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Rossano: Peter Pan, il carcere attento ai bambini
Quotidiano di Calabria, 2 ottobre 2004
Alla presenza delle autorità locali, il sottosegretario alla Giustizia, Jole Santelli, inaugura oggi alle ore 11.30 la nuova Area Peter Pan realizzata nella casa di reclusione di Rossano (Cs) e destinata allo svolgimento dei colloqui tra i genitori reclusi e i figli minori. Frutto dell’omonimo progetto, è la prima sala colloqui esistente in Italia ad essere stata realizzata con le sole risorse dell’istituto e con l’obiettivo di limitare al massimo l’impatto del bambino con la struttura carceraria e la condizione del genitore.
Comunicato stampa
Carcere di Rossano: inaugurazione della nuova sala colloqui per genitori e figli minori. Sabato 2 ottobre 2004 alle ore 11:30, presso la casa di reclusione di Rossano (Cs), il sottosegretario alla Giustizia Jole Santelli inaugura la nuova sala destinata allo svolgimento dei colloqui tra i genitori reclusi e i figli minori. L’Area Peter Pan, così denominata dall’omonimo progetto, è stata realizzata con l’opera di alcuni detenuti che si sono offerti volontariamente per eseguire i lavori di adeguamento. Si tratta della prima sala esistente in Italia ad essere stata realizzata con le sole risorse dell’istituto e con l’obiettivo di limitare al massimo l’impatto del bambino con la struttura carceraria e la condizione del genitore. La cerimonia inaugurale avviene alla presenza delle autorità locali e di rappresentanti dell’Amministrazione Penitenziaria.
La riflessione del direttore dell’istituto penitenziario, Angela Paravati
Per sua natura, il carcere è un luogo dove l’impatto, per chi viene dall’esterno, è decisamente forte e sconvolgente. Specialmente per i bambini. La visita del figlio che si reca in un istituto penitenziario per incontrare il genitore può trasformarsi in un avvenimento che lascerà un ricordo indelebile. Fisicamente, poi, i colloqui avvengono in uno spazio freddo e anonimo dove il calore di un sorriso paterno o materno non riesce a trasmettere che gelida malinconia. Al bambino, dunque, si è voluto prestare una particolare e doverosa attenzione creando un apposito ambiente caldo e accogliente che gli faccia concepire il luogo di detenzione in maniera diversa dallo stereotipo con il quale notoriamente è immaginato un luogo di pena. Con questa finalità, presso la casa di reclusione di Rossano, è stata realizzata un’area destinata allo svolgimento dei colloqui tra i genitori reclusi e i figli minori denominata Peter Pan. L’iniziativa, la cui esigenza è stata avvertita da tutti gli operatori che lavorano nell’istituto e alla cui ideazione ho personalmente contribuito, costituisce una novità assoluta nel panorama penitenziario calabrese e non solo. L’area Peter Pan consiste, infatti, nella creazione di ambienti simili a quelli esistenti nelle scuole dell’infanzia, ove i bambini possono accedere prima e durante l’effettuazione del colloqui con il genitore detenuto. L’obiettivo è quello di offrire un servizio nuovo che riduca, appunto, l’impatto dei bambini con la struttura carceraria e evitando o cercando di limitare i traumi causati dalle caratteristiche strutturali proprie degli istituti di pena. Il progetto, che si colloca nell’ambito della politica di rinnovamento dei penitenziari calabresi adottata dal dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Calabria, Paolo Quattrone, prevede anche l’istituzione di una ludoteca che consentirà, con l’ausilio di alcuni volontari, di animare i tempi di attesa prima degli incontri. I lavori di adeguamento dell’area Peter Pan sono stati eseguiti da alcuni detenuti volontari i quali, con entusiasmo, hanno dipinto le pareti degli ambienti trasformando fredde mura in una grande scenografia che riproduce personaggi dei cartoni animati. Questa e altre iniziative portate a termine nel nostro istituto trovano realizzazione anche grazie allo straordinario apporto dato dal personale di Polizia Penitenziaria ai comandi dell’ispettore Salvatore Prudente, apporto che riesce a far convivere e ad assicurare con grande professionalità le esigenze di sicurezza con l’azione trattamentale. Giustizia: Consiglio d’Europa preoccupato, Italia troppo lenta
Osservatorio sulla legalità, 2 ottobre 2004
Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha espresso oggi preoccupazione in merito alla rapidità con cui sono portate a termine le riforme del sistema giudiziario in Italia, ed in merito ha sollecitato il nostro Paese a "attuare ulteriori sforzi significativi". Dopo aver esaminato il rapporto delle autorità italiane sulla durata dei procedimenti giudiziari, il Comitato ha "lamentato" che misure adottate fin dal 2000 non abbiano prodotto un miglioramento stabile e che anzi, tra il 2002 e il 2003, si sia verificato un peggioramento, con un aumento sia della durata media dei processi che dell’arretrato dei procedimenti pendenti. Il Comitato ha preso nota con preoccupazione che "numerose misure annunciate fin dal 2000 restano in attesa d’adozione e/o di applicazione effettiva" e ha ribadito alle autorità italiane, "l’importanza di rispettare l’impegno di mantenere un’alta priorità alle riforme del sistema giudiziario e di continuare a fare progressi rapidi e visibili nell’attuazione delle riforme". Per quanto riguarda l’efficacia delle misure finora adottate, il Comitato ha lamentato l’assenza di un miglioramento stabile: "tranne poche eccezioni, tra il 2002 e il 2003 la situazione si è infatti deteriorata con un aumento sia della durata media dei procedimenti, che dell’arretrato dei procedimenti pendenti". Il Comitato ha quindi confermato la volontà di proseguire il controllo finché dati affidabili e coerenti non confermino un’inversione di tendenza sul piano nazionale. In questo contesto il Comitato dei Ministri in particolare: Ha sollecitato Italia ad attuare ulteriori sforzi significativi, soprattutto per quanto riguarda l’attuazione delle misure relative all’organizzazione interna dei tribunali al loro ammodernamento e al rinforzo delle loro risorse; Si è rammaricato del fatto che nonostante la proroga di un anno del mandato delle sezioni stralcio, queste non sembrino in grado di smaltire nei termini previsti i vecchi casi civili affidati loro nel 1998 e ha esortato le autorità italiane ad adottare tutte le misure necessarie per assicurare la conclusione di questi processi senza ulteriore ritardo; Ha incoraggiato l’Italia a garantire il rispetto dei termini della Convenzione in materia di ragionevole durata dei processi, attraverso un’interpretazione ed un’applicazione della Legge Pinto e di altre leggi interne pertinenti, conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e a continuare a studiare delle misure in grado di accelerare i procedimenti. Alla luce di questa situazione, il Comitato dei Ministri ha deciso di esaminare il 4° rapporto annuale sulla questione entro aprile 2005. Palermo: presto apertura nuovo padiglione al Malaspina
La Sicilia, 2 ottobre 2004
L’ex fortezza borbonica recupera locali chiusi da lustri e che adesso ospiteranno un archivio modernissimo. Si tratta di altri interventi che, da qui a pochi mesi, daranno un volto nuovo alla casa circondariale Malaspina di Caltanissetta, che tornerà così alla sua vecchia capienza e soprattutto non dovrebbe registrare più il sovraffollamento che si è verificato in passato. I dati diffusi nei mesi scorsi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - al cui vertice c’è il nisseno Giovanni Tinebra, ex procuratore alla Direzione distrettuale antimafia - parlano di sovraffollamento nelle strutture siciliane con percentuali altissime e gravi disagi per la popolazione carceraria. Nelle 25 strutture penitenziarie della Sicilia, nel mese di luglio di quest’anno erano ospitati in totale 5.738 detenuti mentre la disponibilità di posti era di 4.324. Tra i penitenziari con la più alta percentuale di sovraffollamento l’Ucciardone di Palermo con il 63%, Piazza Lanza a Catania con l’84%, Augusta con il 91%. Caltanissetta non ha vissuto di questi problemi, anche per i "cantieri" aperti negli ultimi mesi, che hanno ridotto la capienza del Malaspina. Nella struttura penitenziaria di via Messina sono in via di definizione lavori, per un importo di circa 2 milioni e mezzo di euro, finanziati dal Ministero. In un periodo in cui si parla di sovraffollamento nelle carceri italiane, la situazione a Caltanissetta dovrebbe migliorare. Nel braccio di sicurezza che verrà completato tra non molto, sono previsti 120 posti. In attesa della ultimazione dei lavori, si è ridotta la capienza. "I lavori vengono seguiti direttamente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - dice il dott. Angelo Belfiore, direttore del Malaspina - si attende adesso il collaudo per potere avere a disposizione il nuovo braccio, dove verranno ospitati detenuti ad alta sicurezza". E così ci saranno altri posti per i detenuti comuni, con la capienza complessiva che tornerà a 210-220 ospiti. Anche il Malaspina, nel corso dell’ultimo decennio, ha avuto problemi di sovraffollamento: in alcuni periodi, soprattutto in occasione dei processi, quindi nel periodo che va dall’autunno all’estate, si è arrivati a 300 ospiti per la struttura di via Messina, con i problemi immaginabili e le proteste da parte della popolazione carceraria. Per i lavori attualmente in corso, negli ultimi tempi anche il carcere di San Cataldo - dove vengono ospitati i detenuti che devono scontare gli ultimi 4 -5 anni - ha ospitato indagati raggiunti da provvedimenti restrittivi della magistratura, anche se per brevi periodi, con il successivo trasferimento soprattutto nel carcere di Enna. Altri lavori previsti al Malaspina riguardano il terzo padiglione (con nuovi locali per gli uffici del Nucleo traduzioni, piantonamenti e matricole) e verrà creata una nuova uscita per i detenuti, che consentirà di non dover transitare necessariamente dall’ingresso principale. Anche il terzo padiglione sarà tutto nuovo, dopo due anni di lavori. Nella casa circondariale di via Messina, prestano servizio una ventina di amministrativi e quasi 250 agenti della Polizia penitenziaria. In provincia è prevista un’altra struttura penitenziaria a Gela: sorgerà sulla strada statale 117 bis per Catania. Attualmente i lavori sono fermi, dopo essere stati ripresi l’anno scorso. Cominciati inizio anni 90’, rubato tutto, atti vandalici, avanzata, ministero chiesto autorizzazione per riparare lavori i vandali. Resta inutilizzato il carcere di Villalba, con capienza per una trentina di detenuti. Inizialmente la struttura doveva essere riservata a tossicodipendenti, ma in realtà non è stata mai aperta, malgrado i solleciti dell’amministrazione comunale che ha sempre visto nel carcere una possibilità per creare posti di lavori in una realtà che continua a spopolarsi. Alcuni anni fa, il sindaco Eugenio Zoda, lanciò una proposta provocatoria: aprire il carcere per ospitare gratuitamente - con vitto e alloggio - turisti interessati a visitare la zona del Vallone. Politiche detentive ingiuste e criminogene dell’Europa articolo di Loïc Wacquant *
Le Monde Diplomatique, 2 ottobre 2004
Imbevute di discorsi apocalittici sull’insicurezza, l’Europa e la Francia si sono immesse nel solco americano della privatizzazione delle carceri, dando inizio a un’escalation penale. La detenzione, diventata l’arma assoluta per lottare contro il disordine urbano e sociale, colpisce in primo luogo gli strati sociali meno favoriti. Ma non risolve alcun problema, anzi favorisce l’impoverimento e la marginalizzazione. Nel giugno 2003, la popolazione carceraria francese ha superato la soglia di 60.000 detenuti per 48.000 posti, un record assoluto, mai raggiunto dall’epoca della liberazione della Francia. Insalubrità, vetustà, promiscuità estrema, catastrofiche condizioni igieniche, carenza delle attività di formazione e di lavoro, che degradano il compito del "reinserimento" a livello di uno slogan vuoto e crudele, aumento degli incidenti gravi e dei suicidi (raddoppiati negli ultimi vent’anni): una situazione che suscitava proteste ovunque (1). Senza che vi fosse une seria reazione da parte delle autorità, troppo preoccupate di sbandierare la loro volontà di combattere quello che il capo dello stato - che se ne intende in materia - chiamava con tono corrucciato l’"impunità". Laddove la sinistra cosiddetta plurale praticava una penalizzazione vergognosa e larvata della miseria, la destra repubblicana assume la propria scelta di arginare lo sgomento e i disordini sociali che si accumulano nei quartieri di emarginazione, insidiati dalla disoccupazione di massa e dal lavoro flessibile, con il dispiegamento vigoroso ed enfatico dell’apparato repressivo. In realtà, fare della repressione della delinquenza di strada uno spettacolo morale permanente consente di riaffermare simbolicamente l’autorità dello stato nel momento stesso in cui si dimostra impotente sul piano economico e sociale. Ma usare il carcere come un aspirapolvere sociale per eliminare le scorie delle trasformazioni economiche in atto e cancellare dallo spazio pubblico i rifiuti della società di mercato - piccoli delinquenti occasionali, disoccupati e indigenti, gente senza casa e senza lavoro, tossicodipendenti, handicappati e malati mentali abbandonati per l’allentamento della rete di protezione sanitaria e sociale, giovani di origine popolare che la normalizzazione del lavoro precario condanna a (soprav)vivere arrangiandosi e rubacchiando - è una vera e propria aberrazione. Vale a dire, secondo la definizione del Dizionario dell’Académie française del 1835, uno "scarto della fantasia" e un "errore di giudizio" sia politico che penale. Una aberrazione anzitutto perché l’evoluzione della criminalità in Francia non giustifica per nulla lo straordinario sviluppo della popolazione carceraria dopo la moderata diminuzione degli anni 1996-2001. I furti con scasso, i furti di automobili e quelli compiuti sulle automobili in sosta (che rappresentano i tre quarti dei crimini e delitti registrati dalle autorità) regrediscono regolarmente almeno a partire dal 1993; omicidi e aggressioni mortali sono diminuiti dopo il 1995, secondo i dati forniti dalla polizia e dopo il 1984 secondo quelli dell’Institut national de la santé et de la recherche médicale (Inserm); i furti con violenza, che focalizzano l’attenzione dei media, a prescindere dal fatto che si tratta generalmente di "violenze" verbali (insulti, minacce), regrediscono da vent’anni (2). Complessivamente, quello che è cambiato negli ultimi anni, non è tanto la criminalità quanto lo sguardo che politici e giornalisti, portavoce degli interessi dominanti, gettano sulla delinquenza quotidiana e sulle popolazioni sospettate di alimentarla. In prima fila i giovani degli ambienti popolari usciti dall’immigrazione magrebina, parcheggiati nelle periferie urbane dissanguate da tre decenni di deregolamentazione economica e di assenza dello stato nella città, piaghe purulente che il placebo amministrativo della "politica della città" non è riuscito a sanare. Aberrazione anche perché la criminologia comparata stabilisce che non esiste da nessuna parte - in nessun paese, in nessun momento - una correlazione fra tasso di incarcerazione e livello della criminalità (3). Talvolta citati a mo’ di esempio, la politica poliziesca della "tolleranza zero" e la moltiplicazione per quattro in venticinque anni del numero di persone incarcerate in America hanno avuto un semplice effetto di facciata nella regressione dei conflitti, che si spiega con la combinazione di fattori economici, demografici e culturali. Comunque sia, nel migliore dei casi, il carcere tratta soltanto una parte infima della criminalità anche più violenta: negli Stati uniti, che pure dispongono di un apparato di polizia e carcerario grottescamente sovradimensionato, a causa della evaporazione cumulativa durante le diverse fasi dell’iter penale i quattro milioni delle più serie aggressioni contro le persone rilevate nel 1994 dalle inchieste (omicidi, colpi e lesioni gravi, furti con scasso, stupri) si sono conclusi con meno di due milioni di denunce alla polizia, le quali hanno provocato 780.000 arresti. E gli arresti hanno condotto, in fin dei conti, a 117.000 incarcerazioni soltanto, pari al 3% degli atti perpetrati. Il medesimo "effetto imbuto" si rileva nel funzionamento della giustizia penale in Francia, dove meno del 2% dei contenziosi portati davanti ai tribunali dà luogo a una pena di detenzione. In altre parole, il carcere non è adatto alla lotta alla piccola e media delinquenza, e a maggior ragione agli atti di "inciviltà" che, nella maggior parte dei casi, non hanno neanche rilevanza penale (sguardi malevoli, insulti, tafferugli, assembramenti e chiasso nei luoghi pubblici, danni di scarsa entità, ecc.). In terzo luogo, il ricorso sistematico all’incarcerazione per arginare i disordini urbani è un rimedio che in molti casi non fa che aggravare il male che dovrebbe guarire. Il carcere, in quanto istituzione basata sulla forza e operante ai margini della legalità, è un crogiuolo di violenze e di umiliazioni quotidiane, un vettore di distacco dalla famiglia, di mancanza di fiducia civica e di alienazione individuale. E, per molti detenuti marginalmente coinvolti in attività illecite, è una scuola di formazione, addirittura "professionale" alle carriere del crimine. Per altri - non che sia molto meglio - la mancanza di libertà è un baratro senza fondo, un inferno allucinatorio che riproduce la logica di distruzione sociale che hanno conosciuto fuori, cui si aggiunge lo stritolamento della persona (4). Inoltre la storia penale dimostra che mai, in nessuna società, il carcere si è mostrato all’altezza del compito di correzione e di reintegrazione sociale che ci si aspetta in una ottica di limitazione della recidiva. Dall’architettura all’organizzazione del lavoro delle guardie, dall’indigenza delle risorse istituzionali (lavoro, formazione, scolarità, sanità), dalla riduzione deliberata della liberazione condizionale, all’assenza di misure concrete di aiuto all’uscita, tutto si oppone alla sua funzione presunta di "riforma" del pregiudicato. In ultimo, a quanti giustificano l’intensificazione della repressione penale nei quartieri diseredati pretendendo che "la sicurezza è un diritto,e l’insicurezza una disuguaglianza sociale" che colpisce prima di tutto i cittadini dei ceti più bassi, occorre ricordare che la contenzione carceraria colpisce in modo sproporzionato le categorie sociali economicamente e culturalmente più fragili tanto più duramente quanto più sono sprovvedute. Come i loro omologhi degli altri paesi post-industriali, i detenuti francesi provengono per la maggior parte dalle frazioni instabili del proletariato urbano. Usciti da famiglie numerose (due terzi di loro hanno almeno tre fratelli e sorelle) che hanno lasciato in giovane età (uno su sette ha lasciato la casa prima di aver raggiunto i 15 anni), essi sono per la maggior parte privi di titoli di studio (i tre quarti hanno lasciato la scuola prima dei 18 anni, contro il 48% della popolazione maschile adulta), un dato, questo, che li condanna definitivamente ai settori periferici del mercato del lavoro. Sono per metà figli di operai e di impiegati ed essi stessi operai; quattro detenuti su dieci hanno un padre nato all’estero e il 24% è nato fuori dalla Francia (5). La detenzione non fa che acuire la povertà e l’isolamento: quelli che escono dal carcere sono per il 60% senza lavoro di fronte al 50% di quelli che entrano; nel 30% dei casi non sono né aiutati né attesi da nessuno; più del 25% non dispone del minimo denaro (meno di 15 euro) per far fronte alle spese derivanti dalla liberazione (6); e uno su otto non ha una casa quando esce. Inoltre, l’impatto deleterio dell’incarcerazione non si esercita soltanto su di loro ma colpisce anche, e in modo più insidioso e più ingiusto, le loro famiglie: degrado della situazione finanziaria, sfaldamento delle relazioni di amicizia e di vicinato, allentamento dei legami affettivi, disturbi nel percorso scolastico dei bambini e gravi alterazioni psicologiche legate al sentimento di emarginazione rendono più gravoso il fardello penale imposto ai genitori e ai congiunti dei detenuti. Del resto, il ragionamento grossolano secondo cui l’inflazione carceraria comporterebbe necessariamente una riduzione meccanica della criminalità per il suo effetto di "neutralizzazione" dei condannati messi nell’impossibilità di nuocere, non resiste all’analisi. Infatti, se applicata alla delinquenza occasionale, l’incarcerazione facile equivale a "reclutare" nuovi delinquenti per effetto di sostituzione. Un piccolo trafficante di droga posto in detenzione viene immediatamente sostituito da un altro se sussiste una richiesta solvibile per la sua merce e se le speranze di profitto economico lo giustificano. E se il successore è un novizio senza reputazione sulla piazza, sarà tanto più propenso alla violenza per sistemarsi e rendere sicuro il suo commercio, e ciò si tradurrà complessivamente in un aumento dell’illegalità. Per evitare una spirale penale senza fine e senza via d’uscita, occorre riallacciare il dibattito sulla delinquenza a uno dei problemi più gravi del nuovo secolo, attualmente oscurato: l’avvento del salariato desocializzato, vettore di insicurezza sociale e di precarizzazione materiale, familiare, scolastico, sanitaria e persino mentale. Perché è diventato impossibile avere una percezione ordinata del mondo sociale e concepire il futuro quando il presente si chiude e si trasforma in una lotta senza tregua per la sopravivenza giorno dopo giorno. Non si tratta qui di negare la realtà della criminalità né la necessità di trovarvi una risposta, meglio, delle risposte, compresa quella penale quando appare appropriata. Si tratta di capirne a fondo la genesi, la fisionomia cangiante e le ramificazioni "re-incardinandola" nel sistema completo dei rapporti di forza e di senso di cui essa è l’espressione. Per fare ciò è importante smettere di riempirsi di discorsi apocalittici e aprire un dibattito razionale e competente sugli illegalismi (al plurale), sui loro meccanismi e significati. Tale dibattito deve dapprima precisare perché si focalizza su questa o quella manifestazione della delinquenza - sulle trombe delle scale delle case popolari nelle periferie urbane piuttosto che sui corridoi dei municipi, sui furti di cartelle a scuola e di telefoni cellulari piuttosto che sulle malversazioni in borsa e sulle infrazioni al codice del lavoro o fiscale, e così via. Il dibattito deve sottrarsi al breve termine e all’emozione dell’attualità giornalistica per distinguere tra scatti umorali e ondate di fondo, tra variazioni incidentali e tendenze del lungo termine, e non deve confondere la spirale della paura, dell’intolleranza o della paura del crimine con l’aumento del crimine stesso. Ma, soprattutto, una politica intelligente dell’insicurezza criminale deve riconoscere che gli atti di delinquenza sono il prodotto non di una volontà individuale autonoma e singola, ma di una rete di cause e ragioni molteplici che s’intrecciano secondo logiche varie (predazione, spacconeria, alienazione, trasgressione, scontro con l’autorità, ecc.) e che, di conseguenza, richiedono rimedi diversi, con l’attuazione di una pluralità di meccanismi frenanti e di diversione. Perché il trattamento poliziesco e penale, difficilmente applicabile, presentato da alcuni come il toccasana, si rivela in molte circostanze peggiore del male, appena se ne contabilizzano gli "effetti collaterali". La criminalità è un problema troppo serio perché lo si lasci ai falsi esperti e ai veri ideologi o, ancora peggio, ai poliziotti e ai politicanti che non vedono l’ora di sfruttare il tema senza valutarlo né padroneggiarlo. Le sue trasformazioni richiedono non l’abbandono ma il rinnovo dell’approccio sociologico, l’unico in grado di strapparci al pornografismo securitario che riduce la lotta alla delinquenza a uno spettacolo ritualizzato, il quale serve soltanto ad alimentare i fantasmi di ordine dell’elettorato e a esprimere l’autorità virile dei decisori di stato. Il carcere non è un semplice scudo contro la delinquenza ma un’arma a doppio taglio: un organismo coercitivo assieme criminofago e criminogeno che, quando si sviluppa eccessivamente come negli Stati uniti durante l’ultimo quarto di secolo o nell’Unione sovietica nell’era staliniana, finisce per trasformarsi in vettore autonomo di pauperizzazione e di marginalizzazione.
Note:
* Docente presso l’Università di California, Berkeley e la New School for Social Research, New York. Questo testo è tratto dall’ultimo capitolo di Punir les pauvres: Le nouveau gouvernement de l’insécurité sociale, Agone, Marsiglia, che sarà pubblicato in settembre. (1) Observatoire international des prisons, Les conditions de détention en France. Rapport 2003, La Découverte, Parigi, 2003 (2) Si leggano i capitoli corrispondenti a queste infrazioni nel volume a cura di Laurent Mucchielli e Philippe Robert, Crime et sécurité. L’état des savoirs, La Découverte, Parigi, 2002 (3) Nils Christie, L’Industrie de la punition. Prison et politique pénale en Occident, Autrement, Parigi, 2003. (4) Jean-Marc Rouillan, "Chroniques carcérales", in Lettre à Jules, Agone, Marseille, 2004, e Claude Lucas, Suerte. La reclusion volontaire, Plon, Parigi, 1995. (5) Francine Cassan e Laurent Toulemont, "L’histoire familiale des hommes détenus", Insee Première, n. 706, aprile 2000 (6) Maud Guillonneau, Annie Kensey e Philippe Mazuet, "Les ressources des sortants de prison", Les Cahiers de démographie pénitentiaire, n. 5, febbraio 1998. (7) Nel 1996, la frode fiscale e doganiera ammontava a 100 miliardi di franchi, quella relativa ai contributi sociali più di 17 miliardi, le contraffazioni circa 25 miliardi di franchi. D’altronde, il controvalore monetario dei tentati omicidi volontari era valutata 11 miliardi di franchi, 4 miliardi di franchi per i furti di veicoli, e a 250 milioni di franchi per i furti in magazzino. Dati contenuti nel volume di Christophe Paille e Thierry Godefroy, Couts du crime. Une estimation monétaire des infractions en 1996, Cesdip, Guyancourt, 1999. (Traduzione di M.G.G.) Un’ondata di privatizzazioni per le carceri dell’occidente
Le Monde Diplomatique, 2 ottobre 2004
Le carceri non sfuggono all’ondata di privatizzazioni che scuote i paesi occidentali. In Francia, il ministro della giustizia, Dominique Perben, ha pubblicato il 30 luglio 2004 dei bandi di concorso rivolti a società private per la costruzione di 30 penitenziari entro l’anno 2007 e 13.200 nuovi posti... vale a dire un preventivo di 1,4 miliardi di euro che dovrebbero finire nelle tasche di grandi gruppi privati come Eiffage (ex-Fougerolles) o Bouygues. Anche la cosiddetta "foresteria" (alimentazione, lavanderia) sarà privatizzata. Alcune multinazionali come Sodexho si sono insediate in decine di paesi. Negli Stati uniti, in Gran Bretagna e in Australia, le società private gestiscono totalmente alcuni penitenziari, comprese le operazioni di sorveglianza. Gli scandali si moltiplicano, come quello di Wackenhut Corrections Corporation (Wcc), prima società mondiale di gestione di carceri private, che è stata incriminata nel 2000 per cattivi trattamenti inflitti ai detenuti di Jena, Louisiana. In questo carcere privato di 276 letti, i detenuti erano trattati "come se camminassero a quattro zampe!, a piedi nudi, senza biancheria pulita, costretti a battersi per mangiare", secondo l’accusa (1). Mal retribuite, le guardie hanno spesso una formazione insufficiente. Ciononostante, la deregolamentazione ha un bel futuro davanti a sé: il mercato delle carceri appare molto attraente per i gruppi privati tanto più che la popolazione carceraria cresce continuamente. Gli Stati uniti battono tutti i record con una percentuale di incarcerazione di 686 ogni 100.000 abitanti nel 2003. In Gran Bretagna, si contano 135 detenuti ogni 100.000 abitanti, come in Portogallo; in Spagna, 125 detenuti ogni 100.000 abitanti; in Belgio, 85 ogni 100.000. Sebbene la Francia rimanga nella parte inferiore della forchetta (99 per 100.000 nel 2003), il numero di detenuti è cresciuto del 32% dopo il 1990, per raggiungere, al 1° luglio 2003, il numero di 63.652, un aumento di 2.689 rispetto all’anno precedente, per un numero di posti, rimasto costante, di 48.600. La percentuale media di occupazione non è mai stata così alta: 128,3%. Questa sovrapopolazione non è tanto dovuta all’aumento della delinquenza quanto a un irrigidimento della giustizia penale, come si deduce dall’aumento della durata media di detenzione. Questa è più che raddoppiata in quindici anni (9,6 mesi nel 2003). Non sorprende che le persone più colpite provengano dai ceti popolari: il 15% dei detenuti sono analfabeti di ritorno, il 53,7% hanno un livello d’istruzione elementare. Altra caratteristica, la proporzione di suicidi presso i detenuti è raddoppiata tra il 1980 e il 2003 (22,8 ogni 10.000 nel 2003). Secondo l’Osservatorio internazionale delle carceri, 122 detenuti hanno scelto la morte nel 2002, ossia il 17,3% di più rispetto al 2001.
Note:
(1) Patrice de Beer "La justice américaine porte plainte contre le principal opérateur de prisons priveés" Le Monde, 3 aprile 2000. (Traduzione di M.G.G.)
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