Rassegna stampa 24 dicembre

 

Tinebra (Dap): il nostro trattamento è migliore del mondo…

 

Asca, 24 dicembre 2004

 

Giovanni Tinebra, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), ha dichiarato oggi che "La situazione carceraria in Italia non ci vede arrossire, rispetto alle situazioni degli altri Paesi nel mondo. Il nostro trattamento, nonostante ciò che si dice, è il migliore, o tra i migliori".

Radicali: Tinebra vada a passare le feste nel carcere di Brescia!

 

Agenzia Radicale, 24 dicembre 2004

 

Il dottor Tinebra ha perso una buona occasione per tacere e per impiegare meglio il proprio tempo, magari leggendo, su "L’Unità" di oggi, il resoconto dell’ennesima visita ispettiva che i radicali hanno compiuto nelle carceri italiane, precisamente nel carcere di Brescia: una struttura che può ospitare 200 detenuti ne racchiude 430; solo 13 dei 180 detenuti tossicodipendenti usufruiscono di trattamento metadonico (il 7%, mentre nei Ser.T. riceve il metadone il 50% degli utenti – dati del governo), per gli altri ci sono solo sedativi; 5 persone ristrette per 22 ore in una cella di 6 metri quadrati. Questo accade nella civile Lombardia, nella città che annovera fra i suoi consiglieri comunali il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli.

Nel civile Piemonte, invece, per ben 15 anni il carcere di Asti è rimasto senza allacciamento all’acquedotto comunale e lo sarebbe ancora senza l’intervento dei radicali; e nel carcere di Alba (Cn) continua a piovere nella sala colloqui. Invitiamo il Dr. Tinebra a trascorre le feste nel carcere di Brescia; vedremo se all’uscita sarà nello spirito di ripetere la sua dichiarazione di oggi.

Gruppo Abele: istituire garante dei detenuti in Lombardia

 

Asca, 24 dicembre 2004

 

Il largo incremento nel numero dei detenuti (in un sistema peraltro già sovraffollato e al collasso), il sensibile aumento delle pene per la gran massa dei detenuti, l’impedimento all’accesso alle misure alternative, lo svuotamento della “riforma Gozzini”.

Sono gli argomenti trattati in un incontro che si è tenuto stamane al carcere milanese di San Vittore tra i detenuti raggruppati nel Gruppo di lavoro ed i promotori dell’iniziativa “Carcere: un disastro annunciato”, aperto a sindacalisti, parlamentari, rappresentanti degli enti locali, associazioni di volontariato.

Sergio Segio, del gruppo Abele, ha sottolineato l’urgenza e importanza che, anche a livello del Comune di Milano, degli altri Comuni e della Regione Lombardia venga finalmente istituita la figura del “Garante dei diritti delle persone private della libertà”, analogamente a quanto già è avvenuto in altre Regioni, dotandola di precise risorse e prerogative e all’interno di un percorso di confronto tra le amministrazioni locali e le forze sociali.

Numerosi interventi si sono poi focalizzati sulla disamina del testo di legge sul carcere della Regione Lombardia, che in gennaio comincerà l’iter per l’approvazione da parte del Consiglio regionale.

Da parte del senatore Pizzinato sono venute invece considerazioni e impegni sulla grande (e disattesa) questione delle opportunità di lavoro, che vanno ampliate e sostenute finanziariamente. Da parte dei rappresentanti dei detenuti e delle detenute sono venute osservazioni a tale legge regionale e, più in generale, richiami di attenzione e richieste di impegno attorno ad alcuni dei nodi più drammatici della condizione carceraria: il problema sanitario e i deficit di assistenza, il trattamento nei confronti dei reclusi immigrati, esclusi da ogni beneficio di legge e possibilità di accesso a misure alternative, la questione dei bambini e delle madri che - nonostante il varo di un’apposita legge nel 2001 - continuano a essere detenuti in carcere.

Il "Gruppo di lavoro" di San Vittore ha particolarmente rimarcato l’inapplicazione di leggi già esistenti e invitato a garantirne, invece, l’attuazione, destinando a ciò le risorse e strutture necessarie, sia a livello nazionale che locale.

La richiesta di audizioni presso la competente commissione ove riportate le proposte di modifica alla legge regionale avanzate dalle associazioni e dagli stessi detenuti è stata lanciata dalla segretaria generale della Cgil lombarda Susanna Camuso.

Milano: scarcerazioni dimenticate, accuse a 20 magistrati

 

Corriere della Sera, 24 dicembre 2004

 

Inchiesta disciplinare a Milano e Catania per i detenuti rimasti agli arresti fuori tempo massimo. Scarcerazioni fuori tempo massimo, di qualche settimana ma anche di 240 giorni, seppure quasi sempre dagli arresti domiciliari e non dal carcere, per lo più nel caso di indagati poi condannati a pene assai superiori al supplemento di custodia cautelare patita, spesso con la "collaborazione" di avvocati ugualmente disattenti alle sorti dei loro clienti. Il maglio delle ispezioni del ministero della Giustizia si abbatte su 20 magistrati delle Procure della Repubblica e dei Tribunali di Milano e Catania, messi sotto inchiesta disciplinare dalla Procura generale della Corte di Cassazione per aver appunto rimesso in libertà i loro arrestati quando il termine di custodia cautelare era già scaduto.

 

14 Gip e 6 Pm

 

In base agli elementi raccolti due anni fa nelle cancellerie di Catania e l’anno scorso in quelle di Milano dagli ispettori amministrativi del ministro Castelli, e dopo una prima scrematura che ha riguardato in tutto oltre 60 magistrati, la Procura generale della Cassazione (che con il ministro è uno dei due titolari dell’azione disciplinare) ha fatto notificare dai procuratori generali dei due distretti giudiziari, Cacciatore e Blandini, un "capo di incolpazione" (l’equivalente nel settore disciplinare di quello che l’avviso di garanzia è nel penale) a 12 giudici delle Indagini preliminari di Catania, nonché a 6 pubblici ministeri e a 2 gip di Milano, tutti accusati di avere tra il 1998 e il 2001 "gravemente mancato, nell’esercizio delle proprie funzioni, al dovere di diligenza, così compromettendo il prestigio e la credibilità dell’Ordine giudiziario".

Dopo aver svolto gli ultimi interrogatori fissati per gennaio, la Procura generale della Cassazione terminerà (in alcuni casi l’ha già fatto) di chiedere o l’archiviazione o il rinvio a giudizio disciplinare delle toghe davanti all’apposita Sezione del Csm, che potrà o assolverli o infliggere sanzioni quali l’ammonimento o la censura.

 

Gip o Pm, chi sbaglia?

 

Nei farraginosi meccanismi che hanno reso possibili le scarcerazioni fuori termine sono peraltro incorsi gli stessi ispettori, che in alcune occasioni sembrano a loro volta aver commesso una svista, cioè aver addebitato a un gip l’errore che eventualmente sarebbe stato invece da contestare a un pm, e viceversa: non a caso, dei 12 gip etnei sinora rinviati a giudizio davanti al Csm, già 7 sono stati prosciolti (compreso un caso di 203 giorni) dalla Sezione disciplinare dell’organo di autogoverno della magistratura, che si è attenuto alla giurisprudenza fissata dalla sentenza-pilota nel 2003 delle Sezioni unite civili della Cassazione: quella secondo la quale la responsabilità disciplinare per una scarcerazione fuori termine non va automaticamente ricondotta al gip, benché questi sia il titolare delle misure restrittive della libertà personale, ma va attribuita caso per caso al gip o al pm a seconda di chi dei due disponesse materialmente del fascicolo nella fase in cui si assume che sia mancata la tempestiva scarcerazione.

 

Anche la Cassazione

 

Se fino al termine del giudizio disciplinare non è possibile ricavare i nomi dei magistrati coinvolti (le massime disciplinari vengono addirittura pubblicate dal Csm senza i nomi degli interessati), già ora è invece possibile farsi un’idea del contenuto degli attuali rilievi.

Ecco, ad esempio, un pm chiedere nel 1999 l’arresto di un indagato (che verrà poi condannato a 5 anni) come "promotore" di un’associazione a delinquere, qualifica che la fine delle indagini riduce invece a quella di semplice "affiliato": i termini di custodia cautelare sono però più brevi e nella sfasatura (a cavallo di un Ferragosto) l’indagato fa 12 giorni in più.

Un altro pm chiede l’arresto di un indagato per violenza sessuale sia semplice (6 mesi di carcerazione preventiva) sia di gruppo (12 mesi): il gip concede l’arresto solo per violenza semplice, il Tribunale del Riesame dice che c’è anche la violenza di gruppo, il che però di per sé non modifica il titolo detentivo che resta esclusivamente quello di violenza semplice.

Ma un pò tutti finiscono per ragionare per sbaglio sui 12 mesi di custodia cautelare massima anziché sui 6, gli stessi avvocati avanzano istanze di vario genere ma non di scarcerazione quando già i termini sono scaduti: una di esse approda anche in Cassazione e, persino, la Suprema Corte la decide senza accorgersi dell’errore di base. Che, finalmente, dopo due mesi in più di arresti domiciliari nel 2000, balza all’occhio di un legale e viene ora contestato disciplinarmente tanto al pm quanto al gip.

 

Paradossi

 

È spesso logistico il caos che fa da contesto alle mancate scarcerazioni. Come nel caso dell’errore contestato a due pm (anche se uno dei due era solo formalmente cointestatario del fascicolo): uno straniero, rimasto latitante al momento dell’esecuzione di una operazione contro il traffico di hashish, viene catturato nel 2001 quando il fascicolo è già all’Ufficio deposito atti in vista della richiesta di rinvio a giudizio: nelle settimane delle fotocopie da parte dei difensori, tra irreperibilità e problemi di notifiche, decorre il termine di custodia, e i pm chiedono il rinvio a giudizio a termini già scaduti. Anche qui, come in molti degli altri casi, non è il difensore ad accorgersene, ma il gip che riceve la richiesta di rinvio a giudizio del pm.

Altre volte l’errore trova un correttivo involontario nella conseguenza paradossale che determina in chi lo subisce. Succede a un condannato da un gip a 9 mesi, pena non sospesa: resta sì agli arresti domiciliari più del dovuto, ma nel suo caso, ad attenuare almeno un poco la gravità dell’errore, c’è il fatto che il "di più" di detenzione preventiva patita gli vale comunque come "presofferto" scomputato da ulteriori condanne da scontare.

Milano: troppo tempo in carcere per errore e, tuttavia…

 

Corriere della Sera, 24 dicembre 2004

 

Troppo in carcere per errore e, tuttavia, non infuriarsi? Alla lotteria delle scarcerazioni in ritardo può accadere. Almeno secondo la famiglia e l’avvocato di uno degli indagati di cui si sono occupati gli ispettori del ministro Castelli nella contestazione mossa a un pm di Milano.

Un caso particolarissimo: sia perché il pm non era già più titolare del fascicolo al momento dell’errore (era già dal gip), sia per l’entità del ritardo (240 giorni in più agli arresti domiciliari per un indagato di estorsione, poi condannato a 2 anni) sia, soprattutto, per l’inusuale posizione del difensore.

Questi, infatti, una volta appresa l’apertura dell’inchiesta disciplinare sul vistoso ritardo, ha voluto scrivere una lettera per "testimoniare" pubblicamente a favore dei magistrati al centro dei rilievi disciplinari e ringraziarli di aver mantenuto il suo assistito agli arresti domiciliari, perché da libero la famiglia non avrebbe saputo (a detta del legale) come controllarne alcuni delicati problemi psichiatrici. In termini aritmetici, questo è il "record" dei ritardi: c’è anche un caso da 203 giorni, ma a Catania ha riguardato il ritardo nel far cessare non una carcerazione ma soltanto un obbligo di presentazione tre volte alla settimana alla polizia giudiziaria (che è pur sempre una misura cautelare).

Se in numerosi casi sono il Natale o il Ferragosto a favorire i pasticci (come nei 10 giorni di ritardo addebitati a un giudice milanese che non aveva materialmente ricevuto in stanza il fascicolo pur formalmente già assegnato al suo ufficio) talvolta è l’incrocio di indagini a creare problemi: un cinese, poi condannato a 8 anni per sequestro di persona, nelle more della richiesta di rinvio a giudizio è rimasto 14 giorni in più del dovuto agli arresti, perché il pm era stato "troppo" collaborativo con i colleghi di un’altra città, che per loro esigenze investigative lo avevano pregato di ritardare la discovery degli atti.

Roma: con l’Aids, agli arresti, ma senza permesso per curarsi

 

Il Messaggero, 24 dicembre 2004

 

Agli arresti domiciliari a Tarquinia da più di un mese ma senza avere i permessi per poter uscire di casa per accedere alle cure. È la storia di F.D. e del suo compagno L.B. arrestati per droga nel Napoletano e portati a Taqruinia dove hanno la residenza proprio perché lui Hiv positivo e con Aids conclamato potesse essere curato cosa che in carcere a Santa Maria Capua a Vetere non era possibile.

Dopo un mese di detenzione l’avvocato Raffaele Russo che assiste i due giovani ha ottenuto i domiciliari. "Ma da quando siamo arrivati qui non possiamo uscire di casa racconta F.D. siamo disperati il mio compagno è in condizioni disperate.

Ha bisogno di una terapia continua e ora sono mesi che non fa nulla. Anche la spesa per poter mangiare è un problema. Dobbiamo ricorrere alla disponibilità di qualche vicino che si muove a compassione e ci fa un pò di spesa. Non sappiamo a chi rivolgersi. La dottoressa Golia del tribunale non ci fa avere i permessi, ma così noi moriamo chiusi in casa, invece che in carcere".

Bologna: libero, torna in carcere ogni sera per fare l’attore

di Paola Ziccone, Direttore istituto penale per minorenni di Bologna

 

Giustizia.it, 24 dicembre 2004

 

Un giovane albanese di 23 anni, giunto quasi al termine della condanna a nove anni, rientra ogni sera in istituto per recitare nella Compagnia del Pratello, costituita da detenuti minorenni. La vicenda si svolge all’interno delle mura dell’istituto penale minorile di Bologna. Lui è Halit, che ha avuto la "fortuna" di essere arrestato 14 anni fa: da allora ha sfruttato tutte le occasioni di recupero messe a disposizione dagli istituti penali, dagli studi ai corsi professionali, compreso il teatro.

Oggi Halit ha un lavoro e una casa e ora che da maggiorenne è fuori, in affidamento ai servizi sociali, in carcere ci torna solo per recitare e perché ha lasciato degli amici e non si tratta solo di ragazzi detenuti. Sembra un racconto uscito dalla penna di Dickens, ma questa volta la storia – che proponiamo nel nostro editoriale di Natale - è assolutamente e rigorosamente vera.

 

Halit, il gommista di Kavaje

 

"Sono nato in un paese di mare e sono sempre stato appassionato di vita di mare, di mestieri del mare. A 10 anni ho lasciato la scuola e ho cominciato a lavorare da pescatore: andavo da solo o con gli amici di notte con la barchetta, gettavo le reti e la mattina dopo le ritiravo. Il pesce c’era una volta sì ed una no, era un lavoro faticoso e solo per mantenerti vivo. Portavo i soldi a casa, il pesce per mangiare, ma non c’era futuro".

Il futuro Halit l’ha cercato con quello che aveva a disposizione lì nel suo paese di mare in quel momento: oltre alle sue braccia e alla sua mente, un gommone con cui portare dall’altra parte del mare, uomini e donne come lui "in cerca" di futuro. Halit dice di essere fortunato ad essere stato preso insieme agli altri clandestini sul gommone e ad essere finito in carcere anziché in pasto ai pesci. Perché comunque è così che è iniziato il suo futuro: Halit ha saputo trasformare in benedizione la maledizione, e ha saputo trovare la volontà per sfruttare le opportunità per costruire un futuro, magari solido come le sue spalle.

Nel carcere minorile di Lecce ha studiato l’italiano e ha preso la licenza media, riuscendo a frequentare quella scuola che in Albania aveva interrotto per andare a lavorare. Poi è stato trasferito qui a Bologna, dove ha frequentato dei corsi professionali, di edilizia, carpenteria, scenotecnica. Ha dimostrato a tutti, compagni detenuti, agenti di Polizia penitenziaria, educatori, giudice di sorveglianza, quello che vale la sua parola: molto, perché quello che promette, anche fra mille difficoltà, lo mantiene. E per capire che fa sul serio, basta guardarlo negli occhi. Ci si può fidare.

Quello che più temeva era la solitudine: ma anche in questo, la sua fiducia negli altri e in sé stesso, la sua generosità e gentilezza, lo hanno fatto amare da molti, in carcere e fuori. Ora infatti Halit è fuori, è uscito da maggiorenne e finirà la sua pena con un affidamento ai Servizi Sociali. Siamo riusciti, infatti, a trovargli un lavoro come operaio edile e una casa in affitto: qualche soldo riesce persino a mandarlo a casa ai suoi.

Ogni tanto però Halit continuiamo a vederlo qui in carcere, perché ci viene a trovare. Vuol dire che ci sente amici. Per un mese ha partecipato all’allestimento di uno spettacolo teatrale e ha recitato per 19 sere di seguito: lo faceva dopo il lavoro. Lo spettacolo è stato un successo. Halit, che anche l’anno scorso era stato uno dei protagonisti dello spettacolo, insieme ai suoi compagni detenuti, ha mostrato di possedere anche un buon talento interpretativo. Il regista lo vuole con sé anche per degli spettacoli fuori.

Halit per me, per i ragazzi detenuti, per tutti gli operatori, è una persona ed una presenza preziosa: ricorda a ciascuno l’importanza di giocare bene il proprio ruolo fino in fondo perché questo salva se stessi e gli altri; conferma a tutti l’efficacia della solidarietà nel raddoppiare i risultati delle Azioni Buone; infonde fiducia nel futuro soprattutto ai ragazzi che come lui partono da una situazione difficile e sbagliata.

Ora Halit è in attesa di ricevere il passaporto: il primo passo per ottenere, finita la pena, il permesso di soggiorno per rimanere qui. Noi tutti speriamo che non sia costretto a ritornare da dove è partito, che il suo "futuro in corso" non venga spezzato, che possa continuare a venirci a trovare. Per Natale ho invitato Halit a venire qui in istituto alla Messa di Natale e a festeggiare subito dopo. Lui era contento. Ci sentiamo tutti dalla stessa parte, uguali, non stranieri gli uni agli altri.

Ravenna: idea regalo, un libro al carcere della tua città

 

Osservatorio sulla legalità, 24 dicembre 2004

 

Un’idea o un pensiero trasmessi da un libro possono aiutare a superare la solitudine, a crescere, ad essere migliori ed il carcere dovrebbe essere anche il luogo della rieducazione.

Ecco allora il progetto "Seminar libri… in carcere", donare cioè un libro nuovo in lingua italiana o straniera al carcere della propria città. Il progetto fa parte di una più ampia campagna - della quale a Ravenna si occupa la dottoressa M. Angela Barlotti - per la promozione alla lettura e informazione a favore di utenti svantaggiati.

Fra le iniziative della campagna, appunto quella che stimola a "seminare" libri "fuori di sé", in luoghi insoliti, regalandoli a detenuti ma anche a stranieri, anziani, malati. Può essere l’occasione e il modo di fare del bene anche a chi non si conosce ed anche in modo anonimo.

L’Assessore allo Sport del Comune di Ravenna, Josefa Idem - già atleta olimpionica, che tre giorni fa ha incontrato gli ospiti della locale Casa Circondariale - conviene che "motivazione è cercare e riuscire ad abbattere le barriere mentali, ...lavorare per raggiungere la capacità di esprimersi al meglio". Natale dura poco, ma l’idea di donare un libro che trasmetta questo a chi è svantaggiato può essere valida tutto l’anno e in tutta Italia.

Massa Carrara: il portiere Buffon in visita i detenuti

 

Repubblica, 24 dicembre 2004

 

Visita del portiere della Nazionale italiana di calcio Gianluigi Buffon, domani, ai detenuti della Casa di reclusione di Massa. "Ci piace sottolineare - osserva in una nota il direttore del carcere Salvatore Iodice - come la sensibilità mostrata, nella circostanza, da un campione famoso come Buffon, nei confronti di chi vive un periodo particolare della propria esistenza perché privato della libertà personale, oltre a rendere più bello lo sport, contribuisce, certamente, ad abbattere anche le lastre di cemento armato che, purtroppo, ancora dividono l’ emarginazione dalla cosiddetta società civile".

Roma: alcune riflessioni a proposito di Radio Bugliolo

 

Il Giornale d’Italia, 24 dicembre 2004

 

Giovedì 9 dicembre alle ore 21 dal teatro Palladium di Roma si è levata al cielo la voce di detenuti ed ex-detenuti che con una straordinaria e non comune capacità auto-ironica, recitando un copione desunto dal libro "Radio Bugliolo" scritto da Salvatore Ferraro, hanno saputo far ridere e commuovere la platea narrando il dramma di una quotidianità esautorata della libertà.

L’associazione culturale "Papillon-Rebibbia", onlus che da anni si batte per una "giustizia giusta", si è fatta promotrice dell’iniziativa insieme all’Assessorato al lavoro e alle Politiche per le Periferie del Comune di Roma nell’intento di convertire chiunque entri e assista alla rappresentazione ad un pensiero maggiormente critico nei confronti dell’utilità dell’istituzione carceraria quale purtroppo è. La regia di Michele La Ginestra attraverso gag esilaranti ed una musica dissacrante eseguita dal vivo dai "Presi per caso", band d’eccezione composta anch’essa di reclusi ed ex-carcerati dall’indubbio talento artistico, connette, per una strana coincidenza, le frequenze di un’ipotetica radio con le celle di una galera romana.

I pensieri, le piccole gioie, le grandi amarezze dei detenuti passano così dalle sbarre dietro cui sono relegati e, superando l’indifferenza degli uomini liberi, troppo spesso prigionieri di una morale spicciola e di facile consumo, giungono all’orecchio di tutti coloro che non si sono mai interrogati sull’istituzione carceraria e sulla profonda inadeguatezza delle pene detentive.

È difficile per chi non ha mai messo piede in un carcere comprendere cosa voglia dire essere privati di tutto, dell’affetto dei propri cari, della propria riservatezza, delle proprie cose, della speranza di vivere il domani, dei progetti, anche i più sciocchi, che tutti noi, liberi, diamo per scontato sia normale avere. Non sappiamo cosa sia subire quotidianamente una perquisizione, vedere gente che fruga nei nostri cassetti, guardare il cielo a scacchi, socializzare quando ci viene detto di farlo e non quando ne abbiamo voglia, non aver il controllo delle situazioni più banali, crescere dei figli a distanza che guardano incuriositi le manette che ci segnano i polsi e che ci rendono diversi.

Ecco, il punto è questo. Essere diversi in una società che vuole tutti uguali per sentirsi accettati e arrivati è l’amaro compromesso di una vita segnata dal crimine, da una giustizia fatta di giustizieri più che di cose giuste. Gli errori vanno pagati, questo è fuor di dubbio. Scontare i propri sbagli aiuta a non ripeterli ed è un utile esempio per il resto della società ma dobbiamo ricordare che solo l’amore vince l’odio, che solo nel convincimento di poter essere considerati sempre e comunque persone si rende possibile lo sforzo di migliorare noi stessi.

Questi ragazzi, per una sera liberi di dire la loro, chiedono di scontare da uomini la loro pena inflitta proprio per aver contratto dei debiti con una società fatta di uomini. Nessuno, né lo Stato, né le forze dell’ordine, né noi, liberi cittadini, abbiamo il diritto di lasciarli soli con i loro sbagli e le loro disillusioni e di strappare la dignità al nostro prossimo: non si può educare al rispetto dell’altro chi ha commesso un crimine se questo stesso individuo per primo non viene rispettato. Non si può pretendere da chi viene emarginato dalla società che collabori per il mantenimento dell’ordine sociale; non si può pretendere da chi è stato trattato come un numero che consideri fine e non mezzo le persone che incontra; non si può pretendere che un uomo che non rincorre più le sue speranze persegua obiettivi imposti dall’alto. Perché un uomo lotti per non cadere più in errore deve sentire di possedere ancora qualcosa di importante da perdere: la sua dignità che è per tutti diritto inalienabile.

Proprio perché è nella libertà la misura dell’errore, proprio perché per avere il merito di essere giusti ci è stato donato il libero arbitrio, tocca a noi, i liberi, essere giudicati dai detenuti e non possiamo ignorare il peso delle loro affermazioni quando ci accusano di farli sentire meno uomini.

Tocca a noi, a cui è dato di scegliere, di progettare, di girare per le strade a nostro piacimento, assumerci la responsabilità delle ingiustizie perpetuate nei loro confronti nella convinzione che il male non si può isolare in un carcere certi che allora il mondo esterno ne sarà privo. Il male è in noi tutti, carcerati e liberi, laddove possiamo scegliere di fare del bene e non lo facciamo. Solo i liberi possono sbagliare, solo i liberi possono essere condannati. Radio Bugliolo ci condanna, condanna le istituzioni che potendo scegliere mezzi alternativi al carcere violano e ledono la dignità personale infliggendo pene che il più delle volte aumentano i problemi che vorrebbero risolvere.

Anche il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II nel suo messaggio per il Giubileo delle Carceri afferma che gli Stati ed i Governi "che abbiano in corso o intendano intraprendere revisioni del loro sistema carcerario, per adeguarlo maggiormente alle esigenze della persona umana, meritano di essere incoraggiati a continuare in un’opera tanto importante, prevedendo anche maggior ricorso alle pene non detentive".

Radicali: l’incredibile caso della Cassa delle Ammende...

 

Agenzia Radicale, 24 dicembre 2004

 

A luglio è arrivato il via libera per un fondo da destinare all’inserimento lavorativo dei carcerati: 73 milioni di euro. Che ora però sembrano evaporati. Quando lo scorso febbraio il sottosegretario alla Giustizia, Jole Santelli dichiarò a Vita che "dal giorno 18 il regolamento della Cassa Ammende è completo", in molti si illusero che finalmente fosse stata messa la toppa a una questione tanto paradossale quanto odiosa.

La Cassa Ammende infatti è un ente di diritto pubblico, il cui presidente è il capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, in base al dpr del 30 giugno 2000, dovrebbe sostenere i detenuti poveri e le loro famiglie oltre che favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Il fondo oggi conta su circa 92 milioni di euro (provenienti dal pagamento delle ammende e delle multe oggetto delle sentenze penali di condanna e da tutti i beni mobili e immobili confiscati alla criminalità).

In realtà però le risorse disponibili sarebbero pari a 73 milioni: 12 milioni, infatti, sono bloccati perché relativi a procedimenti ancora in corso, mentre altri sette sono già stati impegnati per progetti dello stesso Dap. Fin qui la teoria. Malgrado le dichiarazioni della Santelli, infatti, il meccanismo della Cassa è rimasto per mesi inceppato per "ragioni amministrative", ossia perché il regolamento non era ancora stato inoltrato alle direzioni delle carceri e ai provveditorati regionali.

Operazione che finalmente si concretizza il 30 luglio 2004. Tutto a posto quindi? "Neanche per sogno", informa Jolanda Casigliani, attivista radicale e promotrice della neonata associazione dedicata al "detenuto ignoto". Oggi, a quasi 5 anni dall’approvazione della legge, a oltre 9 mesi dall’emanazione del regolamento relativo, e a più di 5 mesi dall’invio dell’informativa alle amministrazioni penitenziarie periferiche, non è stato esaminato alcun progetto a favore dell’occupazione dei carcerati. Risultato: 73milioni per zero progetti. Tanto più che le uniche iniziative avviate dal Dap riguardano, contra legem, due progetti attinenti alla sanità carceraria. "Uno addirittura", interviene la Casigliani, "prevederebbe l’acquisto di complessi macchinari per la diagnosi a distanza. Peccato che dietro le sbarre il problema siano le aspirine, altro che diagnosi a distanza. Dell’altro, invece, non si sa nulla".

Una curiosità che né al ministero, né al Dap ritengono di dover svelare. Nel frattempo rimangono sospese le domande di finanziamento presentate dagli enti. Dal Cssa-Centro servizi sociali per adulti di Genova fanno sapere di aver ricevuto una telefonata dal Dap a inizio settembre in cui si chiedeva se erano ancora interessati al finanziamento. Poi più nulla. Tanto per far capire l’aria che tira.

"Nulla infatti si sa", conclude la Casigliani, "sui meccanismi e sui tempi che regolano l’esame dei progetti". Del resto da Palazzo Piacentini nessuno si è preoccupato di pubblicizzare l’attività (inattività?) del fondo. Dal 15 dicembre però nessuno può più fare orecchie da mercante. La Casigliani, con l’associazione Papillon, incontrerà a Rebibbia il Comitato carceri della Commissione Giustizia, guidato dall’onorevole Enrico Buemi. Riuscirà ad aprire l’inaccessibile Cassa Ammende?

Lodi: oggi Radiolodi porta il Natale anche in carcere

 

Il Cittadino, 24 dicembre 2004

 

Il Natale non conosce ostacoli e la radio, mai come in un’occasione come questa, può riuscire ad avvicinare anche persone lontane e separate, magari, dalle difese di un penitenziario.Nel pomeriggio di oggi, vigilia di Natale, dalle 14.30 alle ore 16 Radio Lodi in Blu, in collaborazione con i volontari della rivista "Uomini Liberi", pubblicata mensilmente proprio sulle pagine del nostro giornale, trasmetterà in diretta un programma per i detenuti della casa circondariale di Lodi.

In carcere ad ogni ospite sarà data una radiolina e amici, parenti, conoscenti, ma anche persone sensibili al mondo del carcere, potranno intervenire in diretta (telefonando allo 0371 544544 in radio) portando un saluto, un ricordo, una testimonianza. Nel corso della trasmissione interverranno anche don Luigi Ciotti e Rita Borsellino, che hanno recentemente visitato il carcere di Lodi e che proprio attraverso le pagine di "Uomini Liberi" e del "Cittadino" avevano reso testimonianza di questo incontro con i detenuti.

"L’invito è dunque di telefonare in quelle ore - commenta Andrea Ferrari, volontario di "Uomini Liberi" - e parlare in diretta rivolgendosi ai detenuti, oppure si potrà anche inviare una e-mail all’indirizzo radiolodi@radiolodi.it. Le frequenze della radio, per chi vorrà mettersi in ascolto di questo originale programma sono Fm 100.500 (per Lodi) o Fm 88.850 o 89.000 (per la Lombardia). Un appuntamento originale per far viaggiare la solidarietà attraverso l’etere.

Intanto torna, allegato al "Cittadino" di giovedì 30 dicembre, "Uomini liberi", il mensile realizzato dai detenuti della casa Circondariale di Lodi. Si tratta di una pubblicazione molto apprezzata, non solo dal mondo dei "ristretti". "Uomini liberi" fornisce infatti uno spaccato originalissimo della vita vissuta in un carcere di provincia, attraverso gli occhi dei detenuti.

Genova: detenuti di Marassi alla grotta tra i pastori

 

Avvenire, 24 dicembre 2004

 

Un segno di speranza e riconciliazione. Offerto a tutti da chi, dopo aver sbagliato, cerca una strada per ricominciare. È il senso di un presepio vivente del tutto particolare: a rappresentare le scene della natività, in questi giorni, sono infatti due gruppi di detenuti di altrettanti istituti di pena liguri.

Il primo appuntamento si è svolto ieri a Genova presso il carcere di Marassi. Il racconto evangelico della nascita di Gesù è tornato a prendere vita grazie ai volti e alle parole di una trentina di detenuti "fissi" o in "semi-libertà", insieme a otto volontari di un’associazione che si occupa di assistenza sanitaria all’interno del penitenziario.

Un evento di fede, "ma anche - sottolinea il direttore dell’istituto di pena Salvatore Mazzeo - un gesto di apertura del carcere rispetto a quella società di cui fa parte e rispetto alla quale non vuole essere una realtà staccata. L’idea del presepe vivente è nata nell’ambito del programma di recupero ambientale per i detenuti, coinvolgendo anche persone esterne".

Tra i personaggi del presepio vivente molti gli stranieri: un fatto naturale in un carcere come quello di Marassi, dove oltre la metà dei detenuti non è italiano. E così tra i tre Re magi non poteva mancare un nordafricano di colore. La stragrande maggioranza dei detenuti che hanno partecipato alla Sacra rappresentazione si dichiara cattolico; ma a questo appuntamento ha voluto partecipare anche alcuni che non professano alcuna fede, ma hanno visto in questo evento e nel mistero stesso della Natività un segno importante di speranza.

Proprio a suggerire il legame tra carcere e territorio la rappresentazione del presepio vivente è iniziata ieri fuori della mura carcerarie, per terminare davanti alla grotta allestita con entusiasmo dai detenuti all’interno del penitenziario. A sottolineare il carattere di fede della manifestazione la celebrazione della Messa, che è stata presieduta dal cappellano del carcere, l’italo-argentino padre Felix.

Sempre in Liguria un’iniziativa per molti versi simile ha per protagonista l’istituto di pena di Chiavari, sulla riviera di Levante. Anche qui i carcerati si sono improvvisati attori e hanno realizzato il loro presepe animato attraverso un video: come set per le riprese hanno scelto proprio la zona del carcere riservata alla passeggiata durante i momenti d’aria. Qui, una quindicina di detenuti, coordinati dal cappellano del carcere, don Franco, hanno voluto esprimere il loro stato d’animo in occasione del Natale.

Per la rappresentazione hanno indossando costumi ben confezionati da un sartoria della zona. Il video, registrato nei giorni scorsi, verrà proiettato significativamente la vigilia di Natale, quando all’istituto di pena si recherà in visita il vescovo di Chiavari, monsignor Alberto Tanasini, che celebrerà la Messa. Nel video, insieme alla rievocazione della notte Betlemme, i protagonisti danno voce anche ad alcuni pensieri su come hanno celebrato il Natale nella loro vita, quando erano fuori dal carcere. Riflessioni spesso toccanti, come quella di un uomo, originario della Campania che racconta con tenerezza di quando allestiva il presepio nella propria casa. La stella brilla ancora. Anche dietro le sbarre.

Catania: detenuti-giardinieri al servizio della città

 

La Sicilia, 24 dicembre 2004

 

La realtà "dentro" che incontra la realtà "fuori". È questo il senso dell’iniziativa che si svolgerà stamane al Parco Falcone. Una cinquantina di detenuti delle case circondariali di Catania si occuperà - dalle 9 alle 13 - di sistemare il verde pubblico del parco, prestando opera di volontariato. Si tratta della conclusione del progetto "Settimana di recupero del patrimonio ambientale", attuato in tutt’Italia dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e coinvolgerà quei detenuti che hanno già goduto di permessi-premio. In ogni città è stato scelto un luogo-simbolo, un giardino pubblico frequentato e al centro, per Catania è toccato al Parco Falcone.

"Abbiamo voluto creare con quest’iniziativa un presupposto di collaborazione tra il carcere e la società civile - spiega Sebastiano Ardita, direttore generale dell’Ufficio centrale detenuti e trattamento del Dap - che purtroppo non fa parte del quotidiano. La società civile ha paura del carcere e ritiene che chi ci sia dentro sia socialmente pericoloso.

La realtà è molto diversa o, comunque, non è soltanto questa. La vita del carcere si basa su un sistema di repressione molto complesso per cui le possibilità di recupero sono spesso appannaggio di chi se lo può permettere con il risultato che le carceri sono piene di poveri e tossicodipendenti, soggetti deboli che non appartengono necessariamente a gruppi criminali. Se lo Stato non fa dei passi nella direzione di queste persone, è come consegnarle nelle mani della mafia".

Il Dap nell’attività di quest’anno ha puntato molto su questa filosofia e nei nuovi progetti del Dipartimento c’è quello di avviare delle iniziative per dare ai detenuti delle reali possibilità nel settore lavorativo. Non più, quindi, un lavoro portata avanti tra le mura del carcere ma una nuova "cultura" del lavoro penitenziario con i detenuti soci di cooperative in grado di siglare contratti con l’amministrazione penitenziaria e con privati esterni, in totale autonomia.

All’iniziativa di stamane è prevista, tra gli altri, la partecipazione del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tinebra, del sindaco Scapagnini, dell’assessore comunale al Verde pubblico, Orazio D’Antoni.

Palermo: il boss con la lode, laurea in legge per Carlo Marchese

 

Agi, 24 dicembre 2004

 

"Per uno come me è meglio prendere una laurea per potersi difendere meglio". Parola di Carlo Marchese, 48 anni, di Palermo, mafioso della "famiglia" di Caltanissetta, ergastolano del carcere Pagliarelli e dal 20 dicembre dottore in Giurisprudenza con un pesante centodieci e lode.

Il boss-neo dottore in legge, con un libretto tempestato di trenta, da fare invidia al più volenteroso tra gli aspiranti avvocati e magistrati, ha potuto suggellare il suo traguardo nella struttura carceraria, in una delle sale riservate per i colloqui tra detenuti e avvocati.

La commissione esaminatrice - presidente il preside della facoltà, Giuseppe Verde - ha ascoltato l’esame finale in Filosofia del diritto: mezz’ora di discussione della tesi, superata secondo i presenti in modo brillante. Poi la commissione si è ritirata per decidere e infine riconoscere all’uomo d’onore accusato di omicidio, associazione mafiosa e favoreggiamento, su cui pesano le accuse di due collaboratori di giustizia, il massimo della valutazione.

Marchese ha potuto brindare con la sua famiglia e posare per una foto con la tanto desiderata toga. "Sono felice - ha dichiarato Marchese al Giornale di Sicilia - per me è importante capire i codici, le leggi, gli articoli. Con la mia preparazione i collaboratori nei confronti in aula me li mangerò tutti".

Siracusa: un riconoscimento ai detenuti impegnati nel sociale

 

La Sicilia, 24 dicembre 2004

 

Il consulente volontario del sindaco per le Politiche delle periferie, Alessandro D’Ignoti Parenti, interviene sui sussidi erogati ai detenuti che hanno frequentato i corsi scolastici tra il 2001 e il 2003. "Sono soddisfatto - dichiara D’Ignoti Parenti, già presidente della circoscrizione Akradina - per quest’importante riconoscimento rivolto ai detenuti impegnati nel sociale.

In un momento così significativo per la vita di noi tutti in questo Santo Natale, è giusto rivolgere un piccolo gesto di attenzione verso le famiglie e verso chi soffre. Il mio incarico mi dà la possibilità, ogni giorno, di far sentire a chi vive in periferia quanto l’amministrazione comunale sia vicina e consapevole dei problemi di questi quartieri".

D’Ignoti Parenti ringrazia inoltre quanti hanno profuso il loro impegno nei riguardi dei detenuti e dei quartieri periferici: "Il senatore Roberto Centaro per essere stato attento alle mie sollecitazioni, a favore di persone che pur avendo sbagliato intendono riscattarsi impegnandosi per uscire dalla situazione attuale, che ha messo in campo la stessa sensibilità dimostrata quando è intervenuto a favore dei familiari dei detenuti con la realizzazione della sala d’attesa nel carcere di Cavadonna".

Il consulente comunale ringrazia poi la direttrice del carcere Angela Gianì, il direttore del Dap Giovanni Tinebra, l’assessore alle Politiche sociali Nunzio Cappadona, il sindaco Bufardeci e il vicesindaco Vincenzo Vinciullo.

Giustizia: An, due pdl per riformare il "concorso esterno"

 

Ansa, 24 dicembre 2004

 

An sul piede di guerra contro il "concorso esterno in associazione mafiosa", per il quale il senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri è stato condannato il 12 dicembre scorso a nove anni di carcere dal Tribunale di Palermo. Il senatore Luigi Bobbio e il deputato Francesco Onnis in queste ore hanno infatti messo a punto due diverse proposte di legge per riformare questa fattispecie e dimezzarne le pene.

Proprio quando il Capo dello Stato lancia ai poli un appello al dialogo sulle riforme, soprattutto in materia di giustizia. "La mia proposta - spiega oggi Bobbio - non è per salvare Dell’Utri, come afferma invece l’opposizione, ma per eliminare un vero e proprio mostro giuridico che è il concorso esterno in associazione mafiosa, un reato non previsto dal codice, ma tipizzato solo dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione".

Dello stesso avviso Francesco Onnis, che in più vuole anche dimezzare le pene, che sono le stesse previste per il 416 bis: da tre a nove. Onnis infatti propone di inserire nel codice penale una nuova norma: il "110 bis", che introduce una nuova ipotesi, quella di "concorso di persone nei reati associativi".

Secondo questa previsione concorre nei reati associativi "chi, essendo estraneo alla struttura associativa, senza comunque avere la volontà di farne parte, consapevolmente e volontariamente presta un contributo concreto, specifico ed essenziale per la conservazione e il rafforzamento dell’associazione al fine della razionalizzazione del programma criminoso di quest’ultima". "Nei casi indicati al primo comma - si legge ancora nella proposta di legge - la pena da infliggere è diminuita della metà".

Il testo messo a punto da Bobbio invece punta ad eliminare il ‘concorso esternò introducendo una nuova fattispecie: quella della "cooperazione". E si macchia di questo reato chi, "senza farne parte, si presti in maniera stabile in favore dei membri di un’organizzazione criminale per consentire in maniera intenzionale l’attuazione o la modifica del programma criminoso o anche al fine di mettere a punto le strategie idonee a realizzare lo stesso programma".

Bobbio però le pene non le vuole modificare. Sono e restano, spiega, quelle del 416 bis. Alla luce di queste due proposte il dialogo con il centrosinistra sembra davvero difficile. Il responsabile Giustizia della Margherita Giuseppe Fanfani non ha dubbi: "O loro ritirano queste leggi ad personam come la salva-Previti o la salva-Dell’Utri o diventa davvero ridicolo parlare di dialogo".

"È un vero e proprio colpo di mano - gli fanno eco Giuseppe Lumia e Giancarlo Sinisi rispettivamente capigruppo in Antimafia dei Ds e dei Dl - del quale non se ne sentiva il bisogno e al quale ci opporremo".

"La proposta di Bobbio - aggiungono - cancellerà tutti i processi a carico dei politici inquisiti per aver favorito la mafia". Più duro il commento di Francesco Bonito (Ds), che definisce le due proposte di legge di An "un clamoroso esempio di concorso esterno, giacché consapevolmente, volontariamente e coscientemente si aiuta la mafia...".

Anche il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro lancia oggi un nuovo appello alla Cdl: basta con le leggi ad personam. Per il bene delle istituzioni e del Paese. Secca la replica di Bobbio: "Sono io oggi che lancio un appello al centrosinistra: basta con queste ossessioni fobiche di leggere in ogni provvedimento il tentativo di salvare qualche imputato più o meno illustre.

Il dialogo sarà possibile solo se voi uscirete da questa inutile e sterile polemica politica". Ma il senatore di An viene criticato anche dall’interno del suo partito. Dal deputato Edmondo Cirielli, ad esempio, che riduce la proposta di Bobbio ad "una iniziativa del tutto personale della quale non si sentiva alcun bisogno". "Di questa proposta di legge - tiene a precisare ancora Cirielli - non si è mai parlato in nessuna sede di partito".

Milano: il Prefetto, meno omicidi ma più rapine

 

Ansa, 24 dicembre 2004

 

Nessuno può dire quale sia la soglia al di qua della quale una città si sente sicura. Essa è legata, più che ai dati reali, alla percezione dei cittadini. A Milano comunque l’andamento "è confortante con una diminuzione costante e complessiva dei reati rispetto agli anni ‘90". Lo ha detto il Prefetto Bruno Ferrante nel corso della cerimonia di auguri di Natale ai rappresentanti delle forze dell’ordine.

Sono aumentate le rapine (non quelle in banca che invece sono drasticamente diminuite in città), mentre i reati prevalenti, praticamente il 70% del totale, sono costituiti da furti e borseggi. Un dato quasi fisiologico - ha detto il Prefetto - "in una realtà sociale che per la sua ricchezza e la sua dinamicità si presta all’aggressione criminale.

Ma Milano può avere grazie a voi - ha sottolineato Ferrante rivolto ai rappresentanti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza - una sufficiente tranquillità". Il Prefetto Ferrante ha ricordato come l’anno fosse cominciato con gli scioperi dei tranvieri che, attuati fuori dalle norme di autodisciplina, sconvolsero la vita della città per alcuni giorni. Il tremendo attentato di Madrid ha poi dato il via a "un impegno sul fronte del terrorismo interno e internazionale, un impegno severo attuato con tanti uomini per la vigilanza degli obiettivi", mentre le esplosioni alle sedi delle agenzie di lavoro interinale e davanti al carcere di San Vittore hanno provocato "un’analisi molto attenta.

Ma il messaggio giunto ai cittadini fu che non ci sono allarmi particolari per la nostra città che non si fa prendere da timori falsi e eccessivi". E poi l’ordine pubblico, che a Milano è ogni domenica lo stadio di San Siro. "L’auspicio - ha detto Ferrante - è quello di un calcio senza poliziotti all’interno dello stadio, una festa dove non ci siano le forze dell’ordine aggredite proditoriamente da pseudo tifosi".

E ancora la prova del nove: prima gli incontri delle comunità di Sant’Egidio e poi con l’inaugurazione della nuova Scala a Sant’Ambrogio: "Un evento mediatico di straordinaria importanza per tutto il Paese e che per questo poteva essere occasione per attentati o sabotaggi. Un lavoro di prevenzione ben riuscito con attività non viste all’interno e all’esterno. Servizi esemplari, efficaci che non hanno pesato sulla vita della città".

Queste le denunce presentate tra gennaio e novembre 2004 per alcuni tipi di reati a Milano e provincia. Tra parentesi le cifre del 2003: Totale generale delitti 206.574 (203.194), omicidi 30 (42), violenze sessuali 239 (187), furti 130.845 (129.277), borseggi 24.668 (26.483), scippi 1820 (1710), furti auto 26.151 (25.718), furti in appartamenti 11.286 (11.294), furti in negozi 7274 (6447) rapine 4101 (3458), rapine in banca 233 (253), rapine uffici postali 51 (46) rapine in gioiellerie 10 (14), rapine a coppie o prostitute 27 (29), incendi dolosi 376 (310), attentati dinamitardi 10 (9), sfruttamento/favoreggiamento prostituzione 80 (110).

Milano: auguri dei detenuti, diretta su Radio Popolare

 

Ansa, 24 dicembre 2004

 

Il giorno di Natale, come lo scorso anno, Radio Popolare realizzerà una trasmissione in diretta dal carcere di Milano-Bollate per raccontare come passa il Natale chi vive dietro le sbarre. Lo ha reso noto l’emittente radiofonica. Sabato mattina dalle 10 alle 12 i microfoni saranno quindi a disposizione dei detenuti, che racconteranno le loro emozioni in occasione del Natale.

Inoltre verranno anche trasmessi i messaggi di auguri registrati da alcuni reclusi a San Vittore. Alla trasmissione potranno partecipare, telefonando in diretta, anche i parenti e gli amici dei detenuti di tutte le carceri raggiunte dal segnale di Radio Popolare. Un modo per superare virtualmente l’ostacolo delle sbarre e scambiarsi gli auguri.

Milano: morì a San Vittore nel dicembre 2003, forse fu uccisa

 

Ansa, 24 dicembre 2004

 

Sarebbe morta ammazzata e non suicida Luisella Lami, 46 anni, la dentista vittoriese trovata impiccata nel bagno della cella comune del carcere di San Vittore il 5 dicembre del 2003. A distanza di un anno, su istanza dell’avvocato Santino Garufi, legale della famiglia Lami, la Procura della Repubblica di Milano ha riaperto le indagini sul caso archiviato come suicidio.

La donna era stata arrestata a Milano il 6 marzo del 2003, dove viveva e lavorava, con l’accusa di tentato uxoricidio. Quel giorno Luisella Lami era andata a casa del figlio: lì aveva trovato il marito, dal quale si era separata diversi anni prima, appena arrivato da Vittoria.

Per motivi rimasti tuttora oscuri, la donna ha colpito il marito con due colpi di pistola. Luisella Lami aveva rifiutato gli arresti domiciliari, rimanendo a San Vittore in attesa di giudizio. Nei mesi precedenti la morte, la donna avrebbe comunicato alla famiglia di temere per la vita dei figli e di sentirsi minacciata. Adesso la riapertura del fascicolo per "omicidio volontario a carico di ignoti".

Brescia: tre nuovi alloggi per i detenuti in semilibertà

 

Giornale di Brescia, 24 dicembre 2004

 

Cose piccole, ma grandissime per restituire dignità a chi si è perso, per i casi della vita, per il background maturato, per una scelta sbagliata di cui sono ancora da pagare le conseguenze. Si chiama "Housing estate" il progetto condiviso dal Comune, dalle associazioni Volontariato Carcere e Carcere e Territorio, dall’Aler, dalla Caritas e dal Centro servizi sociali per adulti del Ministero di Grazia e Giustizia per consentire a persone in esecuzione penale esterna di avere la disponibilità di un alloggio che, insieme al lavoro, rappresenta uno dei fattori cardine del reinserimento in società.

Con i lavori di ristrutturazione appena completati sono stati resi disponibili tre nuovi alloggi per sei posti letto complessivi, concessi dal Comune in comodato gratuito, sotto la gestione tecnica dell’Aler, per essere assegnati a persone condannate con sentenza penale definitiva, che il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto meritevoli di forme alternative alla detenzione in carcere, secondo un ventaglio di misure graduate che può andare dal permesso premio all’affidamento al servizio sociale, dalla semilibertà alla detenzione domiciliare.

I nuovi sei posti maschili si aggiungono ad altri otto posti letto per uomini e agli otto femminili distribuiti su sette alloggi, e già operativi nell’accoglienza di persone in fase di esecuzione penale esterna.

Anima del progetto di housing estate, le due associazioni Volontariato Carcere e Carcere e Territorio, che confidano sulla presenza di punti di riferimento abitativi come modalità importanti per accompagnare all’uscita dal carcere e superare le dinamiche di esclusione sociale e affettiva, sottolineando come una bassa quota di detenuti che abbiano intrapreso un percorso socializzante esterno ritorna a commettere reati, una volta libero, con un abbattimento del 75 per cento del rischio di recidiva.

La formula dell’esecuzione penale esterna, peraltro, che si basa su un delicato equilibrio fra esigenze di sicurezza sociale e dettato costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, interessa un po’ meno della metà degli oltre trecento detenuti nei due carceri cittadini con sentenza definitiva, come ha spiegato Alessandro Zaniboni, magistrato presso il Tribunale di Sorveglianza di Brescia.

Un sistema che non potrebbe esistere, secondo il vice sindaco, Luigi Morgano, senza la concertazione fra chi si occupa di esecuzione penale, le associazioni di volontariato sul territorio e le istituzioni pubbliche. Per il 2005, intanto, è in arrivo un contributo dalla Regione Lombardia per circa 200 mila euro, "che servirà per implementare l’offerta di housing con ulteriori trenta posti letto, un traguardo importante a livello lombardo e nazionale", preannuncia Carlo Alberto Romano, presidente dell’Associazione Carcere e Territorio.

Sullo sfondo, accanto alla garanzia di un alloggio, resta il problema del reinserimento occupazionale dei detenuti. "Grazie alla Provincia, nel 2000, avevamo siglato un’apposita convenzione con le diverse associazioni di categoria: tuttavia, ad oggi, se troviamo sbocchi lavorativi, questi sono ancora nelle cooperative sociali, perché le aziende profit hanno tradito quella convenzione (abbiamo solo 3-4 occupati in aziende normali) - dice Angelo Canori, presidente dell’associazione Volontariato Carcere -.

Per questo facciamo un appello a tutte le aziende, perché ci aprano una porta, quanto meno per detenuti a fine pena che abbiano già intrapreso un percorso formativo nelle cooperative, altrimenti questa gente non riusciremo mai a recuperarla".

Santa Maria Capua Vetere: in cella si diventa elettricisti e sarte

 

Il Mattino, 24 dicembre 2004

 

Si sono conclusi i corsi di formazione (Misura 3.4 del Por Regione Campania) per il ciclo di attività formative svolte all’interno del nuovo complesso della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. I corsi, destinati a detenuti di ambo i sessi (40 uomini e 10 donne), hanno interessato diversi ambiti professionali e fra questi: elettricista installatore, pittore artistico, operatore informatico e sarta cucitrice.

L’attività - per un totale di 550 ore formative per ogni singolo corso - è stata organizzata dalla Regione Campania grazie a un accordo stipulato con il ministero della Giustizia che prevede interventi a favore dei detenuti adulti. Intesa e sinergia tra i due enti rappresentati da Elpidio Di Caprio per la Regione e da Teresa Abbate, direttrice della Casa circondariale.

L’intera attività formativa è stata svolta dal Centro di formazione professionale "Giulio Pastore" di Caserta, di cui è responsabile Giustino Santoro, i cui docenti, ricchi di una pluriennale esperienza nelle carceri, hanno stabilito con i beneficiari un rapporto che va oltre la normale formazione consentendo agli "allievi" il raggiungimento di ottimi risultati sia per quanto riguarda le conoscenze teorico-pratiche sia per quanto riguarda i rapporti interpersonali.

Napoli: musica e cabaret, festa per i detenuti di Secondigliano

 

Il Mattino, 24 dicembre 2004

 

Due ore di festa in carcere. Musica e cabaret per i detenuti. Ieri il gruppo dei Cimarosa e i cabarettisti Angelo di Gennaro, Marco Cristi e Rosario Toscano hanno "regalato" uno spettacolo agli oltre 200 detenuti dei padiglioni Italia e Salerno del carcere di Poggioreale. La kermesse "Natale di solidarietà al carcere di Secondigliano, oltre il muro dell’Indifferenza", è stata organizzata dall’associazione Città Invisibile presieduta dal presidente del Corecom, Samuele Ciambriello.

Gli ospiti della casa circondariale (nel padiglione Salerno ci sono quelli alla prima esperienza carceraria, mentre nel padiglione Italia i lavoranti), si sono dati appuntamento nella cappella, per l’occasione trasformata in palcoscenico. Gag, dissertazioni sul calcio, e musica, con il repertorio classico partenopeo.

"È opportuno - ha detto Ciambriello - che si crei un osservatorio sui problemi carcerari e, visto che i consiglieri regionali possono accedere nelle case circondariali, una commissione per i problemi delle carceri che sono luoghi di rieducazione e non di rimozione. Ci auguriamo che questa città possa riscattarsi sempre più avendo testimoni della solidarietà".

Nelle carceri della Campania sono oltre 5000 i detenuti. "Quest’iniziativa - ha detto il direttore del carcere, Salvatore Acerra - così come le altre sono importanti e non si possono realizzare senza il contributo dell’esterno. Il tutto anche per collaborare nell’attività di rieducazione dei detenuti".

Senza fissa dimora: dove risiedo? a Bologna, in "Via Senza Tetto"

 

Traflash, 24 dicembre 2004

 

Il problema della residenza anagrafica è stato risolto nelle principali città italiane in diversi modi. Non senza fantasia. Chi è senza dimora non è solo senza tetto. È anche senza indirizzo. Un inconveniente non da poco, perché di fatto estromette l’interessato da tutti i diritti fondamentali di cui si può godere avendo una residenza, a cominciare dall’ottenimento dei documenti anagrafici e della tessera sanitaria.

Da alcuni anni, però, si cerca di ovviare al problema, in assenza di una normativa certa, individuando punti di riferimento, reali o convenzionali, che consentano di attribuire un indirizzo. Ecco come si è concretizzato, nelle principali città italiane, il concetto di "residenza anagrafica".

 

Bologna, recapito in Via Senza Tetto

 

Sono tra i 200 e i 300 i senza dimora bolognesi che - dal giugno 2001 - hanno ottenuto la residenza anagrafica in città. La stima è dell’associazione Avvocati di strada, nata dall’esperienza dello storico giornale di strada Piazza Grande. Tre anni fa, a giugno, una sentenza ammise la domiciliazione di homeless presso dormitori, associazioni e centri di accoglienza.

La residenza, però, la possono ottenere anche i non ospiti delle strutture bolognesi, con una trovata singolare. "Il richiedente - spiega Antonio Dercenno, degli Avvocati di strada - indica dove può essere reperito di notte; la polizia compie un accertamento e si avvia la pratica. Il domicilio indicato sui documenti, in questo caso, è via Senza Tetto".

L’iter della pratica, però, sconta tempi lunghi, e spesso gli Avvocati di strada sono intervenuti, con successo, anche per vincere alcune resistenze da parte degli operatori. Infatti la residenza anagrafica comporta la presa in carico da parte dei servizi sociali, con un aggravio del lavoro.

 

A Roma, una via Modesta

 

Dal 27 febbraio 2002 Roma ha una via in più: è stata istituita via Modesta Valenti come "indirizzo anagrafico convenzionale" per le persone senza dimora della capitale. Ciò permette a tutte le persone senza una residenza stabile di poter usufruire dei servizi cittadini e di godere dei diritti civili. Fino a oggi sono quasi 350 le persone che hanno acquisito la "residenza" in questa via, il cui nome vuole ricordare un’anziana senza dimora morta nel 1983 per ritardo dei soccorsi. Modesta Valenti è diventata il simbolo dell’indifferenza che circonda chi non ha una casa e a lei è dedicata la giornata che la comunità di Sant’Egidio promuove in ricordo di coloro che sono morti per strada. L’indirizzo ha anche 19 numeri civici, corrispondenti ai 19 "municipi della città". Ogni municipio può effettuare l’iscrizione anagrafica nella propria zona di competenza.

 

Torino, altre residenze

 

Presso l’anagrafe di Torino è stata istituita, come indirizzo fittizio per i senza dimora, "Via della Casa Comunale, n. 1". I beneficiari di questo tipo di residenza possono usufruire di interventi di bassa soglia, esclusi quelli di tipo economico. Le persone prese in carico dai servizi socio-assistenziali, invece, avranno attribuito d’ufficio l’indirizzo di "via della Casa Comunale n. 2".

Acquisita l’iscrizione ci si può rivolgere all’ufficio Adulti in difficoltà, se non si hanno più di 60 anni e non si è mai stati residenti a Torino. Previste eccezioni per chi vive da solo e per gli invalidi civili. Per i casi non menzionati occorre rivolgersi ai Servizi sociali territoriali.

Gli ex-detenuti, invece, possono fare riferimento ai servizi sociali del precedente territorio di competenza a cui già appartenevano mentre i cittadini stranieri attualmente non possono usufruire di questo servizio.

 

Napoli, tutti in via Alfredo Renzi

 

I senza dimora partenopei presto "abiteranno" tutti in via Alfredo Renzi, una via virtuale, che finalmente darà loro la "residenza anagrafica" nella città di Napoli (e i benefici sociosanitari connessi). "La delibera comunale (approvata lo scorso dicembre) - spiega l’assessore agli Affari Sociali Raffaele Tecce - prevede infatti che i sfd cittadini italiani e comunitari, nonché gli stranieri in possesso di passaporto, permesso o carta di soggiorno, che avranno eletto il proprio domicilio nella città di Napoli, potranno fare richiesta di residenza anagrafica attraverso i Centri di servizi sociali delle diverse circoscrizioni, o attraverso il dormitorio pubblico o, ancora, attraverso gli organismi della cooperazione sociale. I diversi responsabili accrediteranno i richiedenti presso l’Ufficio anagrafe e l’iscrizione avverrà previo accertamento dei vigili urbani della condizione di persona sfd".

 

Milano, senza fisso indirizzo

 

A Milano sono circa 25 i centri di accoglienza presso i quali i senza dimora possono richiedere la residenza anagrafica. "Rispetto ad altre città - spiega Stefano Galliani, presidente della Fiopsd - è una soluzione che genera maggiori perplessità, in quanto la residenza presso un centro privato implica una presa in carico da parte di quest’ultimo e non da parte dei servizi sociali del comune".

Secondo Raffaele Gnocchi, dell’area grave emarginazione adulta di Caritas Ambrosiana, "sono circa un migliaio le persone senza dimora che dal ‘95 a oggi hanno ottenuto la residenza a Milano in questo modo". Tra i centri che danno la possibilità di ottenere la residenza, la "Cena dell’amicizia" attualmente ha circa 20 persone in carico (150 negli ultimi dieci anni), mentre la parrocchia della Madonna della medaglia miracolosa ha consentito la pratica a 102 utenti del proprio centro d’ascolto.

Danni morali a una persona senza dimora, ora paga il ministero

 

Traflash, 24 dicembre 2004

 

L.G. aveva chiesto al comune di Milano di eleggere a sua residenza un servizio Caritas. Otto anni per avere giustizia Senza dimora, senza indirizzo e diritti. Niente documenti e tessera sanitaria. Negli anni ‘90 il privato sociale ha lottato per ottenere dai comuni la residenza anagrafica. E oggi un tribunale condanna lo Stato a rimborsare un clochard.

La vittoria di un cittadino solo, apparentemente senza speranza. Che diventa simbolo di speranza per molti. È la vittoria di L.G., che nel ‘96 ha avuto il coraggio di avviare una causa civile nei confronti del comune di Milano e del ministero degli interni: un procedimento che ora si è concluso con la condanna dell’ente locale. Assicurando al protagonista il riconoscimento di alcuni diritti. Ma andiamo con ordine.

Nel 1994 L.G., a causa di vicende familiari, si trovò non più iscritto al registro dei residenti. In precedenza aveva chiesto la residenza anagrafica al comune di Milano, ma aveva dovuto attendere più di un anno, durante il quale non aveva potuto usufruire dei servizi di base, tra cui l’assistenza sanitaria. Nel dicembre ‘94 L.G. lesse su un giornale che era possibile eleggere la propria residenza presso alcuni centri di accoglienza, tra cui quelli della Caritas Ambrosiana. Così il Sam (Servizio accoglienza milanese), lo informò che alcune persone senza dimora avevano potuto ottenere la stessa residenza presso la Caritas, ma per altri non era stato possibile.

Questo perché il comune la concedeva solo a chi era nativo di Milano, o aveva avuto in città l’ultima residenza. Clandestino è deleterio Ma L.G. era deciso a far valere i propri diritti, anche perché aveva forte bisogno di alcune cure mediche particolari. Suor Claudia gli propose di avanzare comunque la richiesta (anche se aveva la certezza che sarebbe stata respinta) e successivamente di fare ricorso amministrativo. Infatti così accadde: un mese dopo la sua domanda, il comune la respinse. L.G. fece allora ricorso e all’inizio del ‘96 il prefetto gli diede ragione.

"Vincemmo grazie al lavoro di legali, consulenti, esperti di diritto amministrativo, ma anche grazie alla caparbietà di suor Claudia e alla mia tenacia nel seguire la vicenda. Il fatto di aver vinto il ricorso amministrativo ha permesso ai centri di ascolto di far ottenere la residenza ai cittadini non nativi di Milano, come nel mio caso", ricorda L.G.

A quel punto L.G. e i suoi sostenitori decisero di continuare la loro battaglia e citare in giudizio sia il comune sia il ministero degli interni, chiedendo il risarcimento per i danni conseguiti a causa della mancata iscrizione all’anagrafe: "In tutto quel lasso di tempo ero un clandestino a tutti gli effetti. Non avere la residenza significa non esistere, dà la sensazione di trovarsi in un limbo. Non è piacevole dal punto di vista psicologico, per cui se uno è già in crisi, va a finire che i suoi problemi si acuiscono.

Non avere un documento, non poter avere cure mediche adeguate (sono affetto da epatite C) non è solo seccante, ma anche deleterio per il precario equilibrio che si cerca di mantenere. Mi sono sentito completamente estromesso dalla mia realtà, pur avendo sempre vissuto a Milano". Non ci speravo quasi più Ora il ministero degli Interni è stato condannato dal Tribunale civile di Milano, con sentenza emessa all’inizio del marzo di quest’anno, a pagare a L.G. i danni morali (quantificati in 12 mila euro) e le spese di giudizio, mentre non è stato possibile quantificare il danno materiale; il comune di Milano invece è stato prosciolto dall’accusa. Il procedimento è durato in totale una decina d’anni, dal 1994, l’anno in cui il protagonista chiese per la prima volta la residenza presso il Sam di via Bergamini 10, alla vittoria in sede civile.

"Sapevo che prima o poi sarebbe dovuta arrivare la buona notizia, ma ormai non ci speravo quasi più", commenta l’uomo. E nel frattempo? "Ho tirato avanti… Nei due anni senza residenza ho vissuto per sei mesi in albergo, dato che ero senza documenti, ma mi rimaneva ancora la patente. Pagavo 40 mila lire al giorno per una stanza in una pensione squallidissima; successivamente sono stato per un po’ in camere in affitto, ho anche fatto l’esperienza di dormire sui treni per tre giorni. Piano piano, però, mi sono risollevato e da quattro anni ho trovato un lavoro abbastanza soddisfacente e una sistemazione adeguata".

Una storia a lieto fine. Che si spera possa essere di buon auspicio per i tanti che non chiedono altro che far valere i propri diritti. Una battaglia che dura da 15 anni L’iscrizione del cittadino all’anagrafe comunale è un diritto per chi, nel comune stesso, ha la propria dimora abituale. La registrazione negli elenchi avviene (ai sensi del Dpr 223/1989) per nascita, per esistenza giudizialmente dichiarata o per trasferimento da altro comune.

L’esistenza di numerosi senza dimora ha però posto un problema giurisprudenziale agli inizi degli anni ’90. Si trattava infatti di persone che non risultavano più iscritte all’anagrafe per irreperibilità (a seguito del censimento o di ripetuti accertamenti). Da un lato l’iscrizione anagrafica era un diritto di ogni cittadino, dall’altro non era determinabile ove queste persone avessero la "dimora abituale".

"Non era un problema da poco - spiega Stefano Galliani, presidente della Fiopsd, Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora - perché la residenza anagrafica è la chiave d’accesso al godimento di diritti di cittadinanza quali l’accesso al Sistema Sanitario Nazionale, la previdenza, i sussidi per le fasce più deboli o la stessa richiesta di un alloggio popolare".

"La prima conquista - racconta suor Claudia Biondi della Caritas Ambrosiana - è stata ottenuta nel 1990: alle persone senza dimora, seguite dai centri Caritas di Milano, veniva rilasciata una carta d’identità con la scritta S.f.d. (Senza fissa dimora). Questo a condizione che fossero nati o già residenti a Milano. Per tutti gli altri il problema rimaneva".

Nel 1992 si ottiene un importante passo avanti. Prosegue suor Claudia: "Avevamo chiesto un parere legale a Valerio Onida, autorevole docente di diritto (adesso è vicepresidente della Corte Costituzionale. ndr). Onida ci fornì gratuitamente un documento di sei pagine in cui interpretava la legge a favore della libera circolazione dei cittadini, per cui la residenza anagrafica era diritto di ciascuno, e dovere del comune concederla.

Forte di questo parere, la Caritas Ambrosiana cominciò ad inviarlo all’attenzione delle istituzioni". In questo contesto si inserisce la vicenda di L.G., che presentiamo in queste pagine: nel dicembre ’94 ricorre al prefetto dopo la non concessione della residenza.

"Il parere positivo del prefetto di Milano nel ‘95 - aggiunge Raffaele Gnocchi dell’area Grave emarginazione Adulta della Caritas - è una tappa importante: da allora a Milano è prevalsa la prassi di poter eleggere come residenza i centri di accoglienza e di ascolto del capoluogo lombardo". Nel 1997, una circolare del ministero dell’interno sancisce l’obbligatorietà per i comuni di concedere la residenza, in virtù degli articoli 3 e 16 della Costituzione.

Nessun accenno però alle procedure da seguire.

"La prassi - chiarisce Stefano Galliani - vuole che in ogni comune venga creata una via fittizia, dove porre la residenza dei senza dimora. Infatti, la dichiarazione di residenza presso un centro di assistenza implica la presa in carico da parte del privato. Rimane quindi aperta la problematica dell’assunzione di responsabilità da parte dell’ente pubblico. Bisogna abbandonare l’idea che sia il senza dimora a doversi appoggiare ad una realtà esistente per ottenere un diritto. Al contrario, è l’istituzione che ha il dovere di garantire ad ogni cittadino i propri diritti fondamentali, a partire dalla residenza anagrafica".

 

 

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