Rassegna stampa 14 dicembre

 

Lettera aperta: "Morire di carcere. Il caso Lonzi"

 

Sergio Segio (Gruppo Abele di Milano); Patrizio Gonnella (Coordinatore nazionale di Antigone); Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti di Firenze); Ornella Favero (Ristretti Orizzonti).

 

Il carcere è diventato da tempo un deposito di "vite a perdere": tossicodipendenti, immigrati, senza dimora, disagiati psichici. Forse per questo, troppo spesso vi avvengono morti considerate leggere come piume. Quella di Marcello Lonzi, 29 anni, rischia di essere una di queste. Tossicodipendente, detenuto per tentato furto, con soli 4 mesi di reclusione ancora da scontare, il suo corpo è stato rinvenuto l’11 luglio 2003, riverso in un lago di sangue sul pavimento della cella numero 21, sezione sesta, padiglione "D" del carcere Le Sughere di Livorno.

Pochi giorni fa, il 10 dicembre 2004 è arrivata la parola giudiziariamente conclusiva: il Gip ha archiviato il caso. Abbiamo fiducia nella correttezza formale della sua decisione, anche perché questo stesso giudice, nel settembre scorso, aveva respinto una prima e immediata richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero. In seconda istanza, la richiesta è stata invece accolta, poiché gli elementi raccolti sarebbero serviti "a escludere ipotesi diverse da quelle che riconducono la morte del Lonzi a cause naturali". Nell’autopsia il medico legale parla di "un’aritmia maligna instauratasi su una ipertrofia ventricolare sinistra".

Una conclusione che non pare però sufficiente ad allontanare tutti i dubbi, e le domande sono molte, come scrive la testata d’informazione locale che ha riepilogato il caso: "Le ricostruzioni della vicenda che si susseguono scandiscono una cronologia dei fatti che apre una serie di interrogativi" ("Il Tirreno", 10 dicembre 2004).

La nostra conoscenza del carcere e le nostre quotidiane attività di volontariato e impegno su queste problematiche, ci hanno abituato a evitare sempre giudizi frettolosi o superficiali, in un senso o nell’altro. La medesima esperienza ci ha portato a conoscere e tenere presente una faccia oscura del carcere, quale pozzo nero in cui non di rado precipitano i diritti e la dignità delle persone.

Il carcere, per propria natura e tradizione, è spesso insofferente rispetto agli sguardi esterni (si vedano, ad esempio, le difficoltà, lentezze e ostruzionismi che ha incontrato la proposta di legge tesa a istituire un Garante nazionale delle persone private della libertà, da tempo ferma in Parlamento). Come fosse un sistema a sé, autoreferenziale e autosufficiente.

Sul sito del ministero della Giustizia è contenuta una sezione che si chiama, curiosamente ma significativamente, "Pianeta carcere". Noi crediamo che le prigioni non possano e debbano essere mai considerate un mondo a sé stante.

Perché ciò sia possibile, occorre la garanzia della massima trasparenza, necessaria allo stesso controllo di legalità. Occorre l’obiettiva ma tenace ricerca della verità, quale che sia.

Noi, nel rispetto delle decisioni del Gip di Livorno, conserviamo un dubbio, dopo aver visionato le foto del cadavere, dove si evidenziano contusioni, ferite ed ecchimosi. Le alleghiamo qui, per offrire a tutti un elemento diretto di valutazione, con l’avvertenza di non farle visionare a persone impressionabili, stante la loro crudezza.

Se vi sono state percosse, come l’esame delle fotografie potrebbe indurre a ritenere, può essere che non abbiano relazione diretta, di causa ed effetto, con il decesso. Ma se vi sono state, occorre comunque sapere come, quando, perché e da chi sono state poste in essere. Perché l’incolumità e i diritti di una persona sottoposta a privazione della libertà devono essere sempre e comunque garantiti.

La domanda che insomma vogliamo porre a questo punto, ulteriore a quelle cui ha risposto il Gip di Livorno con l’archiviazione, è se Lonzi se abbia mai subito violenze durante la sua permanenza in carcere.

Non ci sembrano sufficienti e convincenti le risposte del ministro della Giustizia ad alcune interrogazioni avanzate da parlamentari di opposizione nei mesi scorsi, laddove il ministro riferisce di percosse e lesioni denunciate da Lonzi e riscontrate dai medici al momento dell’arresto. L’arresto infatti è avvenuto il 3 marzo 2003, mentre le foto qui accluse sono riferite all’autopsia, avvenuta dopo l’11 luglio 2003. Difficile credere che le lesioni evidenziate a luglio siano le stesse del marzo.

Noi speriamo e chiediamo che ai dubbi che questa vicenda lascia in molti vengano date risposte nette da parte di chi ne ha il potere e il dovere istituzionale.

Per parte nostra, lavoreremo affinché vi sia informazione piena e corretta sulla vicenda, valutando al contempo la possibilità di un esposto o ricorso presso la Corte europea sui diritti umani. Ci aspettiamo un’informazione piena da parte dei media e chiediamo a tutti adesioni a questa richiesta.

 

Per adesioni scrivere a: gruppoabele.milano@fastwebnet.it

Inchiesta: la vita e la morte nel carcere di Livorno

 

Il Manifesto, 14 dicembre 2004

 

"La reclusione - sosteneva il sociologo Erving Goffman - è anzitutto l’azione di rinchiudere qualcuno o qualcuna, inglobarne il corpo e costringerlo in un sistema chiuso". Il carcere è un’istituzione totale creata per mantenere saldo e vivo il contratto sociale che, se sottoscritto, ci tiene lontani da questa e che, se non accettato, ci porta dentro questa. E "dentro" ci si finisce o per ritrattare quanto non rispettato del contratto sociale, o per mantenere fede alla deviazione.

 

Il contratto sociale

 

Carlos Riquelme, dentro il carcere livornese "Le Sughere", c’era finito per non aver rispettato la prima osservanza. All’interno della "sezione 6", un simpatico ragazzo sulla quarantina divide la cella con un attempato detenuto livornese. Sul suo volto i contrasti tipici della sua America Latina: occhi malinconici ma un sorriso maledettamente contagioso. Si chiama Nuñez Requelme, stesso cognome del marittimo cileno suicidatosi lo scorso 30 luglio. "No, non sono parente di Carlos, siamo solo omonimi ed ex-colleghi di lavoro. Eravamo imbarcati sulla stessa nave". I due prestavano servizio sulla portacontainer Ancud, un cargo battente bandiera delle isole Marshall dal quale già l’anno precedente furono recuperati tre chilogrammi di cocaina purissima. Una soffiata e il telefono cellulare di Carlos viene posto sotto controllo; perquisizione della Guardia di finanza all’interno del cargo e nuovo rinvenimento di polvere bianca. "Carlos era innocente, ha provato a gridarlo finché ha avuto fiato". Carlos Requelme finisce in carcere con il suo omonimo e altre due persone. Rinchiuso in una cella della quarta sezione, il cileno si dichiara innocente. Non mangia, piange, si dispera, viene imbottito di potenti psicofarmaci. "Era disperato perché lui rappresentava l’unica fonte di sostentamento della sua famiglia". In preda a una profonda crisi depressiva, chiede a più riprese di essere trasferito in un centro clinico decente. Richiesta ignorata. "Non appena l’Ancud attraccò a Livorno - racconta Nuñez Requelme - Carlos ricevette una telefonata. Lo invitavano a scendere nella stiva, staccare un pannello, prelevare un sacchetto di polvere bianca e consegnarlo a un corriere. Carlos cadde dalle nuvole e oppose un fermo rifiuto". Immediatamente arrestato, Carlos trascorre in carcere tre lunghissimi mesi in attesa di un giudizio che non arriva mai. Il 30 luglio, disperato, decide di togliersi la vita impiccandosi all’inferriata della finestra con alcuni sacchi di nylon dell’immondizia. Il contratto sociale obbligava Carlos a denunciare il suo sconosciuto interlocutore. E lui non lo aveva rispettato.

 

Penitenziaria amministrazione

 

La visita all’interno del penitenziario livornese, resa possibile grazie all’impegno sulle tematiche carcerarie toscane portato avanti dal consigliere regionale di Rifondazione comunista, Giovanni Barbagli, e all’invito offertoci dal segretario livornese Alessandro Trotta, ci spalanca tutte le deficienze del penitenziario labronico. Costruito per ospitare 270 detenuti, Le Sughere ne ospitano al momento 360. "La situazione è spesso insostenibile - ammette Emilio Giusti, il comandante delle guardie carcerarie - quest’estate abbiamo toccato perfino le 420 presenze". Le Sughere sono state anche ribattezzate "il carcere della morte". Nell’ultimo anno e mezzo vi si sono verificati quattro suicidi, una morte (quella di Marcello Lonzi) ancora avvolta nel mistero e tre tentativi (quelli emersi) di suicidio. "Qua - si sfoga un detenuto - il vero problema è l’ozio. Sempre in cella a marcire, mai un’iniziativa culturale, mai un’attività ricreativa. Il campo di calcio è perennemente allagato e l’ora d’aria viene fatta in un anfratto ancora più piccolo della stessa cella". Il comandante Giusti annuisce e conferma: "La situazione è difficile, le condizioni sono effettivamente precarie".

Camminiamo nel corridoio. Tra i detenuti c’è chi saluta e chi guarda con diffidenza, chi ha voglia di raccontare il proprio disagio e chi preferisce starsene a letto. Ci fermiamo ad ascoltare un giovane senegalese a cui è stata tolta la semilibertà. "Per i continui ritardi nel ritorno in carcere - spiega Giusti - e perché troppo spesso tornava ubriaco". Il giovane nega. Trema, con gli occhi spenti e persi nel vuoto. Sostiene di non farcela più e di non vedere altra soluzione al suicidio. "Qui - fa un vicino di cella del senegalese - chi non ha carattere fa una brutta fine. Quelli come lui vengono imbottiti di merda dalla mattina alla sera. Psicofarmaci di ogni genere, soprattutto ansiolitici e barbiturici". Ci avviamo all’uscita ma siamo richiamati da una coppia di maghrebini: "Scusa... potresti chiedere di sistemarci il campo di calcio? È l’unica fonte di svago che abbiamo qui dentro". Usciamo dalla "sei" e facciamo una visita fulminea alla sezione "transiti". "Qui la percentuale di extracomunitari è vicina al 70% - commenta il comandante delle guardie - quasi tutti albanesi e maghrebini. Una rissa dietro l’altra". Dalle sbarre di una porta si affacciano una decina di detenuti. Tutti balcanici e maghrebini, tutti giovanissimi.

Alcuni filosofi sostengono che il male sia banale esattamente quanto il carcere e che ciò che il supplizio penitenziario genera sul corpo del condannato, lo produce più per ottusità che per sadismo. L’opinione pubblica dei cosiddetti "paesi democratici" si indigna quando in paesi lontani vengono inferte ai condannati quattro o cinque scudisciate nei glutei. Un valore, quello dell’umanizzazione dei castighi legali e della "dolcezza delle pene", tutto occidentale, visto che ogni vergata, in qualsiasi paese occidentale, equivale più o meno a qualche mese di reclusione. "La sofferenza dell’anima per la privata libertà - sostiene il filosofo Daniel Gonin - fa meno effetto del dolore del corpo per lo scorticamento della carne. Ma questo non significa che la comparazione sia improponibile, basti vedere i sintomi della trasformazione dei sensi della carne imprigionata". Esami accurati denunciano che molti detenuti soffrono di vertigini, perdono l’olfatto e soffrono di un peggioramento progressivo della vista causato dal mancato sostegno della parola (perdita dell’articolazione tra occhio e bocca). Tre patologie, in particolare, sono sovra rappresentate tra i detenuti rispetto agli uomini liberi: la dentaria, la dermatologica e la digestiva. Lo stesso Gonin ci accompagna in altri e più profondi gironi dell’inferno carcerario: vocazione diffusa per la bocca sdentata, in seguito anche a una domanda ossessiva per l’estrazione dei denti; proiezioni selvagge sulla pelle accompagnate da martorizzazioni volontarie (labbra e palpebre cucite con lo spago, tatuaggi deturpanti, autoamputazioni delle dita e delle orecchie, rischio suicidario e di contagio a malattie infettive come l’Aids, dieci volte più elevato che tra la popolazione libera), sessualità devastata e irriconoscibile (impotenza, onanismo e omosessualità forzata).

 

Il dolore inutile

 

Eppure c’è chi, dopo quasi trent’anni passati in carcere, trova ancora la forza di lottare e protestare per i torti subiti durante la reclusione. Alla sezione 4, dove c’è "il peggio del peggio", come dice Giusti, è detenuto anche Marco Medda. Cagliaritano di nascita e lombardo d’adozione, è stato condannato all’ergastolo per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidio aggravato, sequestri e tentati sequestri (nel `90 pianificò persino il rapimento di Berlusconi), evasione e tentate evasioni (dal supercarcere di Spoleto, nell’84, insieme a Vallanzasca), ricettazione e detenzione di armi. Affiliato alla Nuova Camorra Organizzata, è stato sottoposto, nel febbraio 1995, al regime carcerario differenziato previsto dall’articolo 41 bis. A metà ottobre, questo cinquantaseienne dal lessico forbito ma con gli occhi e la bocca disarticolati tra loro, ha deciso di attuare uno sciopero della fame per oltre due settimane.

"Lo faccio - attacca Medda - perché hanno voluto rispedire una persona all’inferno proprio nel momento in cui aveva deciso di voltare pagina. Sono stato improvvisamente trasferito al carcere di Monza dopo anni trascorsi a San Vittore. Lì, oltre alla moglie, ho lasciato la pittura, le amicizie, gli interessi intellettuali che valenti operatori penitenziari erano riusciti a fare attecchire nella mia anima: tutto è stato improvvisamente sradicato senza motivo alcuno. A San Vittore ero diventato una persona "nuova", prossimo alla concessione dell’articolo 21 con un lavoro esterno già pronto, il matrimonio e il sogno di una vita che avrebbe potuto approdare a una sembianza di normalità. Non aveva interesse il "sistema" a dimostrare che è possibile recuperare persino un irrecuperabile come me?". Ha gli occhi tristi.

Come se anestetizzato da una ormai irreversibile disperazione esistenziale, reazione ad una negazione di giustizia spicciola e al mancato riconoscimento dell’obiettivo stesso della pena detentiva: il suo recupero. Nell’esercizio del suo castigo, esemplare ma non correttivo in quanto ergastolano, Medda era persino riuscito ad acquietare lo sconforto interiore del recluso a vita grazie alla semplice prospettiva di una detenzione tranquilla a San Vittore. Gli hanno tolto anche questo.

 

Celle buie e quattro suicidi negli ultimi mesi

 

Il penitenziario "Le Sughere" di Livorno sostituisce nel 1984 il vecchio "Carcere dei Domenicani". Concepito in un’ottica di massima sicurezza, il carcere presenta carenze sotto il profilo assistenziale ed evidenti problemi nell’agibilità della struttura a causa dell’usura e degli agenti atmosferici. Le finestre delle celle (erroneamente costruite in ferro e ormai corrose in maniera irreversibile) sono permeabili all’acqua piovana e l’impianto elettrico è talmente deficitario da rendere l’ambiente interno buio per gran parte delle giornata.

La mancanza di attrezzature all’aperto, inoltre, impedisce un’attività sportiva e ricreativa adeguata. Come riportato dall’onorevole Marida Bolognesi (Ds), la funzionalità del carcere è ulteriormente minata da una grave carenza di personale, in particolare nell’ambito della custodia femminile: una lacuna che obbliga le detenute a optare tra l’ora d’aria e l’espletamento della pulizia personale, in questo modo depotenziando ulteriormente le attività di rieducazione e di socializzazione. Estremamente carenti sono le figure professionali degli educatori e degli assistenti sociali; praticamente assente è l’attività lavorativa.

Non è difficile incontrare nelle stesse sezioni detenuti con diverse problematicità (assassini e ladri di polli, ma anche tossicodipendenti e spacciatori), cosa che rende più difficile il governo della realtà carceraria e la costruzione di percorsi rieducativi. Estremamente alto il numero di suicidi consumatisi nel carcere durante l’ultimo anno e mezzo: ben quattro. E un caso che ha fatto il giro d’Italia: la morte del ventinovenne livornese Marcello Lonzi, avvenuta l’11 luglio dello scorso anno e frettolosamente schedata come "accidentale" dalla Procura di Livorno. I chiari segni di percosse rinvenuti sul cadavere del giovane, l’approssimazione delle indagini e la mobilitazione dell’opinione pubblica, portano il Gip a non accogliere la richiesta di archiviazione avanzata dal pm che aveva seguito la vicenda.

L’altro caso di suicidio è quello raccontato in questa pagina e che riguarda Carlos Requelme: un marinaio che si è sempre dichiarato innocente e che il 30 luglio si è tolto la vita impiccandosi con alcuni sacchi della spazzatura all’inferriata della finestra della cella in cui era richiuso.

Roma: la "Gabbia", scene di vita quotidiana a Rebibbia

 

Corriere della Sera, 14 dicembre 2004

 

Si mescolano il palcoscenico e la platea. Si alternano. È un gioco degli specchi che rimbalza dentro gli occhi dei secondini, quelli veri. Teatro di Rebibbia, casa circondariale maschile, ieri pomeriggio: "La gabbia" è un titolo che non ha bisogno di spiegazioni, qui dentro. È un testo che Giulio Salierno ha scritto non per dare giudizi o per criticare o per insegnare qualcosa a qualcuno sul carcere. Il sociologo che il carcere lo ha conosciuto (a lungo) in gioventù, in questa pièce ha voluto lasciar parlare loro, i protagonisti: ladri e prostitute, camorristi, spacciatori, rapinatori. Qualcuno vero, qualcuno finto. Parlano e raccontano. Nessun giudizio: giudichi chi guarda. Anche se tra chi guarda sono in tanti che potrebbero salire un gradino e mettersi semplicemente a recitare sul palco.

Carlos lo ha fatto. Ieri pomeriggio nel teatro di Rebibbia. Ma anche un po' di tempo fa, nel teatro Tor di Nona, prove generali per una tournée che fatica a decollare, problemi organizzativi. Ci sono attori veri che recitano nella "Gabbia". Ma oltre la metà sono detenuti, quasi tutti in semilibertà, ma tutti legati ai permessi del ministero di Giustizia per poter andare a recitare nei teatri veri. Per adesso "La Gabbia" ha ricevuto l’Alto patronato del presidente della Repubblica, ma anche il patrocinio di Comune, Provincia e Regione: chissà se questo servirà ad agevolare le uscite dei detenuti.

Oggi pomeriggio "giocano" in casa. Carlos è un sudamericano accusato di narcotraffico e omicidi: arriva sul palco in diretta dal braccio "G12", quello di massima sicurezza. Non ha bisogno di agitarsi. Neanche la voce ha bisogno di cambiare tono: "Prima di uccidere una gallina ci penso: potrebbe darmi un uovo domani. Ma per uccidere certe persone non ho bisogno di pensarci....".

La prostituta albanese non è una prostituta, è un’attrice. Ma ai detenuti della casa circondariale di Rebibbia sono sufficienti le sue scarpe rosse e alte e scollate e la sua sottoveste nera per lasciarsi confondere le idee. Crude le sue parole. Vero il dramma che non cerca comprensione: "Una ragazza albanese è contenta di venire a fare la puttana qui da voi in Italia. E sono contenti i nostri padri, i nostri mariti, i nostri fratelli". C’è soltanto lo sguardo triste e la voce sofferta dell’assistente sociale che cerca di rendere umani questi drammi, le sue frasi sono applausi a scena aperta e fragorosi di spettatori che potrebbero essere attori.

Londra: Oliviero Toscani entra nel braccio della morte

 

L’Unione Sarda, 14 dicembre 2004

 

Oliviero Toscani e l’associazione per l’abolizione della pena di morte "Nessuno tocchi Caino" hanno inaugurato oggi a Londra la mostra We On Death Row. Si tratta di ventisei fotografie a colori dei detenuti dei bracci della morte americani che il fotografo realizzò tra il 1998 e il 1999 per la controversa campagna pubblicitaria di United Colors of Benetton.

Da grossi pannelli di un metro e mezzo per due, allestiti in un’antica fabbrica di birra in disuso nel cuore dell’east-end londinese, i volti stanchi e segnati dall’angoscia dei detenuti dei death row statunitensi prendono vita attraverso le loro stesse parole. A fianco ad ogni foto ci sono alcune frasi con le quali i condannati raccontano la loro vita nel braccio della morte, le loro paure e i loro sogni. Alcuni ora sono già stati giustiziati, qualcuno è stato rilasciato, mentre la maggior parte è ancora in prigione ad attendere l’iniezione letale o la sedia elettrica.

Quando venne realizzata nel 2000 la campagna pubblicitaria di Benetton sollevò numerose polemiche: le associazioni americane delle famiglie delle vittime degli omicidi avevano organizzato un boicottaggio dei prodotti Benetton e lo stato del Missouri aveva fatto causa alla società italiana. Il danno più grosso fu il ritiro da parte del gruppo di distribuzione americano Sears Roebuck del proprio contratto da 100 milioni di euro con Benetton. "All’inizio Benetton appoggiava la campagna, ma poi hanno iniziato ad avere paura di perdere il loro mercato. Benetton ha avuto la possibilità di diventare la prima casa d’abbigliamento a battersi per la difesa dei diritti umani, ma non l’ha fatto perché ha preferito pensare ai profitti", ha raccontato Toscani spiegando come la campagna pubblicitaria sui condannati a morte abbia segnato la fine dei suoi 18 anni di collaborazione con la società. Ora le immagini che al tempo non vennero usate sono state donate dal celebre fotografo all’associazione non-profit "Nessuno tocchi Caino".

L’obiettivo dell’organizzazione è di rendere più visibile agli occhi del pubblico internazionale la propria campagna per l’abolizione della pena di morte nel mondo e di chiedere al governo britannico di farsi promotore durante la presidenza di turno all’Ue, nel secondo semestre del 2005, di una risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali da presentare all’Assemblea Generale dell’Onu nell’autunno del 2005.

"Una moratoria potrebbe rappresentare un punto d’incontro tra stati abolizionisti e mantenitori. Dà la possibilità ai mantenitori di fare un passo avanti verso l’abolizione e agli abolizionisti di cercare di salvare migliaia di vite umane", ha dichiarato il segretario generale Sergio D’Elia. La campagna Onu è stata lanciata in Italia da "Nessuno tocchi Caino" nel 1994 quando una risoluzione per una moratoria era stata presentata per la prima volta all’assemblea generale delle Nazioni Unite dal governo italiano. Ma la risoluzione non era stata approvata per soli otto voti.

Lodi: 43enne si toglie la vita in una cella del carcere

 

Il Cittadino, 14 dicembre 2004

 

Un detenuto della casa circondariale di Lodi si è tolto la vita venerdì, impiccandosi nella propria cella. Sembra che l’uomo, un 43enne della provincia di Varese, padre di due figli, fosse in attesa di poter tornare a casa per le festività natalizie, concessione che però gli è stata negata, nonostante il fatto che i reati per cui era stato condannato risalissero a parecchi anni addietro. In passato anche un fratello dell’uomo si era tolto la vita. La salma era stata portata nella camera mortuaria dell’ospedale Maggiore, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Si è trattato del quarto suicidio nel Lodigiano nella giornata di venerdì.

Ostia: morto in ospedale l'uomo massacrato per un agnello

 

Corriere della Sera, 14 dicembre 2004

 

Dopo tre giorni di agonia all’ospedale San Camillo è morto il ladro che giovedì sera all’Idroscalo di Ostia era stato massacrato a colpi di malimpeggio da un pastore al quale aveva cercato di rubare un agnello. L’omicida, Giovanni Battista Serra, 47 anni, era stato arrestato dai carabinieri venerdì notte e adesso si trova rinchiuso nel carcere di Rebibbia.

Nonostante abbia ammesso la sua colpevolezza, l’uomo, che ha numerosi precedenti penali, potrebbe non aver detto l’intera verità. Il sospetto del capitano Saverio Spoto, comandante della compagnia del Lido, è che non abbia aggredito da solo Angelo Fronteddu, il quarantacinquenne di Ostia che aveva cercato di rubargli un agnello assieme a un complice.

Quest’ultimo, che faceva da palo lungo via dell’Idroscalo davanti alla stele dedicata a Pasolini, sentite le urla dell’amico è fuggito, avvertendo però più tardi il 112 e contribuendo a indirizzare le indagini che hanno portato all’arresto di Serra. "Volevamo soltanto prendere un agnello per il pranzo di Natale", aveva raccontato. Quando i carabinieri sono giunti sul posto, hanno trovato Fronteddu a terra, con il cranio spaccato dai colpi di malimpeggio. Ma nella zona non c’era più nessuno: nemmeno i pescatori che a quell’ora sono soliti pescare nei "bilancioni" sul Tevere.

Serra, che per trent’anni aveva abitato in una baracca all’Idroscalo e da poco aveva ricevuto un alloggio popolare ad Anzio, era esaperato dallo stillicidio di furti. Da giugno aveva denunciato la scomparsa di venticinque pecore e proprio per sorprendere i ladri l’altra notte si era nascosto tra i canneti. Che qualcuno lo abbia spalleggiato nell’aggressione, o che abbia assistito all’omicidio, per i carabinieri è indubbio: anche perché attorno alla torre michelangiolesca di San Michele, il posto dov’è avvenuta la colluttazione, molti pastori, tutti interrogati in questi giorni, portano a pascolare i loro greggi.

"Pacchetto Napoli" nel pdl Cirielli con emendamenti del governo

 

Gazzetta del Sud, 14 dicembre 2004

 

Emendamenti del governo alla proposta di legge ex Cirielli. Questa la formula escogitata dal ministro della Giustizia Roberto Castelli per accelerare l’iter del "pacchetto Napoli", ossia l’insieme delle norme studiate per fronteggiare l’attacco della criminalità organizzata. Si tratta di cinque punti che dovrebbero segnare un giro di vite contro capi cosche e gregari.

 

Boss

 

Aumento di un terzo delle pene previste per i capi di mafia, camorra e ‘ndrangheta. La pena massima passa da 6 a 10 anni per chi venga riconosciuto colpevole di associazione mafiosa, da 9 a 12 per i capi mafia e da 15 a 24 in presenza di associazione mafiosa armata.

 

Fiancheggiatori

 

Inasprimento delle pene anche per chi "aiuta" le cosche: la pena massima raddoppia: da 2 a 4 anni.

 

Recidiva

 

È obbligatorio l’aumento della pena per i recidivi colpevoli di omicidio, rapina, estorsione e sequestro. L’aumento non può essere inferiore a un terzo della pena nel caso in cui il crimine sia commesso un’altra volta nei cinque anni successivi all’ultima condanna.

 

Continuazione

 

Per assassini, rapinatori e sequestratori l’aumento della pena per la continuazione del reato "non può essere comunque inferiore a un terzo della pena che il giudice avrebbe applicato in concreto per ciascun reato". Lo stesso meccanismo per conteggiare gli anni di carcere viene applicato a chi si rende colpevole di concorso formale in omicidio, rapina o sequestro.

 

Sorvegliati speciali

 

Chi viola le regole della sorveglianza speciale viene punito con pene particolarmente severe: da 1 a 14 anni di reclusione. Il massimo viene previsto per chi riallaccia rapporti con boss che siano stati già condannati.

 

Teleconferenze

 

In presenza di casi in cui sussistano ragioni di sicurezza o di ordine pubblico oppure vi sia il pericolo di minacce o violenze il giudice può disporre, anche d’ufficio con un’ordinanza nel corso del dibattimento, l’esame del testimone a distanza in teleconferenza.

Russia: il 99.7% delle sentenze sono di colpevolezza

 

Giornale di Brescia, 14 dicembre 2004

 

La "performance" del tribunale rionale moscovita di Babuskhino, dall’inizio del 2004, è di 983 condanne e un’unica assoluzione. Altri sette Tribunali sono stati persino più severi: centinaia di cause penali e nessuna assoluzione, neanche per sbaglio: percorso netto.

È la tendenza del sistema giudiziario nella Russia di Vladimir Putin, e in particolare a Mosca, dove i pochi giudici che non si adeguano a questi criteri di severità - rivela il giornale liberale "Gazeta" - se la passano sempre peggio: fino a trovarsi costretti ad appendere la toga al chiodo. Le riforme del codice, completate negli ultimi anni, e l’introduzione delle giurie popolari, avrebbero dovuto seppellire i metodi sovietici di amministrazione della "giustizia".

Ma se sulla carta le cose progrediscono, nella prassi l’andazzo è tutt’altro. A denunciarlo sono alcuni giudici che affermano di essere stati silurati perché "troppo miti" nelle loro sentenze. Tutto è cominciato nel luglio scorso, racconta Aleksandr Melikov, ex presidente del Tribunale Dorogomilovski, una delle corti rionali di Mosca, quando 13 giudici della capitale, lui compreso, sono stati esclusi da uno scatto di carriera automatico. Una discrimanazione - spiega Melikov - frutto del veto posto da Olga Iegorova, presidente del Distretto giudiziario moscovita. La colpa dei 13 sarebbe stata quella di non essersi piegati a "una direttiva verbale" con cui la stessa Iegorova - che nel 2004 è riuscita a ridurre il numero delle assoluzioni fino a un misero 0,3% del totale dei processi sotto la sua giurisdizione - aveva sollecitato la mano pesante nelle sentenze. Secondo Melikov, non si tratta solo dello zelo di un alto funzionario che "interpreta il diritto con uno spirito punitivo di stampo sovietico".

Dietro il comportamento di Iegorova ci sarebbe un disegno più vasto: "Il tentativo di coartare l’autonomia dei giudici e di imporre su di loro un controllo centralizzato dall’alto per garantire sentenze in linea con i voleri degli organi di polizia e della Procura generale", che dipendono dall’Esecutivo e sono, nella vecchia tradizione totalitaria, il braccio armato del potere politico. Iegorova non ha usato giri di parole con i 13 dissenzienti: li ha riuniti e ha proposto loro l’alternativa tra una maggiore "severità" e una lettera di dimissioni dalla magistratura.

In nove hanno chinato il capo. Melikov e due colleghe donne, Ielena Ovcinnikova e Natalia Ziatieva, no. Tempo pochi giorni e sono scattate inchieste disciplinari, sfociate nell’allontanamento. A Melikov, in particolare, sono state contestate violazioni procedurali e "negligenza rispetto agli interessi della giustizia". Accuse analoghe hanno messo fine alla carriera di Ziatieva e di Ovcinnikova, divenute note nei mesi scorsi per aver firmato qualche raro provvedimento favorevole alla difesa nel caso Yukos, il colosso petrolifero finito nel mirino del fisco e della Procura generale dopo che il suo azionista di riferimento Mikhail Khodorkovski era entrato in rotta di collisione con il Cremlino.

Proprio la vicenda Yukos, segnata da una escalation di controversi provvedimenti giudiziari regolarmente avallati dai Tribunali, ha acceso negli ultimi tempi nuove polemiche sul funzionamento della giustizia russa. E sul rischio di crescenti condizionamenti politici del sistema legati alla strategia di accentramento del potere e alla mentalità da " uomo d’ordine" espressi da un presidente-ex ufficiale del Kgb come Putin.

Polemiche che si sono riprodotte a commento di tutta una serie di processi per spionaggio intentati contro scienziati, ricercatori e militanti ecologisti: trascinati alla sbarra dagli inquirenti anche tre o quattro volte, in caso di verdetti assolutori, fino a strappare la sospirata condanna finale. Immancabile da qualche anno a questa parte. Una nuova ondata di rigore (o di rigurgiti repressivi, a seconda dei punti di vista) che del resto non riguarda solo i dossier esemplari.

Lo confermano le statistiche sull’insieme di tutti i processi celebrati nel Paese, che sono tornate ad avere il suggello della condanna in oltre il 90% dei casi, percentuale aurea garantita per decenni dalla pianificazione sovietica fin nelle aule di tribunale. E che a Mosca, grazie all’inflessibilità di Olga Iegorova, fanno già segnare un nuovo record: il 99,7% di sentenze di colpevolezza accertata "al di là di ogni ragionevole dubbio".

Intanto ieri, nel giorno dedicato alle celebrazioni della Costituzione russa più di 1.000 rappresentanti dell’opposizione al presidente russo Vladimir Putin e alla sua riforma dello Stato si sono riuniti a congresso a Mosca per cercare di unire i loro sforzi contro quella che denunciano come un’"offensiva totale" delle autorità moscovite contro le libertà ed i diritti civili.

Milano: passiamo la vigilia di Natale a San Vittore…

 

Social Press, 14 dicembre 2004

 

Il Comitato promotore dell’appello "Carcere, un disastro annunciato" il 24 dicembre, come comunicato nel corso delle conferenze stampa del 22 novembre davanti alle carceri lombarde, entrerà nella Casa Circondariale di San Vittore. La vigilia di Natale la passeremo con i detenuti e gli operatori del carcere; una vicinanza a chi, in quei giorni "lieti" vive la condizione dell’isolamento.

Una vicinanza costruttiva, non un atto di buonismo, infatti in quel giorno incontreremo 25 detenuti per discutere ed avere il loro contributo sui temi affrontati nell’appello - sanità in carcere, garante dei diritti, lavoro - per aprire, poi, un percorso negoziale con le istituzioni locali, regionali e nazionali. Sarà anche l’occasione per sentire le loro osservazioni, gli emendamenti che intendono avanzare al Progetto di Legge sulle persone private della libertà approvato in Commissione Regionale e che andrà in discussione in aula presumibilmente nel mese di gennaio..

Dare loro voce; vorremmo provarci e sarebbe sicuramente un bel regalo se il giorno di Natale, i giornali riportassero le loro parole e le proposte che definiremo assieme a loro e anche agli operatori. Incontreremo i detenuti e gli operatori il giorno 24 dicembre dalle 10.00 alle 13.00.

L’incontro con i giornalisti è previsto alle ore 13.00 presso la casa circondariale di San Vittore. Nel corso dell’incontro le associazioni, i detenuti e gli operatori illustreranno le proposte da avanzare nei confronti delle istituzioni. Al seminario saranno presenti parlamentari, consiglieri regionali e delle amministrazioni locali.

 

Il Comitato Promotore

 

Camusso Susanna Segretario Gen. CGIL Lombardia, Vanacore Giuseppe Segretario CGIL Lombardia Roversi Giorgio Coordinatore Dip. Welfare CGIL Lombardia, Mandreoli Corrado Responsabile Politiche Sociali CGIL Milano, Vanzati Franco Segretario CGIL Pavia, Villa Danilo Responsabile Politiche Sociali CGIL Brianza, Vazzana Francesco Ufficio Politiche Sociali CGIL Como, Segio Sergio Responsabile Gruppo Abele Milano, Sesta Opera San Fedele - Associazione di Volontariato Carcerario, Massari Luca Caritas Ambrosiana, Don Tassone Franco "Casa del giovane" Pavia, Greco Dino Segretario Gen. CGIL Brescia, Saletti Achille Presidente Associazione Saman , Mongelli Flavio presidente ARCI Lombardia, Oldrini Massimo Presidente Lila Milano, Corso Francesca Assessore alle carceri Provincia di Milano, Viganò Marco Segretario Gen. CISL Brianza, Muschitiello Anna Segretaria nazionale CASG, Venezia Sergio Ufficio Politiche Sociali CISL Brianza, Roselli Licia Rita Direttrice Agesol, Carneri Graziella Segretario CGIL Milano, Baio Dossi Emanuela Senatrice Margherita, Campagna Barbara Educatrice San Vittore, Albergati Andrea Sindaco Pavia, Bonacina Riccardo Direttore "Vita", Santini GianMario Segretario Gen CGIL Pavia, Baruffi Maurizio Consigliere Verdi Comune di Milano, Confalonieri Gianni Presidente PRC Regione Lombardia, Gorini Elena Insegnante ist. Casale - carcere di Vigevano, Capitelli Piera Deputato DS, Antonio Pizzinato, senatore DS.

Roma: accordo con sindacati per garantire diritti ai detenuti

 

Roma One, 14 dicembre 2004

 

Questo lo scopo per il quale è stato siglato il protocollo d’intesa fra l’Ufficio del garante regionale dei detenuti e Cgil, Cisl e Uil di Roma e Lazio. Giangrazi: "Attuare quanto stabilito dall’articolo 27 della Costituzione". Evitare l’isolamento dei detenuti, agevolare il loro reinserimento nella società garantendo, al tempo stesso, la sicurezza dei cittadini. Questi i punti alla base del protocollo d’intesa siglato fra l’Ufficio del garante regionale dei detenuti e Cgil, Cisl e Uil di Roma e Lazio.

Alla firma del protocollo, il primo del genere in Italia, erano presenti il garante dei detenuti, Angiolo Marroni e i segretari regionali di cgil, cisl e uil Cesare Caiazza, Pietro Maceroni e Rosella Giangrazi. "Quando un individuo entra in carcere - ha detto Marroni - perde il diritto alla libertà ma conserva gli altri: all’educazione, alla formazione, alla sanità e al lavoro. Diritti che in carcere non sono violati scientemente e volutamente. Ma non c’è dubbio che sono difficilmente praticabili. Vogliamo che il detenuto abbia una occasione che, se viene colta, rende anche più sicura la societa"‘.

Nel Lazio ci sono 14 istituti penitenziari, di cui uno femminile ed uno minorile, con 5.440 detenuti a fronte di una capienza prevista di 4.700 posti. I detenuti imputati e in attesa di processo sono oltre 2000. "Con il Protocollo vogliamo attuare quanto stabilito dall’ articolo 27 della Costituzione, e cioè che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato - ha detto Rosella Giangrazi (Uil) - Questo è un primo passo, un mattoncino di un edificio da costruire per la tutela dei diritti e della cultura della legalità".

Fra le iniziative previste nel protocollo, il miglioramento dei servizi sanitari erogati, l’elaborazione di proposte formative spendibili sul mercato del lavoro, la firma di accordi con i centri per l’impiego per l’inserimento nel mondo del lavoro e la promozione in carcere di cultura e sport. Inclusi anche interventi atti a eliminare l’ingresso e la permanenza dei bambini in carcere con misure alternative alla detenzione per le madri detenute. "Intendiamo portare un minimo di sollievo in un mondo, il carcere, caratterizzato da disagio, sofferenza e assenza di speranza - ha detto Pietro Maceroni (Cisl) - Il nostro deve essere un lavoro in grado di conciliare la sicurezza di chi sta fuori con i diritti di chi sta dentro".

Uno dei punti del protocollo, sollecitati dal Garante, prevede una particolare attenzione e il coinvolgimento di tutte le categorie che lavorano nel carcere, a partire dagli agenti di polizia penitenziaria. "La firma del protocollo è un atto formale - ha detto Cesare Caiazza (Cgil) - Dobbiamo fare in modo di coinvolgere i soggetti attivi nel carcere. Con loro deve essere avviato un lavoro di monitoraggio e la stesura di progetti su temi come, ad esempio, la sindrome della tigre in gabbia di chi cioè non vede prospettive fuori dal carcere".

Milano: al carcere di Opera si fa poesia: "Le case da lontano"

 

Redattore Sociale, 14 dicembre 2004

 

Non si vive di solo calcio. Così al carcere di Opera, alle porte di Milano, conosciuto per la sua squadra di pallone (il Free Opera), si fa anche poesia. È stata presentata ieri la terza raccolta di poesie in dieci anni. Si chiama "Le case da lontano" (200 pagine, editrice "La vita felice") e raccoglie decine di scritti e poesie di 17 detenuti del carcere di Opera. Una piccola ma significativa iniziativa - momento conclusivo dell’annuale Laboratorio di lettura e scrittura creativa realizzato all’interno del carcere – presentata ieri alla Galleria San Fedele di Milano.

Un bell’esempio di attività in un carcere di massima sicurezza e difficilmente accessibile, noto per la squadra di calcio e per alcuni detenuti famosi: da Totò Riina a Pietro Maso. Una realtà non facile, quindi, dove in una struttura che prevede 800 posti (per il reparto maschile) vivono oltre 1300 persone. Con una miriade di problemi, non ultima la collocazione stessa del carcere: "Come altre carceri lontane dalla città, qui è tutto più difficile: raggiungere la struttura, trovare volontari disposti a sobbarcarsi il viaggio, per questo iniziative come questa sono particolarmente importanti", dice Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana, da anni impegnata sui temi del carcere e direttrice de "Il Due", giornale on line dei detenuti di San Vittore.

Il merito dei successi del laboratorio di scrittura di Opera è soprattutto di Silvana Ceruti, insegnante, che dieci anni fa iniziò a lavorare sui temi della lettura e della scrittura con i detenuti di Opera. "Iniziammo quel progetto grazie a un finanziamento, poi, dopo due anni, i soldi finirono, ma i detenuti mi chiesero di continuare a lavorare con loro: così andiamo avanti da otto anni", spiega Silvana Ceruti. Animati dalla passione per la poesia: "È un modo per liberare la mente e i sentimenti e i detenuti ci sono riusciti benissimo", dice Ceruti.

Al punto che quella presentata ieri è la terza raccolta pubblicata. "Le case da lontano" racconta degli affetti, dell’intimità, della lontananza da tutto espresse dai detenuti", dice la responsabile del Laboratorio. "I precedenti lavori - prosegue - si intitolavano "In un mignolo d’aria" e "Vigilando il tempo dell’orologio", sempre titoli tratti da versi dei detenuti".

La forza del progetto promosso da Silvana Ceruti è stata la capacità di mantenere alto l’interesse anche degli ex detenuti. "In quest’ultima raccolta hanno scritto 17 detenuti, i 14 che hanno partecipato al Laboratorio di quest’anno e tre ex carcerati che però vogliono continuare a contribuire a questo progetto", dice Ceruti. Il volume può essere acquistato presso la casa editrice "La vita felice" (via Tadino 52) e la Libreria esoterica di via Galleria dell’Unione 1.

Caso Dorigo: richiamo all’Italia dal Consiglio d'Europa

 

Ansa, 14 dicembre 2004

 

Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è intervenuto nuovamente sul caso di Paolo Dorigo, detenuto per l’attentato del 1993 alla base Usa di Aviano. L’organizzazione con sede a Strasburgo per la tutela dei diritti umani e civili ed alla quale aderiscono 46 paesi del Continente europeo, ha annunciato l’imminente invio di una lettera al ministro degli esteri italiano Gianfranco Fini, "per richiamarne l’attenzione sull’urgenza di metter fine rapidamente, nel caso Dorigo, alle conseguenze della violazione del diritto ad un equo processo penale, conseguenze di cui il ricorrente continua ad essere vittima oltre cinque anni dopo l’accertamento della violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo".

Dorigo, si legge in un comunicato del Consiglio d’Europa diffuso oggi a Bruxelles, "sta ancora scontando la detenzione alla quale era stato condannato nel 1993 sulla sola base di dichiarazioni unilateralmente rese da co-imputati pentiti, in assenza di esame contraddittorio a favore del ricorrente".

L’Organizzazione di Strasburgo, si legge ancora nel testo, aveva già adottato due "risoluzioni interinali nelle quali sollecitava l’Italia a riparare le conseguenze della violazione in questo caso". In base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ricorda il comunicato, "le sentenze della Corte europea implicano per gli stati messi in causa l’obbligo di adottare (...) ogni misura necessaria al fine di rimediare adeguatamente la situazione dei ricorrenti e di prevenire nuove violazioni simili in futuro".

Senegal: abolita pena morte, 4° Stato in Africa Occidentale

 

Ansa, 14 dicembre 2004

 

L’Africa compie un grande passo avanti nel rispetto dei diritti umani. Il Senegal ha finalmente abolito la pena di morte per tutti i reati, facendo salire a quattro il numero dei paesi dell’Africa occidentale che hanno scelto di mettere fine a questo barbaro metodo di giustizia. Venerdì l’Assemblea Nazionale senegalese ha approvato il provvedimento che abolisce la pena capitale ed ora la legge è passata alla firma del presidente della Repubblica, Abdoulaye Wade, che l’ha promulgata.

La svolta è stata fortemente voluta dallo stesso capo dello Stato che si è reso conto dell’inutilità di una pena che non risolve nulla poiché "nei paesi dove è in vigore, il numero dei crimini non diminuisce. E nei paesi dove è stata abolita, i reati non sono aumentati". Va ricordato che il Senegal, di fatto, applicava raramente la condanna a morte e faceva parte dei cosiddetti paesi "abolizionisti di fatto" ovvero quelli in cui la pena è prevista ma raramente messa in pratica.

Dal 1960, anno dell’indipendenza del Senegal dalla Francia, infatti, soltanto due persone sono state condannate a morte, entrambe per attentati a uomini politici. "Le sole volte che la pena di morte è stata applicata in Senegal, è stato per ragioni politiche - ha dichiarato il capo del Partito Democratico Senegalese, Doudou Wade, ora al governo - E non si può uccidere per ragioni politiche".

La cancellazione della norma dalla legislazione senegalese è una conquista importantissima, per la quale molte associazioni umanitarie, Amnesty International in prima fila, lavoravano da tempo. E soprattutto, l’approvazione della legge salva le quattro persone che, dal 2001, sono state condannate a morte dai tribunali senegalesi e che erano in attesa dell’esecuzione.

Il ministro della Giustizia, Serigne Diop ha garantito che saranno graziate. E questa sera, per festeggiare l’evento, il sindaco di Roma, Walter Veltroni ha deciso di illuminare il Colosseo. Il giorno dopo l’anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani, una luce si accende, nella speranza che altri paesi scelgano la strada illuminata da Dakar.

Voghera: spettacolo didattico in omaggio a De Andrè

 

Ansa, 14 dicembre 2004

 

In prossimità delle festività natalizie, il 14 e il 20 dicembre i detenuti del carcere di Voghera (Pavia) assisteranno uno spettacolo didattico-musicale sul tema "Omaggio a Fabrizio De Andrè". Lo spettacolo, proponendo una scelta antologica delle canzoni del cantautore genovese recentemente scomparso, ben si inserisce - ha spiegato la direzione dell’istituto in una nota - nel programma di italiano del biennio del corso ragioneria che prevede l’analisi di testi di riconosciuta dignità e significatività letteraria, al fine di promuovere un interesse specifico per le opere considerate come rappresentazione di sentimenti e situazioni universali. Le canzoni saranno eseguite dal duo musicale formato da Giorgio Macellari e Maria Rosaria Viscardi.

Cagliari: fiaccolata dalla Cattedrale a Buoncammino

 

Ansa, 14 dicembre 2004

 

Si svolgerà anche quest’anno, per il terzo consecutivo, la fiaccolata di solidarietà dalla Cattedrale al carcere di Buoncammino promossa da un comitato spontaneo di cittadini e associazioni di volontariato.

"L’iniziativa – secondo i promotori - vuole essere un segno forte di solidarietà per i detenuti che trascorreranno il Natale lontani dalle loro famiglie. Per far sentire la vicinanza di tutti i cittadini le fiaccole illumineranno il percorso fino a circondare con la loro luce l’intera struttura. I detenuti si affacceranno e in segno di comunione spegneranno le luci delle loro celle".

Il raduno è per mercoledì alle 19.30 di fronte alla Cattedrale. La fiaccolata percorrerà Piazza Palazzo, Via Martini, Piazza Indipendenza, Porta Cristina, Viale Buoncammino per concludersi davanti al carcere.

Ascoli: solidarietà per i "Liberi di lavorare dentro"

 

Il Quotidiano.it, 14 dicembre 2004

 

Al Kursaal pomeriggio dedicato alla vendita degli oggetti di cartonnage realizzati dai detenuti della Casa Circondariale di Ascoli Piceno. Oggetti unici e rari, realizzati completamente a mano da chi è Libero, ma solo di lavorare dentro.

Cornici, scatole, libri, agende, segnalibri, e tanto altro in colori sgargianti e solari questo in poche parole gli oggetti di cartonnage realizzati dai detenuti della Casa Circondariale di Ascoli Piceno, prodotti per i quali è stato appositamente creato il marchio Liberi di (lavorare dentro).

L’evento è stato realizzato in collaborazione del Ristorante Cocktail Bar Kursaal di Grottammare ed uno dei suoi titolari Patrizia Corradetti, che ha offerto agli ospiti presenti alla vendita di beneficenza the con dolci e biscotti, in modo da "riscaldare" l’animo di chi magari non sa proprio cosa regalare e non pensa che fare solidarietà acquistando prodotti utili al sociale, da spirito al Natale.

Ricordiamo che sono diversi i punti vendita degli oggetti realizzati dai detenuti, nella provincia di Ascoli: Libreria Rinascita (AP), Arredare Insieme (Sant’Egidio alla Vibrata) Ass. Germogli a SBT e Arteincasa Castel di Lama.

Milano: minori carcere Beccaria recitano "Piccolo principe"

 

Ansa, 14 dicembre 2004

 

Nel carcere minorile Beccaria di Milano si prepara lo spettacolo "Alla ricerca del piccolo principe", realizzato da Giuseppe Scutellà. Lo spettacolo, sarà rappresentato il 18 dicembre presso il Teatro Sala Fontana di Milano. La piece è stata provata nel giugno scorso all’interno del Carcere Beccaria di Milano e ora è pronta per fare il suo debutto in teatro, con la compagnia creata da Scutellà e costituita da giovani detenuti coinvolti nel duplice ruolo di attori e tecnici.

Enna: docente Osservatorio astrofisica incontra i detenuti

 

La Sicilia, 14 dicembre 2004

 

Le stelle viste da dietro le sbarre non sono poi così lontane dopo l’incontro svoltosi tra i detenuti della casa circondariale di Enna e un docente dell’Osservatorio di astrofisica di Catania. Il Centro territoriale permanente di Enna che fa capo al circolo didattico "Edmondo De Amicis" ha infatti organizzato una conferenza sul Sistema solare rivolta agli allievi detenuti della casa circondariale. L’iniziativa, accolta favorevolmente dalla direttrice del Centro territoriale, Maria Belato, e promossa dalla direttrice della Casa circondariale Letizia Bellelli, ha incontrato l’entusiasmo e l’interesse dei detenuti, che dopo il seminario hanno dato vita ad un dibattito partecipato e stimolante.

"Sono favorevole ad iniziative, che al di là del contenuto formativo sono occasioni di allargamento degli orizzonti degli allievi detenuti - dichiara Letizia Bellelli - ho trovato particolarmente interessante l’idea di questo seminario poiché una volta un detenuto che faceva il pastore, ha scritto una poesia sul cielo stellato e l’impossibilità di vederlo dall’interno del carcere. Bisognerebbe riflettere su tutto ciò che è scontato per chi è libero di guardare verso l’alto".

L’incontro è stato tenuto da Antonino Francesco Lanza, astronomo docente associato dell’Osservatorio di astrofisica di Catania, che svolge attività di divulgazione scientifica rivolta alle scuole, alle associazioni ed ai cittadini creando occasioni di aggiornamento culturale in astronomia ed astrofisica, mediante la partecipazione attiva ad incontri, corsi e visite guidate.

La collaborazione nasce da un’iniziativa della commissione didattica che opera all’interno della casa circondariale (composta dall’educatrice Micciché e dagli insegnanti del Ctp e della scuola elementare carceraria), in sintonia con la programmazione dell’attività formativa prevista dal Pof. "Questo seminario è stato molto apprezzato - continua la dott. Bellelli - come occasione di riflessione all’interno della casa circondariale e come opportunità di meditazione sulla privazione". Visto l’esito positivo dell’iniziativa, l’educatrice del carcere ha proposto di proseguire l’esperienza, programmando un ulteriore incontro per la prossima primavera.

Così dopo la sfilata di moda organizzata in collaborazione con l’Ipsia - Ipssar di Enna e la partecipazione degli allievi detenuti all’iniziativa del giornale "La Sicilia" Newspapergame, l’incontro di astrofisica costituisce un’altra opportunità che qualifica l’aspetto della rieducazione della pena detentiva.

Torino: Università, prima laurea in un polo carcerario

 

Ansa, 14 dicembre 2004

 

Prima laurea in Italia in un polo universitario carcerario: l’ha conseguita un detenuto palestinese di 44 anni, William Pano, a Torino. L’uomo, nato in un campo profughi in Giordania, sta scontando una condanna a 20 anni per reati legati alla droga e alle armi.

Si è laureato in Scienze politiche dopo aver frequentato il corso triennale nel carcere "Lo Russo-Cotugno". Ha presentato una tesi dal titolo "Gli stranieri in carcere", ricevendo una votazione di 97/110.

Milano: premiato spettacolo dei detenuti di Volterra

 

Ansa, 14 dicembre 2004

 

I Premi Ubu, assegnati da 55 critici e destinati ai protagonisti del teatro italiano, segnano la vittoria, come " spettacolo dell’anno " , dei " Pescecani " di Brecht, con la Compagnia della Fortezza, formata dai detenuti del carcere di Volterra, per la regia di Armando Punzo.

Il premio per la miglior regia è andato, ex aequo, al napoletano Arturo Cirillo (con "L’ereditiera") e al milanese Danio Manfredini (con "Cinema Cielo"). Come migliori attori protagonisti, scelti Roberto Herlitzka ("Lasciami andare, madre" di Lina Wertmuller e Helga Schneider), e Michela Cescon per "Giulietta" tratta da Fellini. Tra gli interpreti non protagonisti, premiati Valerio Binasco ("Edipo a Colono") , e Barbara Valmorin ("Peccato che fosse puttana" di John Ford). Per il teatro- danza il premio è andato a "Empty Space" di Virgilio Sieni, visto a Parma nella rassegna "La Danza del III Millennio". Premi speciali a Claudio Remondi e Riccardo Capirossi, al progetto "Tragedia endogonidia" e a Nanni Garella, per il suo lavoro con gli attori disabili.

Vercelli: Codiceasbarre, quando la moda sa di carcere

 

Comunicato Stampa, 14 dicembre 2004

 

Nasce nel 2003 come progetto sulle Pari Opportunità presentato dal Settore Politiche Sociali del Comune di Vercelli in partenariato con il Consorzio sociale Armes, il Ministero di Giustizia, la Consigliera di Parità e sostenuto dal Ministero del Lavoro nell’ambito della Misura E1 del Fondo Sociale Europeo.

Codiceasbarre muove i primi passi consapevole ma determinata a superare la difficoltà di parlare di imprenditorialità femminile avallando le istanze di dignità sociale e riabilitazione di una popolazione come quella detenuta nel nostro paese.

Codiceasbarre parte dalla sezione femminile di una Casa Circondariale - quella di Vercelli - e da un laboratorio di sartoria allestito ad hoc dall’Amministrazione penitenziaria all’interno del carcere, da una sarta specializzata nel confezionamento abiti da lavoro, da 6 detenute, assunte dal Consorzio, accomunate da una vicinanza di cella e dalla volontà di spendersi e di spendere il proprio tempo in maniera utile, da 1 designer giovane entusiasta e competente, con l’esperienza maturata in cinque anni di lavoro per marchi importanti, da 4 cooperative sociali pronte a sperimentare nuove forme di imprenditorialità sociale.

Oggi Codiceasbarre è un marchio registrato che ha dato origine a due linee di prodotti: "CDSB jailwear" con il quale ci si prepara ad affrontare il mercato del casual; "CDSB Work" rivolto al mercato delle aziende di varie dimensioni, con prodotti e capi destinati all’area marketing (gadgettistica, accessori promozionali con serigrafie personalizzate, ecc) e con una linea di abiti da lavoro con cui comunicare la propria scelta di eticità e di unicità.

Cosa fa ora Codiceasbare? È in cammino. Si è avvalso del supporto di uno staff operativo, di un comitato etico, di un’agenzia di comunicazione (Matica Srl di Torino) a cui ha affidato la definizione di un piano eventi per il lancio definitivo del progetto e dei due marchi e la gestione di un ufficio stampa. Nei prossimi mesi il nostro "micro - incubatore" di impresa approderà in altri carceri dove verranno allestiti laboratori capaci di sostenere ordinativi di dimensioni importanti.

Abbiamo bisogno di sostenere ciascuna di queste imprese. La popolazione femminile detenuta lo richiede. E perché no? Anche quella maschile, a cui - proprio in queste settimane - stiamo affidando la gestione della logistica correlata all’attività.

Codiceasbarre ha varcato 2 anni fa le porte del carcere sapendo di poter diventare, con fatica e determinazione, un modello di imprenditoria sociale al quale ispirarsi. Per concretizzare il sogno, vivendolo insieme a noi, vi chiediamo di sostenerci permettendoci di comunicare il nostro progetto.

 

Jailwear

 

Dopo il jeanswear, oltre lo sportswear, naturale e incollocabile arriva il Jailwear. Il nuovo modo di vestire e di vivere, per donne e uomini liberi. Liberarsi dagli stereotipi dell’abbigliamento forzando le sbarre del fashion. Con tessuti grezzi e basici di alta qualità. Mai scontati. Accoppiati e reversibili in felpa e gabardine, lino e nylon cerato, costina e tyvek. Sperimentazioni.

Lavorazioni basiche e ricchi dettagli di prodotto. Aspetto pulito, non minimale. L’ispirazione resta la prigione: quella divisa inzuppata di omologazione e annichilimento della personalità. Le righe? Solo un passaggio d’obbligo. I dettagli delle chiusure, delle cuciture, delle rifiniture, rubati ai veri capi utilizzati nelle carceri. Il capo jailwear é un disturbo subliminale. Completa il tuo stile abituale.

Migliora il tuo negoziare. Il Jailwear è il design pensato al di là del tempo e delle tendenze. Con il jailwear vogliamo proporre un nuovo modo di vestire che, discretamente, senza cambiare la società,

si affermi come un nuovo modo di interpretarla. L’origine del jailwear sono i capi usati nelle carceri italiane fino al 1975. Ci siamo immersi nei magazzini impolverati delle case circondariali, rubando spunti sia di tessuti che di dettagli e annusando l’odore di cappotti duri e infeltriti.

 

 

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