Nelle
carceri assistenza religiosa aperta a tutte
le confessioni
Toscana
Oggi, 5 maggio 2004
Il
sistema carcerario dell’Unità d’Italia e della prima metà del secolo
scorso era caratterizzato da una concezione strumentale della religione.
Religione vista "come strumento per incutere timore nel detenuto, per
svolgere un’azione deterrente e per spingerlo all’obbedienza". È un
excursus storico quello proposto dal professor Carlo Cardia, docente di diritto
ecclesiastico all’università romana "Roma 3", nella tavola rotonda
tenutasi alla Sapienza di Pisa e dedicata all’assistenza spirituale nelle
carceri.
La conferenza faceva parte di un ciclo di tre lezioni promosse dallo Sportello
per i diritti umani di Pisa. Vi hanno partecipato monsignor Giorgio Caniato,
ispettore delle cappellanie nelle carceri, don Roberto Filippini, cappellano
della casa circondariale "Don Bosco" di Pisa e il professor Pierluigi
Consorti, direttore dello Sportello per i diritti umani di Pisa. Il professor
Cardia, che ha fatto parte della commissione di studio per la revisione del
Concordato fra lo Stato e la Chiesa cattolica, e ora di quella per la riforma
della legge sulle cappellanie, ha sottolineato come in passato il cappellano
faceva parte di un consiglio di disciplina e per il detenuto vi fosse
l’obbligo di seguire le funzioni e i riti religiosi. "Nel 1975 questo
settore, come altri, è stato riformato – ha detto il professor Cardia – in
questo settore, così come in altri in quegli anni. L’assistenza spirituale
non è stata più vista come obbligo, ma come un diritto".
Oggi, a quarant’anni di distanza si avverte la necessità di rimetter mano
alla legislazione, per determinare che cosa è "assistenza
spirituale". Per monsignor Caniato, che ha un’esperienza di cappellano
nelle carceri, perché ha passato con questo ruolo 41 anni a San Vittore a
Milano, il termine "assistenza spirituale" non è corretto. "Più
opportuno sarebbe parlare di assistenza religiosa, laddove la religione è il
rapporto con Dio. L’uomo, ha diritto alla cultura e al lavoro, ma ha anche il
diritto ad avere un rapporto con Dio. Così come il detenuto. Così gli articoli
1 e 4 del testo del 1975".
Ma su questa definizione le difficoltà rimangono. Anche perché, secondo il
professor Cardia, spesso l’assistenza religiosa diventa morale e psicologica,
anche se non è più trattamentale. C’è poi il nodo dei detenuti che
professano altre religioni. "L’assistenza – ha sottolineato Cardia –
deve essere aperte anche alle confessioni diverse dalla nostra, ma non vi deve
essere identificazione con i soggetti destinatari".
Oggi, e questo è un altro problema, occorre anche circoscrivere i soggetti
portatori di assistenza: "Per esempio in Belgio vi sono associazioni e
organizzazioni ateistiche che hanno un preciso riconoscimento. Ma se
un’associazione nega Dio, in quanto ateistica, come fa a fare assistenza
religiosa?".
Sempre più problematico si farà nei prossimi anni il tema dei carcerati
musulmani: persone infedeli che per l’Islam devono essere dimenticate. L’imam,
che non è un ministro di culto, non va ad assisterli, né spiritualmente né
umanamente, anche se le carceri sono aperte alle persone di altre religioni. Ma
i musulmani non sono abbandonati a sé stessi. È l’esperienza sia di Caniato,
che a San Vittore ha offerto la sua disponibilità e la sua assistenza a tutti,
sia di don Roberto Filippini, che insieme ad una suora e ad un diacono svolge da
cinque anni la sua opera di assistenza spirituale al carcere di Pisa.
"Abbiamo organizzato – ha detto don Filippini – la nostra presenza
quotidiana, coprendo molte ore non solo con i detenuti, ma anche con le guardie
penitenziali". Per il sacerdote, "nella prospettiva conciliare
l’assistenza religiosa può essere svolta anche da personale laico, così come
del resto è accaduto in Corsica, perché quello che conta è accettare la
persona che viene presentata dalla Chiesa".