Rassegna stampa 10 giugno

 

Bollate: continua la sfida degli studenti - detenuti

 

Donna Moderna, 10 giugno 2004

 

Una nuova aula per gli studenti modello dietro le sbarre del carcere di Bollate. Per costruirsi un futuro una volta fuori. Procede a pieno ritmo il progetto della prima Cisco Networking Local Academy all’interno di un carcere, quello modello di Bollate, alla periferia di Milano. Lo scorso anno, presso la casa di reclusione, è stato avviato il primo corso di formazione sul networking, per ottenere la certificazione Cisco Certified Newtwork Associate, un titolo di studio riconosciuto in tutto il mondo da qualsiasi azienda che operi nel settore informatico e delle telecomunicazioni, e che garantisce crediti formativi a livello universitario.

A distanza di un anno, G.P. e G.D.B., due allievi che studiano on line e su testi in inglese, hanno superato a pieni voti gli esami finali relativi al primo e al secondo modulo della certificazione CCNA, Cisco Certified Network Associate. Oggi sono i primi istruttori in Europa all’interno di una casa di reclusione, e stanno trasmettendo ad altri le conoscenze acquisite grazie al tutor Lorenzo Lento, docente di SIAM (Società di incoraggiamento d’arti e mestieri.

 

Il progetto

 

Si tratta di un progetto pilota, creato in collaborazione con Cisco Systems, Fondazione IBM, Fondazione Adecco e SIAM (Società di incoraggiamento arti e mestieri) Insieme hanno allestito un laboratorio moderno, selezionato i candidati, trovato gli insegnanti.

Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’energia e l’entusiasmo di Lucia Castellano, direttrice della casa di reclusione di Bollate, alla periferia di Milano. Unica donna in un mondo al maschile, gestisce con polso fermo, ed invidiabile apertura verso il futuro, la struttura e i circa 800 detenuti.

Un carcere modello, isola felice nell’Italia dei penitenziari sovraffollati, con i muri affrescati da un geniale detenuto pittore che sta conquistando una discreta fama, e il verde del prato che si intravede tra le sbarre.

Una struttura votata al reinserimento sociale e professionale dei detenuti, che dopo i laboratori di teatro e pittura, la scuola e l’officina adesso hanno a disposizione questo corso di alto livello professionale, che permetterà di conseguire la certificazione Cisco Certified Newtwork Associate.
Un titolo di studio riconosciuto in tutto il mondo da qualsiasi azienda che operi nel settore informatico e delle telecomunicazioni, e che garantisce crediti formativi a livello universitario.

La scommessa più grande? Dare vita ad un progetto che si autoalimenta, dove gli allievi di oggi diventeranno i tutor di domani, tramettendo le loro conoscenze ad altri detenuti. Ma anche "Vincere le resistenze e il pregiudizio delle aziende ad assumere un ex detenuto – spiega Claudio Soldà, della Fondazione Adecco – Per questo alla fine del corso li aiuteremo a scrivere il CV e ad affrontare un colloquio di lavoro, oltreché a cercare l’azienda giusta per loro".

 

Gli studenti

 

"Sabato scorso abbiamo realizzato la prima connessione di rete. È partito un applauso lungo 10 minuti" Sorride G.D.B., 27 anni. "La difficoltà più grande, all’inizio, è stato studiare in inglese. Ma grazie anche all’aiuto degli altri, ho superato sette esami in pochi mesi".

Sì perché "dentro", anche dentro un carcere modello, le regole normali saltano.
E capita che siano due extracomunitari, come Mustafà, trentenne del Gambia, e Kenneth, nigeriano, a partire avvantaggiati. Perché loro l’inglese lo sanno. E hanno aiutato i due colleghi italiani, non proprio a loro agio con la lingua. "Bisogna fare progressi tutti insieme – spiega saggio Mustafà – per questo ci aiutiamo l’uno con l’altro. Noi insegniamo l’inglese, loro ci aiutano con l’italiano."

Ha ancora pochi mesi da scontare Kenneth Owa Osa, l’aria da gigante buono e studi in economia in Inghilterra. È dentro per aver prestato incautamente l’auto a un amico che la usava per trasportare droga. Ma ha già chiesto di poter continuare il corso quando avrà riacquistato la libertà. Anche a costo di varcare di nuovo quella soglia. Più timido e riservato il quarto studente, G.P., 47 anni e una pena che scadrà nel 2009. "È una grande opportunità – spiega – per migliorarmi e apprendere qualcosa che serva davvero. Una speranza per il futuro. E una volta fuori di qua, potrò anche mettermi in proprio." Ma prima avrà contribuito a formare altri ragazzi. E a dar loro, come si dice "un mestiere" per affrontare il mondo fuori dalle sbarre.

 

Il futuro

 

"Diventeranno degli esperti di sicurezza. Saranno richiestissimi" – profetizza Lorenzo Lento, uno dei due tutor supervisori del progetto. Alla parola "sicurezza", pronunciata dentro un carcere, tutti sorridono. Ma in effetti il problema di una connessione sicura a Internet è uno dei temi più caldi in tempi di hacker e pirateria. "E allora, dare a questi ragazzi una formazione mirata, altamente specializzata, è l’unico modo per aiutarli a trovare un lavoro una volta fuori", aggiunge Lento. I suoi studenti lo guardano come un angelo custode. E non è difficile immaginare perché visto che Lorenzo, a questa causa, regala tutto il suo tempo libero e i suoi sabati. Gratuitamente s’intende. Superando, come ricorda la direttrice, controlli e barriere ogni volta.

"Chi decide di fare volontariato in un carcere, deve affrontare molte più difficoltà – spiega Lucia Castellano – le stesse che abbiamo avuto noi per potere installare una linea Adsl. Ogni forma di comunicazione con l’esterno, infatti, è molto pericolosa". Si è ovviato permettendo l’accesso solo al sito Cisco, per scaricare i testi e sostenere gli esami on-line. Ma presto i navigatori potranno raggiungere anche qualche sito di informazione. E tramite il loro tutor, ci racconteranno come procedono gli studi e gli esami, in attesa di mettere in pratica nel mondo là fuori tutto quello che hanno studiato.

Giuseppe Valentino: è ora di discutere riforma tribunale minori

 

Ansa, 10 giugno 2004

 

"Bisogna avviare la discussione sulla riforma del Tribunale dei Minori". A sostenerlo è il sottosegretario di Grazia e Giustizia, Giuseppe Valentino, che oggi ha partecipato alla Festa Tricolore di Milano. "Il tribunale che auspichiamo - ha spiegato Valentino - diventerebbe un tribunale di prossimità con sezioni specializzate, che si interesserebbe di tutti gli aspetti finora affidati a giudici diversi in modo specializzato.

Oggi infatti i Tribunali dei Minori si trovano solo nelle 24 sedi di Corte d’Appello". E l’opinione di Valentino è condivisa anche dall’on. Andrea Ronchi (che ha presentato una proposta di legge per istituire il garante della famiglia presto discussa in discussione) e da Roberto Mirabile, presidente dell’associazione "La caramella buona", che è impegnata nella lotta alla criminalità rivolta contro i bambini. Già sarebbe importante, secondo Mirabile, riuscire ad approvare una legge che vietasse a chi è stato condannato per reati sui minori, di ottenere un impiego a contatto con i bambini.

"E questo - ha spiegato il presidente dell’associazione - nessuno lo ha ancora fatto". La "Caramella buona" offre consulenza gratuita di esperti, come ad esempio avvocati, alle famiglie e si occupa anche e soprattutto di prevenzione, con corsi di formazione rivolti a insegnanti e studenti e anche di altro tipo per medici, avvocati, magistrati e forze dell’ordine. "Da sette anni facciamo prevenzione - ha concluso Mirabile - ma con difficoltà, perché è un argomento particolare e fatichiamo a parlarne nelle scuole".

Lettera del sindacato Osapp a Berlusconi: procedere ad assunzioni

 

Ansa, 10 giugno 2004

 

L’istituzione di una direzione generale di polizia penitenziaria e l’assunzione, come previsto dalla finanziaria 2003, di circa 2400 agenti sono tra le richieste avanzate in una lettera che l’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, ha inviato al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Nella missiva si denunciano anche l’esiguità dei fondi, circa 70 euro al mese, per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro e le "gravissime condizioni del personale di polizia penitenziaria della Regione Campania per disorganizzazione, aggravio dei carichi di lavoro, mancata remunerazione degli straordinari e delle missioni e l’impossibilità di usufruire di turni adeguati di riposo e di mense di servizio".

"Non riusciamo a lavorare bene - ha spiegato il segretario generale Osapp, Leo Beneduci a margine di un incontro con la stampa avvenuto oggi a Napoli - c’è un grave ritardo dovuto alla mancata autorizzazione da parte della Presidenza del Consiglio per l’assunzione di circa 2400 agenti e in più scontiamo la disattenzione del ministro di Grazia e Giustizia Castelli". Beneduci aggiunge: "Chiediamo una boccata d’ossigeno: questo in cui lavoriamo non è un carcere che risocializza; non ci sono regole certe; c’è solo un regolamento che ognuno interpreta a modo suo e per questo è indispensabile l’istituzione, al pari di tutte le altre forze di polizia, di una direzione generale di polizia penitenziaria".

Roma: non si placano le polemiche sulle nomine al D.A.P.

 

Ansa, 10 giugno 2004

 

Vietti: difficile comprenderne i motivi

 

Il sottosegretario alla giustizia, Michele Vietti (Udc), replica al ministro Castelli a proposito di nomine ed avvicendamenti all’interno del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). "Sono stato tenuto completamente all’oscuro di queste nomine - afferma in una nota Vietti - nonostante una di esse riguardasse la mia regione, il Piemonte. Dato per scontato che non rispondono ad una logica elettorale, rimane comunque difficile comprenderne le motivazioni, l’urgenza e le curiose coincidenze temporali e territoriali". Ieri il capogruppo dell’Udc alla Camera, Luca Volontè, ha chiesto in una interrogazione a Castelli di riferire in Parlamento sulle modalità di alcune nomine fatte in questi giorni al Dap e, che riguardano, in particolare molte regioni del nord.

 

Mazzoni (Udc): sono nomine elettorali

 

"Non sembra che ci voglia un grande sforzo di fantasia per collegare queste nomine alla vicenda elettorale". Così il capogruppo dell’Udc in commissione giustizia alla Camera, Erminia Mazzoni, commenta le dichiarazioni del ministro della giustizia, Castelli, che nell’annunciare nuove nomine al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha anche smentito quanto sostenuto dal capogruppo dell’Udc Volonté, cioè che si trattasse di decisioni prese per calcolo elettorale. Invece, secondo Mazzoni "depongono in questo senso non solo la coincidenza cronologica ma anche la coincidenza geografica dal momento che i provveditori interessati si trovano quasi tutti al nord e, in particolare, in Lombardia e in Piemonte, guarda caso collegio elettorale oggetto di particolare attenzione anche da parte del ministro".

 

Castelli replica a Vietti

 

"I miei semplici schemi mentali di rozzo leghista mi impediscono di comprendere le sofisticate analisi degli amici dell’Udc, quando parlano di coincidenze territoriali e temporali che avrebbero determinato le mie scelte": così il Ministro della Giustizia replica al sottosegretario Vietti riguardo alle nomine al Dap. "In ogni caso - aggiunge Castelli - ricordo al sottosegretario Vietti, che mi ha rimproverato di non averlo consultato prima di decidere gli avvicendamenti ai vertici del Dap, che lui non ha deleghe in materia e che quindi non era necessaria nessuna consultazione".

Asinara: rivolta contro la riapertura del carcere

 

L’Unione Sarda, 10 giugno 2004

 

L’unico a non dare fuoco alle polveri è Piero Deidda, presidente del neo Parco nazionale dell’Asinara. Per il resto l’idea di riportare i detenuti sull’isola sottoscritta con un protocollo d’intesa dai ministri della Giustizia Roberto Castelli e dell’Ambiente Altero Matteoli, sta scatenando una rivolta che corre sui fax e si alimenta con le ultime briciole di campagna elettorale. L’accordo interministeriale apre le porte dell’Asinara a un carcere leggero, un laboratorio per i detenuti che, volontariamente, vogliono far parte di un programma di recupero ambientale e reinserimento sociale. Sarà così non solo all’Asinara, ma in tutti i 47 parchi naturali d’Italia. In mezzo a una miriade di contestazioni sull’accordo governativo, Piero Deidda dribbla le domande come se indossasse la maglia numero dieci, ma non nasconde un certo imbarazzo davanti a un’ipotesi inaspettata.

"Non mi chieda se sono d’accordo o no, non posso risponderle", dice all’altro capo del telefono, "non posso esprimere un giudizio su un progetto di cui non so niente". Sì perché all’Asinara la Regione è padrona, sulla carta, di tutto o quasi, e l’Ente parco, sempre e solo sulla carta, gestisce il paradiso naturale strappato solo sette anni fa all’invalicabile ruolo di supercarcere di sicurezza. Solo che Regione, Ente parco, e nemmeno il Comune di Porto Torres sul cui territorio ricade il Parco, sono stati messi al corrente del futuro che il Governo riserva per l’isola: perla incontaminata e super protetta del turismo, o colonia penale per detenuti non pericolosi?

Piero Deidda non ha una risposta, e per il momento non sembra cercarla: "Noi stiamo lavorando per rendere il Parco fruibile, e finché non saremo informati dei progetti del Ministero, i nostri problemi continueranno a essere la realizzazione dei servizi primari sull’isola". A chiederla con forza invece sono gruppi politici (tutti dell’opposizione), sindacati e perfino un deputato, il diessino Francesco Carboni. Con un’interrogazione rivolta ai ministri Castelli e Matteoli, Carboni chiede "quali benefici possano derivare dalla presenza di strutture penitenziarie nell’isola ormai totalmente destinata a parco, e quali siano i costi per riattivare il carcere dell’Asinara".

Le critiche e le preoccupazioni per il ritorno dei detenuti nell’isola-parco piovono da più parti: dai gruppi consiliari dei Ds alla Regione e al Comune di Porto Torres che "esprimono la più ferma contrarietà alla decisione del Governo di ripristinare il carcere nel Parco", al gruppo turritano del Psd’Az, fino alle confederazioni sindacali.

Un coro di dissensi che assumono toni da rivendicazione dell’autonomia della Sardegna. "È una dimostrazione di come le più nobili intenzioni possano essere utilizzate per nascondere i più arroganti atti di neocolonialismo da parte del governo nazionale", scrive il segretario territoriale della Cgil Piero Cossu. Il Codacons va oltre l’indignazione, e diffida il Governo dall’attuare il proprio disegno, minacciando di ricorrere al Tar per salvare l’Asinara e garantirle un futuro da Parco nazionale. Senza colonie penali, ma solo con code di turisti ansiosi di visitare uno degli ultimi paradisi naturali del Mediterraneo.

Ascoli: 3 rinvii a giudizio per la morte di Giuliano Costantini

 

Il Messaggero, 10 giugno 2004

 

È del giudice Lorenzo Falco e non della dottoressa Alessandra Panichi (come erroneamente riportato nell’edizione del 5 giugno scorso) la decisione di rinviare a giudizio i tre medici del carcere di Marino del Tronto accusati di omicidio colposo per la morte di un detenuto, Giuliano Costantini, avvenuta il 28 settembre del 2000. Il processo si aprirà il prossimo 28 ottobre davanti al giudice monocratico Emilio Pocci.

Secondo il sostituto procuratore Umberto Monti, i tre medici, avrebbero trattato il caso clinico di Costantini con "imprudenza, imperizia e negligenza", non richiedendo immediato ed urgente ricovero in ospedale per consulenza chirurgica e per i necessari urgenti presìdi diagnostici e terapeutici, pur in presenza di un quadro clinico che avrebbe dovuto far considerare l’opzione diagnostica di addome acuto. Costantini, che lamentava dolore all’addome e impossibilità a defecare da due settimane, fu visitato in diverse occasioni dai tre medici uno dei quali, A.D.S., secondo l’accusa avrebbe verificato le condizioni del paziente, concludendo però il diario clinico affermando che non rilevava nulla di anormale ipotizzando "un disturbo di natura psichiatrica".

Nuoro: agenti solidali col collega aggredito dal detenuto

 

L’Unione Sarda, 10 giugno 2004

 

Tutto il personale del carcere di Badu ‘e Carros ieri ha espresso la solidarietà all’agente aggredito nei giorni scorsi da un detenuto. Un gruppo di carcerati aveva denunciato il pestaggio di un ergastolano siciliano da parte di una guardia penitenziaria, ma secondo i dipendenti del ministero di Grazia e giustizia (agenti e impiegati) a subire l’aggressione è stato il poliziotto. Dell’episodio si è discusso ieri durante un incontro tra i rappresentanti sindacali di Cgil, Cisl, Uil, Sappe, Sinappe, Fsa.
I responsabili aziendali hanno espresso la loro solidarietà al sottufficiale vittima di "una ingiustificata aggressione da parte di un detenuto ad alto indice di pericolosità". Al termine della riunione i rappresentanti dei lavoratori hanno chiesto un incontro urgente con i vertici dell’amministrazione penitenziaria per fare il punto sulla situazione all’interno del carcere di Badu ‘e Carros.
"Cercheremo di coinvolgere anche la società civile in questa vertenza Ñ spiega Giorgio Mustaro della Cisl Ñ nei prossimi giorni chiederemo un incontro con il presidente dell’amministrazione provinciale, con il sindaco, il prefetto, il vescovo e gli avvocati".

Como: agente sfregiato da detenuto extracomunitario  

 

Corriere di Como, 10 giugno 2004

 

"La polizia penitenziaria del Bassone opera ormai in situazioni di continuo rischio. Il personale è insufficiente mentre la popolazione cresce. L’ultimo episodio, in ordine di tempo, è l’aggressione subita da un agente che è stato sfregiato con una lametta da un detenuto". A meno di una settimana dalla contestazione al ministro di Giustizia, Roberto Castelli, riesplode la protesta delle guardie penitenziarie.
Questa volta, si fa portavoce del malessere Massimo Corti, responsabile Cisl della Casa circondariale di Como, che denuncia: "Un collega è finito la settimana scorsa all’ospedale militare dopo essere stato aggredito e ferito. La stessa sorte era toccata ad altri tre il mese scorso".
A colpire l’agente con una lametta (al volto e alle mani) è stato un detenuto extracomunitario. L’episodio sembra essere legato al diniego di una telefonata che l’uomo avrebbe voluto fare all’esterno senza tuttavia esserne autorizzato.

"Siamo in una situazione ai limiti - insiste Corti - Sessanta per turno e con oltre 540 detenuti da controllare. In qualche occasione è impossibile garantire l’incolumità dei detenuti e degli stessi agenti. Molte volte saltano i riposi e ogni giorno siamo costretti agli straordinari".
Un quadro allarmante, confermato dai numeri. I detenuti attualmente ospitati al Bassone sono 546, di cui 52 donne (tre delle quali con un figlio in cella). La capienza ottimale del carcere comasco sarebbe di 421 unità. Sulla carta, l’organico del corpo di polizia penitenziaria è di 308 uomini. Attualmente sono in servizio a Como 233 tra agenti e sottufficiali. Undici di loro sono però in missione.
Con questo organico, è impossibile garantire persino le ferie del personale. Questa mattina, la direzione del carcere incontra il sindacato per tentare di mettere nero su bianco un piano.
"Affronteremo tutti i problemi - aggiunge Armando Messineo, segretario della Cgil Funzione Pubblica - La situazione però è pesante".

Se nella democrazia americana la tortura viene legalizzata

 

Il Manifesto, 10 giugno 2004


Prima il Wall Street Journal, nella sua edizione europea del 7 giugno, e poi il New York Times del giorno successivo, hanno diffuso una notizia che ha sollevato grande scalpore. Nel marzo dello scorso anno un gruppo di consiglieri legali dell’amministrazione degli Stati uiti ha prodotto un documento di ben 56 pagine nel quale si sostiene che il presidente Bush non è tenuto a rispettare le norme internazionali che vietano la tortura. A giudizio dei suoi consiglieri, Bush non è vincolato neppure dalla legge federale che ha applicato all’interno degli Stati uiti le norme internazionali contro la tortura perché, si sostiene, il presidente, come commander in chief, ha il potere di autorizzare qualsiasi "tecnica di interrogatorio" che egli giudichi necessaria per garantire la sicurezza nazionale. Ne deriva una generale legittimazione della tortura. Chiunque, a qualsiasi livello amministrativo, agisca in esecuzione di direttive superiori che autorizzano la tortura viene in questo modo esentato da ogni responsabilità penale.

Come è ormai noto, direttive di questo tipo sono state emanate, a partire dall’aprile 2003, dal segretario della difesa Donald Rumsfeld, per autorizzare la pratica della tortura nel carcere di Guantánamo. E sono state applicate anzitutto nell’interrogatorio del saudita Mohamed al-Kahtani, accusato di essere uno dei responsabili dell’attacco terroristico dell’11 settembre. Poi la prassi della tortura è stata estesa a tutti i fronti della "guerra preventiva" contro il terrorismo, in particolare in Afghanistan e in Iraq. I torturatori del carcere di Abu Ghraib, non c’è più alcun dubbio, obbedivano a direttive superiori. E d’altra parte il contractor appaltatore delle prigioni irachene è il famigerato Lane McCotter, ex-direttore di un carcere dello Utah, dal quale era stato licenziato a causa delle sistematiche sevizie che venivano inflitte ai detenuti e in seguito a una serie di morti sospette.

Dopo lo scandalo che lo ha investito, nel carcere di Abu Ghraib le torture sono state sospese e si è addirittura deciso di abbatterne l’edificio, testimonianza di una continuità fra regimi torturatori - quello iracheno e quello statunitense - che denuncia, più di ogni documento internazionale, l’impostura umanitaria. Ma è certo che la Cia e le autorità di intelligence militare possono continuare - e sicuramente continuano - a torturare i prigionieri a Guantánamo, in Afghanistan, in Iraq e nei molti altri centri di detenzione, noti o segreti, territorialmente insediati o installati su navi da guerra, dove sono rinchiuse persone sospettate di terrorismo. E può ancora accadere che le torture siano così gravi da provocare, come è avvenuto in Afghanistan e in Iraq, la mutilazione permanente o la morte dei torturati.

Si tratta di gravissimi crimini di guerra di cui, in base alla terza convenzione di Ginevra e al trattato internazionale contro la tortura del 1984 - che gli Stati Uniti hanno ratificato - i responsabili dovrebbero rispondere di fronte ad una assise penale nazionale o internazionale: fra questi, anzitutto i membri dell’amministrazione statunitense, incluso il presidente e i sui principali collaboratori. Ma è chiaro che questo non avverrà mai. Non avverrà perché gli Stati uniti operano ormai come il soggetto di un nuovo "nomos della terra", come cardine di un ordine imperiale che non si adegua ad alcuna regola del diritto internazionale ma crea, ad libitum, nuove regole.

Come commentare tutto questo? Si può sottolineare, anzitutto, che gli Stati uniti, patria della democrazia occidentale, sono oggi il solo paese al mondo nel quale la tortura è ufficialmente legalizzata. In Israele, dove la tortura, nella forma di una "moderata pressione fisica", è stata per decenni praticata negli interrogatori dei detenuti palestinesi, questa infamia è stata cancellata nel 1999 da una sentenza della corte suprema. E si può ripetere il giudizio espresso in quella occasione da un coraggioso giurista israeliano, membro della commissione Landau: "i metodi praticati negli interrogatori dei detenuti entro un determinato regime sono lo specchio più fedele del carattere politico di tale regime".

La tortura è oggi, negli Stati uniti, l’emblema di un regime imperiale che, in patria e all’estero, disprezza i diritti fondamentali delle persone, la loro integrità fisica e psichica, la loro dignità, la loro vita. La legittimazione della tortura al massimo livello politico e amministrativo è lo specchio fedele di una cultura penale e penitenziaria che fa degli Stati uniti il paese "democratico" più duramente repressivo del mondo, il più devotamente fedele al culto della pena capitale - sono seimila i detenuti nei bracci della morte in attesa di essere giustiziati -, il più impegnato nella costruzione di nuove carceri, il più incline alla privatizzazione del sistema penitenziario: un sistema che si sta rapidamente trasformando in un floridissimo correctional business, con una decina di imprese private quotate in borsa.

Paradossalmente gli Stati uniti, le cui massime autorità si mostrano tolleranti verso la tortura, sono la patria della "tolleranza zero", lo slogan che ha legittimato la più rigida repressione dei reati di lieve entità, commessi da soggetti marginali che non si adeguano ai modelli dominanti del conformismo sociale. Anche grazie a questa strategia nell’ultimo ventennio la popolazione penitenziaria degli Stati uniti si è più che triplicata, raggiungendo la cifra di oltre due milioni di detenuti. Il tasso di detenzione è di gran lunga il più alto del mondo: 702 cittadini incarcerati ogni 100.000, sette volte più che in Italia. E i detenuti sono soltanto un terzo della popolazione soggetta a repressione penale. Ci sono infatti oltre quattro milioni di cittadini sottoposti a misure alternative al carcere e questo porta ad oltre sei milioni le persone sottoposte a qualche forma di sanzione penale.

A tutto questo si aggiungono le nuove modalità del trattamento penitenziario che hanno trovato nel carcere californiano di Pelican Bay la loro più compiuta, modernissima espressione. Pelican Bay è una autentica discarica umana dove i detenuti sono reclusi in totale isolamento in celle prive di finestre, non leggono, non lavorano e non possono avere alcun contatto né con altri detenuti, né con le guardie, ne con persone esterne al carcere. La prigione è interamente automatizzata, una sorta di cimitero tecnologico nel quale sono sepolte persone vive, in una condizione di tortura permanente.
Zygmunt Bauman, probabilmente a ragione, ha sostenuto che Pelican Bay è il "laboratorio della società globalizzata", è il paradigma della "globalizzazione carceraria". Ciò che sembra comunque certo è che Guantánamo e Abu Ghraib sono i laboratori di un nichilismo penitenziario che ha solide radici nella cultura penale e nella prassi penitenziaria che si sono affermate in questi ultimi decenni negli Stati uniti, nonostante la loro tradizione democratica. Sono l’apoteosi della tortura nella sua metamorfosi imperiale.

Turchia: Leyla Zana lascia il carcere dopo 10 anni

 

Il Manifesto, 10 giugno 2004

 

"Mi raccomando, quando vedrete Leyla non ditele quanto sono invecchiato". Sopraffatto dall’emozione riesce a pronunciare solo queste parole Mehdi Zana, ex sindaco di Diyarbakir in esilio e marito di Leyla Zana, ex parlamentare kurda da ieri cittadina libera. Come i suoi tre compagni, come lei ex deputati del Dep, Hatip Dicle, Orhan Dogan, Selim Sadak. Alle 18 i quattro hanno lasciato il carcere di Ankara: ad accoglierli centinaia di persone che si erano riunite davanti alla prigione fin dal primo pomeriggio. Leyla, occhiali e capelli corti ha salutato sorridente tutti. Quindici anni di prigione: a tanto erano stati condannati i quattro ex parlamentari nel 1994. L’accusa era di tradimento e sostegno al terrorismo. Leyla Zana aveva osato parlare in kurdo in parlamento, auspicando la fratellanza tra il popolo kurdo quello turco. Il kurdo, la sua lingua, che proprio da ieri, per singolare coincidenza, è anch’essa di nuovo libera. Il canale nazionale statale Trt avrà d’ora in poi nel suo palinsesto anche un programma in kurdo.

La Corte di Ankara, dopo aver annullato il processo (conclusosi due mesi fa) che aveva riconfermato le condanne a Leyla Zana e agli tre ex parlamentari, ha ieri ordinato la scarcerazione dei quattro. Il nuovo processo si aprirà l’8 luglio.

Dal Kurdistan alla Turchia, passando per l’Italia e l’Europa, ieri i telefoni dei kurdi della diaspora erano bollenti. Da Amed (Diyarbakir), la città della quale Mehdi Zana è stato sindaco e dove è stato arrestato, incarcerato e torturato, chiamano soprattutto gli avvocati, gli amici dell’associazione per i diritti umani (Ihd), i sindacati. Tutti vogliono esprimere la loro gioia e rinnovare la loro solidarietà a Mehdi e ai due figli suoi e di Leyla, Ronay e Ruken (costretti anche loro ad una vita in esilio).

Da Ankara, invece, parlano gli avvocati dei quattro ex parlamentari. Per Yusuf Alatas la decisione della corte "è la vittoria per la quale ci siamo battuti per dieci anni".

Al telefono da Diyarbakir, il sindaco della città (eletto nelle fila del Dehap, erede del Dep) l’avvocato Osman Baydemir ci dice che "questa decisione è importante, non solo perché finalmente i quattro ex deputati verranno liberati, ma anche perché potrebbe davvero essere un importante passo verso la pace e la democrazia in questo paese". Dello stesso parere anche Ahmet Turk, ex deputato del Hep (che del Dep era stato il precursore prima di essere bandito, come poi accadde con lo stesso Dep e quindi con l’Hadep). "È una decisione che arriva con dieci anni di ritardo - dice Turk - ma che tutti dobbiamo salutare con gioia. Che sia l’inizio di una nuova stagione in Turchia".

Leyla Zana esce dunque dal carcere a 41 anni. Ne aveva 31 quando l’hanno arrestata. Nata nel villaggio di Bahce dove le donne erano considerate cittadine di serie B, a 14 anni è stata costretta dal padre a sposare un cugino di vent’anni più vecchio di lei. Zana racconta che tanta era la sua rabbia che "picchiai mio padre con tutta la forza che avevo nelle mani". Allo stesso tempo, Zana ammette che "non potevo accusare mio padre o mio marito. Sotto accusa era un sistema sociale che doveva essere cambiato". Così, Leyla sposa Mehdi Zana, che in seguito si rivelerà per lei un importante punto di riferimento, soprattutto nella sua vita politica. Mehdi Zana, infatti, trasferitosi con la moglie a Diyarbakir viene eletto sindaco nel 1977.

Dopo il golpe del 1980, Medhi viene arrestato e condannato a trent’anni di prigione: ne sconterà quindici. Leyla si ritrova sola, con un figlio di cinque anni e incinta. Praticamente analfabeta comincia a studiare da sola: prima impara il turco, fondamentale per la sua attività politica e poi riesce ad ottenere un diploma superiore senza mai frequentare la scuola. È la prima donna a riuscire in una simile impresa. Leyla diventa la portavoce delle donne e delle famiglie dei prigionieri politici e allo stesso tempo promuove un gruppo di donne che trova nell’autorganizzazione la sua spinta propulsiva e che ben presto apre uffici a Diyarbakir e Istanbul.

Leyla Zana comincia anche la sua attività giornalistica per Yeni Ulke e diventa direttrice della redazione di Diyarbakir. La popolarità e l’impegno di Zana la rendono la candidata naturale alle elezioni parlamentari del ‘91 nel partito filokurdo Dep.

Varese: manifestazione nazionale contro i C.P.T.

 

Collettivo Bellaciao, 10 giugno 2004

 

Venerdì 18 giugno dalle ore 11 in P.zza Montegrappa a Varese manifestiamo contro i lager Cpt

 

Il 18 giugno è la giornata nazionale contro i centri di permanenza temporanea CPT, ovvero gabbie per uomini e donne, colpevoli di esistere. Persone che non hanno commesso alcun reato: giudicate colpevoli di aver varcato dei confini, di cercare una possibilità di vivere, di vivere meglio, di scegliere liberamente dove vivere; giudicate colpevoli di lavorare in nero, di non essere stati regolarizzati dai datori di lavoro; giudicate colpevoli di aver perso il lavoro e di non averne trovato un altro. Privi di documenti non risultano cittadini di alcun paese e, rinchiusi in un centro inaccessibile a chiunque, finiscono per scomparire in un buco nero. Per tutto il periodo di detenzione i migranti sono privati di ogni più elementare diritto: dal vedere i propri parenti fino alla possibilità concreta di difendersi.

I CPT sono carceri con, videocamere, mura di cinta, container, filo spinato, cancelli, poliziotti e croce rossa militare.

I CPT sono le nuove frontiere delle nostre città, dove circolano liberamente merci, denaro e flussi finanziari ma non gli esseri umani.

I CPT sono luoghi dove vengono violati i diritti umani e la dignità delle persone, dove non è garantita l’assistenza legale ai richiedenti asilo, dove persino a chi ha già scontato una pena viene negata la libertà.

I CPT sono la vergogna della nostra società che vuole i migranti per pulire le nostre case, per accudire i nostri anziani e i nostri ammalati, per lavorare in fabbrica, per raccogliere pomodori, per accettare le condizioni di lavoro in cui massimo è lo sfruttamento.

I migranti sono i "nuovi schiavi" del nostro tempo: precarietà, clandestinità e invisibilità sociale, è la condizione che richiede il "mercato" ma anche quella che li condanna alla detenzione nei CPT e all’espulsione dal paese.

 

Missionari Comboniani, Varese Social Forum, Sinistra Giovanile

"Rebibbia G8": un programma TV realizzato nel carcere romano

 

TV Sorrisi e Canzoni, 10 giugno 2004

 

Tommaso, ex pugile, condannato per omicidio: "Qui c’è gente normale, in ansia per una lettera che tarda ad arrivare". Gianfranco, che ha ucciso e ora studia informatica: "Il detenuto è un uomo che vuole essere recuperato". E Luca, il più vecchio: "Ho sbagliato e pago. Però non mi vergogno a farmi vedere in TV".

Si chiama G8, ma non ha niente a che fare con il vertice dei Paesi più industrializzati: è un reparto penale del carcere romano di Rebibbia, riservato ai detenuti con reati che vanno dalla truffa allo spaccio di sostanze stupefacenti e all’omicidio. Entrarci, da visitatore, significa tuffarsi in un mondo diverso: da quello in cui viviamo la nostra quotidianità, ma anche da quello che molti film ci hanno raccontato. Di vero, di tutto quello che sappiamo sulla galera, ci sono soprattutto due cose: il rumore (impressionante) dei cancelli che si chiudono alle spalle di chi entra e il tempo, un elemento fondamentale per chi vive in carcere.

Il tempo che manca alla fine della pena, ma anche quello meteorologico, che può portare freddo e umidità o un caldo insopportabile nelle celle, il tempo che passa tra un colloquio e l’altro (sono concesse quattro ore al mese) ma anche quello da riempire (con il lavoro, i pasti, i libri, lo studio, la musica, lo sport, il corso di parrucchiere o le prove di uno spettacolo teatrale) per arrivare a fine giornata.

Questa insolita concezione del tempo colpisce subito, almeno quanto l’assenza degli squilli del cellulare che è (quasi) il primo oggetto che i visitatori devono lasciare ne-li armadietti di metallo per passare sotto al metal detector dell’ingresso. Il reparto G8, grande quasi il doppio di una normale palazzina a tre piani, occupato attualmente da circa 200 detenuti, è diventato il set di un programma televisivo. Titolo, neanche a dirlo, "Rebibbia G8".

Le cinque puntate, che andranno in onda in autunno su Rai Tre (in seconda serata), fanno parte de "Il mestiere di vivere", la serie di docu-fiction che ha già proposto "Residence Bastoggi" e "Hotel Helvetia". A realizzarle (per la società Magnolia) sono stati tre filmaker: Mauro Iannelli (che ne ha curato anche la regia), Paolo Santolini e Paolo Fattori. Con loro hanno lavorato una sceneggiatrice, Matilde D’Errico, e un gruppo di cinque collaboratori per il montaggio. Nove persone in tutto per un programma che ha l’obiettivo di raccontare storie vere, "immergendovisi".

Il linguaggio usato è quello della docu-fiction, un prodotto televisivo che prevede l’accostamento di due realtà apparentemente contraddittorie come quelle del documentario e della fiction. Caratteristica della docu-fictìon è, infatti, quella di essere girata in presa diretta ma ricorrendo a elementi espressivi, stilistici e drammaturgici tipici della fiction per meglio presentare i personaggi e le situazioni agli occhi dello spettatore. In questo genere, insomma, ogni realtà da raccontare è trattata dall’autore come un soggetto e la sua evoluzione reale come una sceneggiatura.

Iannelli, Santolini e Fattori hanno girato dentro Rebibbia per ben cinque mesi, il periodo più lungo che sia mai stato concesso a registi o cameramen per lavorare all’interno del carcere. "L’unica avventura possibile oggi è un viaggio in questi mondi. Tutto il resto è turismo televisivo" sostiene Iannelli.

E spiega: "Storie come quelle che raccontiamo in "Rebibbia G8" sono le uniche di cui non si conosce la fine. Da un viaggio in carcere si può non tornare. In agguato dietro le sbarre, per i detenuti, ci sono l’abbandono, il delirio, la follia". Il progetto degli autori, all’inizio, era quello di "raccontare lotta quotidiana del carcere per uscire dai luoghi comuni sull’argomento che parlano della detenzione in maniera pietistica o forcaiola".

Quasi subito, però, hanno dovuto cambiare rotta perché filmare l’interno delle celle è vietato. La scelta è stata quella di seguire alcuni detenuti (nel teatro, in chiesa eccetera) e provare a raccontare le emozioni di Tommaso, Gianfranco, Angelo, Luca, Aldo, Cirok Salvatore e Felice, i rapporti tra loro, con le guardie e con chi va a trovarli "da fuori", l’impegno nel lavoro e nello studio, l’atmosfera della suggestiva Messa di Natale celebrata dal cappellano don Sandro Spriano.

La serie si aprirà con la puntata dedicata a Tommaso. Ex pugile, trent’anni, nove dei quali passati in carcere (per omicidio preterintenzionale), ha ancora solo qualche mese da scontare. La "sua" puntata racconta una storia fatta di attese: dell’uscita, innanzi tutto, ma anche del colloquio con un’amica, per la quale sembra provare qualcosa di più della semplice amicizia.

"Vorrei che, attraverso questo programma, si capisse che in carcere c’è gente normale. Che soffre o che è in ansia per un colloquio o per una lettera che tardano ad arrivare. Io non sono diverso dai ragazzi della mia età che sono fuori. Ho fatto delle scelte sbagliate e le sto pagando. Loro (gli autori di "Rebibbia G8", ndr) ci hanno dato la possibilità di far vedere qualcosa di diverso dagli stereotipi del carcere. Per una volta abbiamo potuto mostrare i sentimenti e non le sbarre".

Come Tommaso la pensa Gianfranco, trent’anni ancora da compiere e tredici da scontare (oltre agli otto già trascorsi in carcere) per omicidio. A lui sarà dedicata la seconda puntata: "Se stiamo qui dentro è perché abbiamo sbagliato" ammette. "Ho accettato di partecipare a questo programma perché voglio che la gente veda quello che c’è nel carcere, chi è il detenuto. Cioè una persona che vuole rispettare le regole e che si vuole recuperare".

Magari studiando, come fa lui, ingegneria informatica. A questo proposito, il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Tinebra sottolinea: "Si fa molto per attuare il principio costituzionale del recupero dei detenuti. Il nostro impegno è proteso a ottenere un progressivo ridimensionamento delle barriere tra società civile e carcere, rivalutando il ruolo e l’utilità sociale di quest’ultimo".

La terza puntata di "Rebibbia G8" racconterà i transessuali, che sono detenuti nel reparto, in una sezione separata. Con loro c’è Angelo, un giovane omosessuale che si occupa delle pulizie, assieme a Marzia, un trans. E, con lei, è il protagonista della puntata. "La loro realtà, se possibile, è ancora più difficile", spiega Iannelli. "Il problema dell’identità sessuale si fa ancora più forte visto che, per esempio, possono truccarsi ma non possono portare le gonne. Sono i più difficili da gestire".

Il volontariato è un’attività molto importante per il carcere. Soprattutto per il G8, che è un reparto aperto verso l’esterno. Tra le attività svolte dai volontari c’è il sostegno ai detenuti che, per alcuni, è fondamentale: "In agguato per i detenuti, ci sono l’abbandono, il delirio, la follia" spiega Maurizio Iannelli, autore e regista di "Rebibbia G8". I volontari si occupano anche dei corsi di preparazione al lavoro, particolarmente importanti per coloro che stanno per lasciare il carcere.

A chiudere "Rebibbia G8" sarà una puntata sui ladri, ancora in fase di montaggio. Iannelli conclude ringraziando: "Alcune persone senza le quali questa avventura non sarebbe stata possibile: il direttore di Rebibbia, Carmelo Cantone, quello di Raitre, Paolo Ruffini, e i dirigenti di Raitre Giuliana Catamo e Francesco Nardella".

Rossano: "Innocenti evasioni", corso di lettura per i detenuti

 

Quotidiano di Calabria, 10 giugno 2004


Nella Casa di Reclusione di località Ciminata Greco allo Scalo, si terrà domani, alle ore 10,30, nella sala polivalente, una tavola rotonda, quale momento conclusivo di divulgazione in carcere attuato in favore dei detenuti.
Il corso di lettura, attività che si inserisce in un più ampio ed articolato progetto denominato "Innocenti evasioni", finalizzato allo sviluppo del senso critico ed analitico del detenuto, si è svolto esaminando il libro scritto da Daria Galateria, "Scritti galeotti".
All'appuntamento saranno presenti il presidente della Consulta Regionale per i Beni Culturali Pasquino Crupi; il provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria Paolo Quattrone; il Presidente dell'Associazione "dove volano i delfini" onlus, ed i componenti del comitato scientifico: la Direttrice delle carceri di Rossano e Cosenza Angela Paravati; il Direttore del Centro di Giustizia Minorile per la Calabria e Basilicata Serenella Pesarin; l'Assessore Regionale alla Cultura Saverio Zavettieri; il responsabile dell'Osservatorio Permanente per l'Educazione alla Legalità Patrizia Carrozza; il Presidente del Corso di laurea in Economia e Diritto dell'Università della Calabria Giampiero Calabrò. Esaminati gli scrittori che hanno avuto guai con la giustizia per i motivi più svariati.

 

 

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