Rassegna stampa 22 giugno

 

Livio Ferrari confermato per un anno presidente della Cnvg

 

Redattore Sociale, 22 giugno 2004

 

Il Consiglio direttivo della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, nella sua ultima riunione del 18 giugno scorso a Roma, ha affrontato la questione della nuova presidenza, visto il mandato triennale in scadenza per l’attuale presidente e fondatore, Livio Ferrari.

Dopo una lunga discussione e a fronte di diverse proposte che sollecitavano la riconferma dello stesso per un altro triennio, vista la posizione assunta da Ferrari che ribadiva la sua volontà per un ricambio, alla fine approvava all’unanimità la sua riconferma alla guida dell’Organismo nazionale solo per un altro anno, tempo necessario per fare un percorso di preparazione alla nuova presidenza.

"E’ fondamentale mantenere un atteggiamento di servizio e gratuità anche alla guida delle grandi organizzazioni nazionali. – ha affermato il presidente Ferrari – Due mandati sono un limite di garanzia per la democraticità delle politiche espresse e una risorsa affinché ci siano sempre nuove e diverse energie che diano linfa alla Conferenza Giustizia".

Livio Ferrari traghetterà pertanto anche la prossima Assemblea nazionale del 21, 22 e 23 ottobre prossimi a Roma, la terza nella storia di questo movimento di volontariato che ha raccolto le diverse associazioni nazionali che operano nel volontariato del carcere, per i diritti umani, nella legalità contro la criminalità organizzata, con organismi e strutture in tutte le regioni italiane.

Convenzione con "Dike Aedifica" per patrimonio immobiliare

 

Ansa, 22 giugno 2004

 

Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, e il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Pietro Lunardi, hanno sottoscritto oggi presso il ministero di Via Arenula una convenzione con la Dike Aedifica, società costituita allo scopo di valorizzare il patrimonio immobiliare di pertinenza dell’amministrazione della Giustizia.

"Attraverso questa convenzione - si legge in una nota del ministero della Giustizia - alla Dike Aedifica saranno attribuite le risorse derivanti dalla vendita dei primi penitenziari dismessi che saranno utilizzate per la costruzione di nuove carceri, per il rifacimento o la ristrutturazione di immobili esistenti e per l’acquisizione di nuovi immobili. Questo - continua il ministero - consentirà di accelerare i tempi di adeguamento e rinnovo, oltre che delle strutture penitenziarie, anche di quelle destinate all’amministrazione della giustizia".

I ministri Castelli e Lunardi si sono dichiarati soddisfatti della firma congiunta di questa convenzione: "questa iniziativa, che ha un forte carattere innovativo e che ha visto protagonista anche la società Patrimonio, porterà alla valorizzazione di diverse strutture penitenziarie non più adeguate ad ospitare detenuti ma che talvolta presentano notevoli pregi storici ed architettonici e che potranno quindi essere restituite alle città. Con le risorse ottenute dalla vendita di tali strutture saranno reperiti, a costo zero per lo Stato, i mezzi finanziari per la realizzazione di nuovi istituti penitenziari per adulti e minori di tribunali".

Cagliari: i bambini ricostruiscono la vita dei carcerati

 

L’Unione Sarda, 22 giugno 2004

 

La vita nella colonia penale di Castiadas. Questo il tema scelto e rappresentato sul palco dagli studenti della prima, seconda e quarta delle scuole elementari di Olia Speciosa. Lo spettacolo che si è tenuto a fine anno è il frutto di un progetto di cultura sarda portato avanti dalle maestre in collaborazione con alcuni esperti del settore.

I bambini hanno rappresentato come venivano messe le matricole ai carcerati, come venivano incatenati, come il personale sanitario effettuava le visite mediche ai carcerati e le giornate in cui le famiglie e i parenti si recavano nell’istituto di pena per incontrare i detenuti.

Oltre alla sezione teatro curate da Mario Fulghesu e Vincenzo Porcu, è stato promosso anche il settore danza (curato dal Alessandro Loddo) e quello musicale seguito dal maestro Atzori. Insomma, una bella rappresentazione a cui hanno partecipato con passione anche i genitori degli alunni. Sono state le mamme a cucire e tagliare i costumi di scena.

È stato inoltre il maestro Sandro Frau di San Vito a creare la colonna sonora dello spettacolo "La vita nella colonia penale di Castiadas". Un appuntamento che Castiadas e i suoi abitanti sembrano aver accolto con entusiasmo. Il pubblico è infatti accorso numeroso a incoraggiare i piccoli attori.

Roma: libro di memorie del cappellano di Regina Coeli

 

Corriere della Sera, 22 giugno 2004

 

Che cos’è Regina Coeli? "La moglie da cui è difficile separarsi...", ha sintetizzato scherzosamente padre Vittorio Trani ieri in Campidoglio, al margine dell’affollata presentazione del suo libro di memorie. Ricordando che nonostante tanti progetti di trasformazione l’affollato carcere con i suoi mille detenuti è ancora lì al suo posto. Il sindaco Walter Veltroni, complimentandosi con l’opera del sacerdote, ha ricordato che "raccontare è la condizione perché ci sia una comunità".

E raccontare un posto come il carcere di Regina Coeli "dove tra i detenuti ci sono circa 60 paesi di origine" è oggi più che mai un dovere, perché se è giusto che chi compie violenze paghi, "è altrettanto necessario capire da dove sia nato il percorso che ha portato a quelle violenze". Per Veltroni il libro è "una denuncia dell’emarginazione che si vive in carcere".

Il direttore di Regina Coeli, Mauro Mariani, ha ricordato uno dei suoi primi incontri con padre Vittorio quando il cappellano gli si è presentato all’improvviso davanti per chiedergli di celebrare il Giubileo in carcere. Padre Vittorio "non era né matto né ubriaco", ha aggiunto il direttore.

"Ho imparato allora a conoscerlo piuttosto come uno che con stile sobrio e pacato pone questioni fondamentali". Per Mariani padre Vittorio è "una presenza e una garanzia in carcere, una persona che sa stare vicino agli altri".

A raccogliere il suo pensiero è stato Herald Editore, la casa editrice in cui lavorano quattro detenuti: due i titoli già editi, un terzo in arrivo (il libro fotografico di Pino Rampolla su Regina Coeli).

Lucciole di ritorno: inchiesta sui rimpatri forzati

 

Repubblica delle Donne, 22 giugno 2004

 

Cosa accade alle donne in situazione di tratta espulse dal nostro paese? Cosa le aspetta in patria? E quante finiscono per tornare in tempi brevi in Europa? Fermate in strada. Portate in caserma. Processate per direttissima. Espulse come clandestine. E poi? Che cosa succede, una volta tornate in patria alle prostitute?

 

Stella siede in un bar di Marsiglia. Il suo sfruttatore ora la fa lavorare qui, in Francia. Lei è moldava. Bionda, occhi castani e irrequieti, ha poca voglia di parlare: "Ormai me la so cavare bene sulla strada. La mia pelle sembra morbida, invece è molto dura. So come trattare il mio lavoro".

Quasi sempre senza documenti, e con qualcuno che le sfrutta, delle prostitute straniere sappiamo quel po’ che vediamo e che leggiamo – le strade in cui lavorano, e le cronache locali che raccontano dell’ultima retata. Sappiamo anche che una volta fermate e identificate come "clandestine" (in Italia non esiste il reato di prostituzione) non sempre vengono "rispedite" a casa (come ci insegnano anche le recenti polemiche sull’inapplicabilità di alcune parti della legge Bossi-Fini). Se esistono stime sul numero di quante donne, in gran parte straniere, lavorano sulle strade d’Italia (circa 25 mila secondo una ong che si occupa del fenomeno, la Parsec) non esistono invece dati sul numero delle espulsioni effettuate. Il Ministero dell’Interno fornisce una sola cifra: 65.153 "immigrati" allontanati dal territorio nazionale nel 2003, senza distinguere tra uomini e donne e senza specificare se si tratta di semplici ingiunzioni o di rimpatri effettivamente avvenuti.

Ma ciò di cui sappiamo ancora meno è che cosa accade alle straniere espulse una volta rientrate in nei Paesi d’origine. Poche cose sono certe, e tra queste una: spesso ritornano. Il più delle volte il viaggio riprende direttamente dagli aeroporti delle capitali in cui sono appena atterrate: Lagos, Nigeria; Chisinau, Moldavia; Tirana, Albania. Non passano neppure "da casa": questa, quando esiste, troppe volte ha la porta sbarrata da una famiglia capace di accettare i soldi "sporchi", ma non le figlie o le sorelle che quei soldi se li sono guadagnati.

Stella ora racconta. Il suo primo padrone, un rumeno, una volta l’ha data anche "in affitto" a due albanesi, in Costa Azzurra. Contava di sposarla in Olanda, ma invece l’ha fatta tornare in Veneto, vicino Verona. "Mi mandano sempre dove c’è più movimento", spiega lei. I patti sono chiari, le giornate dure. "Ma guardo avanti", dice, "e so che un bel momento tutto questo finirà, che avrò anch’io una vita decente. Intanto mando a casa i soldi regolarmente, 200 euro al mese. E di questo sono molto orgogliosa: quei soldi alla mia famiglia servono davvero".

In suo odiato posto in strada, a un certo punto anche Stella ha dovuto lasciarlo. Costretta a tornare in Moldavia. Per poco. Un anno fa, fermata durante l’ennesima retata, dopo un processo per direttissima è stata espulsa dall’Italia "con ordine di allontanamento coatto". Quel giorno l’espulsione è toccata solo a lei. Le altre, pur non essendo in regola con i documenti, hanno avuto sanzioni meno pesanti. L’aereo partiva da lì a poco (spesso le retate sono organizzate in coincidenza con posti disponibili sui voli) e Stella non ha avuto neppure il tempo di andare in quella che chiama "casa mia", due stanze da dividere con altre due ragazze e due sfruttatori: "Non avevo niente con me", ricorda, "solo i vestiti che indossavo e la borsetta. Sono arrivata all’aeroporto di Chisinau senza un soldo in tasca. Ho lasciato tutto in Italia, le mie fotografie, le mie cose… Chissà che fine hanno fatto, avevo chiesto a un’amica di conservarle". Anche se le espulsioni effettivamente eseguite sono piuttosto rare rispetto al numero di prostitute fermate, negli ultimi anni sono diventate molto più veloci grazie agli accordi di riammissione stipulati con alcuni dei Paesi da cui provengono gli immigrati.

Fermate in strada, come è accaduto a Stella, le donne passano la notte in un commissariato o in una caserma dei carabinieri, dove vengono divise a seconda della nazionalità. Impronte digitali, foto segnaletiche, esame di eventuali cicatrici o tatuaggi. Se la persona fermata ne fa richiesta, può firmare una dichiarazione in cui afferma di essere vittima della tratta: in tal caso vengono contattati gli operatori sociali che si occupano di assisterla in attesa di ulteriori accertamenti. Le donne, "clandestine", che invece non si avvalgono di questa possibilità, in 48 ore possono ricevere il decreto di espulsione ed essere caricate sul primo volo disponibile. Stella, come la stragrande maggioranza delle sue colleghe, non ha firmato nulla, per paura di ritorsioni. E ha preso quel volo.

Tra i Paesi di forte emigrazione verso l’Italia, la Nigeria è forse quello da cui giungono più notizie circa le modalità di rimpatrio. Secondo fonti del governo di Lagos, quelli effettuati da Paesi come Italia, Francia, Spagna, Olanda e Repubblica Ceca, riguardano quasi sempre donne, e quasi tutte, prostitute. Il numero è andato crescendo di anno in anno: secondo i dati forniti dall’Unicri (Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia) otto anni fa solo 10 persone risultavano essere state espulse da qualche Paese europeo verso la Nigeria; nel ‘99 erano diventate 225, l’anno successivo 1.092. L’ultimo dato disponibile riguarda il 2002: 1.608 persone rimpatriate, ben 632 erano state espulse dall’Italia, 592 le donne.

Nessun dato giunge invece dalla Moldavia. Sappiamo però che qui le persone rimpatriate rischiano di essere accusate del reato di attraversamento illegale di frontiera, anche se per loro il terrore vero si chiama polizia. Una volta superato l’ostacolo, si può facilmente sparire nel nulla. Il che vuol dire, nella maggior parte dei casi, venire riassorbite dal "giro" dei trafficanti. Può accadere anche appena sbarcate: qualcuno, portafoglio alla mano, si presenta alle autorità di frontiera e dice di essere parente della ragazza. Stella è stata "recuperata" così, con un po’ di soldi passati sotto banco a un agente della polizia aeroportuale. Ricorda: "Appena scesa a Chisinau, ho capito che mi sarei trovata assai peggio di quando ero partita. Avrei dovuto ricominciare tutto da capo". Ha deciso di tornare subito "in Europa". E lo ha fatto come la prima volta: via terra.

Stella era partita anni fa da Rezina, un paese della Moldavia vicino al confine con l’Ucraina, su consiglio di un’amica. "Con due fratelli piccoli e mio padre senza lavoro, non c’era altro da fare", spiega. L’amica le aveva presentato una conoscente, appena tornata da Milano: parlava di guadagni facili, buoni e soprattutto rapidi. Come tante altre ragazze, Stella pensava che avrebbe dovuto essere ingaggiata per fare solo l’eintraineuse. Ricorda ancora: "Credevo che la mia bellezza e il mio modo di essere, di comportarmi, mi avrebbero aiutata a stare lontana dai guai. E confidavo nel fatto che sarei riuscita a non dover fare più di tanto ai clienti. Fantasticavo. Pensavo a quanto sarebbe stato bello imparare una nuova lingua. E speravo di trovare un fidanzato: la mia prima storia d’amore era finita molto male, due anni prima".

Partita in autobus, passando da Timisoara, in Romania, Stella arrivò in Italia e aprì gli occhi. Da Milano fu portata in Veneto, minacciata da due uomini e affidata alle istruzioni di una donna più esperta, un’ucraina, che la controllava a vista. Era in trappola, certo, doveva ripagare "l’organizzazione", ma poteva anche cominciare a mandare un po’ di soldi a casa ai suoi. E lavorava in strada, sì, ma negli ultimi tempi aveva cominciato a portare i clienti anche in piccole stanze d’albergo.

La sua giornata di lavoro finiva solo quando aveva raccolto 400 euro. Altrimenti erano urla, docce gelate, botte, occhi neri. "Una volta mi hanno spaccato una sedia sulla schiena", racconta, "ma sono stata fortunata, ho sentito di trattamenti ben più terribili. Comunque, ormai ho imparato a evitare le violenze peggiori: so che vengono usate come prova di forza, per dare l’esempio alle altre ragazze, alle "nuove"". In Italia Stella ha imparato anche altre cose: a trovare i clienti, a "non fare storie", soprattutto "a non chiedere mai niente". Sapeva bene che, in caso contrario, i suoi padroni si sarebbero potuti stancare e l’avrebbero data ad altri, venduta, facendole ricominciare tutta la trafila in un’altra città o in un altro Paese: nuove violenze e un nuovo debito da pagare. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite che studiano il fenomeno, una prostituta che lavori in strada "vale" fra i tremila e i settemila euro. Soldi anticipati dall’acquirente e che a lui vanno restituiti: a rate, e con forti interessi.

Tornare a casa? Restarci, una volta espulse? Domande vuote. "Il desiderio di tornare", dice Stella, "dipende da che cosa si è lasciato a casa". Il suo non è un caso isolato. Il più delle volte le ragazze rimpatriate non provano neppure ad andare dalle loro famiglie. Senza un soldo in tasca, non hanno nulla di buono da portare a casa. Sono partite per migliorare la propria condizione, tornano senza valigia e con un carico di sofferenze in più. Ci avrebbe voglia di occuparsi delle loro crisi depressive? Flavia Piperno, ricercatrice, lavora per il Cespi (Centro studi di politica internazionale) in Albania. Si occupa di ciò che gli studiosi del fenomeno chiamano "l’impatto del ritorno". Racconta: "Fra i rimpatriati uomini, quasi tutti ex detenuti, e le donne, quasi tutte ex prostitute, non c’è confronto: le donne vengono molto più stigmatizzate. Quelle che tornano al paese dall’Europa o dall’Italia, senza aver fatto fortuna, cioè non visibilmente ricche, molto spesso sono viste come una vergogna. Capita che vengano rifiutate anche dalle loro stesse famiglie. Alcune madri non riconoscono più le figlie, non le accettano. Oppure, se le fanno rientrare in casa, non le fanno più uscire, le tengono chiuse dentro. Perché sono una vergogna".

Il fallimento di chi ritorna è totale: il sacrificio non è valso a nulla. Ma anche quando la famiglia è disposta ad accoglierle, tornare per loro non è mai facile. Di nuovo, Stella: "Io non avevo paura di ciò che avrebbe potuto dire la gente, non me ne è mai importato nulla. E i miei mi hanno sempre capito, in questo. Il punto è un altro: che ci torno a fare a casa? Chi li manda, i soldi? Se non c’è lavoro, se non c’è fortuna, lì trovo solo disgrazie. E la mia vita non potrà mai andare bene". La prima volta, aveva scelto di partire non sapendo dove sarebbe arrivata. Ora conosce bene la situazione, e no ha più illusioni. Ma, ne è certa, neppure alternative.

Il tema della vergogna e del rifiuto da parte della società d’origine nei confronti delle giovani prostitute ritorna con forza in Paesi dalle culture tra loro diversissime. Tanto in Nigeria quanto in Albania, l’atteggiamento è sempre stato lo stesso: disprezzo. Solo ultimamente, e grazie alle pressioni internazionali, le cose stanno lentamente migliorando. Fino a pochi anni fa, non appena atterrate a Logos, le prostitute nigeriane venivano innanzitutto sottoposte a esami medici per verificare che non fossero portatrici di malattie a trasmissione sessuale.

Poi, prima di essere rilasciate e abbandonate a se stesse, potevano ricevere quelle che le autorità descrivevano come "punizioni esemplari": tra queste una sorta di "sfilata" (a volte addirittura trasmessa in tv) per le strade della capitale o della propria città. Dal luglio dell’anno scorso il governo nigeriano ha invece varato una nuova legge che, punendo il traffico e lo sfruttamento della prostituzione, almeno sulla carta dà diritto alla donna di essere riconosciuta come vittima. È stata anche istituita un’agenzia governativa, la Naptip, che combatte il traffico di essere umani e che riunisce rappresentanti delle forze dell’ordine, della magistratura e delle organizzazioni non governative locali. All’agenzia fanno riferimento tutte le organizzazioni internazionali che difendono i diritti delle donne e che si occupano della loro assistenza. Non è molto, ma è già tanto.

In Albania, solo fino a pochissimi anni fa, il fenomeno delle prostitute rimpatriate veniva semplicemente ignorato dalle autorità. E sì che nel ‘99, nel periodo di massimo "splendore" della tratta, lo stesso vice ministro della giustizia albanese, Arta Mandro, stimava in almeno 30 mila il numero di donne albanesi finite nel mercato della prostituzione europeo. All’epoca, tuttavia, ufficialmente il governo si rifiutava di riconoscere l’esistenza stessa del problema e per le ragazze espulse dall’Europa non esisteva alcun meccanismo di sostegno. Spesso erano accusate di avere violato le leggi sull’emigrazione e condannate per questo a scontare fino a due anni di carcere.

Solo negli ultimi anni la mobilitazione delle organizzazioni internazionali e di alcune Ong è riuscita a far sì che l’attuale governo in carica prendesse un altro tipo di provvedimenti. E così, attraverso il coordinamento tra la polizia di frontiera, incaricata d controllare le identità delle rimpatriate, e l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) è stato messo in moro un primo meccanismo di assistenza.

Nonostante in alcuni Paesi siano stati fatti non pochi passi in avanti, il problema della tutela delle prostitute rimpatriate resta, in tutta la drammaticità. Anche laddove aumentano le possibilità di ricorrere a canali di assistenza, nella maggioranza dei casi le vicende relative alle ex prostitute continuano a risolversi in modo "privato": una volta esauriti i controlli da parte delle autorità, le ragazze restano sole, alla mercé degli "amici degli amici". Dalla sola Nigeria, secondo uno studio dell’Unicri pubblicato l’anno scorso, si stima che nel giro di sei mesi al massimo circa la metà delle ragazze rimpatriate torni di nuovo in Italia.

Stella, partita dalla Moldavia per la seconda volta, chi ha messo anche meno. Pochi giorni. Come tante altre ragazze, oggi vive il ricatto della clandestinità. Ma non solo. Segnalata dalle polizie di più Paesi, ha anche un nuovo debito da saldare ai suoi sfruttatori: il secondo viaggio di sola andata. Lavora molto, tra Marsiglia e Tolone, e non sarà lei a scegliere se e quando vorrà andarsene. Saranno i suoi padroni a decidere se dovrà tornare in Italia o trasferirsi in Belgio, in Olanda, in Germania. Oppure sarà la polizia, e un tribunale, a pensare che forse è giunto il momento di ritornare a Chisinau. Di certo lei è ancora bella e ancora molto forte. Ubbidirà. Chissà fino a quando.

Perugia: seminario su rapporto tra carcere formazione e lavoro

 

Redattore Sociale, 22 giugno 2004

 

Dall’ultima rilevazione della popolazione carceraria effettuata dal Ministero della giustizia nel giugno 2003, le persone recluse nei 5 penitenziari umbri risultavano 1001, di cui 315 a Terni, 318 a Spoleto, 59 al carcere femminile di Perugia e 192 al maschile, 117 a Orvieto.

La percentuale di stranieri reclusi a Perugia e Terni era del 51,4 per cento, mentre complessivamente la percentuale di donne straniere recluse era del 6 per cento. Alta la presenza di tossicodipendenti pari circa al 40 per cento della popolazione complessiva. "La lettura di questi dati deve orientare verso percorsi che coinvolgono le istituzioni e il mondo del privato sociale in una rete di sostegno all’integrazione di queste persone.

La Regione Umbria, con la legge regionale 11/03, detta disposizioni sulle politiche del lavoro e della formazione e prevede interventi a favore fasce deboli, come i detenuti": lo ha ricordato Fabio Landi, direttore dell’Aul, Agenzia Umbria Lavoro, che ha organizzato a Perugia un seminario sul tema formazione, lavoro e carcere dal titolo "Analisi dei fabbisogni formativi e definizione di modelli di intervento a favore della popolazione carceraria" (l’iniziativa si inserisce nell’ambito delle attività di ricerca affidate all’Aul dalla Regione per orientare le scelte del Patto per lo sviluppo dell’Umbria e l’occupazione).

"Il carcere di oggi - ha evidenziato Landi - è un grande contenitore di marginalità che, non sempre, privilegia programmi di formazione finalizzati alla rieducazione ed al reinserimento lavorativo dei detenuti. Tra le problematiche della realtà carceraria umbra c’è anche quella della multiculturalità dei detenuti, che impone un piano di reinserimento lavorativo raccordato con altre regioni e Stati, affinché sia realmente utile a favorire una collocazione futura dei detenuti nel Paese di provenienza".

Quindi è urgente "superare la dimensione nazionale per avviare pratiche di formazione utili al reinserimento lavorativo dei detenuti". Proprio per avviare un lavoro in chiave comunitaria e un confronto con altre realtà europee l’Aul ha chiamato a raccolta operatori ed esperti italiani, inglesi e spagnoli, che hanno riportato le esperienze degli istituti penitenziari in cui operano. "Oltre la metà dei detenuti nelle case di reclusione di Perugia e Terni sono stranieri - ha riferito Landi - e, a questi soggetti, bisogna proporre la giusta formazione per trovare lavoro nel Paese d’origine.

Sinora sono state avviate iniziative frammentarie prive di una regia. E’ ora di lavorare sulla programmazione della formazione, senza trascurare le peculiarità della popolazione carceraria umbra caratterizzata anche dalla presenza di istituti di pena per lunghe detenzioni. In questi casi - ha aggiunto - bisogna individuare percorsi finalizzati alla rieducazione". Durante l’incontro è stato anche evidenziata la necessità di sensibilizzare le imprese per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti in semi-libertà, "affidato, per ora, quasi esclusivamente alle cooperative sociali".

Benevento: detenuti diventano arbitri di calcio

 

Vita, 22 giugno 2004

 

Domani 23 Giugno presso la Casa Circondariale di Benevento, si concluderà il primo corso per arbitri di calcio per detenuti organizzato dall’U.S. Acli di Benevento e dalla sezione provinciale Aia. Antonio Meola presidente regionale U.S. Acli promotore della iniziativa "un goal per la vita" torneo interno tra le varie sezione dei detenuti, giunto alla terza edizione, "sono grato a Vincenzo Caldora presidente Aia Bn e ai suoi collaboratori per l’impegno profuso in questo progetto, nell’anno dedicato allo sport, mi piace ribadire la valenza educativa intrinseca nel progetto, e sono soddisfatto del risultato che è stato raggiunto.

"Una sperimentazione importante, ha dichiarato Caldora, primo esempio in Italia, volta al perseguimento di un programma di rieducazione e crescita. Uno stimolo concreto per rendere applicatore di regole sul terreno di gioco coloro che nella vita sono stati trasgressori"

La commissione formata dal presidente Francesco Castracane, Mario Savoia, Vincenzo Caldora e Daniele Mazzulla e dal vice presidente Acli di Benevento Filiberto Parente, ha esaminato dieci detenuti della Casa Circondariale di Benevento, che potranno indossare la divisa arbitrando tornei amatoriali organizzati dall’ U.S. Acli. Le prove si sono articolate in una scritta su test tecnici e un successivo colloquio su tutte le 17 regole del giuoco del calcio, appreso dagli stessi detenuti con lezioni bisettimanali tenute da lo staff Aia di Benevento.

Il presidente della commissione giudicante Castracane ha manifestato vero entusiasmo per i risultati conseguiti dai discenti, complimentandosi innanzitutto con i neo arbitri, ed anche con i docenti, che sono stati bravi nel trasmettere la passione per le regole del gioco e per la funzione da svolgere. La consegna della divisa ufficiale e del materiale necessario, avverrà domani, mercoledì 16 giugno alle ore 11/00 presso la Casa Circondariale di Benevento.

Alla manifestazione conclusiva hanno dato la loro adesione Massimo De Santis arbitro di serie A, Liberato Esposito, componente del Comitato Nazionale Aia, il presidente Nazionale delle U.S. Acli Alfredo Cucciniello, Enzo Pastore segretario del comitato regionale Figc, Avv. Domenico Giulio Iacoviello, consigliere regionale Figc, Gianni Varricchio presidente Figc Bn, il direttore della Caritas Diocesana Mons. Vincenzo Capozzi, le autorità politiche locali in rappresentanza del Comune di Benevento Avv. Lucia Catalano e per la Provincia di Benevento dott. Giuseppe Lamaparelli delegato per lo sport, Sergio Tanga presidente provinciale delle Acli, Filiberto Parente vice presidente Acli e Antonio Meola presidente regionale dell’U.S. Acli Campania e Giuseppe Baccari per il Coni di Benevento. Il progetto è stato coordinato dal Direttore della Casa Circondariale dott. Liberato Guerriero.

Un ringraziamento va al Comandante della Polizia Penitenziaria Roberto Reale, all’educatrice Patrizia Fucci, e all’Ispettore Area Trattamentale Sica Angelo e al sovrintendente Raffio Vincenzo, e all’ assistente capo responsabile del corso per arbitri, Vincenzo Fiorenza per la fattiva collaborazione.

 

 

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