Wojtyla
davanti alla cella
Panorama,
3
ottobre 2002
La
visita che il Papa farà al Parlamento riunito, il 14 novembre, riporta
l'attenzione dei detenuti sull'indulto. Forse si illudono. Ma di certo la loro
protesta non violenta è un esempio di dignità
Riscrivo
di carceri, scusandomi con chi trovi invadente l'argomento: fatto sta che nelle
carceri è d'un tratto tornato lo stato d'animo d'aspettativa che segnò il
Giubileo, e ricadde nella delusione più amara. Fatte sensibili da quella
ricaduta, persone responsabili ammoniscono a non suscitare di nuovo nei detenuti
la speranza e l'illusione. Ebbene, rinuncino a ripetere questa raccomandazione.
Ascoltino la mia notizia: non bisogna preoccuparsi che i detenuti si illudano,
perché sono già illusi fino a traboccarne. Hanno rialzato la testa, hanno
ricominciato a guardare in su, stanno di nuovo aspettando. Ora, per non
deluderli, e ributtarli via, nel pianto, nell'ottusità del sonno e dei farmaci,
nell'autolesionismo e nel suicidio tentato e riuscito, bisogna soltanto fare
quello che è umano e giusto.
Quando questo numero esce, i detenuti di decine e decine di carceri stanno
testimoniando da quattro settimane la propria protesta, nei modi più miti e
consapevolmente pacifici. Con una rinuncia, in genere, un sacrificio del poco
che hanno: la rinuncia al vitto, il digiuno volontario, l'astensione dall'aria,
il digiuno televisivo... Non hanno una vertenza da condurre o una controparte da
piegare: piuttosto, una testimonianza da comunicare all'opinione pubblica e al
Parlamento.
I detenuti erano i primi a voler tenere lontana da sé l'illusione. Da 12 anni
non c'è in Italia una misura di clemenza, fino a 12 anni fa ce n'erano un anno
sì e uno no, e più spesso ancora. Il Giubileo, con l'appello appassionato del
Papa a tutto il mondo perché se ne accogliesse il significato originario di
liberazione dai ceppi, era passato invano.
Della politica i detenuti hanno imparato a conoscere il primato che vi prendono
spesso rivalità e veti reciproci, mezze verità e bugie intere dette per
guadagnarsi l'approvazione facile. Questa volta, voci venute dall'intero arco
politico hanno mostrato una comprensione e una apertura nuove.
Non sarebbe bastato a intaccare la tepidezza di chi si era scottato, quando è
arrivata una notizia che ogni detenuto ha letto come una promessa.
La
notizia era che il Papa visiterà il Parlamento italiano, a camere riunite, il
prossimo 14 novembre. La solennità speciale della circostanza è stata
sottolineata dai media. Si tratta di un evento senza precedenti nella storia
dell'Italia unita (è successo solo nel Parlamento della Polonia natale del
Papa), previsto e rinviato in passato (proprio a ridosso del Giubileo, e dopo la
mancata accoglienza dell'appello papale alla clemenza), fissato ora in una
stagione della vita di Giovanni Paolo II che ne fa l'occasione di un testamento
morale lasciato alla «prediletta nazione italiana». I media non hanno però
immaginato il significato peculiare che la notizia avrebbe avuto nelle galere.
I detenuti, cattolici o altri cristiani o ebrei, non credenti e musulmani, e
tutte le altre fedi che si radunano da ogni parte del mondo in queste babeli
obbligate, fanno affidamento sulla Chiesa cattolica. Hanno delle ragioni. Hanno
in mente immagini rare e commoventi, dal Giovanni XXIII in bianco e nero a
Regina Coeli al cardinale Carlo Maria Martini di San Vittore.
C'è un pregio, che non è incrinato dal sospetto di proselitismo, nella
distribuzione della Famiglia cristiana nelle carceri. Nessuno, o quasi,
distribuisce cose nelle carceri, neanche per proselitismo. Quando viene una
festa, o una vacanza, o una fine d'anno, Papa, vescovi e preti si ricordano di
mandare un saluto, nell'elenco di malati, soli, poveri, ai carcerati, con
naturalezza, e li chiamano fratelli: le altre autorità di solito se ne
dimenticano, o se ne vergognano.
È
come se l'umanità verso chi va in galera fosse una forza speciale, o una
debolezza della gente di Chiesa, inibita alla società civile. Per questo, la
visita del Papa al Parlamento appare ai detenuti come un fatto loro, una cosa
che li riguarda.
Tutti sanno che un indulto che metta fuori con un anticipo sulla data fissata
una parte dei detenuti ammucchiati oggi nelle prigioni è una misura
indispensabile ad affrontare, non dico la riforma del sistema penitenziario, ma
i lavori di riparazione e manutenzione minimi che restituiscano spazio per
respirare e risorse a carcerati e carcerieri.
Tutti
sanno che in questa dozzina d'anni, che ha molto più che raddoppiato gli
abitatori forzati delle carceri, tante cose sono cambiate nei modi della
giustizia penale (fino a patteggiamenti, riti abbreviati, giusto processo) così
da scavare un fossato fra i giudicati antichi e recenti. Tutti sanno che più
che mai in passato nelle galere si scarica la vasta schiuma di tossicodipendenti
ammalati e stranieri spiantati, indifesi fuori, indifesi dentro.
Tutti
potrebbero sentire che, come nel proclama antico del Giubileo sulla terra
esausta e le creature umane oppresse, bisogna cercare un ricominciamento e una
riconciliazione, nell'esistenza delle comunità e delle persone. Argomenti che
donne e uomini politici possono ascoltare e sentire per sé, e non per la
meccanica deduzione dalle dichiarazioni passate o dalle abitudini verbali.
Anche perché questa galera non rafforza la sicurezza pubblica, ma la minaccia.
Intanto si può dire una cosa, e dirla senza retorica. Senza, cioè, indulgere
al pregiudizio opposto a quello che demonizza detenuti e delinquenti. Le
manifestazioni che, promosse dall'associazione Papillon di Rebibbia, hanno
contagiato tante carceri grandi e piccole a partire dal 9 settembre, con la
convinta scelta non violenta e la solidarietà che le hanno ispirate, sono la
realizzazione più efficace di quell'intenzione magnanima e frustrata di
reinserimento sociale delle persone detenute che la Costituzione proclama. Non
cedano troppo, i detenuti, alle illusioni: ma sentano comunque di aver
guadagnato insieme in dignità, e quel guadagno nessuno potrà revocarglielo.
Il resto è fragilmente sospeso, come un battito d'ali di farfalla.
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