Rassegna stampa 7 giugno

 

Bologna: nomade si uccide subito dopo l'arresto

 

Adnkronos, 7 giugno 2004

 

Ha trascorso la prima notte nella cella del carcere bolognese della Dozza e poi si è tolta la vita impiccandosi con il lenzuolo. Si è uccisa in questo modo, nella tarda mattinata di ieri, una nomade di 40 anni, di origine bosniaca, che era stata rinchiusa nel penitenziario il sabato pomeriggio.

La donna era finita in manette solo il giorno prima quando i carabinieri della stazione Corticella l’avevano prelevata dal campo nomadi di via Peglion dove si trovava agli arresti domiciliari. I militari hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal tribunale di Firenze e che le imponeva il carcere per scontare un cumulo di pena per furto, rapina e altri reati contro il patrimonio. Informato dell’accaduto, il pubblico ministero di turno della Procura felsinea, Enrico Cieri, ha disposto l’autopsia anche se da un primo esame dei luoghi e della salma non è emerso nulla di sospetto.

Nel bazar sulla mia finestra, articolo di Adriano Sofri

 

Panorama, 7 giugno 2004

 

Quando venni dentro non avrei mai pensato di riempire i centimetri quadrati fra una sbarra e l’altra con le mie multiformi proprietà. Così ho deciso di proporvi un elenco.

Diventiamo vecchi e ci assomigliamo sempre di più. Agli adulti piace pensare che i ragazzi siano tutti uguali: al contrario. I ragazzi sono così naturalmente diversi da non preoccuparsi di tenere le distanze e si affollano e si danno gomitate e spintoni e abbracci. I vecchi tengono la distanza, per ripararsi dalla avvilente impressione di qualcosa di più forte di loro, del loro carattere e della loro personalità, che li rende reciprocamente somiglianti: gli stessi luoghi protetti, gli stessi farmaci, le stesse deplorazioni. La varietà dei ragazzi è promettente e naturale, la varietà dei vecchi è costruita e pagata a un tanto al metro. Guardate come stanno i ragazzi su un tram nell’ora di punta e come ci stanno i pensionati.

In un posto chiuso come il mio è più facile accorgersene, soprattutto quando passa molto tempo, abbastanza da mostrare la propria trasformazione nello specchio di quella altrui. Io non avrei mai pensato di diventare un detenuto, e poi non avrei mai pensato di diventare un detenuto comune, e così via. Per la verità, neanche i detenuti comuni pensano di diventare comuni detenuti. Però ci si piega alla gabbia, per quanto la si scuota urlando. Se ne prende la forma. Si va sotto una brutta doccia, un giorno sì e uno no, oppure tutti i giorni, con vicini che hanno gli stessi vostri orari, benché non vi siate mai detti perché.

Ci si bagna nella stessa acqua. Si gridano mezzi discorsi. Uno vi racconta per anni la sua pressione alta. L’unica differenza è che la sua massima diventa sempre più alta. Un giorno se ne va: la pressione ne aveva abbastanza. Un altro prende il suo posto, e voi cominciate, quasi senza accorgervene, a lagnarvi con lui della vostra pressione, che negli ultimi tempi (strano, no?, non era mai successo) è un po’ alta.

A prenderla magnanimamente una situazione così produce La montagna incantata. Più terra terra, fa da futile spartito alla vostra scadenza. Poiché entrai in una galera da giovane, non smisi mai di sentirne lo scandalo, anche quando escludevo di tornarci. Ci sono certe vecchie prigioni urbane con le finestre ferrate che d’estate si spalancano alla vista dei passanti che si guardano ancora attorno.
Non si vede niente all’interno, beninteso: ci sono due o tre file di sbarre e grate. Però si vede la dispensa dei carcerati, perché ogni fila di sbarre fa da scaffale agli oggetti che la cella non saprebbe contenere, o a quelli che, come le scarpe, stanno meglio all’aria, o a quelli che l’aria la cercano divincolandosi, come il basilico. Un occhio clinico saprebbe dedurre da quantità e varietà di oggetti deposti sulle sbarre, e dalla disposizione, nozioni rivelatrici sul reddito, l’età e il carattere degli ospiti di una cella.

Un cittadino comune, di quelli che si sentono al riparo dall’assurdità di finire in galera, guarderebbe a quelle esposizioni patrimoniali sulle inferriate con uno sguardo compassionevole, o disgustato o magari con una curiosità folcloristica. Usi e costumi degli animali detenuti.

Anch’io, quando venni dentro, non avrei mai pensato di diventare uno che riempiva i centimetri quadrati di sbarre con le sue multiformi proprietà. Ieri camminavo all’aria del cortile di cemento e mi è capitato di guardare alla mia finestra. La mia finestra è la seconda al piano terreno, subito dopo quella delle docce e appena sopra il tombino della fogna. Per questo, sebbene sia una cella brutta e angusta, è la prediletta dalle zanzare.

Comunque sia, ho visto che spiccava come poche altre per la quantità di oggetti infilati fra le sbarre e mi sono detto che ci assomigliamo molto, noi animali prigionieri, e noi animali umani in genere, e poi mi sono chiesto che cosa direbbe di me la vetrina della mia finestra a un osservatore estraneo. Lo propongo anche a voi: dopotutto arriva l’estate, stagione propizia agli elenchi di cose e ai giochi da spiaggia.

Sulla mia finestra sono visibili nell’ordine: un ramo di palma intrecciata, ormai sciupata da polvere, ragnatele e intemperie, che risale alla Domenica delle Palme di tre anni fa, e mi fu regalata dal diacono Alessandro, cui avevo parlato della nostalgia per le palme intrecciate del Meridione d’Italia; un rametto di ulivo piuttosto secco, che risale alla Domenica delle Palme ultima; cinque vasetti di plastica bianca, in origine contenitori di yogurt, alcuni in forma di anfora, altri di orcio, disposti non so quando in modo da ricordare un quadro di Morandi, e ora abbattuti dal vento e dall’incuria.

Un sostegno di latta arrugginita per lo zampirone, infatti ogni giorno decido che non userò mai più lo zampirone, perché ho letto che produce gli effetti di due o tre pacchetti di sigarette, e ogni notte torno sulla decisione per disperazione. Dei pomodori verdissimi. Dei pomodori rossissimi. Alcune banane. Una pianticella di basilico dentro un bicchiere di carta pieno di acqua. Un paio di ciabatte, uno di scarpe da ginnastica, due di scarpe scarpe. Tre kiwi.

Una bomboletta di gas da camping. Tre limoni risecchiti. Una rosa rossa ottenuta in regalo dalla chiesa. Due ramoscelli di lavanda. Una pala di fico d’India grande come un’unghia, caduta dalla sua pianticella nell’infermeria.

Una conchiglia qualunque. Un completo della Fiorentina in attesa di bucato. Un barattolo di fagioli. Un dopobarba Dolce & Gabbana che mi regalarono Maurizio e Stefano il 1° agosto di tre anni fa, dato che io non uso dopobarba. Una capanna natalizia di legno di 5 centimetri che mi ha portato la suora da Betlemme. Un cardellino di carta colorata. Una caffettiera senza manico e senza filtro. Un veliero di stuzzicadenti e due gusci di noce, con vele di carta verde e arancione, battente bandiera neozelandese.

Pagliarulo (Pdci): carcere di Lecco non agibile prima di due mesi

 

Ansa, 6 giugno 2004

 

"L’inaugurazione del carcere di Lecco avvenuta oggi è una solo una finzione elettorale, di quelle che il ministro Castelli ha progettato per far bella figura a una settimana dalle elezioni". È quanto ha dichiarato il senatore del Pdci e direttore di Rinascita, Giancarlo Pagliarulo.

"La realtà - ha aggiunto Pagliarulo - è che ad ora quella struttura non è agibile e non lo sarà prima di due mesi. Ci pare di rivivere la doppia inaugurazione del carcere di Bollate, che Castelli inaugurò una seconda volta, quando divenne ministro, incurante del fatto che i meriti erano del centrosinistra".

"Voglio ricordare al ministro Castelli - ha detto ancora l’esponente del Pdci - che l’organico di polizia penitenziaria della Regione Lombardia soffre di una carenza cronica che sfiora il 40%: in tre anni e mezzo Castelli non solo non ha affrontato il problema della carenza di organico, ma l’ha aggravata avallando più di 40 distacchi al Gom (Gruppo Operativo Mobile) e molti trasferimenti di personale delle città lombarde al ministero di Via Arenula".

"Riguardo la situazione degli educatori all’interno delle carceri - ha concluso il senatore Pagliarulo - un esempio per tutti: San Vittore, con 1800 carcerati e 4 educatori in servizio. Quanti educatori intende destinare al nuovo carcere di Lecco? Ci risulta che il ministro avesse preso impegni coi sindacati della categoria per un intervento straordinario sull’organico della regione che prevedeva il rientro del personale distaccato. Dopo un anno nulla è cambiato. Cosa crede, che per alleviare le sofferenze del condannato basti la visita compassionevole di cittadini? Castelli ha fallito anche per le carceri. Invece di una inaugurazione finta sarebbe ora che se ne vada davvero".

Luca Volonté: Castelli spieghi urgenza nomine Dap

 

Apcom, 7 giugno 2004

 

"Il ministro della Giustizia Roberto Castelli ha il dovere di spiegare in Parlamento quali sono le ragioni urgenti che a solo una settimana dalle elezioni hanno lo hanno indotto ad operare un vorticoso giro di valzer nelle nomine del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta, peraltro, di incarichi che pur essendo "missioni continuative", hanno la sola durata di tre mesi".

Lo dice Luca Volonté, capogruppo dell’Udc alla Camera, che presenta un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia Roberto Castelli circa il mandato al Direttore generale capo del personale del dicastero a procedere alle nomine del Dap e che interessano le sedi dei Provveditori Regionali di Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Abruzzo e Molise, Sardegna.

"Nell’interrogazione - si legge in una nota - si sottolinea che tali nuovi incarichi oltre a presentare parecchie anomalie (la reggenza del Provveditorato della Lombardia, comprende 18 istituti penitenziari è stata affidata ad un primo dirigente, anziché a personale con qualifica di dirigente generale) sono in netto contrasto con le direttive del ministro della Funzione Pubblica, con le affermazioni di principio del Capo del Dap all’inaugurazione dell’anno accademico 2003-2004 dell’Istituto superiore di studi penitenziari e contrastano con le linee-guida politico-strategiche del Ministro della Giustizia per il 2004. Essendo le regioni a prevalenza del Nord e la mancanza di una sola settimana c’è più di un dubbio - conclude Volonté - che la violazione di alcune direttive siano in funzione di una qualche attività elettorale".

Norvegia: castrazione chimica per 4 stupratori

 

Corriere della Sera, 7 giugno 2004

 

A mali estremi, estremi rimedi recita il proverbio. Ma il provvedimento preso dalla magistratura norvegese seppur, con il consenso dei condannati farà discutere. Quattro uomini condannati per reati sessuali nella zona di Trondheim, nella Norvegia centrale, hanno accettato di sottoporsi a un trattamento di ormoni per bloccare la produzione di testosterone. È la prima volta che la cosiddetta "castrazione chimica" viene utilizzata in Norvegia. Il quotidiano "Dagsavisen", che riporta oggi la notizia, precisa che il trattamento è volontario, ed è destinato a porre un freno agli impulsi sessuali del soggetto. I medici assicurano che se il trattamento viene interrotto la situazione torna alla normalità.

I quattro uomini si sono già sottoposti a una terapia di gruppo per sei mesi, e gli psicologi affermano che a questo punto sono pronti per iniziare il trattamento ormonale. L’obiettivo è di prevenire nuove aggressioni sessuali, ma chi si sottopone al trattamento non gode né di una riduzione della pena né di altri vantaggi.

Il trattamento continua dopo il termine della pena, solo se il condannato lo richiede. Attualmente informazioni sul piano di trattamento ormonale vengono inviate a tutte le prigioni norvegesi. Chi accetta viene trasferito in una carcere di Trondheim, dove il trattamento viene somministrato in collaborazione con un ospedale locale. In Danimarca il trattamento è stato somministrato, sempre su base volontaria, dal 1989 su 25 soggetti. Nessuno ha commesso nuovi reati sessuali dopo il trattamento.

Vercelli: detenute creano linea di abiti "Codice a sbarre"

 

Agi, 7 giugno 2004

 

Si chiama ironicamente "Codice a sbarre" la nuova linea di abiti "firmati" dalle donne detenute nel carcere di Vercelli. La "griffe" è dedicata soprattutto agli abiti da lavoro ed è stata presentata nel corso di una kermesse in città che ha visto il centralissimo Corso Libertà trasformato in un lungo balcone dove erano appese molte coloratissime magliette.

L’iniziativa è stata realizzata con i contributi del Centro Servizi Sociali per adulti del ministero di Grazia e Giustizia, del Comune di Vercelli, del Consorzio "Armes", e della Casa Circondariale vercellese.

 

La storia di "Papillon Rebibbia" raccontata a Rai Libro

 

Rai Libro, 7 giugno 2004


Mirko Del Medico e Vittorio Antonini sono, rispettivamente, Presidente e Vice presidente dell’associazione culturale "Papillon Rebibbia" che lavora da anni per diffondere e accrescere le attività culturali all’interno delle carceri. Al Vice Presidente, Vittorio Antonini, abbiamo chiesto di raccontarci la storia dell’associazione e i progetti realizzati.


Vittorio Antonini, quando nasce l’associazione "Papillon Rebibbia"?

"L’esperienza dell’Associazione Culturale Papillon-Rebibbia inizia nel maggio del 1996 ad opera di un gruppo di detenuti della casa circondariale "Rebibbia nuovo complesso" che iniziano ad organizzare nelle disastrate biblioteche dei reparti alcune semplici ma coinvolgenti iniziative culturali tra gli oltre 1500 "ospiti" dell’istituto. Si riteneva possibile e necessario fare in modo che i detenuti gestissero direttamente una serie di attività culturali e "rivendicative" che nel loro insieme dovevano costituire un ideale ponte verso quei milioni di Cittadini che conoscono poco e male la drammatica realtà delle galere".


Quali erano, e sono, gli obiettivi?

"L’idea/forza era (ed è) molto semplice: la diffusione della Cultura nelle carceri è uno strumento indispensabile per arrestare l’inevitabile regressione psico/fisica prodotta dalla galera, e può anzi aiutare la maggioranza di coloro che vivono reclusi a liberarsi da quel moderno feticismo del denaro che sovrapponendosi per lo più ad una situazione di emarginazione economica e sociale, crea in milioni di giovani e meno giovani la drammatica illusione di garantirsi un’esistenza decente e un futuro migliore attraverso la continua reiterazione di pratiche illegali e violente.

La Cultura, insomma, può concorrere in misura decisiva nell’insegnare anche ai detenuti a fornire risposte adeguate (e non criminogene) ai tanti, diversi e inevitabili periodi di crisi che scandiscono la vita di ogni persona. L’organizzazione delle pacifiche proteste "rivendicative" e dei tanti momenti di confronto con le istituzioni a tutti i livelli (dai municipi alle regioni alle Commissioni Parlamentari) ha invece lo scopo di aiutare i detenuti a formarsi una "coscienza critica", ossia di Cittadini a tutti gli effetti, consapevoli dei loro errori e dei loro limiti ma anche dei loro Diritti e dei doveri verso di loro che in un certo senso la Costituzione e le Leggi assegnano a tutte le istituzioni.

Già nel nome scelto (Papillon, appunto) c’è il nostro rifiuto della rassegnazione alla stupida e degradante violenza che è insita nell’istituzione carcere. Tutte le 123 iniziative culturali da noi organizzate, dentro e fuori dalle carceri, hanno sempre ribadito questo rifiuto. E ciò è tanto più apprezzabile se soltanto si ragiona sul fatto che il carcere, umiliando i corpi e azzerando quasi del tutto le relazioni sociali fondamentali di ogni persona (famiglia, lavoro, amicizie, cultura, divertimento, l’altro sesso, ecc.) ha la pretesa di "piegare" anche il linguaggio dei detenuti, ossia ha la pretesa di umiliare quello che anche per i detenuti è l’espressione più immediata della coscienza umana, trasformandolo in un infantile "gioco di specchi" che non può certo far crescere qualcuno".

Cosa significa per lei lavorare in questa associazione?

"Ebbene, per me che sono detenuto ininterrottamente dal 1985 e per tutti i detenuti che con me hanno iniziato questa esperienza, constatare che dai 5 detenuti iniziali si è passati ai 360 iscritti e poi ai 760 e poi ancora agli attuali 4800 Papillonesi, è la classica "prova provata" che la popolazione detenuta aveva semplicemente bisogno, urgentemente bisogno, di un’esperienza come la nostra e che gli enormi costi da noi pagati (con rapporti disciplinari, trasferimenti, denunce, ecc.) alla fine ci hanno rafforzato perché hanno contribuito ad espandere in ben 43 carceri le attività culturali e "rivendicative" della Papillon".


Perciò c’è stata una risposta più che positiva da parte dei detenuti…

"Attraverso l’esperienza della Papillon migliaia di detenuti hanno compreso che in una certa misura ci si può sottrarre al sistema pedagogico fondato sul rapporto premio/punizione (che è quanto di più animalesco ed antieducativo si possa applicare sugli uomini e le donne privati della libertà) e costruire un diverso e più ricco rapporto con le varie espressioni della Cultura e in generale con la società esterna".


In che modo siete riusciti ad ottenere visibilità e a far conoscere le vostre iniziative?

"Il fatto di trovarsi in uno dei più importanti carceri d’Italia e una certa nostra abilità comunicativa hanno fatto si che tutti i passaggi dell’attività della papillon siano "rimbalzati" con notevole rilievo sui più importanti strumenti d’informazione. Subito dopo l’inaugurazione della biblioteca centrale (denominata Papillon, appunto) abbiamo organizzato autonomamente nei locali del teatro un primo importante incontro con l’allora Ministro di Grazia e Giustizia Flick e l’iniziativa suscitò un particolare interesse proprio perché non era mai accaduto che centinaia di detenuti riuscissero ad avere un confronto diretto con la direzione politica del Ministero. Da quel momento, tutta la storia della Papillon si è svolta su due binari interconnessi: quello delle iniziative culturali e quello delle iniziative di confronto con le Istituzioni e gli Enti Locali sui tanti e tragici problemi dell’universo carcerario".

Qualche esempio…

"Abbiamo organizzato tante giornate di confronto con alcuni dei più autorevoli esponenti della cultura italiana, come Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Sandro Veronesi, Erri De Luca, Rosetta Loy, Affinati, Edoardo Albinati e tanti altri. Altre importanti iniziative culturali, ognuna delle quali si snodava nell’arco di una settimana con mostre fotografiche, film, documentari e dibattiti, sono state da noi organizzate insieme al Fondo Moravia, al Fondo Pasolini e con la Signora Ester Calvino.

Un capitolo a parte meriterebbe invece la "multiforme" settimana da noi dedicata al razzismo. Basti soltanto dire che l’abbiamo aperta con il concerto di un famoso complesso musicale (i Modena City Rambler) svoltosi per la prima volta negli spai dell’area verde del carcere, per poi proseguire con una giornata in cui un noto biologo ha spiegato e discusso con i detenuti l’inconsistenza scientifica (e la stupidità morale) del concetto di "razza" e con altre giornate gestite da giornalisti, scrittori, registi e psicologi (il Direttore del dipartimento di psicologia del CNR) esperti e sensibili al tema.

L’elenco delle cose fatte negli ultimi due anni sarebbe lunghissimo: concorsi di poesie, un seminario con lo scrittore Andrea Camilleri; un corso di "Pittura creativa"; concorsi letterari; un corso di sceneggiatura diretto dal regista Valerio Ialongo; un lavoro di ricerca sul testo biblico;un laboratorio di scrittura avviato con i poeti Pecora, Riviello, Spaziani, Mori, Carpaneto, Perilli ed Evangelisti e altro. A tutto ciò vanno aggiunti le decine di incontri con cittadini di ogni età e condizione sociale che organizziamo con cadenza mensile nei Centri Sociali giovanili, nelle Parrocchie, nei Centri Anziani, nelle scuole secondarie superiori e nelle diverse facoltà delle Università di Roma".


Insomma, un ruolo fondamentale nel generare e veicolare attività culturali all’interno del carcere.
"Sì. E va ricordato anche che la biblioteca Papillon è stata l’artefice della prima convenzione stabilita in Italia tra il Ministero di Giustizia e l’Istituzione Sistema Biblioteche e Centri Culturali, in questo caso quella del Comune di Roma, al fine di moltiplicare l’offerta culturale della nostra associazione verso i detenuti. Nel marzo 2001 la nostra esperienza si formalizza legalmente in Associazione Culturale onlus e, grazie ad un primo modesto ma significativo contributo della Regione Lazio, prosegue sia all’interno che all’esterno le sue iniziative culturali e inizia a sviluppare una vera e propria attività editoriale".


Che si è concretizzata in libri come "Radiobugliolo"?

"Precisamente nella pubblicazione di due libri: "Perché sono diventato un rapinatore", di Antonio Castro, e "Radiobugliolo", di Salvatore Ferraro e Chito, pubblicato nel dicembre 2002 con l’introduzione di Erri De Luca e diffuso gratuitamente nelle università, nelle biblioteche, nei centri giovanili e nelle Parrocchie del Lazio, dell’Emilia Romagna, della Toscana, della Lombardia e della Calabria. Ma non solo libri: ci siamo impegnati anche nella produzione autonoma di un cd rom contenente documenti e un filmato di 18 minuti sulla sanità penitenziaria girato da noi stessi all’interno dell’infermeria di Rebibbia n.c. e intitolato "Uno sguardo sulla sanità penitenziaria". Inoltre, stiamo per concludere la produzione di un CD musicale contenente le canzoni di "Radiobugliolo", o meglio, le canzoni utilizzate nella bellissima trasposizione teatrale del libro di Ferraro e Chito.

Un gruppo di 14 ragazzi (di cui 11 sono detenuti ed ex detenuti) sono riusciti a creare un piccolo capolavoro che per due settimane ha fatto il pieno di pubblico e di applausi di tanti cittadini ai quali hanno saputo descrivere, con ironia e amore, la drammatica stupidità dell’istituzione carcere. La loro esperienza è la dimostrazione pratica che l’impegno dei detenuti nelle attività culturali non deve servire per misurare e vantare il loro grado di "addomesticamento" , bensì per aiutarli ad esprimere "liberamente" - con la scrittura, la parola, la musica, la fotografia, la pittura, eccetera. – la loro rabbia, le loro aspirazioni, la loro impotenza, le loro gioie, i loro dolori e tutto quanto appartiene alla coscienza e alla quotidianità degli uomini.

Così, il nostro nuovo "laboratorio dell’artigianato multimediale" produrrà appunto un cd contenente le canzoni di "Radiobugliolo", quasi a involontaria dimostrazione che per la Papillon non esiste un’iniziativa culturale fine a se stessa".


E per quel che riguarda le biblioteche in carcere, come è proceduto il vostro lavoro negli anni?
"In questi anni la Papillon ha quintuplicato i libri messi a disposizione dell’utenza detenuta, passando da 3000 a oltre 15000 libri distribuiti tra la biblioteca centrale e quelle dei reparti di Rebibbia nuovo complesso".


Quali sono le principali difficoltà da superare al fine di introdurre i libri in carcere?

"La burocrazia e l’apatia di tante cosiddette "aree educative" che spesso non comprendono l’importanza di quella piccola "conquista" che per tanti detenuti è la lettura di un libro".


Quali iniziative state portando avanti in questo periodo?

"Sempre in tema di biblioteche, la Papillon, in questo periodo ha già raccolto all’esterno (grazie alla donazione di una trasmissione televisiva) oltre tremila libri che costituiranno la base iniziale di una Biblioteca che vogliamo aprire in un quartiere della periferia romana dove è particolarmente avvertita l’esigenza di sicurezza dei Cittadini. La nostra esperienza di oltre 122 iniziative culturali ci aiuterà a fare di questa biblioteca un vivace punto di riferimento per tanti giovani e meno giovani del quartiere e cogliamo quindi l’occasione per invitare tutti ad aiutarci con donazioni di libri e di materiali audiovisivi utilizzabili nella biblioteca.

Grazie all’impegno dell’Assessore al Patrimonio del Comune di Roma, Claudio Minelli, nelle scorse settimane si è riusciti a trovare dei locali disponibili nel territorio dell’ottavo Municipio, là dove nei mesi scorsi, a seguito dell’omicidio di un piccolo commerciante, migliaia di cittadini hanno espresso tutta la loro rabbia e la loro sacrosanta esigenza di sicurezza. La biblioteca che stiamo costruendo non sarà una biblioteca "sul carcere", bensì una normalissima Biblioteca, gestita anche da detenuti ed ex detenuti, la cui particolarità sarà soltanto il fatto di essere davvero ricca di iniziative culturali in ogni campo (dai libri, ovviamente, al teatro, alla musica, alla pittura, al cinema, ecc.) diventando pian piano un punto di riferimento per i giovani e i meno giovani di quel quartiere. Pensiamo insomma di avere accumulato l’esperienza necessaria per poter contribuire alla diffusione della Cultura anche nelle estreme periferie urbane, là dove più si concentrano l’emarginazione, la tossicodipendenza, la violenza e l’illegalità.

Va detto poi che la Papillon è l’unica associazione che ha provato a costruire (e sta portando a termine) un progetto di "educazione civica e utilizzo dei servizi sociali" per un gruppo di otto giovani donne ROM che si trovano in misura alternativa. Chiunque conosce la realtà ROM può immaginare quante e quali difficoltà abbiamo dovuto superare per fare accettare agli uomini e alle donne anziane del campo il fatto che otto giovani donne (tra i 16 e i 22 anni) uscissero dalla routine quotidiana imparando a relazionarsi stabilmente con il consultorio, i servizi del Municipio, la scuola, studio di ginecologia, ecc.

Le ragazze che partecipano a queste attività di studio e di informazione stanno diventando un punto di riferimento per tante altre giovani donne che vogliono si vivere tra la loro gente, ma vogliono farlo meglio di quanto oggi non avvenga. Ed è anche bene dire che questo progetto lo stiamo realizzando grazie al contributo di tanti operatori professionisti e che tutte le spese (oltre diecimila Euro) sono a completo carico della Papillon, almeno fino a quando qualche Ente Locale non si deciderà ad assumersi qualche responsabilità anche in questo campo".


Qual è l’augurio che fa a Papillon e a quanti fruiscono della sua attività?

"Quello di continuare a costruire, attraverso mille iniziative culturali e "rivendicative", un ponte ideale verso quanti nel mondo si interrogano sulle tante ingiustizie del presente e vogliono costruire un futuro migliore per tutti".

Como: Bassone senza agenti, contestato il ministro

 

Corriere di Como, 7 giugno 2004


Momenti di tensione, ieri a Lecco, durante la manifestazione inscenata dagli agenti di polizia penitenziaria per protestare contro la difficilissima situazione degli organici in Lombardia. Tra loro anche una folta delegazione comasca, capeggiata dai segretari del sindacato di categoria Cgil, Cisl e Uil del pubblico impiego.

L’occasione è stata fornita dall’inaugurazione della casa circondariale lecchese, cui ha partecipato il ministro della Giustizia, Roberto Castelli. Gli agenti hanno urlato slogan contro l’esponente del governo e a poco è servito il tentativo dello stesso Castelli di dialogare con i manifestanti.
La protesta è stata infatti molto rumorosa e molto secca. La polizia penitenziaria lamenta una continua diminuzione degli organici. A Como, in particolare, mancano all’appello almeno 78 agenti. L’organico previsto dalla pianta ministeriale è di 308 persone, attualmente sono al lavoro in meno di 230. E altri 15 potrebbero andarsene se, come previsto dal Guardasigilli proprio in occasione della riapertura del carcere di Lecco, Como dovesse ‘cederÈ ai cugini una piccola parte del suo personale.

"La cosa assurda - ha dichiarato Armando Messineo, segretario della Cgil Funzione pubblica di Como - è che il ministero decide di trasferire le guardie ma si guarda bene di fare altrettanto con i detenuti. Il Bassone sta letteralmente scoppiando, è al collasso. Ci sono oltre 300 detenuti più di quanti dovrebbe accoglierne e un centinaio di agenti di custodia in meno rispetto alla pianta organica".
Una situazione che il sindacato ha giudicato, in una lettera aperta inviata nei giorni scorsi allo stesso ministro come "drammatica" e che potrebbe precipitare nel giro di poche settimane.

"La donna dei sogni": libro sulla comunità femminile in carcere

 

Traspinet, 7 giugno 2004

 

È stata presentata all’ultima Fiera del Libro di Torino l’opera di Rosanna Rutigliano, "La donna dei sogni", che tratta il tema della comunità femminile in carcere come via iniziatica. La scelta del tema viene dal bisogno di testimoniare un impegno sociale intriso di storie scabre di donne che appartengono al mondo dolente degli emarginati e dei vinti, riflesse attraverso l’esilio della comunità in carcere.

Come ha spiegato la scrittrice, "Quel che si annuncia nel titolo è che il sogno per sua natura e funzione è capace di trasformare l’atteggiamento conscio non più in armonia con la totalità della psiche. La coscienza viene rinnovata attraverso il contatto con l’Inconscio, agente del Sogno.
Una delle idee portanti del libro è che il divenire individuale e sociale sono strettamente uniti e che lo spirito della nostra epoca di transizione, su cui incombe la perenne minaccia del terrorismo, fa della volatilità delle certezze tradizionali, del senso di precarietà che incombe soprattutto sulle giovani generazioni un punto di forza per scelte innovative (del resto se si è vincenti e tutto va bene non si ha interesse a smuovere lo status quo…).

Sembra dunque propizio il momento in cui possa animarsi un rapporto più creativo fra gli opposti elementi del maschile e del femminile, tra l’innovare ed il conservare, il fare e l’essere… Non già si tratta di confusione fra i generi, ma di riconoscimento del loro vicendevole valore e della loro pari dignità.
K. Asper, analista junghiana zurighese, in un suo recente libro: "The abandoned child within", ed. Fromm, ci dice che i passaggi iniziatici sono crisi narcisistiche in cui si impara che occorre accettare semplicemente che nonostante tutto si è accettati da qualcosa di misterioso che ci sostiene.
L’individuazione si muove nelle sabbie mobili dell’ambivalenza "si è questo e quello" ma si è anche capaci di sognare, il che permette di trovare nuovi modi per affrontare i problemi che la vita ci presenta. La sofferenza che apre alla speranza, alla gioia è il prezzo che si deve pagare per imparare a vivere. Anche nel colmo della disperazione si riesce a vedere nell’impossibilità l’aprirsi di nuove vie e possibilità mai pensate prima, si sopporta la tensione tra gli opposti e si dà modo alla funzione trascendente di produrre simboli. Questo è un po’ come avere l’esperienza satori dell’illuminazione del discepolo che risolve il Koan postogli dal maestro nel buddismo zen".

Nella premessa del libro Rosanna Rutigliano sostiene la paradossalità del sistema penitenziario in funzione di controllo sociale che segrega e depriva gli individui ristretti di alcune libertà fondamentali, ma anche di via iniziatica per lo sviluppo di potenzialità personali in vista del futuro reinserimento sociale. Il ritiro delle donne in comunità ha una possibile analogia con l’isolamento iniziatico nella foresta delle donne puberi con le più anziane, praticato dalle tribù primitive.

Nel I° capitolo il lato oscuro del Sé femminile emerge nella grandezza e riduzione delle difese dell’Io, dal momento che la condizione comunitaria di separatezza iniziatica ha valore protettivo e formativo. Nell’altrove dello spazio comunitario in un luogo estraniante quale il carcere, storie diverse di operatori ed ospiti finiscono per accomunarsi nell’avventura iniziatica che muove dall’esperienza antica di repressione della forza del femminile nella società patriarcale. L’archetipo della comunità esercita la sua forza terapeutica nelle vite di donne violate dall’abuso e dalla dipendenza ed il gruppo è visto come potenziale risorsa di guarigione iniziatica, scandita nei tre momenti rituali di separazione, morte e rinascita.

Qui l’autrice si confronta con i pregiudizi derivanti dalla pressione sociale verso le detenute, considerate particolarmente più problematiche e difficili rispetto ai maschi. Muovendo proprio dal pregiudizio sociale verso le donne che rompono con gli schemi convenzionali e funzionano come capro espiatorio della società, "credo di poter dire che il ruolo scomodo delle donne recluse può servire da pungolo per la trasformazione del carcere da luogo di pena a luogo di promozione personale e sociale. È come se il malessere che le donne esprimono in modo evidente reclamasse una risposta ad un senso diffuso nella collettività, dominata dai valori maschili, di integrazione del lato oscuro del femminile."

L’identità femminile nel carcere è avvilita, ma non annientata, anche se esasperata nella sua forma terribile, culturalmente stigmatizzata. La spinta alla trasformazione dell’istituzione rispetto ai bisogni sociali sembra partire da qui, dal carattere indomito della forza del femminile che non si lascia zittire né sconvolgere del tutto, come avviene nelle società patriarcali, che relegano la donna alla subalternità sociale, ma le concedono lo strapotere nell’ambito familiare.

Nel II° capitolo si approfondisce il materiale clinico relativo a sogni di individuazione, in cui si esplicitano le difese dell’Io che si costituiscono rispetto alle limitazioni frustranti imposte dalla detenzione come una sorta di barriera protettiva per conservare una pseudo-identità, che si costituisce nella diversità per assicurare una certa stabilità per fronteggiare l’angoscia nelle sue varie forme (di frammentazione, di perdita, di castrazione). Nelle donne tossicodipendenti il conflitto è gestito a livello prevalentemente extrapsichico con conseguenti passaggi all’acting-out a fronte della minaccia di perdita dell’identità e di lacerazione di un fragile tessuto psichico. In questi punti di rottura si manifestano sintomi di angoscia, ansia, depressione, perversioni, che connotano di angoscia situazioni ed immagini oniriche.

Nel III° capitolo si seguono alcune sedute di psicodramma, che meritano un approfondimento in relazione all’evoluzione dei casi. In accordo al bisogno delle donne di sostenersi tra loro, di aprire un varco nell’oscurità dell’anima, la comunità nel carcere può consentire alle donne tossicodipendenti di superare i muri della diffidenza e dell’ostilità e trovare modo di comunicare, di riunirsi in uno spazio terapeutico che garantisce loro la protezione e il rispetto delle regole di convivenza.La tecnica psicodrammatica consente la connessione o meglio l’energizzazione dei sensi che rinsalda l’Io.

Nelle Conclusioni l’autrice si ricollega allo spirito di sorellanza, proprio del legame tra donne. Se si tenta di colmare la scissione dell’archetipo del femminile la donna può raggiungere un senso di unità in sé che la rende pienamente umana e complementare all’uomo. Contro la frammentazione e l’individualismo della società attuale la psiche vivente del Femminile rincorre il mito della interezza. Non si tratta però di una dimensione totalizzante, ma tale da includere anche il suo opposto, che le appartiene inscindibilmente. "Questa concezione, che mi deriva dal pensiero junghiano, restituisce un senso al lavoro di chi insieme a me a differenti livelli di complessità opera all’interno del sociale. Si riesce a trovarlo questo senso se si ricorre alla facoltà della umana comprensione e della volontà di integrazione delle parti rifiutate, trascurate o irredente. Ciò comporta che come operatori, individui adeguati alle esigenze della società ed in accordo con le sue regole, ci sperimentiamo comunque anche diversi, unici, mai del tutto integri, ma tendenti allo scoraggiamento, alla dipendenza, come irrimediabilmente orfani e mancanti di qualcosa che la realtà di per sé non ci può dare. Riconoscere che l’esperienza dell’indegnità, della invalidità ci appartiene ci libera dai falsi per-benismi e ci porta ad integrare l’Ombra."

Spiega la Rutigliano, "Da questo punto di vista è legittimo l’aiuto morale e psicologico a chi dietro alla tendenza asociale, deviante, soggiace alla molla dell’egoismo, dell’andare alla deriva dal proprio fondamento religioso. Allora non è tanto importante porre l’enfasi su un risultato di conformità sociale, sulla conquista di una presunta normalità, quanto favorire la comprensione reciproca delle parti costituenti una sola società.

Il problema di fondo non sta nel considerare separate le due parti della stessa società: quella dei liberi, che sono fuori e quella dei devianti e pericolosi che vanno chiusi in carcere per punire il proprio comportamento corrotto.

Per Jung noi non creiamo immagini, ma siamo semplicemente intessuti di esse. L’accesso alla vita simbolica, immaginale, permette di vedere oltre il dato concreto, di riunire le forze disgregatrici della personalità e del gruppo con mezzi simbolici: riflessione, meditazione, attività creative, in accordo ai modi tradizionali delle donne di stare insieme al ruscello, alla fontana come al tavolino di un caffè. Dai perils of soul ci si difende creando uno spazio transizionale, neutro, che ripara da ciò che ferisce, da ciò che solo matericamente è. Nell’esperienza ricreativa del come se la pressione delle fantasie interiori si attenua, il filo della memoria tessuto dalle Parche si dipana.
L’accettazione di sé passa attraverso la partecipazione alla vita di gruppo nelle pratiche quotidiane, comuni alle donne del ritrovarsi insieme a chiacchierare del più e del meno facendo qualcosa davanti al camino, all’uscita della chiesa alla domenica. Il chiacchiericcio, il motteggio apre ad un’esperienza di legame comune emozionale e permette di dominare le forze disgregatrici dei perils of soul. Le residenti mi aspettano per raccontarmi i loro sogni, affidarmeli per condividerli nel gruppo. Per loro io sono La Donna Dei Sogni, come figura transizionale che rende loro accessibile l’esperienza interiore."

 

 

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