali degli insegnamenti di polizia scientifica sono quelli "improntati all’obbiettività che è indispensabile perché i rilievi abbiano il massimo valore, e ai più moderni concetti di umanità e giustizia".

Nella morgue della capitale i giovani commissari imparano la medicina legale; nel Gabinetto della scuola, scrive Ottolenghi, "sono fatte dimostrazioni di microchimica allo scopo di far conoscere agli alunni i particolari delle macchie di sangue, di sperma e dei peli per far comprendere l’importanza di certi reperti".

Un secolo prima dell’uso giudiziario del Dna come prova regina: che in campo penale spesso funziona, a volte è un abbaglio e qualche altra volta è fonte di effetti eccentrici. Ne sa qualcosa un uomo che è stato accusato dell’omicidio di un suo conoscente, ucciso a bastonate in un bosco. I due avevano cenato insieme la sera del delitto e nessun testimone è stato utile a ricostruire le ore seguenti. Le uniche certezze: il presunto assassino non aveva un alibi e sul bastone usato come arma sono state trovate tracce di sangue di due gruppi diversi.

L’esame del dna avrebbe dovuto inchiodare il colpevole ma il sangue mescolato a quello della vittima è risultato non essere quello dell’accusato. L’assassino è un altro? No, per il pm: quel sangue sconosciuto significa che in passato il bastone è stato usato per un’altra aggressione rimasta ignota alla giustizia. Il rinvio a giudizio, inesorabile, è arrivato: per omicidio.

Brescia: "la casa circondariale dev’essere chiusa"

 

Giornale di Brescia, 14 settembre 2004

 

Il senatore Elidio De Paoli, segretario nazionale federale della Lega per l’autonomia - Alleanza Lombarda Lega pensionati, dopo aver visitato la settimana scorsa il carcere di Bergamo, ieri mattina ha varcato il portone di Canton Mombello, la casa circondariale di Brescia inserita nel cuore della città. Nei prossimi giorni visiterà altri carceri lombardi per avere un quadro d’insieme. Un viaggio dentro l’istituto di pena di Brescia per capire quali sono i problemi più gravi che la direzione deve affrontare ogni giorno, le condizioni in cui vivono i detenuti e le difficili situazioni lavorative per gli agenti di polizia penitenziaria.

"Questo carcere - è il responso del senatore De Paoli, al termine della sua "ispezione" - è da chiudere al più presto. La chiusura di Canton Mombello è una priorità: investire qui è uno spreco. La struttura è troppo vecchia, la direzione ha lavorato bene e sta facendo il possibile, ma il carcere deve essere realizzato nuovo in un’altra zona della città. I fondi per la realizzazione del nuovo carcere arriverebbero direttamente dalla cessione di Canton Mombello: si tratta di un’area molto appetibile e i compratori non si farebbero attendere".

Ma la vendita di Canton Mombello e la realizzazione di un nuovo carcere paiono, per ora, un’ipotesi molto lontana. Nel frattempo nel carcere, come ha spiegato la direttrice al senatore De Paoli, la situazione è decisamente migliorata rispetto agli anni precedenti. Il sovraffollamento, in realtà, è ancora un problema per il carcere cittadino, ma è "meno problema" rispetto agli anni passati.

Nel carcere di Canton Mombello sono attualmente detenute 420 persone, anche se la capienza della struttura è per 250 detenuti. Negli anni scorsi ci sono periodi in cui i detenuti sono stati anche più di cinquecento: i letti a castello erano disposti su quattro livelli. La chiusura di due sezioni ha consentito di ridurre i detenuti: nelle celle non ci sono più di otto persone. La situazione è meno grave rispetto agli anni precedenti, ma il numero dei detenuti continua a essere troppo elevato. Tanto più che la metà dei detenuti è straniera e a Canton Mombello c’è una vera e propria Babele di lingue. E sono tanti anche i detenuti sieropositivi.

Se il problema del sovraffollamento è stato in qualche modo ridimensionato, quello della carenza cronica degli agenti di polizia giudiziaria è sempre più attuale. "La mancanza di personale è un problema molto grave" ha riportato il senatore De Paoli dopo la visita in carcere. All’appello mancano 130 guardie, mentre in servizio ce ne sono solamente 234 che devono garantire tutti i servizi di sicurezza in carcere, oltre che la scorta agli uffici giudiziari e i vari piantonamenti.

Se Canton Mombello non conosce problemi per il personale sanitario (ci sono cinque infermieri e solo qualche volta scarseggiano i farmaci di fascia C, tipo antinfiammatori, mentre su tutti i detenuti è stato effettuato il controllo per la Tbc e il vaccino dell’epatite B) lo stesso non si può dire per gli educatori. "C’è un solo educatore per Canton Mombello - ha spiegato la direttrice - e uno per Verziano: non si possono fare miracoli".

Qualche risultato a Canton Mombello, sempre stando al resoconto reso dalla direttrice al senatore De Paoli, si è ottenuto: il polo scolastico è stato sistemato e i detenuti possono seguire alcune lezioni con la collaborazione del Tartaglia e le 150 ore per ottenere la licenza media. Adesso sono in atto altri lavori per la sistemazione di spazi per i detenuti, saloni dove si può fare teatro e svolgere altre attività. Anche la palestra ha bisogno di lavori, attualmente è chiusa e i 420 detenuti devono accontentarsi del cortile per l’ora d’aria: uno spiazzo di asfalto e cemento dove l’unico svago resta il pallone.

Camera: riprende esame progetto di legge sulla tortura

 

Asca, 14 settembre 2004

 

Anche per dare una più ampia lettura alle ipotesi di violenza, pur limitando l’ambito di applicabilità delle sanzioni alle violazioni commesse da un pubblico ufficiale, il Presidente della Commissione Giustizia Gaetano Pecorella ha presentato una sua organica pdl che dovrà essere ora raccordata con il testo unificato che era stato già messo a punto.

I tempi per la conclusione dell’iter referente sono ancora lunghi e difficilmente il progetto normativo, che riflette disposizioni già esistenti in vari altri Paesi europei, arriverà entro l’anno al sì dell’aula.

Italiane rapite: appello dei musulmani del carcere di Opera

 

Ansa, 14 settembre 2004

 

I musulmani detenuti nel carcere di Opera, al confine con Milano, sono scesi in campo per chiedere la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta, le due connazionali operatrici di pace rapite in Iraq. I carcerati hanno lanciato un appello ai sequestratori "qualora fossero dei veri fratelli dell’Islam".

"Chiediamo a loro - si legge fra l’altro in un documento dei detenuti - nel nome dell’Islam e della Fratellanza di rispettare la nostra religione, il Corano e la Sunna del nostro Profeta Mohamed Pace su di Lui, che raccomanda di non fare male e di non uccidere donne, bambini e anziani".

"Queste donne - viene sottolineato - hanno aiutato i bambini iracheni e cercato, nel limite del possibile, di alleviare le sofferenze di quel popolo così martoriato e, in più, sono contrarie al loro Governo".

Nel documento i musulmani accennano a riferimenti teologici che confermano l’intoccabilità delle donne e citano imam e studiosi che sostengono questa tesi. "Si tratta di donne pacifiste - concludono i detenuti che propongono la loro libera mediazione - che si sono opposte all’embargo e alla guerra e che hanno più volte rischiato la vita per alleviare le sofferenze del popolo iracheno. Con questi requisiti già un uomo dovrebbe essere liberato immediatamente, e a maggior ragione le donne".

Egitto: carceri, Ente Diritti Umani sollecita migliorie

 

Ansa, 14 settembre 2004

 

In Egitto i detenuti "sono sottoposti a molte violazioni dei loro diritti: sono tenuti in isolamento in celle di 1 metro per 2 senza aperture per l’aerazione. Possono lasciare la cella, che non ha servizi, solo ogni 24 ore, e sono negate loro visite e ogni forma di comunicazione". Lo si afferma in un comunicato diffuso dall’Organizzazione Egiziana per i Diritti Umani (Eohr) nel quale si esprime apprezzamento per la decisione del ministro degli interni, Habib El Adly, di rimuovere le doppie file di sbarre dai parlatori, che tenevano i prigionieri a distanza di più di un metro dai loro interlocutori.

È necessaria, però, secondo l’Eohr, una revisione della filosofia della pena in Egitto, ed in particolare: una riforma dei regolamenti interni delle prigioni per metterli in linea con lo standard minimo per il trattamento dei prigionieri, impedendo torture e maltrattamenti, garantendo il diritto all’istruzione, alle cure mediche, ad alimentazione di alto valore nutritivo, esercizi fisici, visite e comunicazioni con il mondo esterno. Secondo punto sollecitato dall’Eohr è un’inchiesta "globale e aperta" da parte di una commissione nazionale indipendente, sulle cause del deterioramento delle condizioni di detenzione. Terzo: l’eliminazione di prigioni chiuse, nelle quali non esiste la possibilità di visite o di scambio di corrispondenza, e la riduzione del numero di reclusi per cella.

Quarto: l’eliminazione della pratica degli arresti ripetuti per ragioni politiche. "Il ministero degli interni - si dice nel comunicato applica una politica di applicazione formale degli ordini giudiziari di rilascio, mettendo in libertà e riarrestando i prigionieri, che vengono detenuti nella più vicina stazione di polizia da una a due settimane fino a che non viene emesso un nuovo ordine di reclusione ed essi vengono riportati in prigione. L’Eohr chiede al ministero degli interni di rimettere in libertà immediatamente tutti i detenuti che hanno ottenuto dal tribunale una sentenza di rilascio".

Attica, quel mattino del 1971... articolo di Bianca Cerri

 

Reporter Associati, 14 settembre 2004

 

È impossibile cancellare dalla mente l’immagine del cortile del penitenziario di Attica come apparve quel mattino del 1971, destinata a diventare un’icona storica. Sul cemento bagnato dalla pioggia, 43 corpi senza vita, completamente nudi e allineati in mezzo ai detriti e al fango. Erano quelli degli uomini che, quattro giorni prima, si erano impadroniti di un blocco dell’edificio detentivo intenzionati a tenerlo sino al miglioramento delle loro condizioni di vita. Per due volte, il Commissario alle Carceri era mancato agli appuntamenti con i reclusi e lo sciopero della fame era stato represso con la violenza. L’America era allora un paese pieno di guai, frustrato da una guerra senza fine e dalle promesse a vuoto del presidente e i detenuti non contavano nulla.

Stanchi di doversi lavare con acqua fredda anche durante le gelate invernali, estenuati dal lezzo dei buglioli a cielo aperto, dal cibo insufficiente ed insapore, dalle celle buie e prive d’aerazione, i prigionieri di Attica decisero di ammutinarsi sequestrando le guardie in attesa dell’arrivo delle autorità cui volevano esporre i loro problemi.

Speravano che il governatore venisse di persone a vedere in quali condizioni erano costretti a vivere. Herman Badillo, rappresentante del Congresso aveva inutilmente cercato di convincere Nelson Rockfeller, governatore dello Stato di New York a venire ad Attica, ma Rockfeller, forse l’uomo più cinico e calcolatore mai apparso sulla scena politica degli Stati Uniti, non aveva alcuna intenzione di farlo.

Infinitamente ricco, amante del potere, non sopportava vedersi rompere le uova nel paniere da esseri inferiori, soprattutto se si trattava di galeotti. Mentre il Governatore andava a rifugiarsi nella sua lussuosa villa di Pocantico Hills, gli elicotteri della Guardia Nazionale, pieni di poliziotti armati fino ai denti si dirigevano verso Attica. Erano le 9.46 del mattino e l’ordine era quello di riprendere il carcere a tutti i costi e uccidere chiunque si trovasse nei camminamenti sulle mura.

Dal cortile dove erano accampati, gli ammutinati videro le ombre nere farsi sempre più vicine. Sembrava che la terra tremasse per il rumore delle pale degli elicotteri che avevano preso a sorvolare il carcere, facendo balenare nell’atmosfera fumosa di quel giorno di pioggia le luci di posizione. Quando ebbero raggiunto la distanza voluta, i poliziotti iniziarono a lanciare gas CN e CS sui reclusi, che non opposero resistenza.

Alcuni riuscirono a calarsi con i mitra sino al cortile e presero a sparare con i mitra alla cieca. Il primo caduto fu Kenneth Malloy, colpito in mezzo agli occhi da una Magnum 347 , poi toccò a James Robinson, già raggiunto da un proiettile calibro 270 in pieno petto e finito con un colpo di grazia al collo mentre era già morente. La sparatoria andò avanti per ore. Chi era rimasto soltanto ferito venne finito a calci e pugni, ma anche i cadaveri furono scempiati con accanimento.

Dopo aver allineato i 43 corpi senza vita completamente nudi, le guardie costrinsero i vivi a strisciare sui vetri rotti sino a quando non ebbero tutto il corpo ricoperto di sangue. La rappresaglia sembrò destinata a non avere mai fine. Per segnalare che un recluso aveva già ricevuto la lezione che "meritava", i poliziotti, affiancati dal Corpo Forestale arrivato a dare loro man forte, gli incidevano sul corpo una "X".

La maschera della riabilitazione era completamente caduta: tutti i prigionieri vennero costretti a giocare alla roulette russa, minacciati di castrazione, ustionati, la vendetta nei confronti degli uomini che avevano osato alzare la testa davanti all’autorità dello Stato fu nuda, cruda e, soprattutto, impunita.

Nemmeno un agente venne condannato per quello scempio, un fantasma che continua a pesare nella coscienza dell’America ancora oggi. Quando la persecuzione finì, Rockfeller venne sconfitto alle successive presidenziali e passò al soldo di Henry Kissinger, che aiutò ad organizzare il colpo di stato in Cile esattamente due anni dopo aver ordinato la strage di Attica. Alla generazione di Woodstock vennero le lacrime agli occhi...

Immigrazione, De Francisci: aumentare pene per scafisti

 

Apcom, 14 settembre 2004

 

"Semplificare le ipotesi di reato e aumentare i minimi di pena per gli sacfisti. Solo così si riuscirà a creare un vero deterrente per chi sfrutta la disperazione di questi uomini e di queste donne". È il procuratore capo di Agrigento Ignazio De Francisci a rilanciare, in due interviste, ad "Avvenire" e all’"Unità", la necessità di un intervento legislativo davanti "alla difficoltà a fare applicare le pene severe previste dalle aggravanti".

Le indagini nei confronti degli scafisti infatti "sono complicate - spiega De Francisci ad "Avvenire" - e tra garanzie processuali e difficoltà linguistiche non è facile condurle in porto". Gli immigrati collaborano? "Ci siamo imbattuti - aggiunge il procuratore - in caute aperture di qualcuno, ma poi le indagini lente, gli spostamenti da un centro di accoglienza all’altro, rendono vani questi tentativi".

Sull’immigrazione il procuratore ribadisce, all’"Unità" che "non è un reato, è un fenomeno epocale e non si può pensare di contrastarlo con le leggi. Vanno perseguiti i trafficanti di persone, in modo severo applicando leggi snelle". Arrestare tutti quelli che non rispettano l’ordine di espulsione? "È impensabile - conclude De Francisci - avremmo le carceri piene di immigrati, le aule di giustizia intasate d processi, centinaia di agenti di polizia e di carabinieri distolti dai loro compiti, quanto costerebbe allo Stato soltanto in termini economici?".

Immigrazione: Sgobio (Pdci), abrogare Bossi-Fini, è fallita

 

Ansa, 14 settembre 2004

 

"Abrogazione della la Bossi-Fini e recupero della cultura dell’accoglienza e dell’integrazione nel rispetto della legalità". Chiede questo al Governo il presidente dei deputati del Pdci Pino Sgobio, secondo il quale la legge sull’immigrazione è "un totale fallimento".

"Di fronte alla giusta decisione del questore di Siracusa, che ha posto in libertà i migranti illegalmente detenuti, il governo e il Ministero dell’Interno non possono fare altro che prendere atto del totale esito negativo di questa legge incivile", aggiunge Sgobio. E continua: "L’unica strada percorribile non è il divieto o la mano ferma, ma il dialogo". Il deputato comunista osserva infine come lo scontro Castelli - Pisanu, sui numeri degli sbarchi clandestini, "dimostra chiaramente che sulla questione dell’immigrazione, il governo è totalmente privo di una strategia seria ed opportuna".

Immigrazione: "Serraino Vulpitta", un Cpt caldissimo

 

Ansa, 14 settembre 2004

 

Il centro di permanenza temporanea "Serraino Vulpitta" di Trapani, dove la notte scorsa si è svolto un nuovo tentativo di sommossa e di fuga da parte di immigrati clandestini, è uno dei più "caldi" d’Italia. Nel centro negli ultimi 6 anni si sono registrati diversi tentativi di fuga, rivolte, sono stati appiccati incendi, tra cui quello gravissimo del 28 dicembre ‘99 che provocò la morte di sei immigrati clandestini.

Il "Serraino Vulpitta" era un ospizio che nel ‘98 sull’onda dell’emergenza immigrazione nelle isole siciliane venne parzialmente destinato ad ospitare i clandestini in attesa di riconoscimento ed espulsione. La notte del 28 dicembre ‘99 un tunisino, Samuir Beni Hedi Arfaoui, appiccò le fiamme a materassi e suppellettili del centro di permanenza temporanea per tentare la fuga. Un po’ quello che si è ripetuto la notte scorsa senza gravi conseguenze per le persone. L’incendio provocò la morte di tre immigrati mentre gli altri tre morirono nei giorni successivi. Il tunisino è stato condannato a due anni di carcere per omicidio colposo plurimo. Ma l’inchiesta coinvolse anche il prefetto dell’epoca, Leonardo Cerenzia, responsabile del Cpt, che venne processato per omicidio colposo plurimo e poi assolto. Secondo l’accusa nel centro non erano rispettate le norme di sicurezza e antincendio. Gli immigrati venivano "gestiti" come fossero reclusi in un carcere e le stanze avevano le grate come le celle. Il Cpt, dopo le polemiche sollevate da ispezioni di parlamentari regionali e nazionali, è stato chiuso per sette mesi e ristrutturato. È stato riaperto nel giugno scorso e può ospitare 57 persone.

Siracusa: "caccia" di An ai 100 immigrati - fantasma

 

Il Manifesto, 14 settembre 2004

 

I 100 immigrati sbarcati a Lampedusa domenica sera e immediatamente rilasciati con un "foglio di via" (un’espulsione) dal questore di Siracusa per mancanza di spazio nei centri di permanenza, hanno rappresentato per tutta la giornata di ieri il cruccio di Ignazio La Russa, coordinatore nazionale di Alleanza nazionale. Alla fine, un comunicato per rassicurare gli elettori: i "clandestini" rilasciati "erroneamente" verranno rintracciati e sottoposti alle procedure di legge, ha fatto sapere La Russa, dopo aver ottenuto "precise rassicurazioni dal ministro Pisanu".

Sono "costantemente controllati", hanno fatto sapere contemporaneamente fonti del Viminale "per verificare che sia rispettato l’ordine del questore di allontanarsi dal territorio dello stato entro 5 giorni". Altrimenti, assicurano dal ministero "verranno rinchiusi in un Cpt per il successivo rimpatrio". Il classico teatrino politico, ad uso e consumo di una platea distratta. Perché il questore di Siracusa non ha fatto che rispettare una prassi consolidata: da sempre quando non c’è posto, oppure quando sono trascorsi i fatidici 60 giorni per l’identificazione dell’immigrato, la macchina assurda dei cpt prevede che una persona venga rilasciata "in clandestinità", grazie al rilascio di un foglio di via che segna il suo destino. Con quel foglio, infatti, c’è poco da fare. Se non quello che fanno tutti: prendere un treno - anche senza avere il biglietto tanto ormai i ferrovieri lo sanno benissimo e chiudono un occhio - spostarsi in qualche altra città anche fuori dall’Italia e cominciare a cercare un lavoro. Il foglio dell’espulsione, infatti, è un’assicurazione per il mercato delle braccia al nero.

È solo di un mese fa la storia di Agrigento, dove si è creata una situazione di emergenza non nei cpt, ma alla stazione dei treni dove si erano arenati molti immigrati a cui era toccata la stessa sorte dei 100 fantasmi che rovinano il sonno a La Russa. In quel caso un gruppo di ragazzi e ragazze dell’Osservatorio sull’immigrazione è riuscito a creare un caso, denunciando che il foglio di via era stato messo in mano a persone che potevano chiedere asilo politico. Alcune espulsioni sono state cancellate, e la prefettura ha aperto un ospedale abbandonato creando 57 posti letto. Un dito nel buco dell’accoglienza siciliana, dove i pochi soldi investiti sono serviti per creare soltanto centri di permanenza, dimenticando l’accoglienza.

Ma ora negli uffici del Viminale e ai piani alti della politica c’è un altro affare che agita i sogni. E cioè la recente sentenza della Corte costituzionale, che a luglio ha dichiarato illegittimo il meccanismo previsto dalla Bossi-Fini che sostanzialmente sostituiva le carceri ai Cpt. Se un immigrato veniva "beccato" sul territorio dello stato passati i famosi 5 giorni, veniva tradotto in carcere e giudicato per direttissima la mattina seguente. La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’arresto in flagrante per un semplice reato amministrativo, lo spiega il comunicato del Viminale quando dice che se quelle cento persone non si "auto espelleranno" torneranno in un Cpt. E avanti di questo passo.

Stessa sorte toccherà alle 200 persone che domenica notte, dopo essere state trasferite dal centro strapieno di Lampedusa verso quello di Crotone, hanno cercato di scappare. La polizia ha assicurato di averli rintracciati "quasi tutti" e di averli riportati nel centro di Sant’Anna. Forse incontreranno le "squadre speciali" promesse da Pisanu "per l’identificazione l’immediato rimpatrio". Cosa siano queste squadre non è dato sapere. Forse si tratta, semplicemente, della Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato che nei prossimo giorni arriverà in Sicilia. E che il ministro pensa di aver arruolato.

I vantaggi dei clandestini…, articolo di Carlo Nordio

 

Il Messaggero, 14 settembre 2004

 

La sorte propizia dei cento clandestini sbarcati sulle coste siracusane che, invece di finire nei centri di raccolta, sono stati immediatamente liberati, dipende dal vecchio principio che nessuno è tenuto a fare l’impossibile. Se il posto non c’è, non si può inventare. E poiché tutti i posti erano esauriti, gli eccedenti sono stati mandati a spasso. Questo paradosso può sembrare sorprendente soltanto a chi non abbia mai riflettuto seriamente sulla questione.

Ma per le organizzazioni criminali che traghettano a caro prezzo questi disperati la circostanza era ben nota. Anche senza aver studiato criminologia e teoria generale della pena, i delinquenti sanno bene che l’applicazione concreta della legge è inversamente proporzionale all’entità della sua violazione. Se un cittadino attraversa i binari viene multato: ma se i manifestanti sono cento, arriva il questore; se sono mille, la televisione.

Così, se i clandestini arrivano in una bagnarola, le porte dei centri si aprono per farli entrare. Ma se arrivano su una flotta, si aprono per farli uscire. La spada della giustizia si sgretola quando la sua bilancia perde l’equilibrio. Ma questo paradosso non è il solo. Eccone un altro, ancora più singolare. Logica vorrebbe che la sanzione che più duramente colpisce il clandestino, cioè l’espulsione, fosse tanto più rapida e certa quanto più il soggetto è pericoloso.

Abbiamo già scritto più volte, sfidando i pregiudizi del politicamente corretto, che in realtà quasi tutti i clandestini sono potenzialmente pericolosi perché, non avendo lavoro né denaro, possono pagare i debiti contratti con i loro trasportatori soltanto rubando. Ma ammettiamo che molti si comportino bene. Orbene, costoro sono, di fatto, sfavoriti rispetto ai clandestini criminali che rubando, rapinando e spacciando droga vengono presi e processati.

Mentre infatti i primi vengono immediatamente espulsi, i secondi devono attendere l’esito del processo. La loro espulsione è infatti subordinata al nulla osta del giudice, che in teoria può negarlo solo in "presenza di inderogabili esigenze processuali" ma in pratica decide con assoluta discrezionalità. Del resto la presenza al processo è un diritto inderogabile dell’imputato, e sarebbe assurdo che lo Stato lo giudicasse in contumacia dopo averne ordinato l’allontanamento. E così, ancora una volta, il delitto paga, e paga bene.

Di questi paradossi in effetti la legge è piena. Ma non perché sia fatta bene o sia fatta male, sia troppo indulgente o troppo restrittiva. La Bossi - Fini in realtà non è che il logico sviluppo, leggermente più severo, della precedente Turco - Napolitano, entrambe essendo ispirate all’ovvio postulato che il soggiorno è consentito soltanto agli extracomunitari che entrino in Italia rispettandone le regole. I paradossi dipendono piuttosto dal fatto che in radice il fenomeno è insolubile, o meglio è insolubile dal punto di vista legislativo. Vediamone in poche righe il perché.

Una volta arrivato illegalmente in Italia, il clandestino gode dei nostri diritti costituzionali: tra questi, il diritto alla libertà di circolazione, al giusto processo, alla difesa gratuita, eccetera. Non ci vuol molto a capire che se questi sacrosanti principi sono compatibili con l’ingresso episodico di qualche decina di persone, non lo sono più quando mille e passa individui sbarcano improvvisamente sulle coste.

Ognuno di loro ha infatti il diritto di andare dove vuole. Se questo diritto è compresso, come in effetti è compresso dall’espulsione, ha il diritto di essere sentito, entro poche ore, dal magistrato del luogo, con l’assistenza di un avvocato pagato dallo Stato. Ma poiché nessun magistrato può ascoltare in due o tre giorni mille persone, nessun ufficio può provvedere alle notifiche degli atti, nessun ambiente li può contenere, il sistema si sfascia.

Ed anche quando, con sforzi inauditi, la procedura è stata seguita, non esistono poliziotti sufficienti per l’accompagnamento, né aerei né navi idonei al trasporto. Soprattutto se il clandestino indica una falsa nazionalità, se oppone resistenza, se insudicia e danneggia i mezzi, se aggredisce gli accompagnatori. E non basta. Ormai il 70 per cento degli arresti in flagranza riguarda clandestini. Se non li prendiamo, aumenta l’allarme sociale per i reati impuniti; se li prendiamo, non riusciamo a processarli; se li processiamo, dobbiamo liberarli subito perché, se li mandiamo in carcere, le carceri scoppiano.

E se scoppiano, scoppia la rivolta. Qui ci fermiamo, perché lo spazio è esaurito. Ma è sufficiente che il lettore continui con la sua fantasia questo ragionamento. E vedrà che, ad ogni prospettata soluzione, il problema si aggrava; del resto le anime belle e solidali che hanno invocato soluzioni più blande non hanno mai detto cosa si debba fare in concreto. Perché una volta che il clandestino è arrivato in Italia, in realtà da fare c’è ben poco. Impedirgli che venga, questa è la soluzione. Ma questo non è diritto, questa è politica.

Ctp: qui è vietato l’ingresso ai giornalisti...

 

Il Messaggero, 14 settembre 2004

 

Cosa succeda là dentro, non lo sa nessuno. Non lo sanno, di sicuro, i giornalisti, ai quali è vietato l’ingresso. Eppure non sono carceri. Ma, semplicemente, centri in cui viene trattenuto in attesa dell’espulsione un immigrato che ha commesso un semplice illecito amministrativo: non avere il permesso di soggiorno. Si chiamano Cpta, centri di permanenza temporanea e assistenza. Cpt, per dirlo più velocemente. Sono 16 o 17 (all’elenco che pubblichiamo nel disegno, potrebbe essere aggiunto quello di Ragusa). Non vanno confusi con i Centri di accoglienza, che regioni, comuni, province, strutture del volontariato debbono mettere in piedi, per garantire agli immigrati regolari con problemi d’alloggio una provvisoria sistemazione. E nemmeno con i Cid, i Centri che verranno destinati a chi fa domanda d’asilo, sognando di ottenere lo status di rifugiato: ne stanno per sorgere sette, a Gorizia, Milano, Torino, Roma, Foggia, Agrigento e Trapani.

Non è di dominio pubblico quanti siano, oggi, gli ospiti dei Cpt. Un dato ritenuto "sensibile", che si spera il ministero dell’Interno si decida a rivelare. "Medici senza frontiere", che sui Centri di permanenenza temporanea ha diffuso all’inizio dell’anno un corposo e inquietante rapporto, è riuscita a strappare solo i dati dell’anno scorso: fra il luglio del 2002 e lo stesso mese del 2003 sono stati trattenuti nei Cpt 16 mila 924 immigrati, dei quali 3 mila 392 donne. La cifra dovrebbe essere salita, non tanto per via degli sbarchi, quanto per i meccanismi di espulsione della legge Bossi-Fini, che prevedono l’accompagnamento alla frontiera dell’irregolare. Quando non è possibile farlo, perché non c’è la scorta, o manca il vettore, o perché l’immigrato deve essere identificato, ecco che la persona viene trattenuta in un Centro.

I Cpt sono nati nel 1998, con la legge Turco - Napolitano, per aderire a una richiesta dell’Unione europea: ad eccezione di Italia e Finlandia, infatti, tutti gli altri paesi ne erano già dotati. Si prevedeva un trattenimento massimo fino a 30 giorni, che la Bossi-Fini ha esteso a 60. Nel suo rapporto "Medici senza frontiere" ha chiesto che tre vengano chiusi per assolute carenze strutturali. Quelli di Torino, Lamezia Terme e Trapani: quest’ultimo ha soltanto le camerate, non vi sono altri spazi di sfogo, e immancabilmente accadono tentativi di fuga, incendi di lenzuola per richiamare l’attenzione, sommosse come quella domata la notte scorsa, che ha coinvolto 30 extracomunitari.

Ma la cosa più grave è che gli immigrati colpevoli semplicemente di non avere il permesso di soggiorno vengono messi assieme a quelli che hanno commesso reati penali, e dopo aver scontato il carcere, vengono parcheggiati nei centri in attesa di essere identificati per l’espulsione definitiva dal paese. Secondo "Medici senza frontiere" i trattenuti con esperienza di carcere sono il 60 per cento, con punte del 95 a Modena e in nessun Centro vi sarebbero strutture separate per distinguerli da chi ha commesso infrazioni amministrative. Grave pure che tutti i mesi o anni scontati in precedenza in carcere non siano bastati a identificarli. Capita poi che si venga trattenuti reiteratamente per ben più di 60 giorni: il record era di un immigrato del Centro romano di "Ponte Galeria" che aveva dichiarato di aver doppiato per ben sette volte i due mesi previsti dalla legge. E capita immancabilmente, in attesa che siano allestiti i Centri di identificazione, che i chiedenti asilo vengano "reclusi" nei Cpt.

 

 

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