Un
carcere che è in lutto perenne, di Luigi Ciotti
Il
Cittadino, Quotidiano del Lodigiano 19 ottobre 2002
Un
carcere in lutto perenne. È questa la tremenda ma realistica fotografia che
periodicamente ci viene consegnata dalle cronache, dal racconto dei famigliari
dei detenuti, dalle fatiche degli operatori o dei volontari che tutte le mattine
varcano i cancelli delle prigioni italiane.
Un carcere in lutto poiché spesso uccide la voglia di vivere. E così facendo
porta troppe persone a una scelta di morte: per avvilimento, per stanchezza, per
solitudine, per vergogna o rimorso, per i mille e diversi motivi che possono
portare un uomo o una donna a uccidersi. Bisogna sempre pensare, e non solo per
le morti in carcere, che le cause dei suicidi sono tante quanto i suicidi
stessi: l’unicità di ogni uomo, in questo caso, diventa anche unicità delle
cause della sua sofferenza o del suo disagio.
Tuttavia, secondo una delle rare ricerche scientifiche al riguardo, i motivi
principali delle morti in cella sono riassumibili nel sentimento della paura.
Anzi, in due paure, in apparenza opposte: in carcere si uccide soprattutto chi
conosce il proprio destino e ne teme l’ineluttabilità e chi non ha la minima
idea del proprio destino e ne teme l’imprevedibilità. Quasi il 55 per cento
dei detenuti suicidi, infatti, si toglie la vita nei primi sei mesi di
reclusione, il 64 per cento nel corso del primo anno. Chi conosce la sofferenza
che deriva dalla privazione della libertà e chi, non conoscendo la vita del
carcere, ne ha un timore ingovernabile sono dunque le persone che in maggioranza
scelgono di darsi la morte in carcere.
Il numero che è cresciuto vertiginosamente negli ultimi due anni, e non solo in
ragione del drammatico e annoso problema del sovraffollamento. Difatti, se dal
1990 a oggi il numero dei detenuti è raddoppiato, nello stesso periodo il
numero dei suicidi è più che triplicato. È una somma di fattori che rende
sempre più difficile per le persone più fragili o più sole resistere al
carcere. Non ultimi, anche la frustrazione per la mancata concessione di una
misura di clemenza nell’anno del Giubileo e la sempre più rigida e avara
concessione di misure alternative alla detenzione.
Ma se il suicidio è la forma estrema e terribile con cui l’urlo silenzioso di
queste persone tenta di comunicare la disperazione e la ribellione per la
propria condizione avvertita come non più sopportabile, vi sono altre forme,
meno irrimediabili ma pur sempre drammatiche, con cui le persone detenute
protestano.
Una forma di protesta è stata anche lo sciopero che agli inizi di settembre ha
riguardato molte carceri.
Sciopero del vitto o del lavoro, "battitura" di oggetti metallici sui
cancelli, ma anche modalità meno consuete per richiamare l’attenzione e
comunicare il disagio.
Quella scelta dai detenuti e dalle detenute del carcere di San Vittore a Milano
è decisamente e amaramente in tema: 900 fascette nere, prodotte nella stessa
sartoria presente nell’istituto, sono state distribuite nei raggi. Pezzi di
stoffa, legati al polso o al braccio, per significare appunto, silenziosamente e
simbolicamente, il lutto e la sofferenza. Un modo pacato e pacifico per chiedere
attenzione, risposte, miglioramenti. Un modo per piangere, come è stato
dichiarato, la morte della giustizia, almeno di quella che è uguale per tutti,
nonché la mancata applicazione delle misure alternative. Ed è significativo
che, in quei giorni, anche le suore che portano la loro assistenza e opera nella
sezione femminile del carcere milanese abbiano accettato di mettersi questa
fascia nera al braccio.
Anche questo è un modo per tentare di dire alla società esterna ciò che chi
lavora o vive in carcere sa bene: i problemi del carcere riguardano tutti, il
disagio colpisce colpevoli e innocenti, detenuti e operatori, senza differenze e
senza riguardi per alcuno. Allora per tutti dovrebbe risultare necessario,
razionale e umano, cercare di allontanare il lutto, mitigare le sofferenze,
riportare vita e speranza anche dietro le sbarre, in queste isole un po’
opache della nostra società, nel ventre nascosto delle nostre città.
«Non
solamente il cuore trema / ma il piede e tutto / il corpo, a varcare quelle
porte, / oscilla come d’ubriaco: / agli stipiti la mano / cerca un appoggio.
Non io / in quest’antro di Milano: / un ventre di vite sepolte / nel tuo
cuore, o Milano, / di figli, fratelli a grappoli / in turbinio di odi / e
disperazioni e neri / sogni: a schiere / di maledetti di benedetti non so, / nel
tuo ventre, Milano / cui un santo dal nome / di Vittoria (Vittoria / di chi? E
di cosa) hai chiamato / a custodia e scongiuro; / non io dico, mi sento di
recare / un soccorso. Loro / che mi diranno? / E io, che risponderò?».
La poesia alta e civile di Davide Turoldo ci ricorda che se non c’è dignità
e speranza non c’è vittoria per nessuno. Se ci limitiamo o rassegniamo a
seppellire nelle carceri degli uomini, benedetti o maledetti, innocenti o
colpevoli che siano, ci può essere solo morte e lutto, mai giustizia.