Tangentopoli ha fatto il bis

 

Tangentopoli ha fatto il bis

 

di Stefano Arduini, Vita del 05.03.2004

 

Un’intervista del settimanale Vita a Sergio Cusani

 

Era il 23 luglio 1993 quando Sergio Cusani varcò la soglia del carcere milanese di San Vittore. Mani Pulite aveva colpito. Solo poche ore prima Raul Gardini si era suicidato; due giorni prima, un altro suicidio, quello di Gabriele Cagliari. Quell’istante ha spezzato in due la sua vita. Alle spalle: la venerazione per Serafino Ferruzzi, il rapporto con Bettino Craxi, l’amico Raul, "uomini autorevoli con caratteri forti che mi stimavano e gratificavano: ho elaborato poi in carcere che ricercavo in loro la figura paterna. Non era semplice attrazione per il loro potere ma umanissimo e dannato bisogno di riconoscimento", le 14 ore al giorno di lavoro, i guadagni spesi in quadri che componevano una bella e rara collezione di pittori del ‘900. Eredità di una passione per l’arte nata nelle mura di una delle case più in vista di Napoli: la villa a Posillipo della famiglia del padre industriale.

All’orizzonte: anni di galera, la riscoperta del rapporto con i suoi 3 figli (di cui uno adottato), l’attivismo per la difesa dei detenuti, il drappo bianco pacifista di Emergency, e l’ultima creatura: la Banca della solidarietà (www.bancasolidarieta.it). Dieci anni utili per riscoprirsi "contento per una vita piena e intrisa di senso". Per rivelare orgogliosamente di "aver restituito i 23 miliardi di lire, che avevo in gestione, non alla procura in cambio di benefici ma al tribunale. Avrei in realtà voluto darli all’ospedale bombardato di Sarajevo, ma i miei avvocati si ribellarono minacciando di rinunciare alla mia difesa".

Ma anche tempo per un bilancio: "in questi dieci anni in fondo è cambiato poco o niente".

 

La globalizzazione, il movimento arcobaleno contro la guerra in Iraq, l’ambientalismo, l’attenzione alla qualità della vita, dell’ aria, del territorio, del cibo: cos’ha da spartire 1’Italia del 2004 con quella di dieci anni fa?

I crac, da Bipop a Parmalat, stanno a dimostrare che mentre il corpo sociale ha attraversato processi di trasformazione come non mai negli ultimi 50 anni ponendosi questioni vitali e globali come la qualità della vita per tutti, l’acqua, il cibo, l’aria ammalati che uccidono, le povertà, le disuguaglianze, per l’elite del potere politico, economico e finanziario questo mondo non è cambiato ne è da cambiate. L’orologio si è fermato e non solo in Italia. Penso a tutti gli scandali, a ciò che è successo in Francia con Juppé, in Germania con Kohl, in Inghilterra con vari ministri di Blair e negli Stati Uniti con i casi Enron e Worldcom, con le guerre "umanitarie". In Italia ho l’impressione che, con le inchieste in corso, siamo alla fase iniziale di svelamento di un sistema che in. questi dieci anni si è soltanto inabissato, nascosto, ma che non ha mai smesso di replicate i suoi schemi di potere autoreferenziali e di consolidate la sua enclave.

 

L’alba di una Tangentopoli II?

Non direi. Quella stagione in realtà non si è mai conclusa. La fase odierna è l’altra faccia della medesima medaglia. Nel 1993 si indagò sul rapporto fra impresa e politica. Ora è entrato in gioco il rapporto tra sistema bancario e imprese. Un sistema, quello bancario, che in questi dieci anni ha attraversato un processo di enormi aggregazioni, gestito col bilancino dalla Banca d’Italia in base a criteri extra economici in modo da non scalfire determinati equilibri politici: una specie di par condicio bancaria.

 

Si spieghi meglio…

Quando un piccolo imprenditore va in banca a chiedere un prestito viene sottoposto a una vera "vivisezione". Uno stress risparmiato ai big. n sistema bancario nel momento in cui esce dalla fascia del singolo, dell’artigiano, del piccolo produttore, della cooperativa ed entra in quella della grande impresa, cambia completamente atteggiamento. La grande impresa viene percepita come un socio. I suoi bilanci contano poco o nulla. E i finanziamenti vengono sempre più spesso erogati in "virtù" di una logica di scambio. Un cinico "do ut des" con cui la banca stabilisce le seguenti "regole": i tuoi parametri economici non ci permetterebbero di finanziarti come vuoi, però ti presto ugualmente il denaro che mi chiedi a condizione che tu, impresa, mi tolga dallo stomaco una patata bollente. Per esempio una situazione di sofferenza particolarmente imbarazzante o la posizione di un cliente al quale tengo particolarmente, perché amico dei politici potenti. Così si è alimentato, con il consenso interessato di entrambe le parti, un meccanismo irragionevole che porta l’azienda a caricarsi di debiti impropri che generano perdite, e quindi la costringe a capriole contabili e truffe per coprire buchi sempre più grandi.

 

Come può il risparmiatore proteggersi da queste manovre?

Un buon termometro per valutare la salute di un azienda è la fedeltà al proprio core business, cioè alla sua attività principale senza cedere alla perversa logica di scambio con le banche. D’altra parte, cosa c’entrano il calcio, il turismo, le televisioni con il latte della Parmalat? E con i pelati della Cirio, che c’entrano con Casa d’aste, la Lazio e svariate altre attività? Infine, per le banche alla metà degli anni 90 c’è stata la grande trovata dei bond, cioè le obbligazioni societarie.

 

Una bella scoperta che ha mandato in fumo i risparmi di centinaia di migliaia di italiani…

Si calcola che siano complessivamente circa 800mila i risparmiatori coinvolti nei vari crack. Ormai importiamo quasi tutto dal modello americano, in particolare sul piano economico e finanziario. Compresi i bond: cioè un meccanismo apparentemente democratico perché avrebbe potuto mettere in contatto direttamente il risparmio con l’azienda per finanziarne lo sviluppo, ma che nei fatti è stato usato largamente per scaricare sul risparmiatore rischi tipici dell’impresa bancaria. Rischi che prima gli istituti di credito invece si assumevano in proprio nel momento in cui decidevano di fInanziare un’impresa direttamente o attraverso dei consoni di collocamento.

 

Di chi sono le responsabilità?

Si rischia di cedere al qualunquismo nel dire che la mala gestione dei meccanismi finanziari prescinde dall’appartenenza. Ma è accaduto proprio così. In questi dieci anni si sono succeduti governi di destra e di sinistra. Ricordo che proprio a ridosso del mio processo avvennero le più imponenti privatizzazioni di beni pubblici a prezzi di saldo. E non furono operazioni alla luce del sole. Il timone era sempre nelle mani dei soliti noti, i cosiddetti poteri forti rimasti inviolati: da Mediobanca a Bankitalia, alle grandi famiglie imprenditoriali intoccabili, agli apparati politico -burocratici sotto traccia, ai detentori dell’informazione. La più grande industria di telecomunicazioni italiana, la Telecom, fu consegnata nelle mani di due sconosciuti. La scalata fu finanziata con un indebitamento di 110mila miliardi di lire e con la incomprensibile rinuncia da parte dello Stato della golden share. D’Alema era presidente del Consiglio e Amato ministro del Tesoro. Il professor Guido Rossi poi commentò aspramente e causticamente: "A Palazzo Chigi c’è una merchant bank che non parla nemmeno inglese". Chiunque sia andato al potere, partendo anche posizioni politicamente contrapposte, ha immediatamente assorbito e mutuato modelli e metodi di un sistema di potere consolidato, senza modificarne un bel niente.

 

Fra l’altro è rimasto del tutto irrisolto il nodo del finanziamento della politica…

A dire il vero Berlusconi l’ha risolto, almeno per se stesso e per la coalizione che guida, pagando di tasca propria e quindi, di fatto, esercitando un sicuro potere di controllo sugli alleati. La sinistra, intanto, si è arrangiata in qualche modo, non senza qualche significativo risultato. La matassa è davvero intricata perché la propaganda e le campagne elettorali non si fanno con i fichi secchi, anche se nessuno ha più l’ardire di presentare il conto ai cittadini. Vista l’aria che tira, dipendesse da loro, i cittadini non scucirebbero per la politica neanche un centesimo di euro. Condivido totalmente la posizione di padre Alex Zanotelli quando afferma che se tutte l’energie che si sono messe in moto in questi anni si sviliscono nella partecipazione a liste elettorali, a lui non interessa partecipare. I cittadini non hanno più voglia di finanziare la politica perché questa non si occupa dei problemi della quotidiana materialità della vita e delle sue difficoltà. I cittadini e i politici sono due soggetti che non si parlano più e si guardano di sbieco.

 

Prospettive per il futuro?

Oggi in gran parte dell’Europa, dal momento della colata dell’acciaio alla produzione finale del rotolo ci vogliono tradizionalmente dai 3 ai 4 giorni e 1.500 operai: con la nuova tecnologia Mannesman ci vogliono 15 minuti e bastano 250 operai. Produrre un jeans in Italia costa 40 dollari, in Pakistan, imbustato e pronto sul bancone di vendita, solo 8. In Cina ancora meno.

Queste sono le grandi questioni che riguardano milioni di lavoratori che la politica, l’imprenditoria e anche i sindacati dovrebbe affrontare. E invece…

 

Lei intanto ha fondato la Banca della solidarietà.

La banca è una srl che sta sul mercato. Il progetto è offrire ai clienti la gamma completa delle attività mercantili, dalla consulenza all’intermediazione, ma invece di riscuotere la commissione, il proposito è sottoporre ai contraenti una serie di progetti di solidarietà e di cooperazione sociale scelti in base a una griglia etica. Sarà il cliente stesso, in base alla sua sensibilità, cultura e storia, a scegliere quale iniziativa sostenere attraverso una donazione. La banca incassa solo il rimborso delle spese. In questo ultimo anno ci stiamo occupando per conto della Fiom - Cgil di monitorare la crisi della Fiat. Abbiamo costituito, su base volontaria, un osservatorio multiprofessionale visto che il pianeta Fiat riguarda circa 450 mila lavoratori. Il primo gruppo industriale italiano si dibatte in una profonda crisi ove il solo comparto che funziona è quello della comunicazione, trionfalistica ai limiti dell’incoscienza. Se vanno avanti così non hanno futuro, e sarebbe un cataclisma sociale, economico e finanziario, da scongiurare in ogni modo.

 

Un progetto che si sposa alla perfezione con la nuova immagine di un Cusani impegnato nel sociale a fianco dei detenuti. Che tipo di esperienza visse in carcere?

Sono stato 4 anni in cella e poi in affidamento esterno. L’impatto con il carcere è terribile anche solo per due ore. Per i primi 20 giorni ricordo di aver dormito ininterrottamente. Poi appena mi sono guardato intorno e ho realizzato il contesto, mi ha attraversato una scossa. Dentro la realtà è folle. È una macchina che sembra fatta apposta per diseducare, altro che recupero! All’inizio pensavo fosse disattenzione e incuria; invece poi mi sono reso conto che è un sistema voluto perché deve riprodurre se stesso. Come ogni parcheggio, funziona solo se le "macchine umane" continuano a entrare e uscire. La cartina di tornasole è il tasso di recidiva pari al 62%. Un blackout che coinvolge tutti: detenuti, operatori, agenti di polizia penitenziaria. Ho visto giovani agenti che, finito il turno di lavoro, si sedevano sulle panchine di fronte a San Vittore aspettando la ripresa del turno. Solitudine, frustrazioni da abbandono, degrado umano e strutturale colpiscono tutto il mondo penitenziario, chi ci vive come chi ci lavora.

 

Il direttore Pagano la ricorda come un vulcano di proposte, il più delle volte inattuabili.

Il mio lavoro professionale era stato osservare e studiare un’azienda per capire perché funzionasse male. Quasi subito, una volta inserito nell’ingranaggio, ho compreso come il carcere sia una macchina che gira storta, una pena che si assomma alla pena della privazione della libertà. In me è scattato il meccanismo spontaneo di tentare di modificarla: facendo inchieste interne cella per cella e causando un sacco di grattacapi al direttore. In questi dieci anni, però, nonostante gli sforzi e le iniziative che abbiamo portato avanti come ampio soggetto collettivo, in particolare con Sergio Segio del Gruppo Abele (basti ricordare la campagna per l’indulto e l’amnistia), non è cambiato quasi nulla.

 

Nostalgia per i tempi che furono?

No. Il livello di veri rapporti interpersonali era bassissimo. E il collante di un potere ormai logoro li aveva portati a un continuo degrado.

 

Nemmeno per i suoi quadri?

E perché? Basta andare al museo. È per me ora bello e giusto condividere con tutti l’ammirazione per l’arte, piuttosto che crogiolarmi nella misera arte dell’ammirazione del possesso fine a se stesso.

 

 

 

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