Rassegna stampa 30 maggio

 

Padova: "Istituire un garante per i diritti dei detenuti"

 

Il Gazzettino, 30 maggio 2004

 

Creare un ponte tra il carcere Due palazzi e il resto della città. È questa la proposta che emerge dall’incontro, organizzato dal candidato del centro sinistra Alessandro Zan, tenutosi ieri al caffè Pedrocchi. Alla tavola rotonda hanno partecipato anche il deputato dei Ds Piero Ruzzante e il responsabile per le tematiche carcerarie del comune di Roma Luigi Manconi.

"Occorre seguire le esperienze che da qualche tempo sono state avviate non solo nella capitale, ma anche a Firenze e Bologna: uno degli impegni che ci prendiamo in occasione delle prossime elezioni è l’istituzione di un garante per i diritti dei detenuti - ha detto Alessandro Zan, candidato al consiglio comunale nelle fila del centro sinistra - questa figura "ponte" tra l’amministrazione comunale e quella penitenziaria promuoverebbe il miglioramento delle condizioni di vita all’interno del Due Palazzi, che noi riteniamo a pieno titolo parte integrante della città".

L’esperienza romana, la prima a partire in Italia sei mesi fa, è stata illustrata dal garante per i diritti dei detenuti nelle carceri capitoline, Luigi Manconi, che ha spiegato come siano fondamentalmente due le priorità che i detenuti manifestano ricorrendo al suo ufficio: il rispetto del diritto alla salute e la necessità di essere impiegati in un lavoro durante la condizione di detenzione. "L’istituzione del garante per i diritti dei detenuti non è una proposta elettorale come tante - ha puntualizzato il deputato dei Ds, Piero Ruzzante - è un impegno chiaro e inderogabile che assolveremo sicuramente nel momento in cui saremo chiamati di nuovo ad amministrare Padova. Una buona condizione di vita all’interno del carcere è infatti un requisito indispensabile per una aumentata sicurezza nell’intera città. Altrimenti le case di reclusione si trasformano da soggetti di recupero dei cittadini a moltiplicatori della delinquenza e dei reati".

Gorizia: giornali dal carcere, dialogo e reinserimento sociale

 

La Voce Isontina, 30 maggio 2004

 

Si svolgerà a Gorizia, venerdì 4 giugno ore 18.00, presso la sala "Mons. P. Cocolin", via Seminario n° 7, un incontro pubblico sul tema "Giornali dal carcere: strumenti di analisi, di dialogo e di reinserimento sociale" organizzato dalla Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Friuli - Venezia Giulia.

Si tratta di un momento di riflessione, di uno scambio di esperienze tra la realtà del carcere e il territorio esterno, che vedrà la presenza di Ornella Favero del periodico "Ristretti Orizzonti", la rivista della Casa di Reclusione di Padova. Si tratta di una pubblicazione che dal 1998, anno di uscita del primo numero, è curata da una redazione di detenuti e che è rivolta anche a chi sta fuori dal carcere.

Nel corso dell’incontro don Andrea Bellavite, sacerdote e giornalista direttore di "Voce Isontina", parlerà dell’esperienza fatta dal suo giornale che dal settembre 2003 ospita al suo interno "L’Eco di Gorizia", un giornale scritto da una decina di detenuti del carcere locale. Interverrà anche il direttore della Casa Circondariale di Gorizia, dott. Giovanni Attinà e porteranno la propria esperienza di redattori di giornali del carcere Edi Canavese e Silvia di Dio dell’Eco di Gorizia e Liliana Lipone con Maurizio Battistutta de "La Voce del Silenzio", giornale edito dal carcere di Udine.

L’intento dell’incontro è quello di far conoscere queste esperienze di "redattori sociali"  e quindi di far crescere il dialogo tra la società reclusa e la società "libera"; proprio dal dialogo e dalla mediazione infatti possono nascere processi di reinserimento sociale per le persone detenute capaci di ridurre le recidive e l’insicurezza nel tessuto sociale.

Nuoro: carcere e volontari, un convegno sulla situazione sarda

 

L'unione Sarda, 30 maggio 2004

 

Gli angeli delle carceri sono tanti, ma spesso non possono svolgere la loro azione umanitaria e di recupero dei detenuti, perché non c’è lo spazio, non c’è la sicurezza e manca soprattutto lo spirito di volontariato da parte degli stessi istituti di pena. In questa logica si è affrontata la giornata di riflessione e di dibattito, col tema "Carcere, Chiesa e Volontariato", organizzata dalla delegazione regionale della Caritas, dalla Conferenza regionale volontariato e giustizia e dai Cappellani delle carceri sarde. Una manifestazione che ha richiamato centinaia di persone da tutta l’Isola, che la grande sala ai lati della chiesa della Sacra Famiglia di Nazareth non ha potuto contenere.

Un tema affrontato Cum Grano Salis dai vari relatori, tutti con un alto spessore di professionalità, di cultura carceraria ed evangelica. Dopo il saluto del sindaco Marco Mura, il quale ha ricordato che fino a qualche anno fa il carcere di Macomer era una cosa a sé: "Da qualche tempo abbiamo fatto delle cose in collaborazione, per facilitare il reinserimento dei detenuti". Argomento ripreso da Don Lorenzo Piras, responsabile diocesano della Caritas zonale: "Qui a Macomer i volontari ci sono, ma in carcere non possiamo entrare, nonostante stiamo insistendo da oltre due anni". Così si è aperto una sorta di confronto e riflessione, con interventi coordinati da don Ettore Cannavera, con gli interventi di Francesco Massidda, provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria, Leonardo Bonsignore, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, il delegato regionale dei cappellani carcerari don Giuseppe Meloni, Rossana Carta, responsabile regionale dell’esecuzione penale esterna, poi ancora don Giovanni Usai, Ettore Angioni procuratore del Tribunale per i minorenni di Cagliari, Livio Ferrari, responsabile nazionale della conferenza Volontariato e Giustizia e don Vittorio Nozza, direttore Caritas italiana.

Una situazione delle carceri sarde passate ai raggi X, grazie al contributo di tanti volontari, che hanno portato la loro testimonianza, ma anche degli stessi addetti ai Lavori, che hanno rimarcato le difficoltà esistenti in particolare quelle legate all’azione del volontariato.

"La pena - ha riferito il giudice Leonardo Bonsignore - non è un atto finale per il condannato, che non deve essere rinchiuso in cella e buttate via le chiavi, ma deve essere invece il lavoro a dare la possibilità di riscatto sociale. In Sardegna però, carceri attrezzate a tal scopo non esistono e dove ci sono, come ad Alghero, non funziona". Eppure quei circa 3 mila detenuti hanno bisogno delle parole di conforto e anche dell’azione tendente a reinserire il detenuto nella società, anche se in molti casi, per motivi di sicurezza, non possono operare.

Questo perché mancano gli agenti, ridotti a 1302 rispetto agli oltre 1400 previsti. Proprio Macomer è uno di quei casi che, per motivi di sicurezza il volontariato della Chiesa non può operare. "Siamo pronti da due anni - ha detto don Lorenzo Piras - ma ancora le porte del carcere non si sono aperte". Un fatto inspiegabile, sottoposto ieri a giudici e responsabili, ma che è rimasto senza plausibili risposte.

Rovigo: quando l’inferno è dietro le sbarre

 

Il Gazzettino, 30 maggio 2004

 

Il senatore Fabio Baratella e il consigliere regionale Elder Campion ieri hanno visitato la struttura di via Verdi. Anche cinque detenuti stipati in una cella di sei metri quadrati e vecchia di duecento anni.

"Sta su con lo sputo e con il lavoro di queste persone qui", dice con rassegnata constatazione il senatore diessino Fabio Baratella sui gradini dell’ingresso del carcere guardando Giampietro Pegoraro, ispettore della polizia penitenziaria e rappresentante sindacale della Cgil. È mezzogiorno e mezzo. L’ex sindaco, accompagnato da quello che era il suo vice a palazzo Nodari, Gigi Osti, e dal consigliere regionale Elder Campion, ha appena concluso una visita nella casa circondariale di via Verdi dopo aver presentato, un paio di settimane fa, pure una interrogazione parlamentare. In un’ora e mezza ha visto fin troppo, a partire dal sovraffollamento.

"Al mio successore avevo lasciato un progetto arrivato a un buon punto per realizzare la nuova struttura - aggiunge Baratella con altrettanta rassegnazione -. È rimasto lì, chiuso in un cassetto. D’altronde, questa sembra essere la filosofia dell’attuale amministrazione: si rifanno i marciapiedi senza impegnarsi sulle opere importanti. Qui ci sono esseri umani che vivono stipati in sei metri quadrati, non si può far finta di niente. Andrebbe almeno promossa una robusta pressione sul ministro della Giustizia".

Sono le undici quando il senatore Baratella varca il cancello. Un sabato mattina come tanti altri. Nel parlatorio ci sono i familiari dei detenuti e delle detenute. Una stanza decorosa, piccola e affollata. "Ci sarebbe anche uno spazio esterno - spiega Pegoraro -, soltanto che non è a norma, nel senso che confina con la mura di cinta direttamente e dunque non può essere utilizzato".

L’ex sindaco ha voluto poi rendersi conto della situazione nella sezione maschile dove, in tre piani, ci sono sessantotto carcerati quando la capienza regolamentare dovrebbe essere della metà. "Ci sono celle con cinque persone, condizione nella quale devono vivere per diciotto ore al giorno, escludendo i momenti in cui posso uscire in giardino o nel campo di calcetto", spiega Baratella. Già, il campo da calcetto, una lastra di cemento.

E poi c’è pure la cosiddetta sala giochi: venti metri quadrati, una panca, due sedie e un tavolo da ping pong. "Considerato quel che ho visto - aggiunge il senatore diessino - mi è venuto da sorridere, amaramente, alle parole che spesso sento pronunciare dai leghisti, secondo i quali le prigioni italiane sono quasi degli hotel a cinque stelle. Ma quale televisione in cella? Qui fanno fatica ad avere un posto per dormire".

La storia della casa circondariale è antica, perché è quella di un convento dell’Ottocento trasformato in carcere agli inizi del secolo scorso. Per l’epoca era un lusso, a due passi dal tribunale. Oggi poco è cambiato. In questi anni le tre palazzine sono state ristrutturate grazie al lavoro, retribuito con il minimo sindacale, dei reclusi. Sì, perché chi può lavora: tre, in regime di semilibertà, escono alla mattina alle sette e tornano la sera, un altro gruppetto, invece, in una stanzetta trasformata in laboratorio, fanno componenti per lavatrici per conto di una cooperativa polesana. E poi ci sono le donne che si dedicano alle cucine.

"La sezione femminile è più ordinata - racconta Baratella - ma la situazione è altrettanto critica. In una cella sono in cinque, in un’altra sono in tre, eppure tutte sarebbero solo per due. E anche loro hanno una sala ricreativa che funge anche da palestra. Piccola, piuttosto piccola per ospitare, eventualmente, tutte le quindici detenute". Tra loro c’è pure la trentanovenne padovana arrestata il mese scorso in Spagna per sequestro di persona, e come persona si intende il figlio di nove anni e mezzo. Dopo la separazione il bambino era stato affidato al marito, ma la donna prima lo aveva tenuto con sé in Italia e poi era fuggita all’estero.

"Aveva un cartello per protestare contro la sua detenzione, è disperata, ha ripetuto che vuole al più presto rivedere il ragazzino", ha spiegato il senatore. Forse la donna non sapeva nemmeno chi aveva di fronte a sé al di là delle sbarre, di certo ha toccato nell’animo l’ex sindaco che, una volta uscito, ha voluto informazioni sulla vicenda.

Un viaggio all’inferno, l’ennesimo compiuto da Baratella nella casa circondariale di via Verdi. "Ma le difficoltà non sono soltanto quelle dei detenuti - sottolinea Pegoraro -. Ci sono pure quelle di noi agenti. Dovremmo essere in ottanta per cinquanta reclusi, invece il rapporto è inverso e nella sezione femminile solitamente c’è solo una collega che è costretta pure a consumare i pasti nella sua postazione, una stanzetta angusta tanto, troppo simile a una cella. Sempre che non accada qualcosa, che non ci siano problemi con le recluse, altrimenti si trova in emergenza perché da sola non può certo entrare in una stanza dove ci sono cinque persone".

L’archivio è un ripostiglio ripieno di carta, la sala per le perquisizioni delle nuove arrivate ha tutta l’aria di un vecchio magazzino. "Una poliziotta mi ha spiegato che si arrangiano come possono - racconta il senatore - ma la sistemazione è alquanto precaria. Bisogna assolutamente intervenire, trovare una soluzione, o meglio portare avanti il nostro progetto.

Invece la situazione è di totale impasse: questo carcere andrebbe chiuso, però ciò vorrebbe dire dover trasferire i lavoratori e i detenuti, con disagi per gli uni e per gli altri. L’alternativa sarebbe costruire una nuova struttura, ma mancano i soldi oggi e non ci saranno nemmeno più avanti. I fondi stanziati dalla finanziaria serviranno a completare le prigioni già in fase di costruzione e tra quelle in cantiere, noi nella graduatoria siamo indietro.

In quattro anni, l’attuale amministrazione non ha fatto fare un solo passo a quel progetto già avviato, che prevedeva la riqualificazione dell’area di questo carcere e la costruzione di uno nuovo. Il problema è stato lasciato in disparte e quel che è più grave, non mi sembra ci sia alcuna volontà di risolverlo".

Milano: Via Corelli, rivolta contro la Bossi-Fini

 

Il Manifesto, 30 maggio 2004

 

Il Cpt di Milano La rabbia degli stranieri esplode all’ora di cena: rifiutano il cibo, rovesciano tavoli, rompono vetri. Interviene la polizia. Quindici arresti e diversi feriti.

Rifiutano la cena e protestano contro la legge Bossi-Fini. Sale la tensione e la Croce Rossa che gestisce il centro milanese di detenzione per stranieri di via Corelli lascia il campo alle forze dell’ordine. Si rompono vetri, infissi e tavolini, uno straniero salito sul tetto cade, si sloga una caviglia e viene portato all’ospedale San Raffaele, tre agenti rimangono lievemente contusi e 19 immigrati vengono arrestati. Quattro sono rilasciati subito, probabilmente espulsi, gli altri vengono trasportati da via Corelli a San Vittore, uno strano percorso all’inverso perché se è consuetudine che i detenuti stranieri dal carcere vengono trasferiti nel cpt, quasi mai avviene il contrario. È quanto sarebbe successo venerdì sera nel centro di detenzione milanese ma come sempre è difficilissimo ottenere informazioni esaustive su ciò che accade davvero dietro quei cancelli, specie in un caso come questo. Dimostrazione una volta di più che la mancanza di trasparenza è parte integrante dei metodi di repressione e di sospensione del diritto dei centri di detenzione.

I diciannove nordafricani hanno protestato contro la legge Bossi-Fini. "Una protesta annunciata - ha dichiarato il commissario provinciale della Croce Rossa, Alberto Bruno - gli immigrati avevano detto che avrebbero rifiutato il cibo. Poi la situazione è degenerata, il nostro personale di assistenza al centro ha lasciato i settori ed è intervenuta la forza pubblica".

La protesta sarebbe durata mezz’ora e si sarebbe estesa dal cortile in alcune camerate con lancio di suppellettili, rotture di porte e finestre. Un bosniaco che in via Corelli condivide la stanza con altri cinque slavi, contattato al telefono, non ha molta voglia di raccontare, tiene solo a specificare che loro non c’entrano e non si fa fatica a capire che ha già abbastanza guai: "Appena ho visto il caos ci siamo chiusi in camera, ho sentito che si spaccavano dei vetri ma non siamo stati noi, poi anche nella nostra stanza è arrivata la polizia, è entrata ha controllato e se n’è andata, in quella a fianco adesso c’è un casino e non c’è più nessuno".

In via Corelli giovedì notte sono stati rinchiusi anche 19 trans dopo una retata annunciata, non hanno visto cosa è successo perché sono in un altro settore, ma la loro testimonianza fa capire che protestare là dentro contro la Bossi-Fini vuol dire anche solo rifiutarsi di mangiare cibo scadente. "Ci danno sempre una pasta schifosa". Le condizioni di vivibilità all’interno del centro infatti non sono un segreto per nessuno. Meno di un mese fa un delegazione dell’Osservatorio su via Corelli era riuscita a entrare e aveva riscontrato come sempre lo stato pessimo della struttura con poco più di un centinaio di stranieri costretti a vivere in scatoloni di cemento con piccoli balconi visitati dai topi. Molti non sanno perché sono là dentro, per loro è difficilissimo entrare in contatto con un avvocato, vivono al limite della sopportazione, piuttosto che restare due mesi in via Corelli c’è chi preferirebbe essere espulso subito ma spesso non ci sono neanche i mezzi per organizzare i viaggi coatti.

I quindici arresti di venerdì notte sono stati convalidati dal Pm Claudio Glittardi e gli stranieri detenuti a San Vittore saranno interrogati domani dal Gip Beatrice Secchi. Sono accusati di resistenza aggravata a pubblico ufficiale, danneggiamento e lesioni per una protesta che gli inquirenti hanno definito "violenta".

Ma sarà difficile sapere com’è andata davvero. "Cercheremo di entrare e di chiedere agli stranieri - spiega Emanuele Patti dell’Osservatorio su via Corelli - chiederemo chiarimenti a questura, prefettura e Croce Rossa, poi confronteremo le diverse versioni. Un lavoro lungo tanto più che le procedure di accesso per gli operatori sono molto complicate. Almeno in carcere può entrare la stampa, in via Corelli invece l’accesso è vietato".

 

 

"La bolsa negra - il sacco nero, ovvero l’isola del sogno"

Carcere di Monza, 28 maggio 2004

 

Giornata storica oggi presso il carcere di Monza! 120 ospiti esterni, tanti detenuti ad assistere allo spettacolo, un vero, autentico successo. Ringraziamo gli ospiti attenti e sensibili,la vostra presenza conferma che la società non dimentica chi sta dietro le sbarre. Il carcere troppo spesso è un luogo dimenticato, un luogo invisibile. Ma come si è visto oggi, il riscatto per chi si trova in carcere, può essere vincente, una chance importante, per restituire loro fiducia, possibilità. Il teatro aiuta al cambiamento! I nostri attori detenuti ci hanno creduto sin dall'inizio, e a dire il vero, spesso sono stati loro a sostenere noi operatori esterni, davanti alle difficoltà incontrate. Degli attori nati! Ho scritto questa storia  "La bolsa Negra" pensando e immaginando come può vivere chi è privato della libertà, ma non dimenticando che... nessuno può vietare di sognare. Anche solo per un giorno. Ancora grazie anche a nome dei nostri attori detenuti.

 

Fina Quattrocchi

 

Nella quotidianità scandita da nostalgie e riti obbligati, due amici ingannano il tempo raccontandosi amori chiusi in una lettera. Ma nel breve tempo di una doccia dell’amico, Stefano si addormenta e sogna di trovarsi in un luogo immaginario, dove ha sempre desiderato d’essere. Rivede vecchi amici che raccontano i loro vissuti, ritrovano insieme il gusto di una partita a pallone sulla sabbia, osservano le stelle in cerchio seduti intorno al fuoco, in un gioco fatto di fantasia è di realtà. In questo luogo fantastico si raccontano storie che arrivano da lontano, con personaggi veri e pieni d’illusioni, insieme rivivono emozioni e il gusto di tornare bambini. Solo un rumore conosciuto sveglierà Stefano dal sogno: restituendogli il bene più prezioso… in una bolsa negra!

Una bella esperienza teatrale nata dal desiderio di Fina e Claudio di portare presso il nostro carcere l’esperienza del teatro, come avviene da tempo in quasi tutte le carceri italiane. I ragazzi che hanno partecipato al laboratorio hanno vissuto con grande interesse l’esperienza, portando sempre il loro validissimo contributo. Sicuramente da ripetere! Si ringraziano la Preside della Scuola Confalonieri, Dott.ssa Anna Martinetti per la sensibilità e l’attenzione mostrati per le attività in carcere. L’Assessorato all’Educazione di Monza, Prof. Paolo Pilotto per aver creduto in noi, sostenendo concretamente il progetto. Un particolare ringraziamento va alla Direzione, agli agenti, agli Ispettori del Carcere per la gentilezza e la disponibilità mostrati nel lungo periodo delle prove.

Attori: Massimiliano, Luciano, Miloud, Ben Moussa, Ivan, Carlos, Carmelo, Antonio, Sergio, Aldo, Stefano, Massimiliano. Sceneggiatura: Fina Quattrocchi. Regia: Fina Quattrocchi e Anna Arienti. Aiuto regia e musiche: Claudio Pasquali. Scenografie: Barbara Frigerio. Tecnico del suono: Paolo Quattrocchi. Nella scrittura del copione hanno collaborato due detenute della sezione femminile.

 

 

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