Margara:
"L'ottica è quella della discarica sociale"
Il
65% della popolazione carceraria composta da tossicodipendenti e immigrati
Redattore
Sociale, 16 febbraio 2004
"Su
una popolazione carceraria di circa 57mila unità – un valore negli ultimi
anni in tendenziale aumento, che al ’99 si assestava sotto le 50mila – poco
meno di 37mila, ovvero il 65% del totale, è costituito da tossicodipendenti e
immigrati, le due grandi aree della detenzione sociale". Chi parla è
Alessandro Margara, ex Direttore del Dap, Presidente in carica della Fondazione
Michelucci, intervenuto questa mattina a Firenze, presso la sede Arci regionale,
al Seminario "Esclusione sociale e carcere, il ruolo e le potenzialità di
un sistema associativo", promosso da Arci Regione Toscana.
Sono proprio quelle 37mila persone che, nell’ottica di Margara, portano a
vedere nel carcere una "discarica sociale" come fosse un dato di fatto
ineliminabile. In Italia attualmente ci sono circa 700 detenuti in regime 41bis
e 7mila in alta sorveglianza per reati di maggiore gravità, ma quelle
"37mila persone – ha spiegato Margara - nella maggioranza dei casi si
trovano in carcere perché prima non hanno avuto un aiuto risolutivo, gli
interventi sono stati assenti o si sono rivelati fallimentari, ecco allora il
carcere che serve come compensazione di un’azione precedente non
riuscita". Se l’intenzione è quella di cambiare la prospettiva, bisogna
concentrarsi su due elementi fondamentali da cui dipende l’eccesso di
carcerazione: il sistema normativo concepito ed il modo in cui le leggi sono
gestite.
Per quanto riguarda la tossicodipendenza "già la legge 162/’90 portava
con sé l’idea della punizione funzionale al contenimento della dipendenza,
ora la proposta di Fini rilancia la politica della penalizzazione della
detenzione di stupefacenti." Un’ottica che, secondo Margara, significa
aver scelto la via del rafforzamento dei processi di carcerazione, ed avere
fiducia nella punizione come dissuasione dalla tossicodipendenza. Il concetto di
gestione, l’altra faccia del problema, "si lega in questo ambito alla
questione della sicurezza. Oggi abbiamo una gestione puramente occasionale,
quasi una logica di sicurezza securitaria, ovvero quella che pensa alla pulizia
delle città, e non all’ordine e alla rimozione delle cause che provocano il
disagio".
Sul fronte dell’immigrazione, siamo di fronte ad una normativa che ha prodotto
- con circa 65mila persone coinvolte – la più ampia regolarizzazione mai
registrata in Europa. Abbiamo assistito ad una politica "di blocco
dell’immigrazione, che non solo tende a produrre clandestinità (anticamera
del crimine) ma aumenta gli stessi flussi migratori. È il modo di controllare e
gestire gli ingressi – non di bloccarli – che consente di integrare davvero
persone di fatto importanti per il nostro sistema economico".
Un’altra questione prioritaria e connessa si lega alle possibilità
d’accesso alle misure alternative alla detenzione. Dei 37mila casi di
detenzione sociale, circa 17mila sono casi di tossicodipendenza, "di questi
8mila sono in custodia cautelare e circa 9mila in esecuzione di pena. Una larga
parte, di questi 9mila, potrebbe usufruire di misure alternative alla
detenzione. Perché questo spetta oggi solo al 10%? La risposta sta nel fatto
che il sistema carcerario non contempla la presa in carico delle persone, né la
conoscenza dei bisogni e delle situazioni di disagio, in più si aggiunge la
lentezza e la scarsa reattività della magistratura penitenziaria. Solo
scegliendo di lottare contro il disagio, e non contro i disagiati, si può
uscire dalla realtà del carcere come luogo per i rifiuti della società".