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Treviso: Fp-Cgil Veneto su drammatica situazione minorile
La situazione negli istituti penali minorili è pesantemente condizionata dal problema del sovraffollamento e dalla carenza di risorse conseguente ai pesanti tagli di spesa prodotti dalle leggi finanziarie degli ultimi anni. I dati ufficiali ci dicono che la popolazione minorile detenuta è passata dalle 1476 unità del 2002 alle 1581 del 2003 con una fetta consistente di minori stranieri. Oltre la metà sono detenuti in attesa di primo giudizio mentre circa il 50% è costituito da giovani che pur avendo compiuto il diciottesimo anno di età permangono nelle strutture detentive minorili fino al compimento dei 21 anni, avendo commesso il reato quando erano minorenni. Sono dati che sembrano in netta controtendenza con quelli evidenziati alla fine degli anni 90, tempi in cui si parlava di chiusura delle carceri minorili causa la diminuzione degli ingressi e l’aumento del ricorso alle misure alternative alla detenzione. La fotografia che emerge dalla condizione attuale delinea contorni di strutture affollate, fortemente eterogenee sia per le molteplici appartenenze culturali dei detenuti che per la compresenza di diverse generazioni: adulti e minori infatti convivono nelle stesse strutture. Scendendo nel particolare, si registra una distribuzione del fenomeno tra le diverse regioni alquanto marcata. Infatti circa il 40% dei detenuti minori si trova nelle strutture del Nord, area geografica in cui sono presenti tre istituti penali del tutto insufficienti a contenere un numero così elevato di detenuti. Tale condizione viene fronteggiata col ricorso sistematico al trasferimento di minori dal nord soprattutto verso il sud. Poche strutture quindi che lavorano con risorse umane del tutto insufficienti, sia per quel che concerne l’area sicurezza che quella pedagogica. Non parliamo del personale amministrativo che molto spesso è costituito da lavoratori a tempo determinato (con contratto in scadenza al 31 dicembre di quest’anno) e da una quasi totale assenza di ragionieri. Non è difficile immaginare quali siano le conseguenze prodotte dai tagli di spesa su questi contesti così già di per sé precari. Tagli e ritardi nei pagamenti stanno producendo situazioni preoccupanti per quanto riguarda l’assicurazione di servizi essenziali relativi alle prestazioni infermieristiche, alla fornitura di pasti, agli interventi di mediazione culturale per gli stranieri. A nostro giudizio, nei mesi scorsi l’attenzione sulla giustizia minorile si è concentrata in via troppo esclusiva sul disegno di legge Castelli, giustamente messo in quarantena. Tuttavia, l’impennata degli arresti e delle detenzioni, il ricorso frequente alle custodie cautelari in carcere, l’aumentato tempo di permanenza in carcere dei minori, sono elementi che di fatto si possono ricondurre ad alcuni articoli di quel disegno di legge. Non vorremmo che quel progetto uscito dalla porta sia comunque rientrato di fatto dalla finestra. Non vorremmo che le pratiche della tolleranza zero, che si accanisce contro la criminalità dei poveri tollerando quella dei ricchi (ben assistiti da famosi studi legali) abbia messo piede anche nel nostro paese che in materia minorile continua ad avere la legislazione più all’avanguardia d’Europa, sul piano civile, e uno dei tassi più bassi di criminalità minorile. Ne va di mezzo la professionalità intera di un settore di lavoratori che si è sempre contraddistinto per competenze nel trattamento di una fascia di giovani così delicata. Ne vanno di mezzo le politiche giovanili che nel nostro paese hanno messo la prevenzione al primo posto e la repressione dei reati mai come strumento fine a sé stesso ma come recupero della persona. Ne va di mezzo il grado di civiltà raggiunto dal nostro paese che anche da settori come questo ne viene determinato. E in questo momento, i segnali non sono certamente tranquillizzanti.
Gianpietro Pegoraro, coordinatore Regionale Veneto Fp-Cgil Penitenziari In carcere entra un "esercito" di 8 mila volontari
Vita, 21 giugno 2004
I volontari regolarmente autorizzati dalle autorità carcerarie sono presenti nel 92% degli istituti penitenziari del nostro paese. Una popolazione carceraria di oltre 54 mila detenuti, 201 strutture detentive in tutte le province italiane, quasi 8 mila tra volontari e operatori di cooperative sociali. Sono questi i dati diffusi dalla Conferenza nazionale del volontariato di giustizia che, in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha presentato presso l’ex Hotel Bologna di Roma la terza rilevazione nazionale sul volontariato penitenziario. Uno studio dal quale emerge, tra l’altro, che attualmente il rapporto tra detenuti ed operatori esterni è di 7 ad uno, con forti oscillazioni tra le diverse aree geografiche del paese, con una situazione più favorevole al centro (4 detenuti per operatore non istituzionale) e quella meno del Sud dove si arriva a 14 detenuti per ogni operatore. Ma dallo studio emerge anche che la presenza esterna al carcere si tinge sopratutto di rosa con una prevalente presenza femminile (52,6%) che nel mezzogiorno raggiunge quasi il 60%. I volontari regolarmente autorizzati dalle autorità carcerarie sono presenti nel 92% degli istituti penitenziari del nostro paese e svolgono una attività di segno molteplice. Innanzitutto, emerge dal rapporto, i volontari nelle carceri si occupano di sostegno morale e psicologico ai detenuti ma anche di aiuto pratico. Rilevante anche l’attività di tipo religiosa, di animazione socio-culturale, accompagnamento per licenze o uscite premio e funzione "ponte" con il territorio e la propria famiglia. Definita "importante" anche l’attività formativa e la consulenza giuridica. Il rapporto conferma il problema del sovraffollamento carcerario e lo stato di abbandono in cui versano "dal punto di vista dell’umanizzazione dell’internamento - ha spiegato oggi uno degli estensori del documento, Renato Frisanco - 4 dei 6 ospedali psichiatrici giudiziari mentre l’apertura agli stimoli esterni dipende ancora troppo dalla figura del direttore, che può essere diversamente illuminato". Nuoro: i detenuti chiedono un po’ di dignità
Il Manifesto, 21 giugno 2004
Lettera al giornale. "I detenuti della prima sezione del carcere di Nuoro segnalano che la struttura di questo istituto è vecchia e decadente (a dir poco obsoleta), all’interno dell’istituto regna l’anarchia totale, il detenuto è abbandonato a se stesso. La cosa più angosciosa che il gabinetto è scoperto e si è costretti ad espletare i bisogni corporali sotto la vista dei compagni che occupano la stessa cella, ciò ci toglie quel briciolo di dignità che ci è rimasta. Anche questa può essere considerata un tipo di tortura, e anche molto grave, la tortura dell’anima, del sentimento, la tortura psicologica: non siamo animali! La nostra sezione ha tre piani e per distribuire il vitto c’è un solo carrello e questo viene trasportato a mano attraverso le rampe delle scale. È facile immaginare i disagi che ne derivano; nutrirsi con quel minimo di decenza è quindi affidato alla sorte perché è fortunato il piano da cui si comincia la distribuzione dei vitto. Per i detenuti che arrivano dal continente e che per ovvie ragioni difficilmente possono usufruire di colloqui, ricevere un pacco postale dai propri cari diventa una lotteria, perché ci viene consegnato a distanza di settimane: se c’è qualcosa di commestibile si deteriora e va buttata".
I detenuti della prima sezione del carcere di Nuoro La droga è un problema sociale, non penale...
Antiproibizionisti.it, 21 giugno 2004
Noé, ubriaco, è steso a terra, i figli in piedi lo deridono. Il dipinto serve a ricordare come andò a finire: Dio punì i figli. Quindi, "Dio sarebbe stato contro Fini". Il professor Gianluigi Gessa usa un’immagine forte per chiarire la sua idea sul disegno di legge in materia di droga. Un brusco ritorno al passato dopo il referendum del 1993, frutto di un "retroterra culturale che esprime una visione del mondo da sottoporre a critica", per usare le parole del magistrato Gilberto Ganassi, coordinatore del convegno che ieri mattina, nell’aula magna del Palazzo di Giustizia di Cagliari, ha portato in discussione il disegno di legge Fini. E Gianluigi Gessa entra subito in argomento: "Questa legge è improntata alla preoccupazione di prevenire scoraggiando, anzi, terrorizzando. Scelta ideologica discutibile. Bisogna piuttosto conoscere le droghe e farne capire gli effetti senza terrorismi ideologici". Il farmacologo ricorda che pochi, pochissimi, provano una volta nella vita eroina e cocaina, molti, moltissimi, quasi tutti l’alcol, parecchi il tabacco, un po’ meno la marjuana. E la percentuale di chi prova la sigaretta (il tabacco come l’alcol è droga lecita) e ne rimane schiavo è altissima. "Nel 1992 scioperarono i tabaccai e 17 milioni di italiani sembravano tossici in astinenza, a Napoli i giovani vendano le tirate. Vedete proibire che cosa produce"? Sì perché il disegno di legge è punitivo nel momento in cui, spiega il magistrato romano Giuseppe Cascina, la legge Fini "unifica nel trattamento sanzionatorio droghe leggere e droghe pesanti. E poiché la pena prevista è dai sei ai vent’anni di carcere, si realizza un’enorme discrezionalità del giudice". In sostanza, la nuova legge si prefigge di sanzionare il consumo di droga, con una grande ipocrisia: "Ci si inventa la preoccupante previsione di un lavoro di pubblica utilità in termini infiniti per evitare che il consumatore vada in carcere, è il ritorno dei lavori forzati". Sul problema sociale legato al consumo di droga si sofferma Grazia Zuffa, ex parlamentare e docente di Psicologia a Firenze: "Il modello è quello della proibizione delle droghe che risale agli inizi del ‘900, il primo modello di globalizzazione che parte dagli Usa e che fin dall’inizio è legato ai problemi dell’immigrazione, non a caso l’oppio veniva additato al biasimo pubblico come la droga della minoranza etnica cinese e la canapa della minoranza messicana". Secondo la psicologa il permanere di questo trend ha origine "non solo nel tentativo di ridisegnare lo stato sociale ma anche nella crisi della politica". Aggiunge la Zuffa: "Mettere al bando un comportamento con lo strumento penale vuol dire che, se poi si depenalizza, si dà un avallo morale". La psicologa ricorda poi che la stragrande maggioranza delle comunità terapeutiche boccia il disegno di legge Fini, considerato un passo indietro. E la conferma arriva dalla direttrice del Sert Anna Loi: "Questa legge prevede quasi una separazione tra pubblico e privato, tra Sert e comunità, nonostante abbiamo lavorato in sintonia". Sulla stessa linea don Cannavera, della comunità La collina, esprime "dissenso, preoccupazione e rabbia". L’avvocato Luigi Concas pensa che il problema debba essere affrontato in Europa "per evitare che, superando la linea di confine, ci sia un regime diverso". Infine, il magistrato di sorveglianza Carlo Renoldi descrive la situazione dei tossicodipendenti nelle carceri. Vasto: clima sempre più teso tra direttore e agenti
Il Messaggero, 21 giugno 2004
Aria sempre tesa nel carcere di Vasto dove gli agenti non vogliono più il direttore quale loro interlocutore. Ad esacerbare gli animi, secondo la polizia penitenziaria, sarebbero state le valutazioni di Massimo Di Rienzo dopo una prima presa di posizione degli agenti. "Più che le difficoltà nel piano ferie, c’è la riduzione del lavoro straordinario dietro lo stato d’agitazione": è una delle espressioni più forti del direttore non gradite alle sigle sindacali che diffidano il dirigente da intraprendere iniziative in merito al personale. Di Rienzo era parso sconcertato dalle recenti affermazioni di diverse organizzazioni di categoria, pronte a definirne discutibile la gestione della struttura, proprio a cominciare dal piano ferie. Di Rienzo, inoltre, afferma che a Vasto il rapporto agenti-detenuti è uno a uno e non ci sono problemi di sicurezza. "Incomprensibile - conclude il direttore - chiedere rinforzi visto che anche altrove le ferie vanno fatte, spesso in condizioni di organico ancora più critiche". Situazione ritenuta gravissima dai sindacati. Torino: muore in carcere a 69 anni ex re della malavita romana
Il Messaggero, 21 giugno 2004
"Mio padre è morto disperato, ora vogliamo sapere se in carcere è stato curato davvero". Non c’è rancore nella voce di Marco De Sanctis, solo dolore. Lui è il figlio di Laudovino De Sanctis, conosciuto come Lallo "lo zoppo", che è morto ieri alle 15.15 nel carcere torinese delle "Vallette". Laudovino, il capo dei testaccini, figlio della gang dei marsigliesi. È la mala degli anni ‘70, tra fiumi d’oro e champagne. Prima della rapina in piazza dei Caprettari, gemellaggio coi marsigliesi di Albert Bergamelli, colpi di Magnum contro l’agente Giuseppe Marsichella. Prima della stagione del piombo e del sangue, tra brigatisti e la Magliana, e la guerra spietata tra bande. E un vortice di sequestri e di delitti: il re del caffè Giovanni Palombini, l’industriale che fu assassinato e messo in un congelatore: il cadavere veniva tirato fuori per scattare le foto da mandare alla famiglia convinta che Giovanni fosse ancora vivo. Lallo ha sempre negato di averlo ammazzato, ha solo ammesso di essere stato lui ad avere l’idea del congelatore, "l’idea mi venne al supermercato", disse; il re del marmo Valerio Ciocchetti, la famiglia pagò il riscatto, ma l’uomo fu ucciso: "Le notti peggiori sogno Ciocchetti", aveva detto una volta Lallo ,"e me stesso che avvito il silenziatore"; la giovane Antonella Montefoschi, figlia di un commerciante di carni: Lallo ha sempre negato il suo coinvolgimento, ma gli investigatori non gli hanno creduto. Nell’auto dei banditi c’era una gruccia: la firma di Lallo, che con la stampella ogni tanto si aiutava a camminare per via della sua gamba consumata dalla tubercolosi ossea. Condannato in maniera definitiva 11 volte, a partire dal 1964 per omicidio rapina e sequestro di persona, "Lallo era ai domiciliari a Centocelle, in via dei Giunchi. Aveva un permesso di quattro ore, due ore la mattina e due il pomeriggio per uscire, per la chemioterapia al San Raffaele. "De Sanctis lei ha ucciso, ha ucciso". "Sì, ma ho pagato", aveva detto Lallo al giudice durante l’udienza per la sospensione della pena, "non voglio morire in carcere". Nell’aprile scorso è tornato a Regina Coeli con l’accusa di spaccio di droga, dal carcere romano è stato trasferito al carcere di Torino, per permettergli di curare il linfoma che lo mangiava. Ma il figlio sostiene che il padre ha interrotto la cura al San Raffaele e il male lo ha divorato. "L’ultima persona che lo ha visto vivo è stata mia sorella, è andata a trovare nostro padre due settimane fa e mi ha detto che era un relitto". Marco dice che la malattia avanzava in modo velocissimo ogni volta che il padre interrompeva la chemioterapia. "Bastava che saltasse una sola seduta per vedere subito gli effetti devastanti. Andremo fino in fondo a questa vicenda. Mio padre è stato quello che è stato, e per questo ha pagato". "Non voglio morire in carcere", aveva detto. Busto Arsizio: 78 anni, sordo e cieco, ma ancora in carcere
La Gazzetta del Sud, 21 giugno 2004
Dev’essere il più anziano terrorista ancora in carcere. Ma per Radames Alberton, 78 anni – un passato da fiancheggiatore delle Br ma oggi sordo, quasi cieco e sulla sedia a rotelle – queste potrebbero essere davvero le ultime ore dietro le sbarre. Presto, quasi certamente lascerà la sua cella di Busto Arsizio per trascorrere agli arresti domiciliari i 15 mesi di pena che gli restano da scontare per partecipazione a banda armata negli anni 80. La storia di Alberton è abbastanza particolare, pur nel variegato panorama delle vicende umane del terrorismo rosso. Nome di battaglia "Claudio", più di vent’anni fa Alberton era il già anziano militante della colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse, coinvolto in attività di fiancheggiamento per diverse azioni terroristiche. Radames, fra l’altro, era il proprietario di un appartamento al quinto piano di via Imbonati 25, che fu una delle basi più frequentate dai dirigenti della "Alasia". Suo, anche il furgone che in un primo tempo avrebbe dovuto essere utilizzato per il sequestro del dirigente dell’Alfa Romeo Renzo Sandrucci, nel giugno del 1981. Alla fine dell’85, "Claudio" venne condannato in via definitiva dalla Corte d’Assise d’appello a 5 anni di reclusione. All’epoca, però, Alberton era latitante già da tempo. Neppure i suoi ex compagni che stavano collaborando con gli inquirenti seppero fornire notizie più precise sul suo conto. Come altri ex terroristi anche lui, si scoprì più avanti, era emigrato in Nicaragua, dove aveva ricevuto asilo politico. In Centroamerica si rifece una famiglia e rimase per più di dieci anni, fino al ‘94. Poi anche lì l’atmosfera cambiò. Forse Radames vide stringersi un po’ troppo il cerchio attorno a sé, forse cominciò ad avere nostalgia dell’Italia o necessità di cure più adeguate per i suoi acciacchi. Fattostà che decise di tornare. Anche perché, nel frattempo, due anni di pena gli erano stati condonati e così aveva potuto ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali: in carcere non sarebbe mai finito. L’"esperimento" funzionò solo per un brevissimo periodo. Otto mesi, poi Alberton non seppe resistere alla tentazione di tornare in Nicaragua, non riuscendo forse a star lontano dalla donna con cui negli ultimi tempi aveva condiviso la vita. Sono trascorsi così altri otto anni. "Claudio" è invecchiato, la sue condizioni di salute non erano buone, anche la situazione politica del piccolo paese americano non assomigliava più a quella di un tempo. Un anno fa Radames decise così di tornare in Italia definitivamente, pur sapendo bene che stavolta ad attenderlo ci sarebbero state le porte di una cella. Si consegnò a Malpensa nel luglio scorso, appena sceso dall’aereo. Da quel momento il vecchio brigatista è in carcere, dovendo scontare 2 anni e tre mesi. Da quel momento, il suo avvocato Mirko Mazzali ha tentato invano in più occasioni di ottenere il "differimento" della pena per motivi di salute, dato che Alberton, a parte l’età, è "praticamente non udente, con scarsissima capacità visiva ed affetto da gravi problemi di deambulazione". Per il giudice di sorveglianza di Varese, però, "non si profilano motivi di incompatibilità con l’ambiente carcerario". Adesso, però, neppure la Procura generale di Milano si oppone più alla concessione degli arresti domiciliari. Parma: festa comunità d’accoglienza dell’Emilia Romagna
Gazzetta di Parma, 21 giugno 2004
Vola in alto la bandiera giallo-verde di Betania, tocca il cielo, sorretta dai palloncini, sull’eco di un applauso sempre più distante. E’ festa, e così sia: il cerchio di gente si stringe e sembra quasi abbraccio. A Marore, per una domenica intera, le comunità di accoglienza dell’Emilia - Romagna si tengono per mano: un modo per riaffermare "il diritto ai diritti" di chi, schiacciato dalla droga, tenta faticosamente, con l’aiuto di volontari e operatori, di rialzarsi. Ma un modo anche per ribadire _ come recita un documento congiunto firmato da molteplici associazioni _ l’importanza di parole come solidarietà, vicinanza e ascolto, "in un momento in cui una parte della politica auspica solo punizione e obbligatorietà della cura". A pochi giorni dalla giornata internazionale della lotta alla droga (in programma sabato), don Luigi Valentini, anima e cervello di Betania, non nasconde le sue perplessità sulla legge Fini ("va modificata: occorre valorizzare l’aspetto della cura a scapito di quello della repressione"), confermando inoltre che anche a Parma quella maledetta scimmia continua a saltare sulle spalle di tanti: "Il fenomeno è esteso, sono cambiate solo le modalità di approccio alla sostanza: la classica figura del tossicodipendente ha lasciato il posto ai poli assuntori, quelli che fanno uso di più droghe, differenti tra loro". Sono gli anni delle sostanze sintetiche, ma anche della "cocaina per tutti": "E’ in forte aumento: non è più la droga dei ricchi, ne fanno uso anche i più giovani. Ce n’è tanta in giro e costa meno di un tempo". Eroina, cocaina, ecstasy: nomi diversi per lo stesso inferno. E i ragazzi continuano a scivolare nel baratro. "I giovani si sentono soli e usati: sono considerati un bene di consumo, gli incollano addosso aspettative sempre più disintegranti". Che fare, allora? "Ripartire da una politica giovanile, realizzare una legge quadro sui giovani". Perché la loro vita possa essere entusiasmante ma non più "stupefacente". Circa 270 persone ieri a Betania, dalle 10 alle 20: una festa, quella delle comunità Cnca dell’Emilia Romagna, che è confronto, stare insieme, ma anche sport, partite, sano agonismo. Dopo la messa, facoltativa, il pranzo: poi calcio saponato e le finalissime dei tornei di pallavolo e di calcio promossi dal Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza della nostra regione. Prima però, in apertura di giornata, l’incontro degli ospiti di Betania con Davide Fontolan, ex attaccante di Parma, Genoa, Inter (per sei stagioni) e Bologna. "Sento parlare da tempo di don Valentini, ma non l’avevo mai incontrato prima: ho sposato una parmigiana e mia moglie e mio figlio vengono in questa chiesa. Mi ha fatto piacere incontrare questi ragazzi". Cosa gli ha detto? "Di non mollare mai, come facevo io quando giocavo: in campo sputavo sangue per raggiungere l’obiettivo che mi ero prefissato. Se loro sono qui significa che sono nella direzione giusta: devono continuare sempre su questa strada". Trentotto anni, Fontolan è convinto però che "in Italia il problema droga venga affrontato male: c’è bisogno di maggiore solidarietà". E la droga nel calcio, il doping? "Non mi sono mai accorto di niente: i controlli poi sono severi. Se c’è chi dà qualcosa ai giocatori lo fa alle loro spalle". Lo stesso fisico longilineo di quando calcava i campi della A, l’attaccante firma autografi e racconta gol, ricordando come "il mio unico anno a Parma, in B, fu fondamentale: è da lì che è cominciata la mia ascesa. Merito soprattutto di Arrigo Sacchi, il migliore allenatore che abbia avuto: prima di incontrarlo mi limitavo a giocare a pallone, lui mi ha insegnato a giocare a calcio". Il suo presente è una società di cartolarizzazione, col calcio invece ha chiuso: "Avrò visto tre partite negli ultimi tre anni: quel mondo non mi piace più. I protagonisti non sono più i giocatori, ma chi parla male di loro in tv. No, il calcio non mi manca, mi ha schifato: alla fine contano solo i soldi". Conclusa la festa delle comunità, proseguono nei prossimi giorni le iniziative di Comune, Azienda Usl, Betania e centro L’Orizzonte finalizzate a sensibilizzare i cittadini sul tema della lotta alla droga. Prossimo appuntamento giovedì, in carcere: dove verrà messo in scena lo spettacolo di musica e prosa "Come quando fuori sogno", sceneggiato dagli stessi detenuti. Vicenza: un corso allenatori nel carcere S. Pio X
Giornale di Vicenza, 21 giugno 2004
Nella primavera dello scorso anno si sono brillantemente guadagnati il patentino di allenatori di calcio del Centro Sportivo Italiano e quest’anno chiedono di poter integrare le conoscenze acquisite. Questa la richiesta specialistica avanzata da una decina di allenatori di calcio un po’ particolari. Si tratta infatti di reclusi in regime di A.S. nel carcere di San Pio X di Vicenza. Il CSI Vicenza ha prontamente fatto propria la richiesta nel quadro delle iniziative portate avanti nel carcere cittadino attraverso il progetto carcere/sport ed il progetto carcere/scuola in collaborazione, proposte nate in collaborazione con l’Associazione "progetto carcere 663" di Verona sotto l’egida dell’Assessorato alle Politiche Sociali per il volontariato ed il no-profit della regione Veneto. I nove candidati licenziati del corso allenatori del 2003 curato da Massimo Dalle Ave, istruttore nazionale di calcio del CSI ricevettero direttamente dalle mani di Pablito Rossi il diploma e proprio quell’occasione emerse dal confronto la necessità di approfondire le conoscenze. Il corso, di una decina di lezioni, si protrarrà per tutto il mese di giugno e sarà curato dal prof. Giovanni Bassanese, docente Isef, che già da un triennio porta avanti un programma a cadenza bisettimanale di preparazione fisica all’interno del San Pio X, il quale sarà supportato dal presidente del CSI Vicenza Enrico Mastella. Alla termine per i partecipanti è previsto un esame di verifica e per i promossi un attestato di partecipazione del CSI Vicenza. Opera: regala un libro al carcere, per arricchire la biblioteca
Redattore Sociale, 21 giugno 2004
Cultura e formazione al carcere di Opera. "Regala un libro al carcere". Questo l’invito che arriva dal Carcere di Opera nell’ambito di un’iniziativa, finanziata dal FSE (Fondo Sociale Europeo) e dalla Regione Lombardia, e gestita da società di consulenza attiva nell’organizzazione di corsi di formazione. L’obiettivo - dichiara Costabile Giordano coordinatore della proposta - è quello di raccogliere circa duecento testi di qualità che arricchiscano l’offerta di titoli della biblioteca del carcere. Agli organizzatori l’idea è venuta dopo avere constatato la totale inadeguatezza dell’offerta di titoli della biblioteca carceraria. "Questa - racconta Giordano - è infatti piena di libri Harmony, di polverosi libri di testo e vecchie edizioni di classici che di certo non offrono ai detenuti alcuno stimolo alla lettura". I libri possono essere consegnati alla sede della società di consulenza (E-Skill) in via Paleocapa, 1, al secondo piano. Alla raccolta, seguirà nella prima settimana di luglio il trasporto e la collocazione dei testi nella biblioteca dell’istituto di detenzione. L’iniziativa si inserisce all’interno del progetto "Operatore d’ufficio esperto in Office automation" in accordo con la Direzione dell’istituto carcerario milanese. Si tratta di un percorso formativo destinato a dieci detenuti della Sezione Attenuata dell’istituto di detenzione. Il progetto in questione intende fornire ai dieci le competenze e le conoscenze dei moderni sistemi di archiviazione e informatizzazione di dati, così da fornirgli un percorso insieme di formazione, di tirocinio e orientamanto al lavoro. Con questa iniziativa cinque dei dieci partecipanti al corso si occuparanno appunto di dotare la biblioteca carceraria di un sistema di catalogazione informatica. Agli altri cinque invece viene offerta la possibilità di maggiore significato sociale: effettuare una esperienza di stage in aziende all’esterno della struttura carceraria. Terni: un calcio al pallone per uscire dal carcere
Il Messaggero, 21 giugno 2004
Il gioco del calcio entra in carcere e porta un messaggio di speranza e solidarietà a chi sta pagando il proprio debito accumulato nei riguardi della società e del proprio passato. Domani mattina i detenuti della casa circondariale di Vocabolo Sabbioni con scarpini chiodati e tenute da gioco scenderanno in campo per disputare una partita di football nell’ambito del progetto "Vivi lo sport!" che è stato organizzato dal Coni provinciale di Terni in collaborazione con la casa circondariale. Fischio d’inizio alle ore 10 per le due squadre che chiudono con questa esibizione una esperienza iniziata dal mese di aprile. Sotto la guida dei due tecnici Coni Nicola Traini e Giovanni Masiello ai detenuti sono state impartite per tre mesi lezioni di diverse discipline sportive all’interno del carcere. Al match parteciperanno due formazioni di detenuti selzionati dai tecnici nel corso di tre mesi di sedute di allenamento. Ad assistere all’incontro di domani mattina saranno presenti sia il direttore della casa circondariale ternana, Francesco dell’Aira, che il presidente del Coni provinciale, l’avvocato Massimo Carignani. Treviso: in distribuzione "Innocenti evasioni", giornale dell’Ipm
Redattore sociale, 21 giugno 2004
Un importante strumento di comunicazione, con il quale ai minori in carcere viene offerta un’opportunità in più per far conoscere la propria realtà culturale e dar voce alle proprie storie, magari attraverso una semplice poesia o con la descrizione dei propri gusti musicali: il primo numero di "Innocenti evasioni" , giornalino del carcere minorile di Treviso, rappresenta un’ulteriore passo in avanti nella direzione di una migliore relazione con l’esterno, come altre iniziative già intraprese dal carcere in collaborazione con lo Sportello giustizia del Centro di servizio per il volontariato. "Innocenti Evasioni" assume un valore anche dal punto di vista della crescita professionale dei ragazzi e quindi di un futuro reinserimento sociale: alcuni di loro infatti hanno potuto mettere in pratica le conoscenze acquisite durante il corso di grafica computerizzata, tenuto in carcere dagli insegnanti dell’Istituto Turazza di Treviso. Importante è stato il contributo degli educatori e fondamentale la collaborazione dei mediatori culturali (la maggior parte dei detenuti del minorile sono immigrati dal nord Africa e dall’est Europa), ma il prodotto finale è il frutto delle loro idee e della loro abilità. Non mancano articoli nella propria lingua d’origine, testi sulle caratteristiche del proprio Paese e dei propri costumi, con una spiccata preferenza per la musica. Qualcuno ha addirittura inserito un intero menu con ricette tipiche colombiane. Al linguaggio poetico viene invece affidata l’espressione dei sentimenti, dall’amore per la ragazza perduta a causa della reclusione alla nostalgia per la vita in libertà. Toccanti i versi dedicati più in generale alle persone "di fuori": "siamo gente come voi, abbiamo un grande cuore, non siamo animali, venite a trovarci". Il giornalino verrà distribuito agli educatori e alle associazioni di volontariato che gravitano attorno alla vita dell’Ipm. Presto sarà disponibile on line nel sito del Centro di Servizio per il volontariato di Treviso (www.trevisovolontariato.org). Treviso: II Convention nazionale su comunicazione disagio e prevenzione L’attività multimediale come strumento pedagogico di integrazione 24 giugno 2004 - Palazzo della Provincia di Treviso Via Cesare Battisti, 30 - Sala Marton, 9.00 - 13.00
Relazioni di esponenti Istituzionali, della giustizia minorile ed esperti di comunicazione ed educazione. Saranno proiettati progetti multimediali realizzati in carcere e premiati i lavori ideati e disegnati dai minori degli Istituti Penali Minorili Italiani aderenti al 3° concorso nazionale IPM per prodotti multimediali. È previsto un attestato di partecipazione valido ai fini formativi. Si consiglia di inviare una mail di pre iscrizione all’indirizzo ilsoffio1@aliceposta.it, indicando i propri dati anagrafici e la liberatoria privacy L. 675/96. Il progetto è realizzato in collaborazione con istituzioni ed associazioni:
Ha il patrocinio di:
Associazione Il Soffio Onlus Sportello Centro di Documentazione Giu.Si.Le.Mi. Giustizia, Sicurezza, Legalità, Minori Apertura al pubblico martedì e giovedì 9.00-12.00 Via isola di Mezzo 35 - 31100 Treviso Info 338.1314570
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