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La
morte a sbarre: 500 deceduti in tre anni, di Luigi Manconi L’Unità, 21 maggio 2004 Nelle
carceri italiane ci si ammazza oltre 17 volte più di quanto si faccia fuori
dagli istituti di pena, nell’intera popolazione nazionale. E nelle sedi più
affollate si registra il 40% dei suicidi in più che nelle strutture che
ospitano un numero di detenuti pari o inferiore a quello programmato. Tra
coloro che sono in attesa di giudizio (dunque, presunti innocenti a tutti gli
effetti), si registra un tasso di suicidio quasi doppio rispetto a quello
rilevato tra i detenuti definitivi. E in carcere, al contrario di quanto accade
tra la popolazione libera, ci si uccide per lo più in età giovanile: nella
fascia tra i 18 e i 24 anni, quasi 50 volte più di quanto si faccia tra la
popolazione non reclusa. E
poi: in carcere ci si uccide nel primo e nel primissimo periodo di permanenza;
nel 2002 e nel 2003 il 61% dei casi di suicidio riguarda persone recluse da meno
di un anno; oltre la metà dei suicidi si toglie la vita già nei primi sei mesi
di reclusione e, nel corso dei 2003, il 17,2% dei suicidi si è verificato
durante la prima settimana. Ancora: ci si ammazza, non raramente, dopo aver
minacciato il suicidio, dopo averlo già tentato, dopo essere stati dichiarati
“incompatibili” col regime di detenzione, dopo aver manifestato gravi
disturbi mentali. Questi
sono i risultati di una ricerca condotta da Andrea Boraschi, Elina Lo Voi e da
chi scrive per conto di A Buon Diritto - Associazione per le libertà. E già
questi dati dicono, in maniera inequivocabile, che la certezza della pena non è
“roba per carcerati”. Chissà
cosa pensano, infatti, di queste “cifre crudeli” (e di quelle sulla
malasanità carceraria, sugli atti di autolesionismo, sui disagi psichici),
tutti coloro che, senza risparmio alcuno, e con qualche compiacimento, evocano
quella formula. Certezza della pena: suona bene ed è severa ed equa, rigorosa e
inesorabile. Ma nulla dice (o dice il falso) su ciò che, poi, quelle parole
significano nella realtà materiale della reclusione. Che ad un reato
corrisponda una sanzione, è cosa ineludibile (e giusta) per qualsiasi ordine
sociale che si voglia retto sulla legalità. Che questa sanzione sia commisurata
al reato commesso (ovvero che la pena sia proporzionata) è questione dirimente,
affinché quell’apparato delegato a giudicare e punire possa decorosamente
rispondere al nome di giustizia. Infine, che le condizioni d’esecuzione della
pena corrispondano a criteri d’umanità e contemplino la garanzia dei diritti
civili di colui che viene recluso, è cosa essenziale affinché uno Stato sia,
appunto, “di diritto”. La situazione della giustizia italiana appare, su
molte questioni, in aperto e inconciliabile conflitto con gran parte di questi
assunti. Partiamo
dall’ultimo: le condizioni d’esecuzione della pena. Nel sistema
penitenziario italiano, si può morire, non raramente, “di carcere”. I
detenuti italiani non scontano la sola privazione della libertà (già di per sé
terribilmente affittiva): scontano la reclusione in un ambiente difficile e
ostile, angusto e malsano, dove le condizioni igieniche sono in genere pessime,
dove mancano medici, psicologi, educatori, insegnanti e assistenti sociali; dove
le strutture sono spesso fatiscenti, la promiscuità è la regola, i rapporti
con l’amministrazione sono difficoltosi e discrezionali, le opportunità
d’accesso al lavoro risultano, a dir poco, esigue. Un ambiente dove non esiste alcun presidio certo ed efficace di tutela dei diritti e delle garanzie. Ecco, la situazione è questa e tale rischia di rimanere molto a lungo. Per capirci: con tali premesse, può solo peggiorare. Dunque, come si dice, ognuno si assuma le proprie responsabilità. E se le assuma, innanzitutto, chi ha ridotto, d’anno in anno, i fondi destinati alla sanità penitenziaria; secondo Livio Ferrari, presidente della Conferenza volontariato giustizia, “16 milioni di euro in meno solo nel 2003, pari al 30 per cento dello stanziamento per il 2002, già ridotto del 20 per cento rispetto a quello dell’anno precedente”. Chi ha voluto quei tagli? Giuro, non sono stato io. La strage silenziosa dietro le sbarre
L’Unità, 21 maggio 2004
Le denunce delle associazioni illustrate al Parlamento. Suicidi, ma anche il dramma dell’assistenza sanitaria: dai ricoveri negati alle infezioni, alla tragedia dei sieropositivi. E poi sovraffollamento, abbandono. Lo psicologo dell’istituto Quartucciu: "Si spende solo per la sicurezza delle strutture, niente per il reinserimento" "Non è facile reperire i dati sui suicidi dietro le sbarre, da un po’ di tempo a questa parte c’è un vero e proprio muro di silenzio". Patrizio Gonnella, di "Antigone", non ha dubbi. Per questo motivo "quando si parla si possono avere solo cifre parziali". Circostanza che ha anche un’altra spiegazione, come spiega Livio Ferrari "Molto spesso nei referti viene indicato solamente arresto cardiocircolatorio". Una spiegazione che spesso ne cela altre, ben diverse. A contendersi una sorta di primato sui suicidi dietro le sbarre sono Roma e Sardegna seguite da Piacenza, Macerata, Genova, Viterbo, Ancona, Modena, Verbania, Como, Bologna, Aversa, Secondigliano, Marsala, Agrigento, Pesaro e Busto Arsizio. Che in totale fa, secondo il secondo rapporto di "A Buon Diritto", 65 detenuti suicidati, due dei quali in istituti minorili. Non è felice però neppure il bilancio dei primi tre mesi del 2004: secondo il sito "www.ristretti.it" dietro le sbarre si sono consumati 5 suicidi, 2 omicidi e inoltre sono state registrare 3 morti per malattia, 1 per overdose e 3 per cause non ancora accertate. Trend della disperazione in crescita, dato che nell’arco di 13 anni è triplicato. Per la precisione, da una parte c’è il raddoppio dei detenuti (31.676 nel 1990 e quasi 60 mila oggi), dall’altra il numero dei suicidi: 23 nel 1990 contro i 67 denunciati dall’associazione Antigone l’anno scorso. Nel corso di questi anni anche il tasso di suicidi per 10 mila detenuti è cresciuto. Si è passati dal 7.3 del 1990 al 13 del 2003. A leggere i dati elaborati da "A buon diritto" relativi alla ricerca "Così si muore in galera" 2002 si scopre, per esempio che nel 1995 il numero dei e detenuti suicidi è di 50 unità. Dato che diminuisce l’anno successivo. di appena quattro unità che poi aumenta nel 2001 e va crescendo nel 2002 e nel 2003. La chiamano discarica sociale. O inferno con le sbarre. Un parcheggio per dannati che, nell’arco di due anni, dal 2001 al 2003, ha ingoiato in tutta Italia 500 persone. Detenuti che, nelle carceri sono morti per malasanità o perché suicidate. Dati terribili che le associazioni di volontariato ("Antigone", "Conferenza Nazionale volontariato giustizia" "Lila", "A Roma insieme" e la "Fraternità") che operano nei penitenziari hanno illustrato e denunciato ai deputati delle commissioni Affari sociali e Giustizia della Camera nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla sanità penitenziaria. "Dal 1995 a oggi si è registrato un costante aumento delle morti in carcere - denuncia Livio Ferrari, presidente della "Conferenza volontariato giustizia" - e nella maggior parte dei casi si è trattato persone giovani: circa la metà dei 500 morti tra il 2001 e il 2003 aveva meno di 40 anni". Uno scenario drammatico. "Quando parliamo, di detenuti morti per malasanità - aggiunge Ferrari - indichiamo quei detenuti che avrebbero avuto bisogno di una visita specialistica o di un ricovero mai avvenuti". Uomini che nella maggior pare dei casi in carcere "non ci sarebbero dovuti stare". "Pensiamo ai detenuti che hanno l’Aids conclamata o ai sieropositivi che, per legge, dovrebbero essere altrove. In strutture che, molto spesso, non esistono. Ma è necessario anche ricordare che in carcere non ci sono neppure le condizioni per garantire la salute psichica dei detenuti". Ma non c’è solo la malasanità. Una buona fetta di reclusi decide di concludere il suo passaggio dietro le sbarre in maniera drastica e violenta. Uccidendosi. Trasformando il lenzuolo in un cappio o intossicandosi con le bombolette del gas da campeggio che vengono utilizzare per i fornellini nelle celle. "Solo l’anno scorso si sono verificati 65 suicidi denuncia Patrizio Gonnella, coordinatore nazionale di Antigone - di questi, due erano minorenni". Suicidi che, nella maggior parte dei casi, sono avvenuti tra tossicodipendenti di età non superiore ai 40 anni. Non bisogna dimenticare che circa 17 mila detenuti sono tossicodipendenti, 10 mila hanno forme di disagio mentale e altri 10 mila sono colpiti da malattie infettive". Situazione drammatica: i dati raccolti da "Antigone" parlano di una media di 900 tentativi di suicidio annui e 6.500 atti di autolesionismo. Condizione tragica che tende a peggiorare, come conferma Luigi Manconi, presidente dell’associazione "A buon diritto". Il tasso di suicidi dietro le sbarre è stato nel 2003 17 volte superiore rispetto a quello che si è registrato all’esterno". In pratica più di 11 suicidi ogni diecimila detenuti. "La situazione è negativa e va in crescendo dal 1991 - continua Manconi -. Dobbiamo poi ricordare che, su 205 carceri italiane, nel 2003 149 risultavano sovraffollate. Abbiamo un tasso di carcerizzazione (il rapporto tra reclusi e popolazione nazionale) pari a quello che ci fu nel dopoguerra". Ma a far collassare l’intero sistema carcerario non è solo il sovraffollamento. Leopoldo Grosso del "Gruppo Abele", traccia una sorta di mappa dei problemi. "Al sovraffollamento dobbiamo aggiungere la sotto utilizzazione delle misure alternative come il trattamento farmacologico e l’affidamento dei tossicodipendenti alle strutture territoriali. Non mancano dall’elenco dei problemi gli stranieri che trovandosi senza punti di riferimento non possono beneficiare dei premi di libertà e hanno seri problemi di reinserimento". Ultimo tassello di questo quadro l’assistenza sanitaria. "Il passaggio dell’assistenza sanitaria dalla struttura carceraria a quella del sistema sanitario nazionale non è certo positiva - aggiunge ancora Grosso -. Anche perché il passaggio coincide con un periodo di tagli alle risorse che, in concreto, significano tagli ai medicinali che dovrebbero essere dati a chi ne ha bisogno. I più penalizzati, alla fine, sono i malati di Aids, i sieropositivi e quelli che hanno bisogno di cure specifiche". Tagli che, secondo quanto denunciano i volontari nella loro relazione si aggirano intorno ai "16 milioni di euro in meno nel 2003, pari al 30% dello stanziamento per il 2002, che già era ridotto del 20% rispetto al 2001". Budget troppo basso, che hanno ricordato anche i 175 operatori sanitari (103 dei quali medici) che hanno risposto al questionario preparato dall’Istituto nazionale di sanità degli istituti di pena di sette regioni. Senza dimenticare, poi, che nelle prigioni, compaiono altre malattie come la Tbc, la scabbia e l’epatite B. Un sistema che non funziona, come denuncia Ettore Cannavera, psicologo, cappellano dei carcere minorile di Quartucciu e fondatore della Comunità la Collina, che ospita i cosiddetti baby killer. Il problema vero è che negli ultimi anni c’è una corsa sfrenata ad aumentare la spesa per costruire carceri più imponenti e sicure e un risparmio sulle attività alternative". Il motivo è presto spiegato. "La concezione è quella della discarica sociale. Tutti in galera, lontano dagli occhi. È questo il problema. La soluzione è fuori dal carcere. Per risolvere questa situazione è necessario investire nel recupero e nel reinserimento dei detenuti". Anche perché chi resta dietro le sbarre ha poche soluzioni. O si adegua - conclude - oppure, molto più tragicamente e drammaticamente, scoppia. E quindi si uccide". Se un detenuto modello si mette il cappio al collo...
L’Unità, 21 maggio 2004
Un dramma nel dramma. In carcere cercava di riconquistare la normalità. Quella che un passato non proprio felice gli aveva negato. Non è riuscito a raggiungerla. Si è ucciso un paio di notti fa, impiccandosi con un lenzuolo trasformato in cappio, in una delle sale dove era stato sistemato in via provvisoria. Giusto una notte, prima di essere riassegnato alla sua cella, Carmine Notturno, operaio di 37 anni di Napoli al carcere di Vibo Valentia c’era arrivato un anno fa. Ci sarebbe dovuto rimanere sino a dicembre del 2006. Scontava una condanna per rapina e altri reati collegati al mondo degli stupefacenti. Dopo l’arresto e la carcerazione a Poggioreale il trasferimento in Calabria. "Era arrivato al carcere di Vibo perché Poggioreale era sovraffollato - dice Chiara Ioele dell’associazione Antigone - ma secondo quanto confermano anche i responsabili della struttura penitenziaria si era adattato subito". Al carcere di Vibo Valentia Carmine Notturno, aveva deciso di cambiare vita e prendersi il diploma di scuola superiore che non aveva mai raggiunto. Proprio per questo motivo aveva iniziato a seguire le lezioni che, nella struttura penitenziaria costruita nel 1997, i docenti dell’Itc (Istituto Tecnico Commerciale) tengono ai detenuti. "Detenuto modello, mai un litigio, mai un atto di autolesionismo, mai una lamentela", ha raccontato la direttrice della struttura alla responsabile di Antigone. Nella struttura penitenziaria, che contiene 350 detenuti contro una capienza di 330, era considerato "persona tranquilla". Uno che, dietro le sbarre, era riuscito a trovare un impegno fra le tante iniziative che l’amministrazione penitenziaria riesce a organizzare. "Nonostante fosse introverso si era iscritto anche al laboratorio teatrale - racconta ancora la rappresentante di Antigone - e a Natale aveva recitato nello spettacolo Natale in casa Cupiello". Vita tranquilla in un carcere che organizza anche corsi di formazione professionale per tecnici della refrigerazione, falegnami, intervallata solamente dalle visite e dai lunghi colloqui che sosteneva ogni settimana copi i suoi parenti. "Aveva un particolare attaccamento alla scuola - aggiunge ancora la rappresentante di Antigone -. Pare infatti che ogni volta che veniva accompagnato per i processi a Napoli, chiedesse di rientrare in giornata a Vibo per non perdere le lezioni dell’Itc. Voleva a tutti costi prendere il diploma". Giovedì scorso, invece, un fatto che nessuno avrebbe immaginato. Prima il viaggio a Napoli per uno dei processi ancora aperti, poi il ritorno in carcere e il suicidio durante la notte. "Sappiamo che era un giovane molto introverso - racconta Livio Ferrari, presidente della Conferenza nazionale volontariato Giustizia - e che la notte, appena rientrato da Napoli, sia stato sistemato nella zona dei nuovi arrivi". L’area in cui vengono sistemati i detenuti che fanno il loro ingresso nella struttura penitenziaria. "Pare sia stato lasciato da solo - dice ancora Ferrari - e questo fatto potrebbe aver influito negativamente. Magari facendo scoppiare quel meccanismo che alla fine porta al suicidio". E, infatti, Carmine Notturno ha trasformato un lenzuolo in cappio, e dopo aver legato l’estremità alla grata della finestra e l’altra al collo si è lasciato andare. L’hanno trovato di prima mattina gli uomini della vigilanza che hanno chiesto l’intervento (degli infermieri e del personale di soccorso. Ogni tentativo di salvare il giovane napoletano è stato vano. Carmine Notturno è morto poco più tardi. "Probabilmente - conclude Ferrari - se non fosse rimasto da solo la situazione sarebbe andata in maniera differente". Morto a 20 anni in cella a Gorizia. Si indaga per suicidio
Il Gazzettino, 22 maggio 2004
Suicida in carcere a 20 anni. È l’ipotesi sulla quale sta indagando la magistratura di Gorizia dopo la scoperta l’altra notte in una cella dell’Istituto di pena del capoluogo isontino, del corpo senza vita di Davide Benati, già residente a Udine. L’inchiesta non può prescindere dall’esame autoptico che chiarirà circostanze e dinamica della morte. L’allarme è stato dato poco dopo le due. Ogni soccorso è stato inutile. La direzione del carcere ha informato i familiari e il legale, avvocato Pieraurelio Cicuttini. Davide Benati viveva con i nonni e la madre a Udine. Era incappato nei rigori della legge, piccole cose, furti d’auto, vetture che solitamente venivano ritrovate dagli agenti sotto casa, momenti di "follia" ai quali seguivano ripetute promesse di cambiare. Davide Benati aveva subito l’ultimo arresto a gennaio. Stavolta l’aveva combinata grossa mettendo a repentaglio la propria vita e quella degli altri. Al volante di un’auto rubata (aveva sostenuto di essere stato sotto l’effetto di psicofarmaci) era stato protagonista di una folle fuga con il rischio di impatto contro un convoglio ferroviario al passaggio a livello di Santa Caterina. La procura gli ha contestato attentato alla sicurezza dei trasporti. Appena due giorni fa Davide Benati era stato accompagnato a Udine per l’udienza preliminare. "Era arrabbiato - ha ricordato il suo legale - perché sperava di uscire. Considerati i precedenti, non era possibile. Gli avevo spiegato che avevo ottenuto di celebrare un giudizio abbreviato condizionato alla perizia sulle sue condizioni". Il giudizio era stato rinviato al 7 luglio. Davide non ha atteso: la disperazione è stata più forte della voglia di vivere. Alcol e droghe: nuovi rischi per i minori
Corriere della Sera, 22 maggio 2004
È in crescita anche lo spaccio: dieci persone, tra cui Dj e Pr di alcune tra le più note discoteche milanesi, sono state condannate dal giudice Clementina Forleo per spaccio di ecstasy e speed (anfetamina). Con pene tra i quattro anni e sei mesi di carcere. Comperavano anche 500 pastiglie per volta. L’inchiesta
è partita da Novara dopo che una ragazza, che era stata lasciata da uno
spacciatore, aveva telefonato al 113 per denunciare il suo ex compagno. Il
questore Paolo Scarpis spiega: "Il mercato della droga è molto cambiato.
Al di là del lavoro delle forze dell’ordine, che sequestrano quantità enormi
di sostanze, ci vorrebbe maggior controllo da parte delle famiglie sui
ragazzi".
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