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Non è tempo di barare di Patrizio Gonnella
Fuoriluogo, settembre 2002
Mai così tanti e mai governati così male. I detenuti sono oggi poco meno di 57 mila, 15 mila persone in più rispetto ai posti - letto regolamentari a disposizione. Di fronte ad un sovraffollamento che ci riporta a cifre che non erano state tanto elevate dalla fine degli anni 40 il governo ha intrapreso due scelte: da un lato ha ridato slancio alle politiche di edilizia penitenziaria anche attraverso procedure di leasing che per la prima volta assicurano l’ingresso di capitali privati nelle carceri, dall’altro ha mistificato i numeri della cosiddetta capienza tollerabile delle carceri, categoria di per sé scivolosa, che miracolosamente ha visto alzare la propria capacità massima da 48 a 59 mila detenuti. A bocce ferme, laddove fino a sei mesi fa per lo stesso governo non era tollerabile che il parco carceri italiano contenesse una persona in più rispetto alle 48 mila stimate, oggi in quegli stessi istituti è previsto che ne possano stare addirittura oltre 59 mila. Probabilmente per l’attuale amministrazione è cosa buona, giusta e quindi tollerabile che in una cella di 9 metri quadri, pensata per un detenuto e dove ne vivono due, possano in prospettiva starcene comodamente tre. E così nei lussuosi hotel a 5 stelle evocati dal nostro ministro della Giustizia in pieno agosto accade viceversa che i detenuti, oltre che della libertà personale, vengano privati della dignità, della privacy, delle relazioni affettive, del lavoro e di ogni prospettiva seppur remota di risocializzazione. In questo quadro va letta la protesta partita il 9 settembre in moltissime carceri italiane - circa 90 - su iniziativa dell’associazione Papillon. La protesta avviene secondo modalità non violente: rifiuto del cibo dell’amministrazione, astensione dal lavoro, battitura delle sbarre. Mezzi pacifici a sostegno di una piattaforma di buon senso. Se si esclude la controversa abolizione del regime speciale del 41 bis, le richieste vanno dalla estensione della liberazione anticipata sino a sessanta giorni per semestre alla piena applicazione della legge di riforma della sanità penitenziaria, dall’abolizione dall’articolo 4 bis sino alla concessione di un provvedimento di clemenza, atto di riequilibrio di un sistema penale che ha definitivamente rinunciato alla sua ordinarietà sanzionatoria. Era quasi scontato e dovuto per il variegato mondo associativo laico e cattolico che si occupa di giustizia appoggiare e sostenere la protesta dall’esterno, quasi fosse l’occasione attesa per far uscire le carceri e i suoi ospiti dalla opacità in cui erano pericolosamente ricaduti. E così è avvenuto con un appello e una mobilitazione che ha riscontrato una significativa e motivata partecipazione. Una piattaforma di buon senso, ovviamente, non significa che abbia chances reali per essere presa in considerazione dall’attuale maggioranza. Prendiamo alcune delle legittime rivendicazioni dei detenuti che protestano pacificamente su e giù per l’Italia. L’amnistia e l’indulto: il parlamento non se ne è voluto occupare neanche due anni fa, in pieno Giubileo, nonostante fossero scesi in campo due calibri come il Papa e Andreotti, voci di solito ascoltate più o meno da tutti. Non in questo caso. Si può legittimamente dubitare che oggi le Camere abbiano la forza, l’interesse e l’autorevolezza per fare ciò che non si è riusciti con la mobilitazione del 2000. Inoltre è più facile modificare la norma costituzionale che impone maggioranze iper - qualificate per la concessione di provvedimenti di clemenza che non conseguire quelle stesse maggioranze. Altro esempio. Si prenda la riforma della sanità in carcere fortemente voluta nel 1999 dall’allora Ministro Bindi. Il passaggio di funzioni al servizio sanitario nazionale oggi sembra definitivamente tramontato, ma neanche durante gli ultimi scampoli di governo del centrosinistra la riforma, votata da quella stessa maggioranza, aveva fatto molti passi in avanti. Nessuno ha la coscienza pulita sino in fondo. Meno di tutti ce l’ha chi, come il ministro Castelli, ha lanciato cupi messaggi diretti a equiparare protesta e rivolta, legittimo esercizio delle prerogative parlamentari e istigazione alla violenza. L’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario assicura poteri di visita, fra gli altri, a parlamentari e consiglieri regionali. Poteri previsti proprio nella consapevolezza del legislatore del 1975 che le carceri, nell’interesse dell’amministrazione penitenziaria e dei detenuti, vadano visitate, osservate, monitorate, controllate. Questo hanno fatto correttamente alcuni parlamentari agli inizi di settembre chiamati dagli stessi detenuti ad ascoltare le loro ragioni, a farle conoscere all’esterno. Niente di rivoluzionario o di strumentale, soltanto l’esercizio lecito e legale di prerogative codificate dalla legge penitenziaria. Dal 1975 ad oggi nessun ministro della Giustizia aveva mai messo in discussione tale diritto. E c’è chi, invece, come Sandro Margara, durante la sua direzione generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aveva interpretato estensivamente tale norma nel segno e nell’obiettivo del carcere trasparente. Solo chi ha spregio della democrazia, delle istituzioni parlamentari, della legalità, della dignità delle persone e dei diritti umani può sostenere che parlare con i detenuti significa istigarli alla rivolta. |