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Sebastiano Ardita (Dap): 10 suicidi nel 2004 sono in calo del 50% Non è un caso, razionalizzata sanità penitenziaria
Ansa, 13 maggio 2004
I suicidi in cella diminuiscono. Anzi, si dimezzano. Dall’inizio del 2004 ad oggi sono 10 i detenuti che si sono tolti la vita, contro i 20 nello stesso periodo dello scorso anno. A rendere nota la positiva novità è Sebastiano Ardita, direttore generale dell’ufficio detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap): "Non è un caso questa diminuzione. È la prova evidente - sostiene - che c’è stato un sostanziale cambiamento nelle carceri italiane, dove è stata razionalizzata la sanità penitenziaria; un cambiamento percepito dagli stessi detenuti". I dati degli ultimi anni confermerebbero questo trend: i suicidi in carcere sono passati da 65 nel 2001, a 57 nel 2002, fino ai 54 dello scorso anno. Mentre i medici penitenziari, riuniti per il XXVII Congresso nazionale alla Rocca di Bazzano (Bologna), denunciano una grave situazione sanitaria nelle carceri italiane, Ardita - che interverrà al congresso nel pomeriggio - snocciola altri dati, e fa il punto su come il Dap abbia in questi ultimi anni "impiegato nel modo più razionale le risorse disponibili". "Sulla sanità penitenziaria abbiamo cinque programmi nazionali. Si tratta perciò di una priorità. E gli interventi non mancano: entro il 2004 tutti gli istituti di pena saranno dotati di defibrillatore; è stato concluso il monitoraggio per aprire nuovi ospedali psichiatrici (tra poco sarà inaugurato quello di Gerace, in Calabria); ogni regione avrà spazi di osservazione psichiatrica; sono state inaugurate - aggiunge Ardita - nuove sezioni di custodia attenuata per i tossicodipendenti (è il caso di Rimini), mentre a Castelfranco Emilia è stata aperta una ex casa lavoro, sempre per i tossicodipendenti". E in Emilia Romagna è stata sperimentata con successo dal Dap la cartella clinica informatizzata che permetterà di conoscere in tempo reale le condizioni sanitarie di ciascun istituto di pena e la gravità delle patologie presenti così da poter individuare le reali esigenze in base alle quali attribuire le risorse finanziarie. "Il budget a disposizione è sempre lo stesso. Nel 2004 - conclude Ardita - i tagli alla sanità penitenziaria sono stati comunque compensati da circa 10 milioni di euro provenienti dalla manovra di aggiustamento del bilancio del ministero della Giustizia". Medici penitenziari: il carcere è un inferno che toglie la salute
Ansa, 13 maggio 2004
All’inferno (parola loro) oltre la libertà, si rischia di perdere anche la salute. È l’allarme lanciato dall’associazione dei medici dell’amministrazione penitenziaria (Amapi), riuniti in occasione del XXVII congresso nazionale a Bazzano, a pochi chilometri da Bologna. "Le istituzioni politiche hanno completamente dimenticato il carcere - ha attaccato Francesco Cerando, presidente dell’Amapi - e vogliamo denunciare la situazione prima che questa pattumiera esploda con conseguenze che non possiamo prevedere". "Il carcere si configura sempre più come una sorta di pattumiera sociale dove ci si getta di tutto pur di non vedere e non sentire". Continua a crescere il numero dei detenuti, ma calano (o restano invariati) i finanziamenti, è il primo capo d’accusa. "Nel 1998 - ha spiegato Cerando - gli stanziamenti per l’assistenza sanitaria nelle carceri erano di circa 230 miliardi di lire (circa 115 milioni di euro), e nel 2004 siamo arrivati a 81 milioni di euro. Un salto di circa 35 milioni di euro". Le carceri però continuano a essere "sovraffollate: 56.000 detenuti (2.000 donne), dei quali 21.000 extracomunitari". Con la condizione sanitaria da tempo in allarme rosso: "20.000 detenuti sono tossicodipendenti, 9.500 affetti da epatite virale cronica, 5.000 sieropositivi per Hiv e 7.500 affetti da turbe psichiche". Ma anche "all’inferno" - parola stampata nella tabella Amapi - c’è chi sta peggio degli altri: "Come in Sicilia - ha commentato Antonino Levita, responsabile dell’area sanitaria dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) - dove rischiamo l’obsolescenza farmacologica, rischiando di non poter più assistere i pazienti. Perché la regione non compartecipa, come previsto dalla normativa, alle spese per l’acquisto dei farmaci, come invece fanno altre amministrazione regionali". Inevitabili i tagli: "Del 30% sulle guardia mediche, del 20% quelle infermieristiche". Racconta una situazione critica pure Carmelo Crisicelli, direttore sanitario nel centro diagnostico terapeutico del carcere di Messina: "Abbiamo 32 posti letto medici, e 18 chirurgici: in servizio ci possiamo permettere solo due infermieri, quando dovrebbero essere almeno uno ogni otto pazienti. Infatti erano sei per turno: ora sono due". Per questo il 28 maggio l’Amapi - che conta circa 3.000 associati, fra medici e infermieri - ha organizzato una protesta davanti all’assessorato alla Sanità della regione Sicilia, a Palermo. Si sta meglio in Emilia - Romagna: "Grazie alla lungimiranza del governo regionale - ha detto Pasquale Paolillo, responsabile medico nel carcere di Bologna - del provveditore regionale e dell’amministrazione provinciale, sono in essere convenzioni che tendono a migliorare la sanità in carcere". Pure nell’istituto di pena bolognese si registra il sovraffollamento: "Ci sono 960 detenuti, contro una capienza di 450". "Non possiamo fare altro che denunciare e protestare perchè il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia si rendano conto di questi bisogni: per far sì che la tutela della salute non sia solo una parola inutile, ma sia l’applicazione dell’articolo 32 della Costituzione". La soluzione per ridurre l’affollamento per l’Amapi sarebbe a portata di mano: "I soggetti gravemente malati non dovrebbero stare in carcere: ci sono persone affette da Hiv con valori di linfociti tali che la legge ne prevede la scarcerazione: invece sono dentro. Così come i tossicodipendenti non dovrebbero seguire un percorso carcerario". La fiducia però è pochina: "Forse - ha aggiunto Cerando - non siamo tanto bravi come altri da poter mettere a disposizione dei pacchetti di voti. Anche se il Governo di centrosinistra ci sembrava più sensibile, per noi vediamo sempre correre i soliti: Pannella e Rifondazione". Torino: collaboratore giustizia muore in carcere, probabile infarto
Ansa, 13 maggio 2004
È morto ieri, all’interno del carcere "Lo Russo e Cutugno" di Torino, un ex collaboratore di giustizia, Roberto Leo, 39 anni, già affiliato al clan "Leo" di Messina. Secondo i primi accertamenti, l’uomo sarebbe morto per infarto, ma soltanto l’autopsia potrà chiarire con precisione le reali cause. Leo, a cui nel ‘98 era stato revocato il programma di protezione, si è accasciato in un corridoio dell’ istituto di pena mentre stava facendo le pulizie. È intervenuto immediatamente un medico, ma non c’è stato nulla da fare. Leo era stato arrestato l’ultima volta nel dicembre del 2000 dalla polizia di Torino perchè erano diventate definitive alcune condanne per complessivi 24 anni, 10 mesi e tre giorni per omicidio, violazione della legge sulle armi e stupefacenti. In particolare, una condanna si riferiva all’omicidio di tre persone avvenuto nel ‘92 nell’ambito di una lotta con un clan rivale. Al momento dell’arresto, avvenuto a Poirino (Torino), era in attesa di altri due provvedimenti di carcerazione per condanne a 18 e 25 anni di carcere. Quando fu rinchiuso nella casa circondariale di Torino, all’interno erano già presenti due fratelli per altre vicende. La tortura "rattoppata", articolo di Mauro Palma
Associazione Antigone, 17 maggio 2004
Se violenza e minacce sono esercitate una sola volta allora non si tratta di tortura che è tale solo se la violenza è "reiterata", una soluzione eticamente inaccettabile. "È un voler confondere tutti i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore e accusato, che il dolore divenga il crogiuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti". Siamo nell’estate del 1764 quando vengono date alle stampe queste parole di Cesare Beccaria, contenute in un libretto, dal titolo Dei delitti e delle pene, destinato a segnare non solo il pensiero giuridico ma la più generale cultura dei secoli a venire. La tortura, scrive Beccaria, oltre che "cagionare infamia" in chi ne è vittima, non è neppure efficace nella ricerca della verità: parole che segnano una società fino ad allora abituata alla disponibilità dei corpi per l’inquisitore, alla ricerca di una presunta verità o di una esemplarità punitiva; non estirpano certo la tortura, come il ventesimo secolo insegna, ma ne negano legittimità e esibizione. 240 anni dopo torniamo a leggere le sue parole, mentre le pratiche di tortura si riaffacciano nelle nostre case attraverso alcune foto di detenuti iracheni violati nella dignità e nei corpi dai giovani che li detengono. Ma soprattutto sulla scia della leggerezza con cui il tema è stato recentemente affrontato dal nostro Parlamento. La tortura è stata formalmente bandita dalla gran parte degli stati moderni, firmatari di un’apposita Convenzione delle Nazioni Unite del 1984. Questa indica impegni e obblighi per gli stati affinché non si offrano spazi a deroghe: è un divieto assoluto. Eppure non è debellata dal nostro panorama. Non solo negli stati non firmatari della Convenzione, ma anche in quelli che l’hanno sottoscritta, ritorna in particolari contesti nelle forme cruente o in quelle più sofisticate che lasciano minori tracce visibili. Permane in molte situazioni di detenzione o di interrogatorio di persone fermate. La Convenzione contro la tortura obbliga gli Stati aderenti a perseguirla penalmente, prevedendo per essa una pena adeguata e l’inammissibilità di giustificazioni, nonché una giurisdizione penale ampia, per evitare che i responsabili possano passare tra le maglie della giustizia dei diversi stati. Ma, l’Italia, a sedici anni dalla ratifica, non ha finora introdotto nel proprio codice il reato di tortura. La giustificazione è stata sempre che i fatti costituenti la tortura sono comunque perseguiti attraverso altri reati ordinari: dall’arresto illegale, all’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, alla violenza privata, alle percosse e le lesioni. Posizione debole, perché la Convenzione vuole proprio sottrarre la tortura all’ordinarietà, evidenziandone specificità e gravità. E per questo richiede pene appropriate e soprattutto la possibilità di esercitare la giurisdizione in maniera ampia, tendenzialmente universale: ciò non è possibile senza uno specifico reato di riferimento, né si può pensare di esercitarla per fatti qualificati come lesioni. Questa posizione traballante sembrava essere arrivata al termine nelle scorse settimane: una proposta di legge di introduzione del reato specifico nel nostro codice è arrivata alla discussione della Camera, con un apparente accordo di tutte le forze politiche. Una proposta semplice, che riprendeva la definizione di tortura data dalla Convenzione e prevedeva una pena da sei mesi a dieci anni per i maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine di persone fermate o arrestate, per ottenerne confessioni o informazioni o per intimidirle o umiliarle. Una norma con valore preventivo, quale messaggio verso quella cultura di copertura, troppe volte presentata come "spirito di corpo", che è di grave danno per chi invece opera correttamente. Ovviamente gran parte della tortura ha la forma della minaccia: di infliggere sofferenze, di colpire persone care, di detenere indefinitamente e segretamente, di simulare un incidente per giustificare un’eventuale uccisione… la minaccia è parte costitutiva della sensazione di essere nella disponibilità del proprio aguzzino, che si determina nella vittima. Un improvvido emendamento della Lega Nord ha proposto che laddove il testo menzionava le violenze e le minacce a cui la persona è sottoposta, venisse aggiunto l’aggettivo "reiterate". La maggioranza ha approvato. Quindi violenze e minacce, se esercitate una sola volta, non rientrano nell’area di azione del nuovo reato: per una volta "si può". Non solo, ma basta cambiare ogni volta colui che opera per non configurare mai tale responsabilità penale. Una norma ineffettiva, oltre che eticamente inaccettabile. La corsa ai ripari di coloro che hanno votato per ordine di schieramento, al di là del contenuto, è andata nella direzione di riservare solo alle minacce quella richiesta di reiterazione. Debole rattoppo: anche una sola volta la minaccia di supplizio o di rivalsa su un’altra persona cara, nel contesto intimidente in cui si attua e nella situazione psicologica di minorità della persona a cui è rivolta, è di per sé contraria a quella proibizione assoluta, che non ammette deroghe. Dunque conviene rinunciare alla legge e attendere tempi migliori. Ma, quando interessi di alleanze e gruppi prendono il sopravvento sui valori fondamentali, tutti dovremmo fermarci un attimo a riflettere. Perché tutti stiamo perdendo qualcosa. Svizzera e Austria discutono costruzione carcere in Romania
Ticino Magazine on line, 17 maggio 2004
Il capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia Christoph Blocher è oggi a Vienna per discutere col suo omologo austriaco Dieter Boehmdorfer (Fpoe, destra) sull’esecuzione delle pene nei paesi d’origine. Già la settimana scorsa, informazioni del ministero della giustizia di Vienna avevano confermato l’interesse dell’Austria per la costruzione in Romania di un carcere cui associare la Confederazione. Stando a questo progetto, i criminali rumeni condannati in Svizzera o in Austria potrebbero in futuro essere obbligati a scontare la pena nel loro paese. La settimana scorsa Martin Standl, portavoce del ministero austriaco della giustizia, aveva dichiarato che l’Austria pensava a un accordo bilaterale con la Svizzera per creare sinergie e ridurre le spese nell’ambito dell’esecuzione delle pene. Un’eventuale collaborazione austro-svizzera riguarderebbe anche il trasporto dei detenuti, aveva specificato Standl. Alla base di questo progetto vi sono considerazioni finanziarie: un detenuto in Austria costa 100 euro al giorno, in Romania solo 10 euro. Costruire un carcere da 250 posti nel rispetto delle norme dell’Unione europea in Romania verrà a costare 3,5 milioni di euro, secondo una perizia ordinata dal ministero della Giustizia austriaco. E questo è solo un decimo di quanto costerebbe in Austria.
Spese rapidamente ammortizzate
"La Svizzera e l’Austria stanno negoziando sui termini e le condizioni della costruzione di un carcere in Romania", ha confermato a swissinfo Folco Galli, portavoce del dipartimento federale di giustizia e polizia. Secondo le autorità austriache, questo progetto permetterebbe di ridurre notevolmente i costi di detenzione dei criminali rumeni. "Attualmente vi sono 144 cittadini rumeni imprigionati in Austria. Questi detenuti costano, in media, 155 franchi al giorno allo Stato austriaco. Tenendo conto di simili spese, i costi di un carcere in Romania sarebbero rapidamente ammortizzati", ha dichiarato a swissinfo Dieter Böhmdorfer, ministro austriaco della giustizia. A suo avviso, il governo rumeno è disposto a collaborare: "La Romania ha inoltrato la sua candidatura per aderire all’Unione europea nel 2007. Le autorità desiderano quindi dimostrare di saper trattare i criminali secondo le ‘regole’ europee".
Un decimo dei costi
Secondo i dati forniti dall’Ufficio federale di statistica (UST), 28 cittadini rumeni sono attualmente detenuti nelle prigioni svizzere. "In Romania verrebbero rispediti soltanto i detenuti, la cui pena supera 6 mesi di prigione", spiega Daniel Laubscher dell’UST. Nonostante il numero limitato di criminali rumeni da rimandare in patria, il dipartimento di giustizia e polizia considera giustificato il progetto per ragioni finanziarie. Secondo una perizia ordinata dal ministero della giustizia austriaco, costruire un carcere da 250 posti in Romania, nel rispetto delle norme dell’Unione europea, verrà a costare 3,5 milioni di euro (5,3 milioni di franchi). Una cifra che rappresenta solo un decimo di quanto costerebbe in Austria, ha dichiarato Dieter Böhmdorfer.
Rimpatrio ammissibile
Anche
Christoph Blocher, in occasione dell’inaugurazione della prigione di Cazis
(GR), lo scorso 23 aprile, ha sostenuto che bisogna trovare alternative per i
detenuti stranieri in Svizzera. Stando all’Ufficio federale di statistica,
nelle prigioni elvetiche gli stranieri sono 3500 su un totale di 5000 detenuti. Il testo, che entrerà in vigore quest’anno, è stato siglato solo da 22 dei 32 paesi membri. Fra questi, oltre alla Svizzera, anche la Romania, la Serbia, la Macedonia e la Bulgaria.
Potenzialità di prevenzione
La nuova base legale dovrebbe inoltre avere una funzione dissuasiva, ritengono le autorità federali: le prospettive di detenzione in molti paesi sono peggiori di quelle in Svizzera. Questo potrebbe dunque avere un effetto deterrente sui potenziali criminali. Detto questo, l’UFG rifiuta però qualsiasi tipo di pronostico sugli effetti dei rimpatri e la proporzione dei detenuti che potrebbero essere coinvolti. Folco Galli non può nemmeno assicurare che i primi espatri avvengano ancora quest’anno. Le barriere sono ancora molte. Per procedere al trasferimento, il saldo della pena da scontare deve essere superiore ai sei mesi. Inoltre, un tribunale deve pronunciarsi su ogni caso. E non è tutto. Il paese d’origine, che deve essere a sua volta firmatario del protocollo, può rifiutare di accogliere nelle proprie prigioni il detenuto in questione. E anche il detenuto stesso può fare ricorso al Tribunale federale.
Accordo sul principio
Si è ancora lontani dal traguardo. Ma per il capo dei penitenziari del canton Vaud, il principio del trasferimento è positivo. Attualmente la Svizzera espelle quasi sistematicamente i detenuti stranieri appena hanno scontato la loro pena. Unica condizione: nel paese devono essere rispettati i diritti umani. Secondo André Valloton, il trasferimento anticipato dovrebbe permettere una migliore preparazione alla vita fuori dal carcere. "La difficoltà sta nelle condizioni di detenzione in alcuni paesi - costata però Valloton - in Romania o in Moldavia, per esempio, siamo spesso ai limiti della dignità umana". La soluzione passa dunque per un "grosso lavoro di armonizzazione delle condizioni di detenzione" nei paesi membri del Consiglio d’Europa, conclude il funzionario vodese.
Danni per le famiglie
André Valloton vede un ulteriore problema: i detenuti in provenienza dai paesi del Consiglio d’Europa sono solo una minoranza della popolazione carceraria elvetica. "Inoltre non ci si può attendere che i paesi con un alto tasso di delinquenza firmino una convenzione di questo tipo. Non è nel loro interesse vedere rimpatriare una parte della loro povertà e delle sue conseguenze". Da parte sua, Fguiri Kais si inquieta. Da oltre quattro anni il cittadino di origine tunisina è membro della commissione federale degli stranieri e teme che non ci sarà un’applicazione adeguata della pratica di trasferimento. Per
Kais, rinviare un detenuto che non ha una relazione concreta con la Svizzera non
è un problema, ma si tratterebbe di una minima parte dei detenuti senza
passaporto rossocrociato. "Se il detenuto vive qui e ha la sua famiglia in Svizzera, un’espulsione non fa che aggravare la sua situazione. E i danni a livello familiare sono spesso enormi" Lecco: riapre il carcere, previsti 100 detenuti e nessuna donna
La Provincia di Lecco, 17 maggio 2004
Fine dei lavori: riapre il carcere di Pescarenico rinnovato in tutto e per tutto. I primi detenuti, una quindicina, arriveranno nei primissimi giorni di giugno unitamente agli agenti - una ventina - attualmente in servizio a Monza, Sondrio e Como che precedentemente erano occupati proprio a Pescarenico. Già fissata la data inaugurale. Alle 11 del 5 giugno il ministro della giustizia, Roberto Castelli, taglierà il nastro della struttura completamente rinnovata e ulteriormente resa funzionale da una variante di tre miliardi di lire che il Guardasigilli e il suo staff, tra cui il sindaco di Calco Giuseppe Magni responsabile dell’edilizia carceraria, hanno deciso dopo avere ereditato l’opera iniziata dal precedente ministro della giustizia, Piero Fassino. L’intervento nel carcere di Pescarenico è infatti iniziato nel febbraio 2001 e a opera praticamente conclusa Magni si dichiara "particolarmente soddisfatto. Anche perchè quello del carcere di Lecco è stato un cantiere che ha lavorato sodo e nel migliore dei modi. Non possiamo che essere soddisfatti per avere rispettato i tempi nonostante una variante da tre miliardi che ha reso ancora più adeguata alle sue funzioni la casa circondariale di Lecco". I primissimi detenuti dovrebbero arrivare all’inizio di giugno: la data è evidentemente riservata per motivi di sicurezza. Una volta a regime, saranno 100 i detenuti che potranno essere ospitati all’interno della struttura carceraria. Tutti uomini: contrariamente al passato non ci saranno donne rinchiuse a Pescarenico. L’unico contrattempo che comunque non turba i sonni di Magni riguarda la cucina. "Potrebbe non essere pronta per l’inizio di giugno: forse il suo utilizzo rischia di slittare di una ventina di giorni e per quel periodo ad agenti e detenuti sarà assicurato un servizio catering". Le migliorie rispetto al "vecchio" carcere "saranno particolarmente evidenti: ci saranno spazi più adeguati per agenti e detenuti - afferma Magni - e nelle opere che abbiamo aggiunto è stata prevista anche la costruzione della cappella che nel precedente progetto era stata cancellata. Crediamo di avere realizzato un buon lavoro anche se dobbiamo completarlo con una iniziativa importante". Il riferimento di Magni è alla possibilità di individuare uno spazio per i lavori dei detenuti. "Oggi questo spazio manca e non è stato possibile realizzarlo neppure con la ristrutturazione. Tuttavia c’è un capannone in disuso che confina con la proprietà del carcere - conclude Magni - Se davvero riuscissimo ad acquisirlo potrebbe diventare il laboratorio del carcere che manca per completare una struttura modello". Vicenza: anche l’istituto "Canova" incontra il carcere con il Csi
Il Giornale di Vicenza, 16 maggio 2004
L’avvio dell’interazione sportiva con i reclusi del carcere cittadino da parte del Canova si è purtroppo concretizzata in conclusione dell’anno scolastico, ma i 15 ragazzi maggiorenni che hanno aderito all’iniziativa si faranno da tramite con i propri compagni delle classi inferiori così che nella prossima annata scolastica l’attività prenderà il via per tempo. Il Rossi quest’anno ha portato ben 85 ragazzi entro le mura del San Pio X. "Il nostro mezzo di dialogo è lo sport - spiega Mastella - una via privilegiata che ci permette di portare un messaggio di speranza e di fiducia nel futuro. Parliamo di una struttura in cui sono relegati altri ragazzi che hanno sbagliato ma che un giorno, saldato il loro debito con la giustizia, rientreranno nella società. Ora hanno bisogno di tener vivo il rapporto con l’esterno e noi ne siamo il tramite" . Dopo quella del 7 maggio, il 20 è in programma un’altra partita entro le mura carcerarie con la selezione del San Pio X: una squadra, quella dei reclusi, che ha sconfitto per due volte quella dell’Itis Rossi. Più del risultato conta comunque l’interazione con il mondo esterno e lo sport è un mezzo straordinario per questo scopo Nella testa del mostro: tutti i perché di un serial killer
Il primo è stato Jack Lo Squartatore nel 1888. Il primo pluriomicida seriale della storia. Allora si diceva così, perchè il termine serial killer è stato coniato dopo, negli anni 50. Da quel momento in poi, comunque, la figura del serial killer è sempre stata circondata da un alone di orrore ma anche di curiosità.
Ma chi è davvero il serial killer? Lo abbiamo chiesto al professor Ernesto Ugo Savona, ordinario di criminologia e sociologia del diritto alla facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica del S.Cuore di Milano, e membro dell’European Sociey of Criminology. "Pur
nella complessità e nelle differenze da caso a caso, molto semplicemente il
serial killer non è una persona normale, anche se poi bisognerebbe indagare
quale sia il concetto di normalità, se esiste. Si può individuare un fattore
di riconoscimento comune: tutti i serial killer hanno avuto seri problemi nell’infanzia
e nell’adolescenza, nel rapporto con gli altri ma soprattutto con la
madre". La non risoluzione di questo conflitto, spiega Savona, "è
dimostrata dal fatto che i serial killer uccidono quasi sempre donne, spesso
prostitute o sconosciute a caso". Vittime ignare, che hanno la sfortuna di
risvegliare il mostro nascosto in questi individui. Il
manifestarsi della follia omicida dei serial killer, infatti, non è un percorso
costante. "Si
tratta di fasi altalenanti, chiamate stop and go, caratterizzate da momenti di
furia subito seguiti da periodi di calma, durante i quali il serial killer
conduce la vita di sempre". "Il
serial killer non può essere la persona qualunque vicino a noi, anche se
comunque non lo riconosceremmo. Il serial killer ha subìto traumi così forti
da arrivare a possedere la capacità di uccidere, dieci o anche cento volte.
Nessuno se non in quelle condizioni ci riuscirebbe".
La risposta è semplice, ma nasconde un universo complesso: "La struttura della donna è totalmente diversa, e così la sua psiche. Una donna non vive la conflittualità con la figura materna, e non prova quel bisogno di sopraffare e di dominare che invece l’uomo sfoga ai danni dell’altro sesso. I casi di serial killer donne sono rarissimi, e motivati da altre cause". Leggendo i numerosi casi clinici dei mostri della nostra storia, si percorrono storie efferate, di incredibile violenza e ferocia. La condanna a questi delitti è unanime. Eppure, dai racconti di ex-serial killer ormai arrestati emerge sempre l’aspetto tragico dei soprusi subiti, della disperazione senza fondo che hanno provocato.
Il serial killer è anche una vittima? "Il serial killer è vittima, mostruosa quanto si vuole ma vittima, di una società violenta a sua volta. Bisognerebbe spezzare questo filo rosso". Purtroppo però il serial killer viene riconosciuto solo quando lo è già diventato, quando ha già compiuto le sue vendette contro la società, e il suo destino è un carcere a vita che non si preoccuperà certo di recuperarlo.
Non esiste un modo per salvare la persona prima che il mostro venga allo scoperto? "Il modo, forse, ci sarebbe. Si tratterebbe di fare un investimento, in termini di formazione e informazione, su genitori e insegnanti. Cioè sulle persone che vivono da vicino la crescita di un bambino, e potrebbero individuare eventuali campanelli d’allarme, come comportamenti violenti verso gli altri bambini o gli animali". Lecce: pubblicato "Piano di fuga", rivista realizzata dai detenuti
Redattore sociale, 17 maggio 2004
Si chiama "Piano di fuga" la rivista realizzata dai detenuti del carcere di Lecce, ideata, scritta, impaginata e stampata interamente all’interno del penitenziario. È un modo nuovo per cercare di costruire nuovi legami tra i detenuti e la società esterna, che si manifesta sempre più indifferente alle esigenze di socializzazione e di reinserimento di coloro che scontano la pena detentiva. Venti in tutto i redattori che si occupano delle tematiche più varie, cercando di analizzare in maniera dettagliata anche gli eventi esterni, di cui sono spettatori attenti attraverso i canali di comunicazione e televisione. "Stiamo apprendendo un lavoro – ha dichiarato il caporedattore Antonio Martina – che per noi sta diventando ogni giorno più importante, abbiamo quasi tutti pene lunghe da scontare e in questo modo ci sentiamo più sicuri e motivati, quando arriverà il momento di rientrare in società. Sentiamo – ha proseguito – che, comunque vada, questa esperienza ci sta arricchendo moltissimo sia sotto il profilo professionale, perché abbiamo anche imparato ad usare il computer, che umano". Al fianco dei novelli giornalisti opera la "Comunità Speranza" di Lecce, guidata da don Gigi Fanciano, che si occupa del recupero degli ex detenuti, ospitati per i primi tempi in una struttura d’accoglienza: l’intento è quello di fornire quel necessario supporto psicologico e morale a coloro che escono dal carcere, nella maggior parte dei casi, sfiduciati e privi del necessario orientamento. Eutanasia: a favore il 36% dei medici , legislazione permettendo
Redattore sociale, 17 maggio 2004
In Italia 36 medici su cento pensano che sarebbe ammissibile, qualora la legislazione lo permettesse, utilizzare farmaci per accorciare la vita della persona malata e alla fine della vita. Una percentuale che corrisponde a quella che si registra, ad esempio, in Svezia (35%) ma nettamente diversa da quelle di Olanda e Belgio (77% e 76%). Il 76% dei medici italiani, invece, ritiene che la diffusione delle cure palliative costituisca una alternativa a decisioni di fine vita come l’eutanasia e il suicidio assistito. Sono questi alcuni dei risultati dello studio Eureld, finanziato dalla Comunità europea, che ha coinvolto 20.000 medici tra Europa ed Australia, di cui 1528 italiani e molti dei quali operanti nell’area di Firenze e di Prato. Lo studio verrà illustrato e discusso nel corso dell’incontro "Rispetto per il morire. Esperienze, ricerca e valutazione bioetica nelle decisioni di fine vita e dignità del morire" che si terrà domani, 15 maggio, dalle ore 9.30 all’Istituto degli Innocenti di Firenze, Sala Brunelleschi, per iniziativa della Commissione regionale di bioetica. La partecipazione italiana allo studio è coordinata dall’Unità operativa di epidemiologia clinica del CSPO di Firenze. All’incontro parteciperà tra l’altro il professor Gerrit Van der Wal, del Vrije Universiteit Medical Center di Amsterdam, che parlerà dell’esperienza olandese a partire dall’approvazione della legge sull’eutanasia. Il vice presidente della Regione Angelo Passaleva coordinerà la tavola rotonda prevista per le ore 14.30 e l’assessore regionale per il diritto alla salute Enrico Rossi concluderà i lavori. L’assistenza alle persone che muoiono, i luoghi del morire, le decisioni che vengono assunte nella fase finale della vita, sono state in questi ultimi anni al centro del lavoro della Commissione Regionale di Bioetica. Un sottogruppo di lavoro ha approfondito in collaborazione con esperti e operatori del settore dell’assistenza e delle cure palliative queste tematiche. Nel 2003 la Carta di Pontignano ha definito gli scopi e gli obbiettivi di questa attività: far crescere l’attenzione e la conoscenza di come si muore nella nostra realtà regionale e esplicitare la possibilità di azioni concrete. Alla base di queste iniziative è la diffusione nella regione Toscana dei servizi pubblici di cure palliative ad integrazione delle attività di assistenza domiciliare integrata che è gestita dai medici di Medicina Generale e della attività condotta da molte associazioni di volontariato. Varese: le voci contro il nuovo carcere (commenti di Legambiente e Varese Social Forum)
Varese News, 17 maggio 2004
Approda in consiglio comunale la Variante Urbanistica per il nuovo Carcere. I 31.000 mq. di verde destinati dal vigente PRG all’insediamento del carcere diventano più di 225.000, sia nella nuova localizzazione al confine con Schianno, che in ampliamento alla originaria area nella zona dei Duni Naturalmente sono tutte aree agricole o boschive, con "consistenti limitazioni sia idrogeologiche che morfologiche e geomeccaniche" da destinare ad una massiccia cementificazione. Ancora una volta l’incapacità di dare una seria soluzione urbanistica a problemi sociali che da decenni sono all’ordine del giorno si traduce in distruzione ambientale e creazione di nuovi "ghetti"sulla spinta dei finanziamenti "romani" che finalmente beneficiano il nord. Finanziamenti è forse una parola grossa, visto che dal provvedimento governativo sono spariti ed il carcere si costruirà in leasing. Eppure a Varese non mancano aree dimesse o sottoutilizzate che da anni attendono una degna destinazione e riuso: l’Aermacchi, l’ex macello, l’area di via Carcano, la Dogana, l’ex RIV SKF allo stadio, la Cagiva alla Schiranna tanto per citare le prime che vengono alla mente. Inoltre non si capisce perché il carcere debba stare ad ogni costo nel comune di Varese! Sono tutte aree private certo! Come le aree agricole della Villa di Bizzozero! Ma il valore immobiliare che si libera con lo spostamento del carcere permetterebbe all’Amministrazione Comunale di recuperare le risorse necessarie per un intervento anche sul "libero" mercato. O qualcuno pensa che in via Morandi sorgerà un giardino o si coltiverà foraggio per le mucche che dovranno alimentare la centrale del latte difesa in questi giorni dall’assalto di privati stranieri? Ma forse i carcerati e i soggetti "svantaggiati" è meglio confinarli nella valletta del Selvagna, in attesa che un nuovo centro commerciale possa occuparsi del recupero delle aree strategiche per lo sviluppo della città. Totalmente estraneo alla variante proposta è il concetto di sostenibilità, che pure oggi permea, anche a sproposito, ogni atto amministrativo. L’idea che le trasformazioni ambientali possano almeno richiedere compensazioni o mitigazioni non ha cittadinanza nella variante. È illuminante la conclusione della relazione tecnica: dandosi comunque atto che, "urbanisticamente", la sottrazione di aree agricole per una quantità di mq. 154.728 viene sostanzialmente compensata con il passaggio delle aree agricole ad aree aventi un uso "standard urbanistico a livello comunale" e "standard urbanistico a livello generale" per un totale di mq. 132.917. Per questa amministrazione il territorio agricolo e boschivo è terra di nessuno, disponibile per ogni tipo di aggressione, e se è di proprietà comunale come ai Duni, perché rinunciare a specularci sopra? Dopo questo esempio di intervento pubblico, come potremo rinunciare ad un albergo al posto dei prati di Cartabbia o ad un supermercato sugli orti di Bobbiate, etc. etc.? Assemblea dei Sindaci Asl-Mi3 - Comune di Monza
Seminario Il garante dei diritti sociali delle persone detenute Casa Circondariale di Monza - venerdì 4 giugno 2004, ore 14
Il Presidente dell’Assemblea dei Sindaci, ASL-Mi3 Vittorio Pozzati, dopo un breve saluto ai convenuti, darà inizio al programma dei lavori
ore 14.30
ore 14.40
ore 15.10
ore 15.30
ore 15.50
ore 16.10
ore 16.40
ore 17.30
Si prega di dare riscontro scritto alla sig.ra Gianna Vitali, entro il 25 maggio p.v., in merito alla partecipazione al seminario, allegando i dati anagrafici (nome, cognome, luogo e data di nascita, residenza). Tel. 039 6067626 Fax 039/6020383 Mail: gianna.vitali@brianzaest.it
Si ricorda di portare con sé un documento d’identità, necessario per l’ingresso alla Casa Circondariale e di trovarsi puntualmente davanti al cancello della Casa Circondariale alle 14, per agevolare le procedure.
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