Zappa giudice giusto

 

"Giudice giusto, rese più umano il carcere"

di Paolo Doni

 

L’Eco di Bergamo, 11 dicembre 2003

 

 

Tre ex di Prima linea ricordano Giancarlo Zappa, magistrato di sorveglianza negli anni di piombo. "Era convinto che nessun uomo è perduto per sempre": portò dialogo e riconciliazione in via Gleno.

 

Nella metà degli Anni Ottanta qualcosa cambiò nel carcere di via Gleno: i detenuti cominciarono a lavorare, si aprì il dialogo con la città. "Ai detenuti che chiedevano un permesso non diceva mai di no, convinto come era che nessun uomo è perduto per sempre. Se non poteva rispondere sì, invitava ad avere pazienza, ad attendere". Il 10 febbraio scorso si è spento a Brescia il giudice Giancarlo Zappa, magistrato di sorveglianza a Bergamo negli anni caldi del terrorismo. Tre ex militanti di Prima linea di Bergamo, protagonisti di quella drammatica stagione, hanno chiesto di raccontare quello speciale rapporto che si era instaurato fra il giudice Zappa e i detenuti. Un rapporto fatto di giustizia, di fiducia reciproca, ma anche di tanta umanità.

I tre ex militanti hanno deciso di rimanere anonimi. Li chiameremo solo per nome: Gianfranco, Diego e Bruno. Ex operai, abitano tutti e tre nella Bergamasca, hanno una famiglia, lavorano in cooperative sociali (Diego e Bruno) o fanno i falegnami (Gianfranco). Cinquantenni, hanno alle spalle un passato di "polvere e sangue", per usare le parole di uno di loro. Un passato dal quale sono riusciti a riemergere grazie anche all’intenso lavoro di Zappa, che fu tra i principali animatori, dentro e fuori le mura del carcere, della cosiddetta riforma Gozzini.

 

Avete tutti subito condanne pesanti per reati di terrorismo. Come siete arrivati ad abbracciare la causa della lotta armata?

Bruno: "Vivevamo in un ambito nel quale la morte era diventata una variabile politica. Eravamo cresciuti respirando un clima di violenza, l’avevamo coltivata, ma non ci rendevamo conto di dove stavamo andando. A Bergamo, alla fine degli Anni Settanta, si respirava un clima molto particolare. Era una delle sedi più grandi e organizzate in Italia della lotta armata. Era simile a Padova, la cittadella dell’eversione. Basti pensare che al processone del 1982 gli imputati furono 130, quasi tutti bergamaschi e una parte di questi militanti di Prima linea".

 

Chi era il nemico da combattere?

Bruno: "Il nemico non era più il cuore dello Stato, come era stato per le Brigate rosse, ma la cosiddetta gerarchia diffusa. Per fare un esempio sulla diversità di vedute, mentre si consumavano il sequestro e l’assassinio di Moro, io, che in quel periodo non mi trovavo a Bergamo, rubavo i biglietti dell’autobus per distribuirli gratuitamente nelle periferie".

 

Poi però avete alzato il tiro.

Gianfranco: "È stato dopo il ‘77 e in particolare dopo l’omicidio Moro. Fu l’inizio della fase calante, la fase degli assedi e delle fughe. La strada della polvere e del sangue".

 

Diego: "Io, ad esempio, non ero d’accordo con quel cambiamento di rotta. Ero convinto che in quel momento fosse necessario rimanere nelle scuole, nelle fabbriche. L’aut aut fu: o entri nei gruppi di fuoco o vai via".

 

Con gli arresti dei primi Anni Ottanta si pone fine alla vostra militanza attiva. Chi prima, chi dopo, finite tutti in via Gleno.

 

Gianfranco: "Eravamo inavvicinabili. Il carcere, pensavamo, andava distrutto, non riformato".

 

Il vostro incontro con Zappa, giudice di sorveglianza a Bergamo, arriva proprio durante questo passaggio. Lui è stato uno dei principali sostenitori e fautori della riforma carceraria, fu anche tra i promotori della legge Gozzini del 1986. Che cosa chiedevano, vent’anni fa, i detenuti?

Bruno: "Allora i detenuti iniziavano a rivendicare con forza un carcere più umano, dove il magistrato di sorveglianza non fosse uno da incontrare solo nei momenti di protesta".

 

Com’è stato possibile il contatto fra voi, rivoluzionari irriducibili, e il giudice Zappa, riformatore convinto?

Gianfranco: "È stato possibile perché la maggior parte di noi, nel corso del tempo, aveva maturato la scelta della dissociazione. Che non è la strada del pentitismo, ma il rifiuto dell’idea e della pratica della lotta armata. La dissociazione non solo ha portato alla fine della lotta armata, ma ha delegittimato anche qualsiasi opzione futura di lotta armata".

 

Ricordate quando avete avuto a che fare con lui la prima volta?

Bruno: "Fu all’inizio del 1985 quando, in occasione del "processone d’appello", una quarantina di detenuti politici arriva dalle carceri di tutta Italia in via Gleno".

 

Gianfranco: "Come già era avvenuto a Rebibbia e a Firenze, noi del gruppo dei dissociati, che rappresentavamo ormai la maggior parte dei detenuti politici, provammo a costituire anche a Bergamo la cosiddetta "area omogenea", chiedendo maggiori possibilità di comunicazione con l’esterno, per poter giocare il nostro ruolo nella società nelle istanze di riconciliazione e pacificazione sociale. Trovammo però grossi ostacoli nella direzione di allora. Zappa, invece, si mostrò disponibile ad ascoltare le nostre richieste".

 

Diego: "Nonostante la contrarietà della direzione, Zappa ci incontrò per la prima volta in un locale del carcere e in seguito diede il via all’"area omogenea". Fu l’inizio di un rapporto che cambiò le nostre vite".

 

Gianfranco: "Pochi giorni dopo quella famosa riunione con Zappa, cambiò anche il direttore del carcere, arrivò il dottor Antonino Porcino, quello attuale, e in via Gleno si iniziò a respirare un’aria diversa. Nel marzo del 1986 si tenne addirittura un convegno nella palestra del carcere sul tema della violenza politica negli Anni Settanta".

 

Cosa cambiò concretamente fra le mura di via Gleno?

Gianfranco: "Fu allora che iniziarono i corsi di legatoria e di falegnameria per i detenuti. Fu allora che le famiglie venivano ricevute nella palestra del carcere, in uno spazio aperto. Non solo dentro le mura, molto accadde anche fuori. Iniziammo a dialogare con la città con il Comitato carcere e territorio, che a Brescia fu fondato dallo stesso Zappa. Due anni più tardi, intorno tra il 1987 e il 1988, potemmo uscire per lavorare".

 

Nel costruire le basi di questo cambiamento sembra che voi dissociati, il giudice di sorveglianza e la direzione del carcere abbiate giocato un ruolo fondamentale.

Diego: "Non era ancora entrata in vigore la riforma carceraria e già Zappa aveva intuito che noi, i detenuti politici, potevamo essere il volano di questa riforma. Ci fu anche un momento in cui gli altri detenuti pensarono che i politici fossero dei privilegiati, perché godevano di maggiori contatti con l’esterno. È vero, noi eravamo un po’ i sindacalisti del carcere, ma il merito di uomini come Zappa, come Nicolò Amato (ex direttore generale delle carceri, ndr), come Alessandro Margara (ex magistrato di sorveglianza a Firenze, ndr), è stato quello di guardare oltre il fenomeno della dissociazione, e di capire che il carcere modello che stavano realizzando poteva essere possibile con qualsiasi tipo di detenuto".

 

Com’era con voi il giudice Zappa?

Bruno: "Instancabile. L’orario di ricevimento era dalle 10 alle 15, senza pause. Tutto quello che chiedevamo ci veniva dato. Riuscimmo a organizzare anche la festa di Santa Lucia per i bambini dei detenuti. Io, poi, un figlio l’ho fatto proprio grazie ai permessi rilasciati da Zappa".

Gianfranco: "Certo, per lui non fu così facile. Ci fu anche un preciso disegno di opposizione a quello che aveva fatto e che stava facendo. Però non era certo un ingenuo, non è mai finito nel mirino della stampa".

 

Come lo ricordate?

Bruno: "Come una persona giusta".

 

Diego: "Non credo che sia un caso che l’ufficio di sorveglianza di Brescia sia rimasto un ufficio attento alle esigenze dei detenuti. L’aspetto più importante della figura di Zappa, è che quello che ha seminato è rimasto".

 

Diceva mai di no?

Diego: "Non l’ho mai sentito dire di no. Io non dico no – diceva. Ti dico: costruiamo le condizioni perché tu possa uscire".

 

Bruno: "Era uno che non si arrendeva e che credeva profondamente in quello che faceva".

 

E tornavano tutti?

Diego: "Tutti. Quasi a dargli ragione. Zappa non era una persona che dava confidenza. Rimaneva nel suo ruolo di giudice, e noi di detenuti. Però penso che fosse una persona credente, e in quanto credente era convinto che nessun uomo è perduto per sempre. Oltre che con noi, ad esempio, aveva a che fare con una leva di rapinatori ai quali pochi avrebbero dato fiducia. Anche loro sono stati ai patti. La sua morte ci ha addolorato, perché è stata una persona che ha cambiato la nostra storia e le nostre vite. Lui, come Amato, come altri, ha trovato il bandolo della matassa in un momento storico dal quale si rischiava di non uscire più. È uno che ha cambiato le cose, ha cambiato il nostro Paese, perché credeva profondamente in questo cambiamento. Purtroppo persone come lui stanno scomparendo, è una generazione in via di estinzione, e noi non ce ne stiamo accorgendo".

 

 

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