Colpevoli di lesa sicurezza

 

Colpevoli di lesa sicurezza

 

Il Manifesto, 6 marzo 2004

 

Un’intervista al criminologo David Garland

 

Il superamento delle politiche sulla criminalità maturate durante l’esperienza del welfare state si è tradotto in un sistema penale duramente punitivo. La devianza è messa all’indice perché riflette le paure della middle-class alimentate dalla crescente precarizzazione del lavoro.

 

David Garland è uno dei principali sociologi del controllo sociale nel contesto anglo-americano. È autore di numerosi saggi sulla questione penale e sulle trasformazioni del controllo fra XX e XXI secolo, e insegna alla New York University. In questi giorni è in Italia, in occasione della pubblicazione del suo ultimo lavoro La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo (il Saggiatore, pp. 447, € 24). Lo abbiamo incontrato a Bologna, ospite in questi giorni dell’Università, dove ha tenuto una conferenza dedicata proprio al suo ultimo lavoro.

 

Professor Garland, "La cultura del controllo" compare come terza sezione di una trilogia - iniziata con "Punishment and Welfare" (Gower, 1985) e proseguita con "Pena e società moderna" (il Saggiatore, 1999). Com’è mutato lo scenario penale dall’inizio del suo progetto?

Quando ho iniziato Punishment and Welfare, al principio degli anni ‘80, avevo la sensazione che il sistema della penalità "welfarista" iniziasse a sgretolarsi, anche in virtù di critiche provenienti dagli ambienti liberal. In quel momento non immaginavo che quelle critiche "da sinistra" al sistema penale si sarebbero concretizzate in termini così punitivi. Il mio obiettivo era di sottoporre a critica gli aspetti disciplinari e classisti che caratterizzavano lo stato sociale, nella speranza che la sua crisi avrebbe promosso strategie penali socialmente più accettabili. Ma quelle aspettative sono state smentite dalla realtà.

 

Ma il crimine è davvero un problema così centrale nella società contemporanea?

Ogni società sperimenta livelli diversi di criminalità e di "paura". Il rapporto fra esperienze reali e fenomeni di "ansia" è alquanto complesso. Pensiamo agli Stati Uniti: i tassi di criminalità sono oggi molto più contenuti di vent’anni fa, eppure la paura non è affatto diminuita. Non abbiamo paura della criminalità in base a un’esperienza diretta del fenomeno: temiamo il crimine a partire dalla nostra internità a un certo ambiente culturale, in cui la nostra esperienza viene amplificata dalle rappresentazioni sociali e dal senso comune. Si potrebbe dire che la paura della criminalità si è "istituzionalizzata" diventando parte integrante del nostro scenario urbano. Poi esiste un’enorme industria della "sicurezza", la cui esistenza dipende proprio dal diffondersi della paura. La paura della criminalità non nasce dal nulla: si radica certamente in un’esperienza reale. Ma è alimentata dalle opportunità di "profitto" che essa offre.

 

Vede qualche relazione fra le nuove strategie di controllo sociale e la gestione della forza lavoro?

Credo che esista una relazione fra le trasformazioni del lavoro e quelle della pena e che l’incarcerazione di massa contribuisca a regolare il lavoro. Alcuni studi americani dimostrano che se negli Usa vi fosse una popolazione carceraria "normale", il tasso di disoccupazione aumenterebbe subito del 2%. Il carcere assorbe una certa quota di popolazione disoccupata e la ridefinisce come popolazione criminale. Dunque una relazione esiste, ma non vedo una "strategia intenzionale" dei governi per "gestire" penalmente la disoccupazione: il fenomeno è più complesso. La popolazione disoccupata appare problematica e pericolosa perché tende ad avere contatti con le economie illegali e coi mercati delle droghe. Ma tutto questo non ha tanto a che vedere con la forza lavoro "in eccesso", quanto con l’insicurezza che pervade la middle class e che deriva dalla flessibilizzazione del lavoro. La new economy non ha tanto fatto aumentare la disoccupazione fra gli strati marginali. Semmai ha reso profondamente insicura la middle class: quella che di fatto controlla le politiche penali, proiettando le proprie paure sul povero, sul migrante, sul marginale.

 

Nel libro lei evidenzia un’apparente contraddizione, nel campo della penalità, fra "strategie amministrative" (ispirate a una razionalità economica di riduzione del danno, privatizzazione, analisi costi-benefici, etc.) e "strategie politiche" (animate dalla retorica conservatrice delle pene esemplari, dell’incarcerazione di massa e della pena di morte): non crede che queste strategie possano essere considerate complementari all’interno un "modello penale neoliberista"?

È vero che non c’è contraddizione necessaria nel fatto che relativamente alla criminalità un governo ricorra a retoriche o a strategie diametralmente opposte. Ma ciò che trovo più interessante rispetto a questa ambiguità delle politiche criminali è prima di tutto il fatto che entrambe le strategie sono molto distanti dalla penalità "welfarista": tanto l’idea che il criminale sia un "imprenditore" della devianza, quanto l’immagine che lo vede come "mostro" radicalmente "altro da noi" e senza possibilità di riforma, sono quanto mai lontane dall’ideologia dello stato sociale, secondo cui la criminalità è prodotta da circostanze sociali e psicologiche cui è possibile rimediare. Altra questione è il modo in cui i governi sviluppano strategie penali così diverse: io penso che la rappresentazione del criminale come un "essere mostruoso" da neutralizzare sia riservata ai poveri, alle minoranze, alla cosiddetta underclass: è una rappresentazione connotata razzialmente e relativa alle devianze che più alimentano le paure della middle class: crimini sessuali sui minori o reati di droga. Ma questa ossessione non ha nulla a che fare con l’incidenza reale di questi fenomeni: se paragonata agli incidenti stradali o alle violenze domestiche, l’eventualità che un estraneo molesti sessualmente un bambino è rara. Il motivo per cui questo genere di crimini suscita tanta preoccupazione è che si tratta proprio delle forme di criminalità a cui noi siamo maggiormente vulnerabili in virtù degli stili di vita e delle libertà cui abbiamo avuto accesso negli ultimi trent’anni. C’è una specie di "senso di colpa" e di "proiezione", nelle odierne retoriche del "mostro".

 

Lei descrive alcune analogie fra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, sottolineando alcune tendenze comuni fra le strategie penali americane ed europee? Dobbiamo rassegnarci al fatto che il gulag americano rappresenti un futuro distopico per altre aree del mondo?

Per rispondere sarebbe necessario un lavoro di ricerca comparativa che al momento non c’è. La mia impressione è che vi siano trasformazioni strutturali nell’organizzazione della vita quotidiana, fattori che si sono consolidati soprattutto alla fine del XX secolo. Il modo in cui la gente vive e si muove, la diffusione delle automobili, la fuga verso i sobborghi, il consumismo crescente: questi aspetti caratterizzano tutti i paesi. Se i governi e le società civili occidentali reagiranno promuovendo una "cultura del controllo" (col suo corollario di politiche punitive) è una questione aperta. Rispetto al caso americano, la mia impressione è che il potenziale punitivo e razzista implicito nella paura della criminalità e nell’attacco allo stato sociale sia particolarmente elevato negli Stati Uniti, per ragioni storiche e strutturali. Gli Usa sono in realtà uno stato debole, un paese in cui la razionalità legislativa e la modernizzazione sono costantemente limitate dalle prerogative dei singoli stati. Il sistema giudiziario, al contrario di quanto accade in gran parte dell’Europa, è interamente politicizzato: i giudici e i pubblici ministeri sono eletti e quindi responsabili verso l’opinione pubblica, il che aumenta la discrezionalità e le implicazioni politiche delle decisioni. Questa è una delle circostanze che spiegano perché gli Stati uniti siano così punitivi; ma si tratta di orientamenti comuni anche ad altre nazioni.

 

Rimaniamo negli Stati Uniti. Quali cambiamenti vede nelle politiche penali americane in seguito all’11 settembre 2001? Esiste qualche relazione fra la guerra globale al terrorismo e altre guerre interne - la "guerra alla criminalità" o la "guerra alla droga"?

Una delle conseguenze dell’11 settembre è stata l’aggravarsi di una recessione economica che negli Usa era iniziata già prima. Negli ultimi due anni le entrate fiscali sono notevolmente diminuite rispetto al decennio precedente, tanto che al livello dei singoli stati si può ormai parlare di «crisi fiscale». Una buona notizia rispetto al sistema penale: infatti l’estensione del sistema carcerario è stata molto costosa, e forse i governi statali iniziano a comprendere che non potranno permettersi un sistema educativo pubblico, se manterranno un apparato penale di quelle dimensioni. Insomma, le conseguenze economiche dell’11 settembre potrebbero limitare l’ipertrofia del sistema penale. Ma rispetto alla guerra al terrorismo l’aspetto che mi colpisce maggiormente è questo: il repertorio di politiche criminali che ho cercato di descrivere ne La cultura del controllo si addice perfettamente anche alle nuove strategie anti-terrorismo. Da una parte emerge una prassi della "sicurezza" basata sulla prevenzione, che rinuncia a "modificare" le intenzioni del potenziale terrorista limitandosi a ridurre le possibilità che un atto terroristico abbia luogo. Pensiamo ai tentativi di contenere il fenomeno terroristico disarmandolo: il controllo delle armi compare quale strategia preventiva nella "cultura del controllo", e il progetto di eliminare le armi di distruzione di massa rappresenta la proiezione globale di quella strategia locale. Analogamente, non emerge alcuno sforzo di affrontare le "cause" del terrorismo: conosciamo i contesti in cui questo prolifera e le inevitabili conseguenze "antiamericane" dell’imperialismo statunitense, ma in nessun caso le politiche attuali cercano di affrontare questi aspetti: questo scenario presenta notevoli parallelismi con quanto descrivo ne La cultura del controllo.

 

 

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