Zitti contro il frastuono dell'indifferenza

 

Noi carcerati, zitti contro il frastuono dell’indifferenza

di Adriano Sofri

 

Il Tirreno, 15 ottobre 2002

 

Palazzi, pianti e stridore di denti. Rumori che coprono e deformano le voci e i pensieri. Privati di voce, i prigionieri reagiscono per tradizione emulando e rincarando il frastuono. Battono scodelle e posate sui blindati e le sbarre, per farsi sentire fuori. Fracasso romantico e disperato. Da più di un mese in tante galere quel fracasso è tornato a farsi sentire. Ora abbiamo pensato di capovolgerlo, come si faceva nel mondo del lavoro con gli scioperi alla rovescia. Abbiamo pensato di provare a farci sentire attraverso il silenzio.

Da ieri mattina, per una settimana, stiamo zitti. Come se fossimo monaci di clausura, e non reclusi per forza. Come se fossimo muti - in fondo, è una mezza fortuna, altri sono sordi e muti, e non per una sola settimana. Un digiuno della parola. È stato naturale pensarci, dopo lo sciopero della fame e quello della televisione. Fare silenzio, far rimbalzare il rumore insensato del carcere, e il chiacchiericcio del mondo di fuori e di noi stessi di dentro. In ogni lotta di prigioniero, credente o no, c’è qualcosa di religioso. Dicono le religioni che chi canta prega due volte: chi fa silenzio prega tre volte. Purifica la parola, per quando la riprenderà. La castiga, se volete, per essersi troppo dissipata. Del resto, né le sbarre battute da coperchi e tegami, né i discorsi ragionevoli sulla condizione delle carceri e sulla riparazione che meritano riescono a trovare ascolto in destinatari assorti in questioni maggiori, leggi Cirami e quote di prime serate, tenute di maggioranza e gare di leader di minoranza.

Il silenzio non potrà avere sorte peggiore. A noi fa bene. L’abbiamo visto già preparandoci. E al colloquio coi famigliari potremo parlare? E con l’avvocato? E col medico? E potremo ridere? E se ci scappa una frase? Un caso quasi allegro vuole che il ministro della Giustizia sia ora un ingegnere acustico, che vuol dire, se ben capiamo, uno specialista nella neutralizzazione dei rumori molesti. Il carcere è un giacimento di inquinamento acustico: laboratorio d’eccezione per le barriere antirumore. Nostalgia delle cose di legno, delle notti senza spioncini. Non è tanto al ministro, né alle direzioni delle galere che ci rivolgiamo, ma all’opinione delle persone, e a quella del Parlamento. La prima è - o passa per - malevola. La seconda è divisa, ma unita da una distrazione: in fin dei conti i detenuti non valgono niente, non fruttano voti, magari li costano, si perdono, sono perduti. La settimana scorsa, dopo un mese che le prigioni manifestavano variamente in tutta Italia, due detenuti si sono impiccati in 48 ore a Cagliari, Buoncammino: non si sono guadagnati neanche un trafiletto, salve eccezioni. A Pisa abbiamo fatto lo sciopero del vitto, poi quello della televisione, poi, per due settimane, lo sciopero della fame per gruppi, tra giorni a testa, quattro settimane, la quinta è questa, digiuno della parola. Forse ci sarebbe passata la voglia di andare avanti, se non fosse che ci si affeziona anche alle rinunce, se danno un po’ di senso a giornate e nottate altrimenti a fondo perduto. E poi, c’è la visita del Papa alle Camere riunite il prossimo 14 novembre. Due anni dopo il Giubileo, e il vibrante appello di liberazione e di clemenza che allora Giovanni Paolo II pronunciò per tutto il mondo, e andò a ripetere dentro Regina Coeli. Ci furono molte riverenze, molte ipocrisie, e poi l’intera questione scivolò via, come un’acqua sporca dal lavandino. Allora il Papa non ci andò in Parlamento, chissà perché, forse per la porta chiusa alla sua speranza giubilare - il giubileo è una festa di liberazione - magari perché si era offeso per il Gay Pride a Roma. Le cose più diverse si mescolano, a volte. Partita chiusa, detenuti drizzati in piedi e poi ricaduti a giacere.

E ora, inaspettata, un’appendice. Il Papa è ancora vivo, più di due anni dopo: chi l’avrebbe detto - nemmeno lui, forse. I detenuti sono ancora detenuti - l’avrebbero detto senz’altro. Però sono sempre più numerosi, in spazi sempre più stretti. I parlamentari sono un po’ quelli di allora, un po’ no: e hanno cambiato parte.

I vescovi sono, finora, più timidi che nel 2000: forse anche loro esitano, come chi si è scottato, e non vuole più. Oppure cedono anche loro alla generosa preoccupazione di non illudere ancora una volta un popolo di disgraziati che la speranza esalta, e che, respinti, vanno in pezzi. Preoccupazione generosa, ma ormai fuori tempo: perché la speranza si è reimpadronita dei detenuti, e ha spalancato di nuovo cuori e sguardi. Ora può solo venire una risposta seria, o un colpo di grazia - strana espressione. Vuol dire forse, questo tempo supplementare della speranza, che le date giubilari hanno una solennità speciale, ma che ogni data può diventare speciale. Gli anniversari ci vengono dietro come una lunga coda, e basta voltarci a sollevarli per rifare la festa.

L’altro ieri si celebravano i quarant’anni dal concilio, ieri l’ingresso nel venticinquennio di pontificato - per restare al solo Papa e alla sua Chiesa. E ognuno di noi ha in tasca il suo nuovo giorno di festa. Anche i detenuti, che hanno le tasche vuote per regolamento. Qui, in questa stramba comunità cosmopolita e però di un solo sesso, e senza bambini e senza cani, qualcuno prega e qualcuno no, qualcuno prega in un modo qualcuno in un altro. Ce n’è una buona metà che sta preparandosi al Ramadan - comincerà una settimana prima della visita del Papa alle Camere. Da ieri mattina, abbiamo fatto voto di silenzio. Stiamo tutti zitti allo stesso modo. Ci guardiamo e ci viene da ridere. Ma non tanto.

 

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