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Torino: "caso Segio", la giustizia sconfessa se stessa di Riccardo Bonacina
Vita, 29 novembre 2004
Invitato dalla Camera penale di Torino ad intervenire al convegno La Pena ideata, applicata, vissuta, come testimone di ciò che significa pena vissuta, Sergio Segio avrebbe chiuso il suo intervento con queste ragionevoli parole: "Una giustizia solo celebrata che incute timore ma che non tiene conto dell’uomo, facilmente si rovescia nel suo contrario. Se la pena ideata e quella applicata sapranno, per un attimo, porsi in ascolto anche della pena vissuta, se sapranno considerare che la persona che pure ha commesso un reato non può essere identificata solo col crimine che ha commesso, forse la giustizia cesserà di essere una parola terribile. Allora la pena che perseguita molti anche dopo il carcere non sarà più infinita". Segio, però, non ha voluto e potuto prendere parola. Infatti, alla vigilia del convegno (lo scorso 18 novembre) Armando Spataro, segretario del Movimento per la giustizia e l’Associazione magistrati del Piemonte tramite lettere e comunicati hanno imposto un vero e proprio altolà alla presenza del testimone del Gruppo Abele. "Sono semplicemente allibito nel constatare che tra i relatori nella sessione finale vi sia Sergio Segio, indicato semplicemente come appartenente al Gruppo Abele. Sergio Segio è stato il capo assoluto di Prima Linea e ha personalmente ucciso, tra gli altri innocenti, i colleghi Emilio Alessandrini e Guido Galli", ha tuonato Spataro, e l’associazione piemontese ha rilanciato come "assolutamente inaccettabile", la decisione di invitare Sergio Segio. Al diktat hanno subito obbedito Giancarlo Caselli, procuratore generale di Torino, Giuseppe Buzio, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Torino e il Pm Maurizio Laudi. Insomma, tutti i rappresentanti della magistratura invitati. Un fatto gravissimo, non solo perché, come quei giudici sanno bene, lo scorso 17 marzo i loro colleghi di Milano hanno dichiarato estinta la pena per Segio avendo lui scontato 22 dei 26 anni di carcere a cui era stato condannato. Ma anche perché l’episodio dimostra tutta l’arroganza di quei magistrati e la loro concezione di una giustizia a misura del solo loro giudizio. Eugen Wiesnet, che Segio citava nella relazione, cominciava un suo libro così: "Dedicato ad Hans K., 19 anni, ritornato dal carcere minorile dopo tre anni di detenzione, il suo villaggio d’origine gli negò - come "furfante" e "galeotto" - ogni riconciliazione. Si impiccò per disperazione. Nella sua lettera d’addio scrisse: "Perché gli uomini non perdonano mai!". Calderoli: "un ministero per la criminalità"…
Quotidiano di Calabria, 29 novembre 2004
Sulla sicurezza Calderoli rilancia. Dopo la taglia per stanare i killer del benzinaio ucciso a Lecco e il porto d’armi più facile per difendersi, il ministro leghista insiste sulla necessità di creare un dicastero per la criminalità. Forte del sostegno di tutto il Carroccio, con il ministro della Giustizia Castelli in testa (anche se il leader Umberto Bossi due giorni fa aveva invitato i suoi ad una maggiore cautela: "non vogliamo giustizieri") e incurante delle divisioni provocate nella Casa delle libertà e dell’indignazione del Viminale anche sul "pacchetto Napoli", il vice presidente del Senato spiega - in collegamento telefonico con la convention di Destra protagonista, in corso a Chianciano - che di fronte ad un’emergenza come questa lui ha posto, oltre alla questione della ricompensa un’altra questione sul tavolo. Un ministero degli Interni, e - precisa Calderoli - non è una critica al povero Pisanu, non può gestire dalla burocrazia alle elezioni e altre tematiche che nulla hanno a che vedere con l’ordine pubblico e la sicurezza". Secondo il ministro per le Riforme istituzionali, che porterà questa proposta sul tavolo politico, non c’è nemmeno bisogno di un ddl, "perché è qualcosa che si può fare anche per via amministrativa". Per il ministro lumbard infatti "è impossibile non sapere che cosa fa la mano destra o la sinistra o anche il piede sinistro visto il numero dei corpi di polizia che esistono in Italia". Quanto al giro di vite previsto per i recidivi e l’introduzione nel codice del reato di "assistenza agli associati" - altro terreno di scontro con Pisanu - Calderoli sottolinea: "abbiamo portato in campagna elettorale un programma che prevedeva la certezza della pena". E ciò si può fare, secondo il vice presidente del Senato, anche per evitare "di vedere ripetersi la vicenda della ragazza uccisa a Napoli da una persona che era fuori dal carcere da due giorni avendo usufruito dell’indultino. Questo fatto - aggiunge polemicamente il ministro per le Riforme che ieri è andato a trovare Bossi - dovrebbe far riflettere chi votò quel provvedimento". Non è mancata nemmeno una frecciata agli alleati del centrodestra, che sulle sue proposte si sono divisi. "Alla fine della fiera - confessa Calderoli in un’intervista a Libero - mi hanno deluso tutti". E in particolare si riferisce a Forza Italia, "a quelli come Bondi e Cicchitto". "C’è un buonismo perbenista imperante che ormai fa sragionare i politici, che non stanno più dalla parte della gente, ma pensano solo a raccattare voti, sia a sinistra che a destra". Per concludere: "quando si tratta di tirar fuori gli attributi il mondo politico langue, anche nella Cdl". Di fronte all’ondata di polemiche provocate dalle sue proposte, in serata Calderoli ha detto: "ieri ero sconcertato, oggi sono decisamente arrabbiato". Secondo il ministro leghista "hanno tentato in ogni modo di mistificare la sua iniziativa e questo è indegno". La Lega però fa quadrato. E c’è anche chi - come l’europarlamentare Mario Borghezio - alza ulteriormente il tiro e propone la creazione di una Polizia del Nord. Criminalità: niente taglie, ma neppure trascuratezza…
Avvenire, 29 novembre 2004
La "taglia" sui malviventi? È legittima, ha detto il ministro leghista Roberto Castelli, difendendo quella avventatamente offerta dalla Lega sugli assassini del povero benzinaio di Lecco. E se l’uscita ha rinfocolato solo in parte le polemiche è perché è già in corso il gran ponte "weekend più sciopero generale" di martedì: l’Italia rivoluzionario - consumista è chiusa per ferie. Si può profittare del raro momento di silenzio per ragionare un poco? Oltre che leghista, Castelli è guardasigilli: è pensabile che prima di parlare abbia consultato qualcuno dei suoi esperti. Che - ne siamo certi - non l’avrà incoraggiato ad usare la parola "taglia", ma sulla sostanza immaginiamo avrà prospettato un’analogia. Nulla vieta ad un cittadino, cui abbiano rubato poniamo un quadro d’autore, di promettere pubblicamente una ricompensa a chi dia notizie utili al recupero della refurtiva. Certo, se l’iniziativa parte da un partito politico è un’altra faccenda. Che puzza forte di demagogia populista, di inaccettabile giustizialismo fai-da-te. Ma quando Castelli invita ad esercitare l’indignazione piuttosto sul fatto che "un bravo cittadino è stato ucciso", ci pare che intercetti un sentimento molto comune. Solo venerdì hanno riarrestato l’omicida di una ventenne napoletana, scoprendo che era stato appena dimesso dal carcere dove si trovava per rapina. L’omicidio, il più irrimediabile dei delitti, non costa da noi più di 17 anni, che scendono facilmente a cinque o sei a forza di sconti e pareri favorevoli di giudici di sorveglianza. E quante volte abbiamo sentito agenti e carabinieri confessarci la loro frustrazione perché "oggi li arrestiamo e fra tre giorni sono di nuovo fuori". A torto o ragione, molti cittadini onesti non sentono di avere il sistema giudiziario dalla loro parte. Sicché c’è un modo per togliere l’erba sotto i piedi dei demagoghi della taglia e del Far West, e ci pare che il compito spetti ai magistrati. Provo a spiegarmi con un esempio realmente accaduto, di cui è stata vittima una giornalista americana, moglie di un collega italiano abbastanza famoso. Tempo fa, nel Sud, la signora si vide strappare il cellulare con cui stava telefonando al suo editor in Usa. Fece la denuncia, che i locali carabinieri accolsero e misero nel cassetto. Ma come?, disse l’americana, io quel tizio l’ho visto in faccia, posso riconoscerlo... Pretese di vedere il librone delle foto dei pregiudicati. Sospirando, il maresciallo l’accontentò. Lei riconobbe quasi subito il suo uomo: e chiese di cambiare la denuncia da "contro ignoti" al nome del riconosciuto, che risultava un noto recidivo. Altro sospiro del maresciallo, che invitò la signora fuori dalla caserma per dirle due parole. Là, la informò: se lei mette il nome del tizio nella sua denuncia, quello che ne ricaverà è una controquerela del denunciato per calunnia, e andrà nei guai lei. Io?, sbalordì l’americana: ma quello è un pregiudicato, non io! Appunto, le fece capire il maresciallo: dunque più pratico di aule giudiziarie e procedure. La mia parola contro quella di un delinquente notorio!, esclamò l’americana. Il maresciallo si strinse nelle spalle. Ecco, è qui il problema. In questa sorta di equivalenza che spesso il cittadino onesto sente di fronte al suo offensore: due "pratiche", due faldoni e niente più. È solo un episodio, e non vogliamo farci una polemica. Magari uno spunto da meditare, in questo lungo ponte. Lamezia: don Giacomo Panizza e i "ragazzi di famiglia"
Redattore Sociale, 29 novembre 2004
Dal 1976, partito dalla Comunità di Capodarco, è in Calabria, a Lametia Terme, dove ha conosciuto il mondo di clan ("prima a me totalmente sconosciuto"), ha cercato di capire, e ha cominciato a ‘combatterli’ semplicemente facendo il proprio mestiere, il sacerdote, denunciando e aiutando giovani e famiglie ad uscire dal giro. Un atteggiamento che lo costringe, oggi, a viaggiare guardato a vista da agenti di scorta. Don Giacomo Panizza è tornato sabato scorso a Capodarco, per prendere parte ad un workshop all’interno dell’undicesima edizione del seminario per giornalisti "Redattore Sociale". Accanto a lui, in qualità di moderatore - relatore, il giornalista del Tg3 Santo della Volpe. Davanti a lui, i tanti giovani che hanno deciso di ascoltare proprio l’esperienza e le considerazioni del sacerdote, per un lavoro di gruppo sui "Ragazzi di famiglia". "Il lavoro sociale che svolgo e il fatto di fare il prete - ha affermato Panizza -, mi hanno messo in contatto coi giovani di questi "giri" normali e pericolosi. Ho compreso pian piano che fanno parte della normalità del vissuto di ampie zone del Sud Italia. Pian piano ho intravisto e constatato che quei vissuti sono anticipi di un disagio che in seguito si manifesta anche altrove, nelle altre parti d’Italia". "Per il lavoro sociale che svolgo mi capita di aiutare giovani provenienti da clan diversi, anche nemici tra di loro. Per il fatto di fare il prete mi capita di venire a sapere che alcuni deviano dal clan, ad esempio drogandosi, dando fuori di testa, costruendosi una via d’uscita "motivata" dal gruppo criminale, per non sparare più a nessuno". Fino a conclusioni che potrebbero sembrare paradossali: "Può sembrare normale che un giovane che mi voleva sparare in cattedrale sia poi finito a lavorare nella polizia? - ha chiesto Panizza -. Può sembrare normale che chi ha fatto un po’ di strada in un clan, ora abbia cariche pubbliche o faccia il parroco? Può sembrare normale che guardie e ladri abbiano gli stessi valori?". Le considerazioni di Panizza si sono alternate a quelle di Della Volpe, in una sorta di intervista-dialogo che ha messo insieme il punto di vista dell’operatore in prima linea e quello del giornalista alle prese con il racconto di una realtà non semplice. Non semplice per la complessità del vissuto ma anche per il modo di svolgere la professione giornalistica, in un contesto "pressante" anche per chi fa informazione. Ma, tornando all’argomento, quali attrattive hanno i clan verso i giovani? "La prevalenza è maschile, ma le femmine sono in aumento – ha rilevato don Giacomo -. E l’attrattiva è "la potenza" più che il potere. È il rispetto. Un "lusso" prendere di più che uno stipendio. Andare in un posto e non pagare è un senso di potenza. Avere una macchina o una moto che non avresti potuto avere, andare in certi locali e venire rispettato... Avere regali di lusso. Questi giovani - ha evidenziato - sono più spendaccioni che collettori di denaro. Ed entrando nel giro delle ‘ndrine (così si chiamano i terribili gruppi della malavita calabrese, ndr) ottengono un certo prestigio sociale. Contano perché vengono da "famiglie zero" o disagiate". C’è la manovalanza, ma ci sono anche altri livelli. Racconta sempre don Giacomo Panizza: " I figli dei veri boss studiano. Cercano di diventare professionisti. I boss usano, accalappiano, reclutano altri giovani, soprattutto poveri. Dalle famiglie economicamente disagiate, Infatti, dove c’è una educazione culturale medio-alta c’è lo spinello o la coca o le bravate o il sesso, ma non vanno nei clan. E più facile reclutarli in certi ambienti, senza scuola, con famiglia assente o distratta. Sono i tipi da sala giochi, da discoteche, ecc…" Perché più maschi che femmine? "Perché ci sono esigenze di manovalanza. Per traffici e delitti, i clan si rivolgono ai maschi". E le femmine? "Una volta le donne non c’entravano, ora sì. Anche se c’entrano poco ovvero in poche. Le femmine vengono utilizzate soprattutto per il traffico degli stupefacenti, sia per percorsi lunghi che per percorsi locali. Sono soggette a meno controlli. Vengono pagate anche con dosi di droga per se stesse. Le donne trasportano droga e messaggi. Va di persona, senza fogli, ma parla lei. È il colombo col messaggio parlato. È più pericolosa. Per le donne è come se ci si rifacesse del tempo perduto, saltano i freni inibitori, non solo ti uccide, ti deve distruggere sta aumentando il numero delle femmine coinvolte. Perché non prendono dentro al 100% le ragazze? Perché sono il sesso debole. Vengono usate per "vedere" e riportare avvenimenti, spostamenti, presenze... Non solo: i clan hanno in gran parte ancora un programma di vita per lei, la giovane, inteso come "regola" interna alla ‘ndrangheta". Le soluzioni sono difficili da individuare. E forse non può essere considerata una soluzione il carcere. Precisa don Panizza: "Chi è stato in carcere e ne è uscito è più forte. Il carcere viene vissuto come una nota di merito e chi ha fatto questa esperienza, chi ha questa "medaglia" può ambire a posti più elevati e remunerati, a compiti più difficili all’interno delle famiglie. I giovani sono attratti dalla esperienza fatta in carcere. Si entra nei gruppi criminali anche attraverso le conoscenze del carcere". Più si viene feriti e più ci si sente forti e rispettati. Più si va in carcere e più si vale (per i Rom, come cultura più che come clan criminale). Più non parli e paghi col carcere e più ottieni fiducia ed euro, e se ne vanno di capo. Più hai foto sui giornali e più conti, ma non ci si rende conto che il vincolo si rompe solo con la morte "Ogni clan ha il suo esercito - continua - , che deve addestrare, per poi poter usare. Recluta tra i giovani perché non hanno una personalità, sono attratti dal facile guadagno, e vedono nell’adulto malavitoso un idolo rispettato da tutti. Nella società vedono che il boss è rispettato. Se va un Torcasio all’Ufficio anagrafe non gli fanno fare la fila". Insomma, i grandi suggeriscono, promettono, esigono da loro. E i giovani si aspettano soldi e benessere facile. "Nei clan entrano anche giovani buoni, ma che vedono che lo Stato sta a guardare, che non dà lezioni ai boss, e i processi sono lunghi. E che i ‘ndranghetisti escono subito di prigione – evidenzia il sacerdote – Mi dicono: don, ma tu ha visto che ce la fanno sempre a uscire dalla galera? Don, hai visto che basta pagare gli avvocati? E anche i carabinieri hanno paura di loro. Anche i vigili. Nessuno vede infrazioni o abusi o abusivismi di questi qua. A Lametta Terme c’è una casa di 4 piani, in pieno centro, con anche gli allacci abusivi di corrente e telefono, Possibile che nessuna la veda, che la veda solo io?". "I giovani - continua - vedono che la verità processuale è una cosa, ma la verità storica (l’accaduto) la gente la conosce. Eppoi ora i mafiosi non fanno solo affari loschi: gestiscono lavori puliti. Le attività commerciali (nelle quali fanno girare denaro) oltre il racket". Ma il problema non è solo quello delle operazioni di polizia fatte e messe sui giornali, ma quello di chi del clan rimane fuori. Eppoi si vede che anche chi entra in carcere, esce subito. E di questa operazione rientro in società ci sono meno notizie e meno commenti. Da qui il ruolo dei giornalisti, spesso sollecitato da Della Volpe: "Il giovane che dopo la cattura in 15 giorni è uscito da carcere, si sente forte. I giornalisti dovrebbero informare di più su chi viene liberato subito – afferma don Giacomo - . Ed ancora: si dà la notizia sul magistrato che blocca un’impresa, e non sullo Stato che fa prima un contratto e l’appalto con la ditta mafiosa". Ma cosa ottengono, di fatto, questi giovani "di famiglia"? "I giovani sono pensati e chiamati soldati. Non sono capo-decina né capo-mandamento né capozona. Sono sotto il "mammasantissima" di tutti. Solo lui deve dare conto al "mammasantissima" di un altro territorio. Ottengono cose materiali, soldi-premio per ogni azione-crimine: 200 euro per bruciare un’auto, 1000 euro per uccidere, 100 euro per pizzo o percentuali, 100 per picchiare. Passi a riscuotere e vai su di grado. E se fai il corriere di armi o droga vai anche a percentuale. Eppoi ottengono compiti: di taglieggiare, portare e collocare bombe di tutti i tipi, assaltare furgoni. Ottengono più cose da sapere, più cose da vedere, più da tacere. E ottengono anche lavoro per i familiari o altri". Ci sono i riti. Giuramento di sangue e taglio ai polsi. Visibilità e nascondimento. E ogni ‘ndrinà gioca a dare un proprio segno di riconoscimento al proprio operato. C’è chi, dopo aver ucciso, fa a pezzi i cadaveri, chi dà fuoco. Ma nessuno ha paura? Sono forse attratti da un mondo di morte? "I pericoli non li mettono in conto. Sono soggiogati-innamorati del prestigio e non della morte – precisa don Panizza -. Tutt’al più temono il carcere. Ma gli adulti dimostrano loro la loro impunità... che è vera. E dicono "io ho fatto di tutto, e sono fuori dalla prigione". Non c’è gente professionalmente preparata a fronteggiare questa cultura e questi fenomeni. Perché qui non serve la polizia o solo la repressione. Non a caso i giovani e gli adolescenti criminali, per le leggi, sono più fuori che dentro il carcere". Don Panizza cita i dati dell’Istituto Penale Minorenni di Catanzaro (dati 2003): 35 italiani, 9 nomadi, 21 stranieri. Un totale di 65 ragazzi. In generale, al 30/4/2004 sono circa 600 quelli in carcere, "il resto è fuori ed è invisibile, se non ai clan", commenta don Panizza. E allora? "Qui c’è da fare non solo riduzione del danno alla società, ma molta prevenzione per la società e per i giovani. Con un nuovo modello culturale, con un codice di sicurezza sociale e non solo di sicurezza pubblica: solo così anche i giovani evitano rischi". Ma quanti cercano di uscire? "Si cerca di uscire, soft o disperatamente. Si cerca di uscire anche drogandosi e divenendo inaffidabili, per non sparare più - conclude don Panizza -. Un giorno un giovane mi ha detto: Senti, se torno indietro vivo a pane e cipolle." "Un Governo che non dà risposte franche, che sono sociali e culturali, impoverisce la cultura, la società e l’economia. La società si impoverisce. Il 70% di chi va fuori a studiare non torna più. Non c’è relazione. Anche in parrocchia: con alcuni figli di mafiosi gli altri non ci vengono. Allora il parroco fa un altro gruppo. E così i giovani che vivono benessere si affinano. Stanno attenti a entrare lì dentro…". Risposte? Qualcuno ha parlato della necessità di avere più Stato. Altri hanno fatto ricorso all’immagine di un giornalismo militante e non solo osservante per la denuncia di simili situazione. In generale, però, il seminario di risposte e soluzioni non ne ha date. E non avrebbe dovuto darle. Si è trattato di uno spaccato serio, interessante, di una presa di conoscenza di un problema che solo chi opera in prima linea può riportare e far vivere nella giusta maniera. Spoleto: 20 detenuti per il film "La Bohème a Maiano"
Redattore Sociale, 29 novembre 2004
Si differenzia dai documentari realizzati finora che riferiscono della realtà all’interno delle carceri italiane: in esso confluiscono le immagini e i racconti dei detenuti-protagonisti impegnati nell’allestimento delle scene e dei costumi della Bohème pucciniana, insieme alle storie degli educatori e del personale dell’amministrazione penitenziaria, colti nella realtà delle relazioni e del lavoro quotidiano. "La Bohème a Maiano" è il film realizzato all’interno del carcere di alta sicurezza di Maiano di Spoleto. Prodotto dalla Provincia di Perugia che lo ha appena presentato al Futurshow e sostenuto dalle Fondazioni Cassa di Risparmio e Credito e Servizi, il lungometraggio nasce da un’idea della regista Porzia Addabbo (regista romana che tra le altre cose ha scritto e diretto il documentario "Verdi appeso ad un filo", in occasione delle celebrazioni verdiane) e si lega all’iniziativa dell’ente Teatro lirico sperimentale di Spoleto che ha rappresentato, di concerto con l’amministrazione carceraria, l’opera pucciniana all’interno del carcere. Ai detenuti è stato proposto di studiare a fondo la Bohème, l’ambientazione e la temperie sociale e culturale del periodo; hanno ragionato su se stessi e sulla condizione della donna e sono giunti a creare prodotti quali abiti, scialli, modellini, coreografie riferiti alle quattro ambientazioni dell’opera. Agganciato ai corsi di scenografia tenuti all’interno del carcere da insegnanti dell’Istituto d’arte Leoncillo Leonardi di Spoleto e ai corsi di tessitura, il film ha impegnato quattro classi, coinvolgendo un totale di 20 detenuti. "È stato un esperimento di alto valore artistico e sociale - tiene a dire l’assessore provinciale Pier Luigi Neri - che ha contribuito a restituire ai carcerati fiducia in se stessi e nel futuro. Lavorando a questa iniziativa hanno parlato, si sono raccontati come persone alla scoperta di realtà nuove: intelligenze sottili e manualità straordinarie hanno dato vita ad una serie di prodotti che meritano attenzione per progetti futuri". Il film "potrebbe avere un suo seguito ideale con la realizzazione di una Bohème in Europa - riferisce Neri - realizzando tra l’altro uno dei sogni espressi dai protagonisti". Per il direttore della casa di reclusione di Maiano, Ernesto Padovani, la realizzazione del film è stata "una preziosa occasione per dare un senso ai tempi vuoti del carcere e per restituire qualcosa alle persone private delle libertà". La colonna sonora de "La Bohème a Maiano" è firmata dal compositore Alessandro Casini, già collaboratore della stessa Addabbo per documentari televisivi, mentre alla scenografia ha collaborato Piero Lorenzini. Inchiesta: autolesionista un detenuto straniero su quattro
Redattore Sociale, 29 novembre 2004
Assume contorni preoccupanti il fenomeno dell’autolesionismo dietro le sbarre: 1 detenuto straniero su 4 (dei 600 interpellati) ha compiuto atti autolesionistici. Gesti che presuppongono "un processo di annichilimento del proprio vissuto e della propria persona che non è solo il risultato di un disagio personale, ma propriamente il portato di un processo di disaggregazione individuale che solo socialmente è possibile giustificare. In pratica, è il livello più estremo di esclusione sociale vissuta internamente al carcere", osserva il sociologo Alberto Lo Presti, che ha diretto la ricerca "Le condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane", promossa dalla Facoltà di scienze sociali della Pontificia università S. Tommaso d’Aquino insieme alla Fondazione Migrantes e all’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri. Sulle motivazioni che li spingono a compiere atti di autolesionismo, i detenuti spiegano così il loro comportamento: "perché non riuscivano ad avere alcun contatto con la famiglia; perché volevano ottenere un lavoro; perché reputavano ingiusta la loro vita in carcere". Un’altra questione aperta è il destino del detenuto straniero dopo la detenzione: o viene rimpatriato o ritorna nell’illegalità e clandestinità. Il questionario chiedeva ai detenuti stranieri se pensavano di essere rimpatriati o di rimanere in Italia. "Solo il 15% è a conoscenza che probabilmente sarà espulso, mentre il 60% non lo sa, e il resto è sicuro di poter rimanere", riferisce l’indagine. "La legge Bossi-Fini del 2002 rende molto difficile che un cittadino straniero in carcere possa poi riprendere una vita normale nel nostro territorio, possa reinserirsi socialmente. Anzi, l’espulsione è pensata come misura alternativa e il magistrato di sorveglianza dovrebbe espellere di sua iniziativa tutti quei detenuti stranieri irregolari che siano stati identificati e che abbiano meno di due anni da scontare – osserva Lo Presti -. Ci troviamo di fronte ad un impasse dal punto di vista politico: è chiaro che se non applichiamo il trattamento penitenziario, la logica conseguenza è che il detenuto straniero se ne torni a casa. Mentre qualora al detenuto straniero fosse insegnata la lingua, un lavoro, le nostre regole della convivenza civile, sarebbe davvero paradossale rimandarlo a casa dopo aver cercato di reinserirlo nella nostra cultura". Cagliari: Isili, una vera integrazione tra carcere e territorio
Redattore Sociale, 29 novembre 2004
A Isili (Sardegna) una vera integrazione tra carcere e territorio, ma le strutture penitenziarie chiedono più fondi. Per il sindaco Salvatore Pala si è instaurato un rapporto straordinario tra popolazione e i detenuti È fondamentale un’integrazione che realizzi sinergie proficue fra carcere e territorio. Lo aveva dichiarato nei giorni scorsi al nostro giornale Vincenzo Alastra, direttore della casa di reclusione di Mamone (Nu). Dopo il parere del responsabile della struttura carceraria, è interessante conoscere l’opinione degli amministratori politici, di coloro, cioè, che i penitenziari li ospitano sul proprio territorio. Uno di questi è Salvatore Pala, sindaco di Isili, paese che convive con una struttura detentiva dal 1878. E Pala non solo sottoscrive le parole di Alastra, ma porta anche l’esempio concreto di una realtà nella quale l’integrazione sembra davvero essersi realizzata in modo straordinario. "Si è instaurato - rivela il primo cittadino - un rapporto di natura quasi affettiva, tanto che non lo chiamiamo mai "il carcere", ma "sa colonia", quasi fosse una sistemazione estiva per bambini". Un penitenziario che vanta una colonia agricola di 700 ettari, in parte adibita a bosco e ad attività zootecniche, nella quale i detenuti imparano i fondamenti del mestiere. L’importanza dell’iniziativa risalta maggiormente se si analizza il radicale cambiamento che si è registrato negli anni nella composizione della popolazione carceraria. "In passato - ricorda Pala - gli ospiti erano prevalentemente pastori o artigiani che commettevano una sciocchezza, mentre oggi si tratta per il 75 % di extracomunitari, del tutto privi di bagaglio professionale". Una proficua esperienza, quella di Isili, che potrebbe trainare quelle di altre municipalità: "Sono sempre pienamente disponibile- conferma il sindaco- a studiare progetti integrati con altre amministrazioni comunali". Secondo Pala, più che la costruzione di nuove carceri, ciò che serve davvero al sistema è la capacità di cogliere opportunità che si rivelino preziose per un doveroso reinserimento dei detenuti, ma anche per i vantaggi che la comunità può trarre. "Per esempio - spiega il titolare della fascia tricolore - penso all’impiego dei detenuti all’interno di istituzioni come le biblioteche o come quelle che tutelano i beni archeologici". Ma, come al solito, per passare dalle parole ai fatti servono le risorse adeguate, e il problema della necessità di contributi statali è emerso anche nel corso del convegno "Carcere e Territorio", tenutosi martedì scorso presso il carcere di Mamone e organizzato congiuntamente dal Centro Sardo Volontariato, dal Ministero della Giustizia e dall’amministrazione penitenziaria sarda. All’incontro, cui hanno partecipato diversi sindaci che ospitano strutture detentive all’interno dei loro Comuni, era presente Giuseppe Magni, segretario del ministro della Giustizia. "Magni - afferma Pala - ha condiviso le nostre posizioni, ma ci ha anche detto che quando tornerà in dicembre vorrà vedere fatti e non parole". "Io sono d’accordo - prosegue il sindaco - ma perché si realizzi davvero la politica dell’aiuto e non dell’abbandono. È indispensabile raggiungere un compromesso: loro comincino a farci avere i primi fondi e noi avvieremo subito le iniziative". Nuoro: intervista al direttore del carcere di Mamone
Redattore Sociale, 29 novembre 2004
Un convegno nel Nuorese per parlare dei rapporti tra le comunità locali e le strutture penitenziarie dell’isola. Vincenzo Alastra, direttore della casa di reclusione di Mamone, illustra le iniziative per coinvolgere i detenuti Ha ancora un senso parlare di funzione rieducativa della pena? Certamente, a patto che si instaurino proficue sinergie fra le strutture penitenziarie e i territori che le ospitano. Non è solo un’opinione personale, ma una condivisione di idee emersa a Mamone (Nuoro) durante il convegno "Carcere e Territorio: idee e progetti per un nuovo rapporto interistituzionale", organizzato dal Centro di Servizio per il Volontariato Sardegna Solidale in collaborazione con il Ministero della Giustizia e il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna. Fra gli ospiti di Vincenzo Alastra, direttore della casa di reclusione di Mamone, anche diversi sindaci del nuorese, che annoverano nel territorio dei loro comuni realtà carcerarie o iniziative di reinserimento. In Attualmente, esistono nell’Isola 12 istituti penitenziari. E proprio la partecipazione dei rappresentanti delle municipalità interessate dal fenomeno è considerata in maniera estremamente positiva da Alastra. "Personalmente - afferma il responsabile della struttura detentiva- mi ritengo molto soddisfatto, perché abbiamo finalmente applicato una prospettiva più estesa a livello regionale". "In questo modo - prosegue il direttore del complesso penale - si può esaminare l’argomento delle carceri in un’ottica che non sia limitata solo agli addetti ai lavori, ma inserita nel quadro più ampio delle istituzioni e della comunità in generale". I primi cittadini intervenuti al convegno concordano su questo punto di vista ma, è l’immediato avvertimento di Alastra, non è pensabile che tutto il peso delle responsabilità ricada sulle loro spalle e, quindi, sulle istituzioni di cui sono a capo. Anche perché, sottolinea il direttore dell’istituto penitenziario, il problema è fondamentalmente culturale e riguarda prevalentemente l’aspetto rieducativo insito nella pena. Secondo Alastra è inutile riferirsi al detenuto dispensando dosi massicce di commiserazione fine a se stessa. Bisogna invece "considerarlo come una persona che ha sbagliato e che, per rimediare all’errore, sconta una condanna da una posizione in cui è titolare di diritti e doveri". Soprattutto è indispensabile che, una volta pareggiati i conti con la giustizia, la comunità civile sia pronta ad accogliere nuovamente l’ex colpevole. In questo senso, l’incontro di martedì ha evidenziato, una volta di più, l’imprescindibile funzione del volontariato: non solo per la sua natura gratuita, che consente di aggirare ostacoli altrimenti insuperabili, ma anche in virtù di quella funzione sociale che contribuisce fortemente ad "abbattere il muro che prima esisteva fra il carcere e il mondo esterno". È importante l’impegno di alcune famiglie che, nel loro piccolo, accolgono nelle loro case i detenuti, anche per brevi periodi (a volte solo poche ore). Ancor più rilevante l’apporto di diverse cooperative che insegnano dei mestieri ai detenuti mentre stanno ancora scontando la pena, in modo che imparino ad applicarsi in vista del reinserimento nella società civile. Una volta fuori, non saranno più mantenuti dallo Stato e dovranno assicurare al datore di lavoro serietà, applicazione e rendimento. Abituati come siamo ai problemi del sistema carcerario italiano, e sardo in particolare, è lecito chiedersi se un meccanismo del genere dia risultati concreti: sembra di sì se, come racconta Alastra, "a Mamone ci sono 160 detenuti, per l’80 % extracomunitari, e tutti lavorano". A proposito delle difficoltà diffuse nel panorama penitenziario, il convegno ha registrato anche l’intervento di Giuseppe Magni, segretario del ministro della Giustizia Castelli, che ha confermato la volontà del Ministero di potenziare le strutture già esistenti ed, eventualmente, studiare la possibilità di predisporne di nuove. Alastra giudica positivamente questo impegno, mentre è più cauto su alcuni provvedimenti spesso ritenuti in grado di contribuire alla risoluzione dei problemi carcerari. Al di là dell’indultino ("non ha interessato la Sardegna, se non marginalmente"), l’approccio più corretto nei confronti delle misure di clemenza è quello che porta a "valutarle non in sé stesse, bensì tenendo conto dei motivi che di volta in volta le ispirano". Inchiesta: detenuti stranieri presi in carico dai "pari"
Redattore Sociale, 29 novembre 2004
Lo straniero detenuto è "culturalmente preso in carico dal gruppo dei pari": ascolta i suoi connazionali, gli anziani di cella, e preferisce loro per apprendere le regole e i meccanismi. Chi "educa" il detenuto straniero in carcere, aiutandolo a socializzare? Se "è giuridicamente preso in carico dalla struttura penitenziaria", spesso tuttavia "è culturalmente preso in carico dal gruppo dei pari, cioè ascolta i suoi connazionali, gli anziani di cella, e preferisce loro per apprendere le regole e i meccanismi del carcere". Ma non si ricorre al compagno più anziano di cella "per farsi spiegare o chiarire, o tradurre, una norma del carcere; gli si chiedono delle "dritte", dei consigli e degli accorgimenti su cosa conviene scegliere, fare, dire". Lo riferisce la Fondazione Cei Migrantes, commentando la ricerca "Le condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane", promossa dalla Facoltà di scienze sociali della Pontificia università S. Tommaso d’Aquino insieme alla stessa Migrantes e all’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri. Presentata nei giorni scorsi presso l’ateneo pontificio, nell’ambito di un convegno sullo stesso tema, a cui ha partecipato anche mons. Giorgio Caniato, responsabile dell’Ispettoria generale dei cappellani delle carceri, che condivide la vita con i detenuti da quando - 41 anni fa - il Beato cardinale I.A. Schuster, un mese prima di morire, gli ha propose: "Vuoi andare anche tu in galera?". "Il diritto fondamentale del cittadino straniero in carcere è quello di essere rieducato e reinserito", osserva Alberto Lo Presti, sociologo, docente all’Angelicum e responsabile dell’indagine, precisando: "Spesso l’organizzazione penitenziaria favorisce l’inserimento di un detenuto straniero in una cella dove sono presenti detenuti dello stesso gruppo etnico o linguistico, per agevolare il detenuto appena entrato. In realtà, la ricerca denuncia una controindicazione ben evidente: il detenuto trova anche canali di socializzazione alternativi a quelli che il carcere (almeno teoricamente) vorrebbe proporgli". Quindi quali sono le figure di riferimento più importanti per i detenuti stranieri: di solito, il cappellano e l’avvocato; a seguire, gli agenti, gli operatori, lo psicologo. Mentre i detenuti "giovani di età anagrafica e giovani di periodo di detenzione sono favorevolmente attratti dai detenuti connazionali più maturi, sia di età anagrafica che di esperienza carceraria", al contrario "i detenuti maturi e di esperienza prediligono il cappellano quale punto di riferimento, ma anche le altre figure istituzionali, a prescindere dalla religione di appartenenza", evidenzia Lo Presti. Quindi dietro le sbarre la religiosità aumenta, fino a diventare un dato significativo: tra i 600 intervistati - metà cristiani, metà musulmani - i dati sulla partecipazione religiosa sono quasi uguali: 75% sono i cristiani praticanti, contro il 60% dei musulmani. "Proporzionalmente - commenta il sociologo - c’è una religiosità quadrupla: la quota di praticanti rispetto alla società esterna è 4 volte di più. E lo stesso dicasi rispetto alla condizione pre-carceraria". Tuttavia la religiosità non presenta un’intensità costante nel tempo, ma cambia secondo un ritmo preciso: se al momento dell’ingresso "aumenta vertiginosamente", con il passare del tempo si stabilizza; infine, "il detenuto cosiddetto di lungo corso ha una vita spirituale più o meno costante e forse un po’ ridotta rispetto all’enfasi iniziale, la sua pratica religiosa scema un po’, ma rimane altissimo il rapporto col cappellano". Inchiesta: l’80 detenuti stranieri non viveva in famiglia
Redattore Sociale, 29 novembre 2004
Circa il 30% dei detenuti stranieri, prima di entrare in carcere, viveva con conoscenti occasionali, mentre il 27% viveva solo e appena il 18% con la propria famiglia. Solo il 37% aveva un lavoro in nero e saltuario, il 26% lavorava regolarmente e il 37% era disoccupato. Sono alcuni dei dati emersi da 600 questionari somministrati in 6 istituti di pena nell’ambito della ricerca "Le condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane", promossa dalla Facoltà di scienze sociali della Pontificia università S. Tommaso d’Aquino insieme alla Fondazione Migrantes e all’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri. L’indagine prevedeva che il questionario in italiano – somministrato dai cappellani delle carceri tra i mesi di febbraio e marzo 2004 - fosse tradotto in albanese, arabo, armeno, cinese, croato, francese, georgiano, ibo (Nigeria), inglese, polacco, rumeno, russo, spagnolo, ucraino. I penitenziari coinvolti sono stati: "S. Vittore"- Milano; Prato; "Ucciardone" - Palermo; "Le Vallette" - Torino; "Regina Coeli" - Roma; Isili (Nuoro). I cappellani sono stati coadiuvati da operatori, volontari, mediatori culturali, psicologi; tuttavia alcuni detenuti arabi di San Vittore hanno rifiutato di rispondere alle domande, quindi nei risultati complessivi dello studio (durato 2 anni) c’è "una sottostima di questo gruppo di detenuti", commenta Barbara Sena, vicedirettrice della ricerca, coordinata e diretta dal sociologo Alberto Lo Presti, docente di sociologia presso la Pontificia Università "San Tommaso d’Aquino". L’indagine verrà pubblicata integralmente all’inizio del 2005; i detenuti interpellati sono tutti uomini, compresi tra i 18 e i 64 anni, dietro le sbarre da un mese fino ad oltre 10 anni. La metà di loro è musulmana; le etnie più rappresentate sono quelle albanese, rumena, marocchina, tunisina, algerina. I detenuti stranieri raggiunti "confermano una situazione di profonda emarginazione linguistica, giuridica, lavorativa, sociale", sottolinea Lo Presti. Infatti, "uno su 3 è vissuto in Italia conoscendo niente o pochissimo la lingua italiana, 2 su 3 non avevano le carte in regola (clandestini e irregolari), uno su 2 non viveva in condizioni stabili con un nucleo familiare o parentale dato". Tuttavia, anche dopo l’ingresso in carcere, "spesso il detenuto straniero vive una sorta di esclusione sostanziale anche in carcere". Inoltre 2 detenuti stranieri su 3 non hanno una condizione penale definitiva (il 40% sono imputati in attesa di giudizio); non sempre riescono a partecipare alle attività formative, ricreative, o a lavorare. "Sono maggiormente quelli che hanno una condanna definitiva ad essere impegnati nelle attività formative e ricreative del carcere", riferisce Lo Presti. Ma non mancano "problemi di autorizzazione" oppure legati "al limitato numero dei posti". Castelli: pene più dure per mafiosi e recidivi...
La Padania, 29 novembre 2004
Il governo presenterà un emendamento alla proposta di legge Cirielli sulla recidiva contenente un pacchetto di norme anti-crimine: il via libera è arrivato l’altra notte in Consiglio dei ministri e - come spiega il ministro della Giustizia, Roberto Castelli - questa sarà la strada più veloce per renderle subito attuative. "Un decreto legge sarebbe stato a rischio conversione perché siamo sotto il periodo della Finanziaria; un ddl autonomo avrebbe avuto bisogno di tempi lunghi. Perciò - sottolinea il Guardasigilli a margine di un convegno sulle riforme di giustizia nella sede della Regione Calabria - si è pensato che il ddl già alla Camera (vale a dire la proposta di legge Cirielli che l’opposizione ha definito "salva-Previti", ndr) fosse un mezzo più veloce". A proposito della definizione data dal centrosinistra all’emendamento alla Cirielli sulla recidiva, Castelli ha commentato: "Non so cosa voglia dire norma "salva - Previti": non conosco gli eventi processuali dell’on. Previti". Il Guardasigilli fa notare che l’emendamento che presenterà il governo conterrà norme più severe relativamente ai tetti di pena per il 416-bis (associazione per delinquere di stampo mafioso) e altri interventi sempre per quanto riguarda la criminalità organizzata. Non solo: "Il pacchetto è articolato. Verrà prevista anche la dislocazione dei detenuti che si sono macchiati di questi tipi di reato: verranno allontanati dai luoghi di origine". Sempre nell’emendamento alla Cirielli, "ci sarà il recupero di un ddl ora in Parlamento sulla turbativa d’asta. Inoltre auspico che ci sia il recupero di un ddl governativo, da me presentato, sulla delinquenza minorile". Nuove misure di inasprimento delle pene sono state proposte dal governo per i recidivi: "È una proposta che è stata votata dal Consiglio dei ministri - spiega Castelli - e che allarga, fra l’altro, la videoconferenza non solo per gli imputati ma anche per le altre parti del processo, in particolare per i testimoni". Il pacchetto di norme anticrimine varato in Cdm, secondo il ministro è "molto efficace per combattere la criminalità organizzata". A tale proposito Castelli non manca di fare un appunto critico nei confronti di coloro che "fino a ieri invocavano l’apertura dei penitenziari, mentre oggi invocano rigore": "Rilevo che gli stessi giornali e uomini politici che oggi chiedono una grande severità sono gli stessi che fino a ieri mi hanno attaccato, e hanno attaccato il governo, perché si teneva una politica di rigore verso i detenuti". L’emergenza criminalità a Napoli fornisce poi l’occasione al ministro per ricordare che "uno dei presunti killer di Napoli proprio in questi giorni era appena uscito per effetto dell’indultino. È paradossale che vi siano parlamentari napoletani dell’opposizione che fino a ieri facevano passare il governo per forcaiolo mentre oggi invocano severità". Castelli ha iniziato "un tour per le città italiane" proprio allo scopo di illustrare la riforma dell’ordinamento giudiziario e quello che il suo ministero ha fatto e sta facendo. Il ministro si dice "costretto a fare una controinformazione" dal momento che "alcuni dati e notizie non passano mai sui media". Il ministro ha dunque ricordato l’esigenza di riformare l’ordinamento giudiziario e ha rivelato che è ancora in corso un giudizio civile che è stato avviato addirittura nel 1951, sostenendo che complessivamente la giustizia si trova "in una grave situazione". A conclusione del suo intervento al convegno sul nuovo ordinamento giudiziario che si è svolto a Erice, in Sicilia, Castelli ha detto che "giustizia rapida e pena certa è quello che occorre fare per i cittadini italiani". Luigi Pagano e il call center dietro le sbarre di San Vittore
Il Mattino, 29 novembre 2004
È nato a Cesa dove conta numerosi parenti Luigi Pagano per quindici anni direttore del carcere di San Vittore a Milano, da pochi mesi promosso Provveditore per gli istituti penitenziari della Lombardia. A lui Candido Cannavò, già direttore de "La Gazzetta dello Sport", ha dedicato il libro: "Libertà dietro le sbarre. San Vittore: cronache di un carcere. La vita, la pena, la speranza". È riuscito a far trascorrere otto mesi nel carcere di San Vittore a Milano al mitico ex direttore de "La Gazzetta dello Sport" Candido Cannavò, autore del libro: "Libertà dietro le sbarre. San Vittore: cronache di un carcere. La vita, la pena, la speranza", edito da Rizzoli. "Ma in carcere - dice Luigi Pagano, 50 anni, nato a Cesa a due passi da Aversa, da sei mesi provveditore regionale delle carceri per la Lombardia, fino a giugno scorso direttore "storico" dell’istituto di pena milanese, che ha guidato addirittura per 15 anni - Cannavò è venuto da uomo libero per raccontare la vita dietro le sbarre dall’angolazione giusta, quella di chi la vive dall’interno, sapendo cogliere anche l’umanità dei personaggi che lo popolano, e non dall’esterno con una visione spesso distorta". Sposato con Maria Antonietta, originaria di Formia, due figlie di 23 e 19 anni, Luigi Pagano conta numerosi parenti a Cesa, dove però torna di rado, in quanto da piccolo si era trasferito, per motivi di lavoro del padre, con i genitori a Torre del Greco (proprio ieri al circolo nautico della città corallina è stato presentato, ad iniziativa della locale Associazione Culturale Prometeo, il libro di Cannavò con un intervento appunto di Pagano, cui l’autore ha dedicato la pubblicazione). Dopo aver frequentato il Liceo Scientifico si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli, laureandosi con una tesi sull’antropologia criminale. "Un segno del destino nei confronti della mia successiva scelta di lavoro - ricorda Pagano - abbinata ad un altro evento, purtroppo drammatico, verificatosi nel 1978: l’uccisione ad opera del gruppo "Prima Linea" del professore con cui mi ero laureato, Alfredo Paolella, fautore della riforma penitenziaria del ‘75". "La mia tesi di specializzazione in criminologia era sulle misure alternative alla detenzione –prosegue - e sull’importanza del rapporto con l’esterno, quello appunto che ho portato innanzi durante i quindici anni di permanenza alla guida di San Vittore". Grazie alle "aperture" di Pagano il carcere ed i suoi ospiti sono stati inseriti in più occasioni in un circuito di opportunità di impegno produttivo e lavorativo. Tanto per fare un esempio a San Vittore c’è un call center, dove sono occupati trenta carcerati, realizzato grazie alla disponibilità della famiglia Moratti e del presidente della Telecom Tronchetti Provera. Significativo anche l’impegno nel campo della moda: molti capi firmati da Giorgio Armani sono "made in San Vittore". Quindici detenuti partecipanti a Eco-Lab, un progetto pilota di formazione professionale realizzato all’interno della casa circondariale, preparano, in un piccolo centro produttivo, prodotti eco-compatibili della linea Armani Jeans. Fra le aziende partecipanti al progetto, oltre al gruppo dello stilista, l’Associazione vera pelle conciata al vegetale, American Eagle e l’Inter (squadra di cui, insieme al Napoli, è tifoso Luigi Pagano). E sempre nel campo della moda Alviero Martini ha presentato la collezione uomo Primavera-Estate 2000 durante le sfilate milanesi nella sala polivalente di San Vittore con il modello di borsa realizzato dai detenuti nel laboratorio di pelletteria dell’istituto. E ancora, all’interno del carcere, opera una cooperativa, esclusivamente femminile, che si occupa di costumistica teatrale ed ha confezionato alcune "mise" indossate dalle "veline" della trasmissione "Striscia la notizia". "Fuori e dentro il carcere il primo problema - evidenzia Pagano - è sempre quello del lavoro, perché, oltre ad impegnare le persone, garantisce una speranza e soprattutto contribuisce al reinserimento nella società del detenuto nel periodo che è di pena ma soprattutto di rieducazione. Il vero problema difatti non si pone durante, ma dopo il carcere. Il nodo dunque è quello di riuscire a togliere la pericolosità al detenuto in modo che non commetta più reati. Il che si può fare solo agendo su quegli interventi di natura trattamentale che non sono un optional per il detenuto, ma un interesse della società. Se facciamo trascorrere il periodo di detenzione senza offrire un’altra strada al detenuto, facciamo male a lui e non ottimizziamo gli investimenti destinati al settore". Pagano ha vissuto a San Vittore una fase particolarmente delicata in coincidenza con la stagione di "Mani pulite". "Dal ‘92 al ‘94 -ricorda- a San Vittore sono passati circa 400 tra amministratori, imprenditori, funzionari pubblici e privati incriminati per tangenti. Per la verità non si registrarono particolari problemi, i cosiddetti detenuti eccellenti furono trattati come gli altri e loro stessi non ebbero a lamentarsi delle privazioni. Tra tutti ricordo Sergio Cusani, persona di grande dignità e che, probabilmente, nelle sue attività imprenditoriali, aveva messo in conto l’ipotesi di patire un giorno il carcere. Ora ha addirittura messo in piedi la Banca della solidarietà, occupandosi attivamente del miglioramento di vita all’interno degli istituti penitenziari e dell’aiuto ai detenuti per il reinserimento una volta usciti dal carcere". Le convinzioni politiche di Pagano sul ruolo delle carceri e della carcerazione in Italia sono note e lo hanno posto spesso al centro di dibattiti, polemiche ed anche contrasti con i livelli politico-istituzionali. Ma ogni sua presa di posizione è stata valutata sempre con grande rispetto dagli interlocutori in considerazione della dedizione, dello spirito di sacrificio e di servizio nei confronti di un mondo difficile e controverso, i cui problemi sono spesso poco noti o disattesi dalla comunità al di là delle sbarre. "Il carcere - conclude Pagano - è un’invenzione di trecento anni fa. Non è una istituzione insita nell’uomo. Credo abbia dei limiti funzionali e non strutturali. Tanto è vero che il legislatore ha ammesso che fa male e ha inventato le cosiddette misure alternative, come la semilibertà o l’affidamento in prova. La chiave per evitare i problemi, e quindi la carcerazione, è sempre all’esterno, con gli interventi preventivi nella società".
Quella volta a Pianosa l’isola blindata
La prima destinazione da vicedirettore, dopo aver vinto il concorso, fu il carcere di Pianosa. "Ero appena sposato -ricorda Luigi Pagano- e sbarcai sull’isola con mia moglie con tutto l’entusiasmo di chi si affaccia per la prima volta nel mondo del lavoro. Ma la realtà era diversa da quella che mi ero prefigurato negli studi di criminologia. Fu uno choc vivere su un’isola che era una tavola, uno spazio piano, appunto Pianosa, in mezzo al mare, dove gli unici "rilievi" erano gli edifici penitenziari e i veri abitanti erano i detenuti, con i custodi e le loro famiglie a cercare un sistema per realizzare una vita sociale". "Un incubo per tutti noi -racconta- che sognavamo il viaggio, di tanto in tanto, a Piombino come un momento di liberazione. Però ricordo con piacere le partite di calcio insieme con i detenuti". Da Pianosa, sicuramente negli anni ‘80 il carcere più blindato d’Italia, il trasferimento prima a Nuoro, poi, dopo il corso alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione a Caserta, il passaggio a Brescia, dove le aperture del direttore alle attività esterne fanno notizia. Nel 1984 nel teatrino della casa circondariale di Brescia opera difatti una compagnia stabile, composta da detenuti-attori, che dopo appena un anno di attività si guadagna il passaporto per una recita fuori delle sbarre, in un teatro cittadino. Dal Nord Pagano viene spedito all’estremo Sud, alla guida del "nuovissimo" carcere circondariale di Taranto, da dove nel 1989 spicca il volo per Milano. Alla guida di San Vittore, dove sceglie di abitare, nell’alloggio di servizio, con la famiglia, Luigi Pagano diventa il testimonial di una delle istituzioni che, nel bene e nel male, è nel cuore di tutti i milanesi. Il carcere diventa punto di riferimento per iniziative di volontariato e solidarietà, ma anche di testimonianza sociale e politica, che vedono in primo piano l’impegno del Direttore. E dopo 15 anni trascorsi "dietro le sbarre", Pagano le sbarre le guarda da fuori, dalle finestre del suo nuovo ufficio, quello di Provveditore Regionale per le carceri, sempre in piazza Filangieri di fronte all’ingresso di San Vittore. Catania: un campus dove s’insegna cultura della legalità
La Sicilia, 29 novembre 2004
San Pietro Clarenza. Una cittadella della legalità. Una scuola dove formare il personale dell’amministrazione e della polizia penitenziaria, ma anche un avamposto della sicurezza sociale, capace di coinvolgere in un progetto pilota in Europa le diverse realtà di un territorio difficile come quello della provincia di Catania. Il centro di formazione permanente per gli operatori penitenziari, realizzato su iniziativa del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) nell’ambito del programma operativo nazionale "Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia" cofinanziato dall’Unione Europea, è stato inaugurato ieri dal ministro della Giustizia, Roberto Castelli. Si trova a San Pietro Clarenza, 15 chilometri a nord di Catania, in un’area caratterizzata dalla presenza invadente delle organizzazioni criminali e mafiose, un tempo regno del Malpassotu e successivamente del clan dei Laudani, oltre che da un profondo degrado socio-economico. Si tratta di un vero e proprio campus che, oltre agli edifici che ospitano la sezione didattica (con 27 aule, una biblioteca e due archivi), offre l’opportunità di alloggi per gli allievi (136 stanze per complessivi 320 posti letto), una mensa con bar, attrezzature ricreative, alloggi demaniali, una piscina, una palestra per le arti marziali e una polifunzionale, magazzini e persino un poligono di tiro. Moltissime le autorità religiose, civili e militari presenti ieri alla cerimonia, che è stata aperta dal responsabile del progetto, Luigia Mariotti Culla. Dopo l’intervento del responsabile del Pon, prefetto Giuseppe Procaccini, ha preso la parola il capo del Dap, Giovanni Tinebra: "Questa struttura è un luogo ideale di incontro tra istituzioni, forze di polizia e popolazione. Un modello sperimentale che l’Unione europea vorrebbe esportare in altri Paesi. Una scuola che eroga formazione e garantisce sviluppo attraverso la diffusione della cultura preventiva della sicurezza". "Questa è un’occasione importantissima e rara - ha sottolineato il ministro Castelli - perché s’inaugura un edificio, simbolo dell’intervento concreto dello Stato, ma nello stesso tempo si crea una scuola dove s’insegneranno cultura e professionalità. La polizia penitenziaria ha un compito più delicato rispetto alle altre forze di polizia, perché ha a che fare con un’umanità dolente che esige una profonda professionalità. Di solito noi inauguriamo carceri e quindi edifici chiusi, questa è invece una scuola aperta a tutti. Un modo per dimostrare che per vincere la battaglia contro la criminalità lo Stato ha bisogno della società civile, da solo non può farcela". Nuoro: un concerto di sbarre per protestare…
L’Unione Sarda, 29 novembre 2004
Dal primo dicembre e per tre giorni consecutivi, allo scoccare delle mezzanotte, Badu ‘e Carros si trasformerà in un gigantesco tamburo metallico. Un tamburo che non smetterà di far sentire la propria voce per un quarto d’ora filato, con i detenuti che batteranno incessantemente sulle sbarre delle proprie celle utilizzando qualunque oggetto in grado di fare rumore. È la forma di protesta che un gruppo di reclusi del penitenziario nuorese ha in serbo per denunciare le condizioni di assoluto degrado in cui versa la struttura carceraria che li ospita, comunicata agli organi di stampa attraverso una lettera con in calce 33 firme in cui si sollecita un’ispezione ministeriale e un incontro con il magistrato di Sorveglianza del Tribunale. "Per farci sentire ed ascoltare - scrivono i detenuti - e per sensibilizzare l’opinione pubblica in modo pacifico e costruttivo, alcuni detenuti, esclusivamente continentali (per non far rischiare che i compagni detenuti locali siano deportati in continente, lontani dalla proprie famiglie come è accaduto a noi) a partire dal primo dicembre attueranno per tre giorni consecutivi una battitura notturna della durata di 15 minuti a partire dalla mezzanotte". Inquietante, qualora fosse vera, la denuncia sull’assenza di privacy per i detenuti che sarebbero costretti "a fare i bisogni corporali in bella vista dei compagni senza alcuna riservatezza" sia "nei passeggi che nelle stanze". Una questione che è diventata anche oggetto di un’interrogazione parlamentare dell’onorevole Giuliano Pisapia al ministro della giustizia Roberto Castelli del 6 ottobre. Ma a sentire i firmatari della lettera di protesta è tutta la situazione igienico sanitaria del carcere a fare a pugni con minimi livelli di decenza: "Nell’istituto di Nuoro - si legge nella missiva - non si sconta la sola privazione della libertà, ma anche la reclusione in un ambiente difficile e ostile, angusto e malsano, dove le condizioni igienico sanitarie sono terribili". I 33 firmatari denunciano inoltre la mancanza di "educatori, assistenti sociali, medici" e il fatto che all’interno del carcere nuorese "le opportunità di lavoro siano nulle" e non esista "alcun presidio di tutela dei diritti e di legalità, a parte l’Ufficio di sorveglianza di Nuoro" i cui provvedimenti non sarebbero però "applicati né presi in considerazione". "È assurdo - concludono i detenuti - che dei "delinquenti" debbano protestare con delle battiture notturne per il rispetto della legge, dei regolamenti e dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza" e per questa ragione "chiediamo un’ispezione ministeriale nel carcere di Nuoro per accertare le eventuali illegalità e un incontro collettivo con il nuovo magistrato di Sorveglianza". Brescia: dall’Isola di Verziano una voce di speranza…
Il Giornale di Brescia, 29 novembre 2004
Quello che commuove, alla fine, ancor più degli applausi convinti, sono i saluti. Mani che si guardano, dal palco alla platea, non potendosi stringere. Si guardano da lontano: pochi metri che più lontano non si può. Un fugace ciao ciao e tanti sorrisi. Di gioia, di commozione, di stupore nel vedere tra il pubblico chi non ci si aspettava. Poi il sipario si chiude e si avverte un senso diffuso di disagio e amarezza. Perlomeno in platea, perché di là dalle sbarre si sente un’atmosfera elettrizzata. Le ragazze festeggiano dietro le quinte e più tardi ceneranno in allegria con gli agenti di Polizia penitenziaria; al di qua dell’Isola i parenti si asciugano le lacrime, consolandosi con la buona riuscita dello spettacolo. Uno spettacolo di successo, "L’Isola di Verziano", frutto di un laboratorio teatrale condotto nel carcere cittadino dalla regista Sara Poli con l’aiuto di Daniele Squassina sul testo di Paola Carmignani. Un successo dovuto non tanto al favore degli spettatori, quanto al semplice fatto di esserci stato. Dalla loro Isola di non famose le più esperte Alda, Mara, Letizia, Sonia e le "nuove entrate" di quest’anno Naires e Silvia hanno annunciato chiaro e forte alla platea di "liberi" (pure con l’ausilio di uno striscione multicolore) che "ci sono" anche loro, che il carcere non è né dev’essere l’ultima spiaggia per un essere umano, che nell’Isola, anche la più sperduta, anche la più maledetta, un giorno arriverà una scialuppa di salvataggio ad accogliere i naufraghi. Già, ma nel frattempo? Ci si organizza, si pensa a sopravvivere, ma anche a comunicare; ad allearsi; si cerca la solitudine senza perder di vista il gruppo; si sta in compagnia senza annullare la propria identità. Questo il filo conduttore del testo, lieve e ironico, per la cui rappresentazione, impreziosita dalla scenografia curata dalle stesse detenute, ci si è avvalsi dei musicisti Alessandro Bono, Stefania Maratti, Alberto Pezzagno e dell’attrice Viola Costa. Un testo arricchito di abstracts personalizzati, oroscopi al passato nei quali ogni "detenuta-attrice" racconta di sé, di uno ieri in cui non si riconosce, di un oggi che non finisce mai e di una speranza chiamata domani. Perché, riecheggiando le note di Renato Zero, "nessuna notte è infinita" e forse un giorno si scoprirà "che tutta quella tristezza in realtà non è mai esistita".
Le detenute di Verziano in scena al teatro di Buffalora
L’evento teatrale ha nel suo Dna la funzione di trasferire chi lo fa e chi lo vede in un altrove dove la realtà viene (ri)organizzata su parametri diversi da quelli della quotidianità. Nel caso dello spettacolo "L’isola di Verziano", interpretato da un gruppo di detenute del carcere cittadino, questa fuga trova riparo in un non-luogo, un’isola immaginaria che, nonostante le quattro palme e il sole splendente del fondale, si rivela ancora un universo concentrazionario, una prigione a cielo aperto, dove la muraglia d’acqua si rivela assai più spessa delle pareti della casa circondariale. Lo spettacolo è andato in scena l’altra sera al teatro parrocchiale di Buffalora, al termine di una attività laboratoriale durata alcuni mesi, condotta dalla regista Sara Poli che, affiancata dall’attore Daniele Scaramella, si è servita di un testo di Paola Carmignani sul quale, poi, le interpreti hanno sovrapposto alcuni monologhi scritti da loro stesse. In scena sono sei donne, sei naufraghe, e si annoiano tanto. Le loro giornate sono scandite dalla routine: mangiare, bere, dormire, sognare. A turno si mettono di vedetta, a segnalare l’eventuale passaggio di una nave che le porti via da lì. I turni di vedetta sono anche l’occasione per liberare ad alta voce i loro pensieri, i rimpianti, le nostalgie, l’amarezza del tempo perduto, lo sperpero delle esistenze che gli sgambetti del destino ha spezzato in due. Non c’è autocommiserazione in questi sfoghi, né il (presumibile) rancore verso la cattiveria del mondo; c’è, piuttosto, la maturata consapevolezza che la vita, quella vera, fuori le mura, in un modo o nell’altro potrà ricominciare. La nave, dice una di loro, non passerà mai, perché "la nave è dentro di noi, sta a noi costruirla pezzo per pezzo e riprendere il viaggio". Domani arriverà, con tutte le incertezze, le promesse e le inevitabili delusioni: "Oh che sarà, che sarà", cantano alla fine tutte insieme, con le parole di Ivano Fossati sulla musica di Chico Buarque De Hollanda, dopo avere steso davanti al pubblico un grande lenzuolo di stracci su cui sta scritto: "Ci siamo". Uno spettacolo del genere non va giudicato secondo i canoni consueti. In questo caso la tecnica e il professionismo fanno un doveroso passo indietro, per lasciare spazio a una sensazione di verità che raramente si prova nel teatro "normale". Se volessimo utilizzare i ferri del mestiere, diremmo che il linguaggio che si dipana sulla scena sta a metà strada tra Brecht (per la recitazione didascalica) e Stanislavskij (per l’identificazione totale tra interprete e personaggio). Però è più sensato dire che nessun genio della regia avrebbe potuto comunicare meglio lo strazio che suscitano queste sei donne, in piedi, rivolte verso il pubblico, a guardare un orizzonte imprecisato, mentre Viola Costa canta "I migliori anni della nostra vita". Il pubblico si commuove e saluta con un lungo e caloroso applauso le sei interpreti, di cui sappiamo solo i nomi di battesimo (nomi d’arte?): Alda, Letizia, Mara, Naires, Silvia, Sonia. Per la scenografia vanno citate Rocca, Alda e Barbara. La colonna sonora è stata eseguita dal vivo da Alessandro Bono, Stefania Maratti, Alberto Pezzagno e dalla cantante Viola Costa. Alla fine, le promotrici dell’iniziativa, Laura Castelletti e Paola Vilardi, presidenti, rispettivamente, dei consigli comunale e provinciale di Brescia, hanno ringraziato le attrici ("Da stasera ci sentiamo tutti un pò abitanti di quest’isola di Verziano", ha detto la Castelletti) e hanno consegnato tutto l’incasso (circa 3.000 euro) al dottor Francesco Castelli, professore di Malattie tropicali dell’Università di Brescia, che lo porterà agli operatori di un ospedale del Burkina Faso dove vengono curati i bambini e le loro madri colpiti da Aids. Rovereto: ex detenuto "fatemi lavorare, ho già pagato"
L’Adige, 29 novembre 2004
Lo raccontò lui stesso, come se fosse stata una confessione di fronte ai carabinieri: "Ho picchiato la mia assistente sociale, l’ho presa per i capelli e l’ho presa a schiaffi, ho buttato per aria tutto l’ufficio. Ho fatto un casino perché non mi ha dato la carta con su tre righe che mi servivano per andare a lavorare. Sono sei mesi che aspetto e mi sono saltati i nervi". Ammise, esattamente cinque anni fa, di averla combinata grossa. Tanto grossa che per lui si aprirono di nuovo le porte della prigione. F.T., un uomo dal passato difficile nel quale c’é il carcere e una lunga sequela di episodi non proprio edificanti, disse di essere uscito di testa perché l’assistente sociale del servizio di alcologia dell’Azienda sanitaria non gli aveva dato un certificato che gli avrebbe permesso di lavorare nella cooperativa Arti e Mestieri che si occupa del recupero delle persone allo sbando. Avrebbe voluto una carta che attestasse il suo distacco dall’alcol che però gli fu negata. Non per cattiveria o ottusità burocratica ma perché non aveva seguito la terapia. Lui si sentì invece discriminato e per questo si rivolse al giornale per raccontare la sua "verità", per "giustificare" un gesto ingiustificabile: l’aggressione fisica ad una ragazza che non aveva potuto difendersi dalla sua furia. Orbene, quello fu l’inizio di una serie di azioni contro l’assistente sociale (molestie, ingiurie, minacce) che hanno fatto maturare, nel complesso, cinque anni di galera al malcapitato. Ieri è finalmente uscito, ha chiuso i suoi conti con la giustizia e la polizia penitenziaria gli ha spalancato la porta della casa circondariale affidandolo a via Prati. "Ho scontato tutto, un giorno sull’altro, ed ora sono fuori. Ma sono solo, non ho nessuno, non ho un lavoro, non ho un posto dove andare a dormire e mangiare, non ho un soldo. Chiedo una mano, magari una colletta in attesa di trovare qualcosa da fare". Non chiede giustizia, no, ha pagato per quello che ha fatto ed ora, cinque anni dopo l’aggressione, si è ravveduto e non cova rancore o desiderio di vendetta: "Voglio solo tornare ad avere una vita normale". Calderoli: tra Caino e Abele sto dalla parte delle vittime
La Padania, 29 novembre 2004
La taglia messa dalla Lega Nord sul killer del benzinaio di Lecco diventa un caso politico: il centrodestra si divide, dal centrosinistra si chiedono le dimissioni del ministro della Giustizia Castelli, che ieri ha avallato l’idea di ricompensare con 25mila euro chi darà notizie sull’assassino del benzinaio Giuseppe Maver. "Mettere una taglia e ricompensare chi offre notizie utili ai fini della cattura dei delinquenti - dice Castelli commentando l’iniziativa dell’altro ministro leghista Roberto Calderoli - non soltanto è un atto legittimo ma anche meritorio" . All’unisono, i due ministri del Carroccio rilanciano anche il tema della legittima difesa. Calderoli, in un’intervista al "Corriere della Sera" , dice che bisogna snellire le procedure per ottenere il porto d’armi; mentre Castelli, da Reggio Calabria, invita il Senato ad approvare in fretta la legge, sponsorizzata dal Carroccio e da An, che consente di sparare contro chi penetra in un appartamento o in un negozio. Alle critiche, Calderoli reagisce dicendosi "sconcertato". Non tanto dalle polemiche sollevate dal centrosinistra quanto da quelle del centrodestra. "Io sto dalla parte delle vittime. E invece trovo che ci sia tanta ipocrisia tra i politici" . "Nessuna voce si è alzata quando c’è stato l’omicidio e invece tutti pronti a polemizzare quando io ho lanciato la mia provocazione" , aggiunge Calderoli. "Ma i cittadini - prosegue - hanno il dovere di riferire alle forze dell’ordine tutto quello che è utile per portare all’arresto degli assassini, è previsto anche dalla legge. E io ho cercato di stimolare ciò attraverso una ricompensa economica, una cosa che le polizie di tutto il mondo fanno quando utilizzano degli informatori". Il ministro Castelli, "meravigliato da tanta contestazione" , spiega qual è la "giusta luce" in cui va letta la proposta provocatoria di Calderoli. "La criminalità non si può cancellare se non c’è la collaborazione della società civile" , dice il Guardasigilli. L’appello ai cittadini affinché collaborino con le forze dell’ordine - aggiunge - credo che sia positivo e dovuto. Se poi a un cittadino che consente di far catturare un assassino gli diamo anche un premio, non vedo dove stia lo scandalo" . Nessuno scandalo nemmeno sulla questione delle armi. "Il Senato - ricorda Castelli - ha in aula un provvedimento sulla legittima difesa e io credo che sia razionale". La proposta di Calderoli di istituire una taglia sugli autori dell’ omicidio del benzinaio avvenuto a Lecco "ovviamente non è una iniziativa del governo ma di privati cittadini" , ha affermato ancora il ministro della Giustizia, sottolineando che "se questi cittadini fanno parte di un partito o meno non conta. Castelli ha aggiunto di "non capire cosa c’entra il Far West con tutto questo. Se ho ben capito - ha aggiunto - ci sono degli esponenti della Lega che intendono mettere a disposizione delle somme per ricompensare chi possa dare notizie utili. Non vedo dov’è lo scandalo. Secondo me - ha sottolineato il ministro - lo scandalo è che ci si scandalizza per un’iniziativa del genere" . Castelli ha rilevato che "è evidente che i ministri della Repubblica sono ministri di tutto il Paese e che qualsiasi omicidio crei sconcerto e dolore e anche una reazione all’ interno dell’opinione pubblica e del governo" . A un giornalista che gli chiedeva se la Lega avrebbe reagito allo stesso modo se la vittima fosse stata meridionale, il ministro ha replicato: "L’ omicidio è avvenuto a casa mia, perché io abito a pochi chilometri da dove è stato uccisa questa persona, che era un militante del mio collegio: eppure io oggi sono qui, nel Catanese, a inaugurare una scuola di polizia penitenziaria" . Milano: storia di un "detenuto… per mancanza di alternative"
Corriere della Sera, 29 novembre 2004
Era un "detenuto per mancanza di alternative": dopo 20 mesi di carcere preventivo, quando i magistrati gli hanno finalmente concesso gli arresti domiciliari, lui non ha potuto approfittarne per l’insuperabile ragione che nel frattempo era rimasto senza casa. Non sapendo dove andare, e temendo di violare la legge, è tornato volontariamente in carcere. Una prova di lealtà fuori dal comune, che ora i giudici hanno deciso di premiare restituendogli la piena libertà. La storia disperata di questo (ormai ex) "detenuto per necessità" comincia nel marzo 2003, con un ordine di carcerazione con l’accusa di complicità in un traffico di droga. Già allora la stessa Procura riconosce che J.B., 27 anni, sposato, un figlio appena nato, ha un ruolo marginale nella presunta organizzazione. Contro il giovane pesa soprattutto una specie di congiura o di predestinazione familiare: nella banda di trafficanti di cocaina, secondo l’accusa, ci sono tutti i suoi parenti più stretti e il capo assoluto sarebbe addirittura sua madre, che è sfuggita alla cattura ed è tuttora latitante. In questi 20 mesi l’avvocato Daniela Dawan chiede più volte ai magistrati di riesaminare il caso di J.B., sostenendo che mancano prove di un suo coinvolgimento personale nello spaccio, tanto è vero che il giovane non è mai stato tossicodipendente. L’8 novembre, la prima svolta: il giudice Andrea Pellegrino riconosce, con il parere favorevole del pm Piero Basilone, che J.B. non è pericoloso e gli concede gli arresti domiciliari. L’imputato in attesa di giudizio, quindi, ha bisogno di una casa, ma non può andare dall’unica sorella milanese, perché anche lei è indagata. Per i domiciliari, al giudice non resta che indicare una comunità in Puglia, quella dove vivono la moglie di J.B. e il loro figlioletto che oggi ha due anni. Errore: la struttura è privata e dichiara di accogliere solo ragazze-madri con problemi di droga, mentre J.B. è un uomo e per giunta passa tutti gli esami antidoping. Uscito legalmente dal carcere di Vigevano, quindi, l’imputato non riesce a farsi ricoverare in comunità. E allora, disperato, si ripresenta in carcere a Bari. Ma a questo punto il giudice, informato dall’avvocato Dawan dell’assurdità del caso, decide che J.B. merita la piena libertà. Con una motivazione di buonsenso: il suo rientro volontario in cella esclude senz’altro qualsiasi "pericolo di fuga". Spoleto: caso Dorigo, "chi può trovi una soluzione"…
Il Messaggero, 29 novembre 2004
Il presidente del consiglio regionale, Mauro Tippolotti, ha incontrato nel carcere di massima sicurezza di Spoleto, Paolo Dorigo. Tippolotti ha voluto verificarne le condizioni di salute dopo oltre due mesi di sciopero della fame del detenuto. Durante l’incontro Dorigo ha ripercorso con Tippolotti le tappe della vicenda giudiziaria che lo ha coinvolto e per le cui determinazioni l’Italia è stata richiamata per due volte dalla Corte di Strasburgo. "Ogni individuo - ha detto poi Tippolotti - a prescindere dal reato per il quale è imputato, ha diritto ad un giusto processo, nel rispetto delle prescrizioni europee in materia". Accompagnato dal direttore del carcere, Ernesto Padovani, ha fatto appello "a tutti coloro che hanno responsabilità e potestà decisionale affinchè intervengano per una positiva soluzione". La giustizia mai ceda all’emotività, di Carlo Nordio
Il Messaggero, 29 novembre 2004
Il filosofo Zaleuco, governatore della Locride 2.500 anni fa, aveva stabilito che, chiunque proponesse una nuova legge, fosse tenuto saldamente da una corda al collo, così da esserne impiccato seduta stante se la proposta fosse stata respinta. Il filosofo Zaleuco non era un sanguinario conservatore; non temeva le leggi nuove, ma le leggi cattive. E sapeva che le leggi cattive sono quelle nate dall’emotività e dalle ispirazioni occasionali. Una delle disgrazie che ha portato il nostro Paese all’attuale anarchia giudiziaria, per la quale gli innocenti entrano in carcere prima del processo con la stessa frequenza con cui i colpevoli escono dopo la condanna, è la dissennata e disordinata proliferazione legislativa. Questa proliferazione è derivata da eventi contingenti, che, appassionando gli elettori, hanno indotto gli eletti ad assecondarne l’eccitazione, producendo norme di pura consistenza emozionale. Se un detenuto si suicidava in attesa di giudizio, le maglie si allargavano; se un altro uscito anzitempo dal carcere ammazzava un passante, le maglie si restringevano. Così le leggi assumevano il nome del protagonista, imputato o vittima, che le aveva ispirate: legge Valpreda, Matarazzo, Tortora, Moro. Alla fine il nostro sistema penale è diventato un enigma avvolto da un indovinello dentro un mistero, di cui nessuno capisce più niente. Le polemiche sorte in questi giorni dopo l’ennesima rapina con morto sono sintomatiche di questa schizofrenia. Per un verso sono pretestuose. Perché, quantunque la "taglia" sia termine pittoresco ed improprio nella forma, esso è conforme, nella sostanza, alla nostra meno nobile tradizione giuridica. Lo Stato italiano ha infatti offerto e pagato taglie, sotto forma di ricompense o riscatti umanitari, ad assassini, sequestratori, terroristi e mafiosi; ha fatto anche di più: per lucrare qualche effimero vantaggio ha mandato in galera sfortunati innocenti incolpati da vituperevoli falsi pentiti. Alcuni dei quali, valendosi di una così malaccorta indulgenza, hanno continuato ad ammazzare durante le vacanze premiali. Chi ha attaccato giustamente il ministro Calderoli per quella uscita infelice, dovrebbe domandarsi, in conclusione, da dove derivi la sfiducia nella legge; e troverebbe la facile risposta nel fatto che la legge penale, in questi ultimi dieci anni, ha violentato se stessa e la sua ragion d’essere, scendendo ai compromessi più ambigui per i risultati più discutibili. Ma per un altro verso la polemica deriva dalla prospettazione di un rimedio peggiore del male. L’ennesimo pacchetto contro l’emergenza criminale potrebbe, in teoria, anche essere un energetico tonificante. Ma come tutti i ricostituenti somministrati ad un organismo moribondo sarebbe assorbito dalla malattia prima ancora di avere manifestato i suoi pur opinabili effetti benefici. Esso aggiungerebbe equivoco ad equivoco, incertezza ad incertezza, confusione a confusione, perché un sistema penale è organizzazione unitaria e omogenea, ubbidiente ad una filosofia bisognosa prima di tutto di coerenza. L’inasprimento delle pene, l’allargamento della legittima difesa, l’estensione dell’uso legittimo delle armi, sono questioni delicate e complesse inserite nel fragile diaframma che separa i diritti delle vittime da quelle degli imputati. E sostituire la mannaia dell’indignazione al bisturi della prudenza può essere aspirazione psicologicamente comprensibile, ma non un’utile e razionale scelta politica. Bergamo: egiziano torna in Italia per andare in cella
Tg Com, 29 novembre 2004
Mohamed era in Egitto quando la Cassazione ha confermato la sua condanna a 2 anni e 11 mesi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E quando la polizia è andata a cercarlo a casa a Milano e non l’ha trovato, gli agenti hanno pensato che non l’avrebbero più rivisto. Invece l’egiziano 54enne, dopo aver saputo della condanna, è tornato in Italia e si è consegnato al carcere di Bergamo: "Voglio saldare i miei debiti", ha spiegato. L’uomo, che da anni vive a Milano ed è sposato con un’italiana dalla quale ha avuto due figli, era in Egitto dal 23 luglio: una lunga visita ai parenti che non vedeva da tempo. Proprio il giorno dopo la sua partenza la moglie l’aveva informato della sentenza della Cassazione: una condanna per una vicenda risalente al 1995. Inizialmente l’uomo ha pensato di non tornare più in Italia per evitare di finire dietro le sbarre. Ma la moglie e i figli, alla fine, l’hanno convinto a tornare. E così il 28 ottobre Mohamed si è imbarcato su un aereo per Milano, ha trascorso alcuni giorni con la famiglia e poi si è presentato al carcere di Bergamo, tra lo stupore degli agenti di polizia penitenziaria. "Voglio saldare tutti i miei debiti con la giustizia italiana - ha spiegato l’uomo ai secondini- e poter tornare a condurre un’esistenza normale". Myanmar: ultimata liberazione di 9.248 detenuti
Ansa, 29 novembre 2004
In Myanmar (ex Birmania) sono usciti di prigione tutti i 9.248 detenuti che la giunta birmana aveva promesso di liberare. Lo ha annunciato oggi un responsabile delle autorità penitenziarie. "Tutti i prigionieri la cui liberazione era stata annunciata dal governo sono stati scarcerati ieri sera" ha aggiunto il dirigente, che ha chiesto di rimanere anonimo. La giunta aveva colto tutti di sorpresa annunciando il 18 novembre scorso che 3.937 prigionieri sarebbero stati liberati in tutto il paese prima della scarcerazione, giovedì, di 5.311 altri. Gli analisti si aspettavano di assistere allo scaglionamento delle scarcerazioni in due settimane per via delle lentezze burocratiche birmane. Il tutto sembrava svolgersi molto lentamente fino a ieri, quando l’opposizione e testimoni hanno visto un migliaio di detenuti uscire dalla prigione d’Insein, la maggiore del paese. Dieci prigionieri politici risultavano tra le persone liberate. L’opposizione aveva già dichiarato che une trentina di prigionieri politici erano stati liberati. Amnesty International afferma nel suo ultimo rapporto che i prigionieri politici sarebbero almeno 1.350.
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