Rassegna stampa 6 giugno

 

Don Ettore Cannavera: "La violenza si può sconfiggere"

 

L’Unione Sarda, 6 giugno 2004

 

"Lo vedo spesso in carcere: la violenza è il metodo che i ragazzi usano per risolvere, diciamo così, i loro conflitti". Il parere viene da chi se ne intende: don Ettore Cannavera, cappellano dell’Istituto penale minorile di Quartucciu e fondatore delle comunità "La Collina" di Serdiana. Lì accoglie i ragazzi tra i 18 e i 25 anni, come misura alternativa alla detenzione: ne ha nove, attualmente, quattro dei quali sono marocchini.

Don Ettore non entra nel merito dell’episodio accaduto venerdì in via Laghi Masuri, del quale esistono già diverse versioni. Parla in generale del mondo dei ragazzi violenti, di come fare per farli uscire da una mentalità sbagliata. "Sono giovani che non hanno avuto un’educazione emotiva, sono comandati dall’istintività, ogni cosa che viene in mente la fanno. Diciamo che non sono stati educati a domare le pulsioni e a comprendere le conseguenze dei loro atti".

Succede dappertutto, anche nei cosiddetti quartieri-bene, che un ragazzo si abbandoni a gravissimi episodi di violenza. Capita però più spesso, ed è inutile nasconderlo, nelle periferie dimenticate, dove il degrado si aggiunge a degrado. "I ragazzi sono vittima di un contesto violento creato dagli adulti: imparano a casa, a volte anche a scuola, che la violenza è l’unico modo per risolvere le controversie. È colpa di un approccio educativo schizofrenico: da una parte noi adulti predichiamo la non violenza, dall’altra non esercitiamo questo significato.

Siamo infatti consumisti, arrivisti, facciamo sopraffazione: lo vediamo in politica, ma anche tra marito e moglie, tra automobilisti". Don Ettore Cannavera fa anche l’esempio più grande di violenza: "Al terrorismo, stiamo rispondendo con la guerra. Significa sopraffazione contro sopraffazione, non si arriva da nessuna parte".

Secondo il cappellano dell’Istituto penale minorile di Quartucciu, "l’aggressività è istinto, la violenza è la degenerazione dell’aggressività. Nei quartieri degradati la regola vale ancora di più: lì non hanno gli strumenti culturali per risolvere i conflitti senza farli degenerare. Da ragazzi tutti abbiamo litigato con i coetanei, ma nei limiti, mentre nei quartieri degradati si cade nel delirio di onnipotenza: questi giovani pensano di poter fare qualunque cosa senza mai considerare le conseguenze, come ad esempio una condanna all’ergastolo. Manca il senso della realtà, insomma".

Rieducare, nel vero senso della parola, un ragazzo non è facile, ma nella comunità "La Collina" si fa regolarmente: "Se qualcuno degli ospiti diventa violento, per regolamento lo rimandiamo in carcere. Tuttavia, non è mai successo: basta che uno dei nostri ragazzi alzi la voce, e noi reagiamo con calma assoluta, dicendogli di smettere. Alla violenza si risponde con la non violenza, mentre in certe famiglie non si fa che urlare, minacciare, picchiare. È un apprendimento graduale, ma si può fare. Lo possono fare anche i genitori".

Davide Pinardi: "La letteratura? Può aprire i cancelli"

 

Avvenire, 6 giugno 2004

 

"Il detenuto in genere apprezza l’uomo di cultura, se non è spocchioso e non recita la parte dell’intellettuale. Conservo una profonda gratitudine verso le persone che ho incontrato.
Mi è anche capitato di scrivere storie di galera. Tenendomi lontano da modelli come "Io speriamo che me la cavo""

Ha insegnato italiano e geografia a San Vittore per vari anni. Nel 1992 ha lasciato: "Anzitutto perché avevo deciso di smettere di insegnare", spiega Davide Pinardi. "Poi perché pensavo che l’apprendimento, da parte dei carcerati, dovesse avere orizzonti più ampi e aprirsi all’esterno. In quel momento, ma credo che le cose siano cambiate, prevaleva l’idea che l’insegnamento dovesse indurre il detenuto a riflettere sulla sua condizione. I miei alunni non ne avevano alcuna voglia: spesso alcuni rifiutavano di venire a fare scuola perché, mi dicevano, vivevano in galera tutto il tempo e non vedevano il motivo di parlare di galera anche nelle ore di studio".

Ma, aggiunge lo scrittore milanese, continua ad avere rapporti, "anche se saltuari", con i reclusi: per esempio con quelli della rivista Ristretti del carcere di Padova, "che sono davvero bravi". È stato anche in tutti i penitenziari milanesi; alla Giudecca (a Venezia); in Germania… "Recentemente ho fatto una lezione a Bollate".


Perché un giorno ha scelto una cattedra in carcere?

"Insegnavo da qualche tempo per le 150 ore, che erano corsi statali per adulti. Mi ero stancato di una certa ripetitività e provavo una sensazione di inutilità. La galera mi sembrava un’esperienza interessante e devo riconoscere che a San Vittore ho per molti aspetti recuperato il senso dell’insegnamento".

 

Chi erano e che età avevano i suoi alunni fra i detenuti comuni e i detenuti "protetti"?

"L’età andava dai 18 ai 60 anni, con punte di 65. Si trovavano in carcere per le cause più varie: alcuni erano imputati di reati molto gravi, fino all’omicidio. I "protetti" sono una categoria a sé e bisognerebbe parlarne separatamente".

 

Qual è il ricordo forte dei primi giorni?

"Il numero dei cancelli che dovevo superare: 13. San Vittore è un carcere molto vecchio, per arrivare alle aule si percorrevano due raggi, in uno dei quali c’erano le persone appena arrestate: facevo ogni giorno una sorta di carrellata sulle celle e ne sentivo quasi fisicamente lo sconvolgimento. Altri penitenziari, Bollate o Opera o Padova, sono più sterilizzati: da visitatore si vedono poco le celle".

 

I reclusi sapevano che lei era uno scrittore?

"No, no. Lo hanno appreso successivamente. Devo dire che il detenuto apprezza l’uomo di cultura, se non è spocchioso e non recita parti da intellettuale o da onnisciente. Ho invitato giornalisti e scrittori: i miei alunni, ne avevo fino a 60-70, capivano al volo chi avevano di fronte. I reclusi hanno una capacità superiore alla media di interpretare gli interlocutori; forse per la condizione in cui si trovano sono comunque abituati a rapportarsi agli altri con particolare intensità e leggono con facilità modi di fare e retroterra psicologici".


Con quali difficoltà, insufficienze e problematiche, strutturali e umane, si è dovuto misurare?

"È particolarmente deleteria la mancanza di lavoro. E invece il lavoro dovrebbe essere fondamentale in un percorso di recupero. Non capire, nelle nostre istituzioni, che un carcerato già dopo una settimana dovrebbe cominciare a lavorare, ad avere un impegno, credo che dipenda da un impasto di incapacità, ipocrisia e confusione mentale. Le donne riescono a organizzarsi perché sanno autostrutturarsi: le celle femminili, non a caso, sono sempre ordinate. Gli uomini non ce la fanno a ricostruirsi rapidamente: avrebbero bisogno di un’attività, invece li si lascia lì…".

 

Che cosa le era insopportabile?

"La bruttezza del posto, i pochi spazi, una certa impreparazione del personale. Adesso forse le cose sono cambiate. Ma in Italia il personale resta troppo numeroso e poco qualificato".

 

Gli alunni erano sensibili ai suoi giudizi?

"Moltissimo. Ne ricordo uno che faceva finta di non avere un titolo di studio. Dopo tre mesi ho saputo che era uno studente universitario di lettere e aveva superato 11 esami su 22. Era dentro per traffico di droga. Si mostra va straordinariamente attento alle mie valutazioni".

 

Qualcuno le chiedeva i suoi libri?

"Me li hanno chiesti. La lettura di un libro è un esercizio molto complesso. Una cosa (fra le altre) che allora faceva veramente pena, a San Vittore, era la biblioteca. Adesso mi sembra che, anche altrove, ci siano stati notevoli miglioramenti".

 

Cercavano un abbandono, oltre le lezioni, un consiglio? Si confidavano? Che cosa le confidavano?

"Ero molto disponibile umanamente, ma non mi sentivo il loro confidente. Dialogavamo molto a fondo, emozionalmente. Ricordo due reclusi che avevano rinunciato a venire in classe perché mal sopportavano alcuni professori che volevano sempre parlare di carcere. Uno lo andai a recuperare in lavanderia. Un altro parlava sempre dei bambini che non poteva e, soprattutto, non voleva vedere per non influenzarli negativamente. Situazioni forti sotto l’aspetto emotivo. Una grandissima confidenza si creava con i temi: in quel caso i livelli di abbandono erano altissimi. Ma doveva esserci la mediazione dello scritto".

 

Ha incontrato persone intelligenti?

"Tante. I detenuti hanno una intelligenza media molto alta. Il problema è che l’hanno canalizzata in percorsi di forte trasgressività a causa di complesse dinamiche psicologiche, di storie familiari, di vicende particolari… anche di semplici casualità… Rispetto agli adulti che avevo avuto fuori, mi sembravano decisamente più in gamba anche se poco ordinati strutturalmente. Avevano una capacità di comprensione molto spiccata. Ho conosciuto peruviani, argentini, slavi, persone che parlavano cinque-sei lingue e che rivelavano una conoscenza del mondo assolutamente sorprendente".


Ha fatto anche l’esperienza della sconfitta?

"Non avevo grandi aspettative. Ho cercato di mettermi su un piano di umanità immediata, di proporre orizzonti culturali possibili, di sollecitare curiosità concrete. Non mi sono mai posto grandi obiettivi e quindi non ricordo di aver pr ovato grandi delusioni. Ho cercato di non confondermi con certi apprendisti stregoni che, con faciloneria, credevano di poter cambiare la realtà brutalizzandola e non rispettandola. Erano soprattutto educatori o insegnanti…".


Chi ha lasciato un segno?

"Vari carcerati. Non ho mai preso in considerazione l’aspetto penale, il loro rapporto con l’istituzione giudiziaria. A queste cose pensano l’avvocato, l’assistente sociale. L’insegnante deve tenersi fuori: rappresenta qualcosa di altro, di diverso, di più elevato. Se c’è un litigio tra un detenuto e un agente può cercare di calmare le acque, ma a livello immediato, personale. Non ho mai sollecitato rapporti coi detenuti, compiacendoli: questo genere di pietismo non mi appartiene. Mi sono fermato all’aspetto umano".

 

È questa la lezione?

"Sì. Ed è il motivo per cui coi carcerati bisogna essere chiari e fermi: ci sono regole sociali e chi le ha violate deve pagare il suo debito. Ma si dovrebbe anche avere la lucidità di prevenire certi reati, e tanta gente eviterebbe di entrare in galera. Alcune tolleranze sono eccessive: penso, per esempio, agli ultras negli stadi, che andrebbero fermati prima".

 

Insegnare in carcere l’ha arricchita?

"Come persona, moltissimo: ho un profondo senso di gratitudine. Come narratore, anche: ho scritto storie sulla galera e una raccolta di racconti che, tranne uno, non sono ispirati direttamente alla gente che ho conosciuto, per un senso di pudore, ma a quel mondo e a quelle situazioni umane. Sono contrario a libri come Io speriamo che me la cavo".

Castelli: 2 mila miliardi per costruire nuovi penitenziari

 

La Padania, 6 giugno 2004

 

"I soldi non ci sono, ma nei prossimi anni sarà possibile realizzare nuovi penitenziari per 2000 miliardi di lire. E a costo zero per la comunità". La quadratura del cerchio, e del bilancio, non è una missione impossibile per Roberto Castelli che, intervenendo ieri a Lecco alla cerimonia di riapertura del carcere di Pescarenico, ha annunciato il suo piano di rilancio dell’edilizia carceraria.
"Questa per me è una giornata molto lieta - ha detto il ministro della Giustizia - non solo perché sono nella mia città, ma anche perché posso constatare i risultati della "cultura del fare". Quando, in precedenza, avevo visitato questo penitenziario mi sono sentito a disagio perché non era degno della nostra civiltà. Oggi la differenza è sostanziale: finalmente si fa giustizia di quei luoghi comuni che dipingono le nostre prigioni come se fossero tutte la Cayenna. Dopo tre anni di lavori questa struttura si presenta completamente rinnovata. Un intervento portato a termine rapidamente, come non sempre accade: recentemente ho visto il carcere di un paesino della Calabria, lì è da vent’anni che stanno lavorando, avevano iniziato nel 1984".

Dopo il profondo maquillage che lo ha restituito alla città e al mondo civile, il penitenziario situato nel manzoniano rione di Pescarenico ha perso la sua sinistra "faccia da galera" e indossato i panni del "carcere modello".

Non per nulla al taglio del nastro il ministro e i vertici dell’amministrazione penitenziaria apparivano particolarmente compiaciuti, quasi orgogliosi, del risultato. Presenti, tra gli altri, anche il sindaco leghista di Lecco, Lorenzo Bodega, e l’on. Ugo Parolo, candidato del Carroccio alla presidenza della Provincia.

"La riapertura della Casa circondariale di Lecco Pescarenico - ha dichiaro Castelli - è un evento importante per la nostra città. La presenza dello Stato in una comunità locale, infatti, si caratterizza per alcuni segni distintivi, come i palazzi destinati all’amministrazione della giustizia e quelli dove avviene l’espiazione della pena. Oggi inauguriamo il carcere e tra non molto avremo un tribunale rinnovato e più funzionale. Mi sembrano due buone notizie per Lecco e il suo territorio".

"La rinnovata Casa circondariale - ha proseguito il Guardasigilli - garantirà ai detenuti la possibilità di espiare la pena in condizioni dignitose. Speriamo di aggiungere presto anche la possibilità di svolgere attività lavorative, per impiegare fruttuosamente il proprio tempo e al momento stesso di ripresentarsi recuperati e con nuove professionalità alla società civile".

Il carcere di Pescarenico non si presenta come una struttura all’avanguardia solo sotto il profilo della sicurezza, grazie all’adozione delle più moderne e sofisticate tecnologie (dai sistemi antiscavalcamento con barriere a microonde alla video sorveglianza), ma anche dal punto di vista del trattamento dei detenuti.

La ristrutturazione, che ha considerevolmente aumentato la capienza del complesso, ha consentito di dotare ogni cella di un bagno con doccia, acqua calda e presa elettrica, oltre a water e lavabo; è stato poi rifatto l’impianto Tv e realizzato un impianto per le chiamate d’emergenza. Ogni piano detentivo, inoltre, dispone di un "locale socialità" per le attività ricreative, mentre interventi migliorativi sono stati effettuati nel cortile di passeggio e nella sala colloqui. Sono poi state approntate, tra l’altro, una palestra e una cappella per il culto. Il costo complessivo delle opere, che naturalmente hanno interessato anche le strutture e gli alloggi destinati al personale della polizia penitenziaria, è di 13 miliardi e mezzo di lire: "Un intervento di ottimo livello anche sotto l’aspetto dei tempi e dei costi", ha commentato Emilio di Somma, vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

La disponibilità delle risorse resta il primo problema. "La Lombardia soffre di due record negativi - ha spiegato Castelli -: il maggior numero di detenuti rispetto alla capienza delle strutture e il minor numero di agenti. Nonostante le ristrettezze economiche, l’anno scorso siamo riusciti ad ampliare gli organici del personale di 400 unità, mentre è stata aperta una nuova sezione a Lodi e hanno ottenuto il via libera gli appalti di Bollate e Varese. Ora, la riapertura del carcere di Lecco allevierà la pressione su quello di Como.

E non ci sono solo le carceri, siamo attivi anche nell’edilizia giudiziaria: spero di posare presto una pietra al tribunale di Lecco, dopo averlo già fatto a Bergamo, e di assistere quanto prima all’inaugurazione del palazzo di giustizia di Brescia".

Castelli, ligio alla "cultura del fare" che è la filosofia della sua terra non si ferma davanti alle difficoltà economiche: "La necessità aguzza l’ingegno. Quando i soldi non ci sono, dobbiamo fare anche noi un po’ di finanza creativa". Così, all’insegna dell’intraprendenza , il Guardasigilli ha impostato il suo piano d’azione senza aspettare i tempi delle vacche grasse.

"Occorrono soluzioni innovative - ha detto Castelli - che ci consentano di operare. Nei prossimi anni saremo in grado di realizzare nuovi penitenziari per 2000 miliardi di lire, a costo zero per la comunità: ho già pronto un progetto che prevede la dismissione di vecchie strutture carcerarie inutilizzate, ottenendo così i fondi che servono e al tempo stesso la riqualificazione dei centri abitati". Sotto il Resegone, dalle parti di Roberto Castelli, da generazioni si sa fare di necessità virtù.

Castelli: i contribuenti non spenderanno 1 cent per nuove carceri


La Padania, 6 giugno 2004

 

Realizzare nuove carceri per 2000 miliardi di lire senza spendere un centesimo dei contribuenti: un progetto come quello di Roberto Castelli sembra un sogno ad occhi aperti, invece si dimostra molto concreto quando può contare su una buona idea e sulle persone giuste. E tra gli artefici del piano pensato dal Guardasigilli per dare slancio all’edilizia carceraria c’è Vico Valassi, ex presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili e presidente della Camera di commercio di Lecco.

 

Ingegner Valassi, qual è lo strumento individuato dal ministro della Giustizia per realizzare nuove carceri a costo zero?

"L’idea di Roberto Castelli è stata quella di costituire una società per azioni, la Dike Aedifica (Dike è il nome della dea greca della giustizia, ndr) controllata da Patrimonio dello Stato spa, che si prefigge di ricavare risorse dalla dismissione di istituti di detenzione non più utilizzabili e ancora di proprietà del Demanio. Gli introiti verranno destinati alla realizzazione di penitenziari moderni".

 

Chi è al vertice della Dike Aedifica?

"L’incarico di presidente è stato conferito al professor Adriano De Maio, rettore della Luiss. Io sono l’amministratore delegato. Ovviamente operiamo in sintonia con il ministro della Giustizia e con quelli dell’Economia e delle Infrastrutture". In

 

Italia attualmente sono circa 80 i vecchi penitenziari inutilizzati, verranno tutti conferiti alla vostra società?

"Per il momento stiamo lavorando su un campione di 11 immobili (secondo alcune fonti il loro valore complessivo si aggirerebbe sui 150 milioni di euro, ndr). In questi mesi sono in corso le operazioni di valutazione del ministero dei Beni ambientali. Diversi di questi immobili abbandonati hanno valore storico e architettonico, e sono situati in zone centrali: la loro riqualificazione comporterebbe anche evidenti ricadute positive per i centri cittadini. E, naturalmente, ricollocandoli sul mercato potremo acquisire quelle risorse da impiegare nella realizzazione di nuove carceri e cittadelle giudiziarie: un "circolo virtuoso" che porta evidenti benefici ai cittadini e alle casse dello Stato".

Aurelia: nessuna risposta alle richieste dei sindacati di P.P.

 

Il Messaggero, 6 giugno 2004

 

Dieci di giorni di protesta degli agenti di polizia penitenziaria e un’interrogazione parlamentare non sono serviti a niente. Al carcere di Aurelia si lavora nello stesso identico stato critico. Come ribadiscono i sindacati di categoria, al termine di un incontro tenuto l’altro giorno proprio per decidere come agire nell’immediato futuro, "i numeri parlano chiaro: 138 unità, pari ad un terzo della forza complessiva, mancano all’appello, nonostante l’ampliamento della competenza territoriale della Procura che ad oggi si estende sino al Comune di Fiumicino".

I rappresentanti delle varie sigle sindacali - Nunzi (Cgil Fp), D’Ambrosio (Cisl Fps), Nicastrini (Uilpa-pp), Somma (Sappe), Proietti e Consalvi (Osapp), Pierucci (Sinappe), Rivellini (Fsa), Rovai (SialpeAsia) e Sberna (Cisal Ffp) - hanno quindi deciso di rinnovare la richiesta di un incontro urgente agli uffici competenti, cioé provveditorato e dipartimento e, soprattutto, hanno indetto una giornata di manifestazione per il 17 giugno.

Quello indetto per venerdì, infatti, è saltato a causa della visita di Bush a Roma. Si farà un presidio permanente nel Provveditorato del Lazio. Ovviamente hanno confermato lo "stato di agitazione in tutte le sedi della Regione, centrali e periferiche, fino ad avvenuta convocazione delle parti per la definizione della controversia in atto".

"La gravosa situazione della carenza di personale - avevano spiegato all’inizio della protesta - non permette, a detta, dell’amministrazione locale del carcere di Aurelia, di poter garantire i diritti previsti dall’accordo quadro nazionale siglato il 24 marzo scorso presso il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.)". Ovvero, per gli agenti non è possibile andare in ferie, rispettare i turni di riposo e via dicendo.

Nel complesso penitenziario di Aurelia gli agenti in servizio sono 211 di cui 10 agenti donne a turno, a fronte di una pianta organica che invece prevede la presenza di 358 persone unità. Alcune agenti donne erano state distaccate al padiglione femminile di Viterbo, ormai chiuso, senza che le agenti ritornassero a Civitavecchia. Non solo: ci sono solo due educatori che dovrebbero garantire colloqui con oltre 500 detenuti. Come si può pensare quindi che i reclusi ricevano ciascuno l’attenzione dovuta. Ecco perché - ammettono gli stessi agenti - può accadere che nelle celle arrivi la droga o che si registrino casi di suicidio dietro le sbarre.

La situazione di disagio del personale (che si ripercuote anche sulla vita dei detenuti, inevitabilmente) era stata oggetto di un’interrogazione al ministro di Grazia e giustizia Roberto Castelli presentata dal parlamentare diesse Pietro Tidei, il quale chiedeva al guardasigilli quali provvedimenti intendesse prendere per la casa circondariale.

Vicenza: Ernest, dalla cella del San Pio X ai gol col Csi

 

Il Giornale di Vicenza, 6 giugno 2004


Era arrivato in Italia con regolare permesso di soggiorno 10 anni fa. Il nigeriano Ernest Port Onuawuchi, ora trentanovenne, aveva trovato un lavoro nella lavorazione del legno in una ditta del Padovano.
Ma qualcosa va storto. Entra nel giro dello spaccio delle droghe leggere e per la "soffiata" di un cliente, già in gattabuia, viene arrestato e condannato a 10 anni di carcere. Dal carcere di Padova viene quasi subito rinchiuso al S. Pio X di Vicenza.

Dopo un primo momento di difficoltà (superato grazie anche all’aiuto dei volontari coniugi Carmignato), Ernest inizia a lavorare all’interno del carcere manifestando una certa propensione per i lavori di giardinaggio. Chiede di prendere parte alle sfide calcistiche che il Csi-Centro sportivo italiano di Vicenza organizza dentro il S. Pio X. Ottiene poi di poter prendere parte alle gare sportive, sempre promosse dal Csi, fuori dalle mura: calcio, volley, atletica. Proprio in una di queste sortite Ernest incontra i ragazzi della società sportiva Spes di Settecà. Per Ernest le porte del carcere si aprono quindi per consentirgli di lavorare in una cooperativa di giardinaggio, un privilegio purtroppo che pochi reclusi hanno la fortuna di poter avere.

Dopo la sfida di volley e la cena insieme c’è un momento di confronto in cui il recluso racconta la propria vicenda senza falsi pudori. I ragazzi di Settecà restano colpiti dalla simpatia e schiettezza del negretto nigeriano ed attraverso il proprio dirigente Gianluca Cattin avanzano la richiesta al Csi di poter inserire Ernest nella propria squadra. Si chiede "che il signor Ernest Onuawuchi possa partecipare agli allenamenti della squadra stessa.

Questa richiesta - scrive il dirigente/giocatore Gianluca Cattin - nasce dal fatto che abbiamo avuto la possibilità di conoscere Ernest in occasione di alcuni incontri sociali e sportivi e potuto così apprezzarne le qualità morali. Ci farebbe quindi piacere invitarlo in modo continuativo. Si valuterà in seguito, a seconda dei desideri di Ernest e delle necessità della squadra, di tesserarlo per le partite di campionato, quantomeno casalinghe".

Enrico Mastella, presidente del Csi nonché responsabile per Vicenza del Progetto Sport-Carcere della legge regionale 663 - sotto l’egida dell’assessorato alle Politiche sociali della Regione - provvede a trasmettere la richiesta al magistrato di sorveglianza Lorenza Omarchi, al direttore del carcere Salvatore Erminio e agli educatori del S. Pio X.

La risposta che fa felice Ernest ed i ragazzi dello Spes Setteca arriva dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che concede al recluso Onuawuchi, ora in regime di semi-libertà, di poter posticipare il rientro, nei giorni di martedì e giovedì, al fine di poter prendere parte agli allenamenti di calcio a Settecà.

 

Ernest, contento di far parte di una nuova famiglia?

"Posso dire di aver trovato dei veri amici che non mi fanno pesare la mia condizione e con i quali ho costruito il dialogo e l’amicizia".

 

Qual è il suo ruolo in campo?

"Mi piace stare in attacco. Mi piace far gol, ma mi piace stare insieme con la gente. Per ora faccio soltanto gli allenamenti ma mi piacerebbe anche poter giocare in campionato".

 

Quanto è stato importante lo sport nel suo cammino di recupero in carcere?

"Non ho ancora espiato totalmente la mia pena ma ora sono in regime di affidamento alla casa famiglia dell’Istituto S. Gaetano. Lo sport, il calcio in particolare, è stata la mia ancora di salvezza perché ho conosciuto persone che hanno capito la mia situazione e mi hanno aiutato a tirarmi fuori".

 

Cattin, quali i motivi di questa scelta di aprire ai reclusi?

"Per rispondere al nome della nostra società Spes, che significa speranza, e perché abbiamo avuto modo di conoscere la realtà carceraria direttamente da coloro che la vivono ed abbiamo sentito la necessità di dare un segnale positivo e propositivo".

 

Presidente Mastella, da un quadriennio il Csi porta il messaggio sportivo entro le mura del San Pio X con che risultati?

"Con lo sport è possibile creare una tangibile interazione con il mondo esterno ed abbattere i pregiudizi che pesano sul carcere e sui reclusi. In questo quadriennio abbiamo trovato un fortissimo interesse e partecipazione da parte dei reclusi ed operato a cadenza settimanale in piena sintonia d’intenti con la direzione carceraria e con le società sportive del Csi".

Fossombrone: il cardinale Martino ha visitato i detenuti

 

Corriere Adriatico, 6 giugno 2004

 

Raffaele Renato Martino, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, è stato il primo cardinale della storia a varcare la soglia del carcere con la sua sezione a massima sicurezza e reclusi "pezzi da novanta".

"Sono stato invitato dal direttore e dal cappellano don Guido dopo quello che avevo detto in seguito all’arresto di Saddam". Parole che sono pesate come un macigno eminenza? "Parole che ripeterei, tenendo ben presenti le morti da lui provocate e le sofferenze da lui inflitte al popolo iracheno: mi ha fatto pena vedere quell’uomo distrutto, trattato come una vacca cui si controllano i denti. Ci avrebbero potuto risparmiare quelle immagini". È il primo porporato a visitare questo carcere.
"La Provvidenza guida sempre il nostro lavoro. Due giorni fa ero in Uganda. Ho partecipato alla marcia Macerata-Loreto ed ora sono qui con viva soddisfazione".

Eminenza: il "popolo di Dio" in cammino verso Loreto? "Quarantamila presenze... una bella cosa. Ho celebrato in Uganda messa su un’isoletta al cospetto di un milione di persone, un’esperienza impressionante".
Eminenza: ma davvero lei è anti americano? "No, ammiro quel popolo. Nel 1986 sono stato inviato a New York come osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite... ho solo criticato le scelte di un governo".

"Ho accettato volentieri l’invito a incontravi rivoltomi da don Guido Spadoni - ha esordito - anzitutto perché si tratta di una precisa consegna evangelica: "Ero carcerato e siete venuti a trovarmi", Gesù si identifica con il detenuto perché è una persona in posizione di particolare debolezza, la quale, pur privata della liberà , ha bisogno di essere pienamente rispettata nella sua dignità  indelebile, a prescindere dalle azioni che abbia potuto compiere. Sono sicuro che voi capite bene il valore della posta in gioco e che avete già  iniziato quel necessario cammino di conversione e di riconciliazione in grado di farvi assaporare la libertà  dei figli di Dio anche dietro le sbarre di questo carcere. La vostra attuale condizione nulla toglie alla vostra dignità  di persone umane: è un principio ben noto che va ricordato e sottolineato, poiché si avverte il rischio che sia dimenticato e contraddetto dentro le mura di un luogo di detenzione, come se le costruzioni e le limitazioni che caratterizzano la vita dei detenuti possano estendersi fino ad intaccare la loro dignità .

Bisogna opporsi con decisione a una simile deriva che, purtroppo, resta possibile anche nel quadro di ordinamenti giuridici in cui i diritti dell’uomo sono proclamati e tutelati. Come spiegare, per esempio, l’atroce ricorso alla tortura in Iraq? Il fatto che si sia potuto arrivare a tanto mostra come un inaccettabile concetto di sicurezza ispiri atteggiamenti e comportamenti del personale addetto agli interrogatori e alla sorveglianza dei detenuti. Dobbiamo riaffermare con forza che il fine non giustifica mai i mezzi: il rispetto della persona detenuta e dei suoi diritti è un principio fondamentale che caratterizza il grado di civiltà  di ogni sistema penale".

 

 

Precedente Home Su Successiva