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Progetto:
"Percorsi
di confronto"
Progetto promosso dalla Regione Emilia Romagna, in collaborazione con: Centri di Servizio del Volontariato della regione Emilia Romagna, Organizzazioni di Volontariato e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria.
1. Dal progetto all’analisi del problema
Il processo di apertura del carcere verso l’esterno che ha contraddistinto quest’ultimo trentennio non ha ancora trovato una compiuta realizzazione ed è ancora segnato da conflitti e contraddizioni. L’operazione di umanizzazione delle carceri non è semplice perché consiste nel mettere in campo percorsi che favoriscano l’integrazione culturale e operativa di persone, ruoli, organizzazioni con obiettivi, vissuti e motivazioni diverse quali all’interno del carcere l’area della sicurezza, l’area del trattamento e all’esterno l’area del privato sociale che in questi anni ha sopperito con le proprie forze alle mancanze degli istituti penitenziari. La Regione Emilia - Romagna e il Ministero di Grazia e Giustizia hanno sottolineato più volte con le proprie azioni l’esigenza di valorizzare l’integrazione delle forze che intendono operare sul comune obiettivo di offrire ai detenuti una detenzione umana ed effettive prospettive di reinserimento e risocializzazione. In questo senso si colloca l’idea di un percorso formativo che coinvolga a pari titolo volontari, agenti di polizia penitenziaria ed educatori partendo dalla constatazione dei problemi attuali di comunicazione per giungere alla condivisione di alcuni minimi presupposti di base per lo sviluppo di una aperta collaborazione. Gli obiettivi di massima che ci siamo quindi posti in questo specifico contesto mirano a lavorare sulle diverse percezioni che i soggetti hanno del contesto, a riflettere sui differenti ruoli per sostenere il confronto dei punti di vista e favorire la creazione di una cultura comune. Ma quali sono i reali problemi comunicativi che esistono tra gli agenti, gli educatori e i volontari, quali sono i diversi punti di vista, come si traducono nella realtà? Quale modalità formativa seguire per fare emergere le criticità e trasformarle in un terreno di confronto? La scelta quindi che abbiamo proposto e condiviso in sede di progettazione si è orientata su un percorso di formazione - intervento. La formazione - intervento, essendo orientata a cercare percorsi per dialogare tra forme di vita in evoluzione e fare affiorare effettive possibilità di cambiamento, utilizza come primo approccio un lavoro di analisi del contesto stesso e del fabbisogno formativo. Tale lavoro si è concretizzato in una serie di interviste a "testimoni significativi" e in alcuni focus group mirati a decifrare la cultura di appartenenza. Il materiale così raccolto sarà la base da cui partire per una più puntuale progettazione delle unità d’aula e potrà essere oggetto di analisi e riflessione per i lavori di gruppo del percorso stesso. Potrà inoltre essere, attraverso questo report, utile materiale per la committenza con l’auspicio che, nelle realtà che più sono "pronte" possa costituire stimolo per specifici percorsi di approfondimento e di confronto tra "punti di vista" diversi Il percorso formativo che ne è disceso, si incentrerà su situazioni concrete, intrecciando esperienze d’aula e momenti di osservazione e sperimentazione nella realtà operativa che facciano emergere il conflitto che genera il confronto con il cambiamento di sé e della propria organizzazione. In questo modo la scena della formazione si arricchisce man mano, misurandosi con le significative esigenze di innovazione, le resistenze inevitabili del contesto al cambiamento, le capacità - potenzialità che via via i partecipanti, nel ricercare nuove visioni e nuovi strumenti, fanno emergere. 2. Modalità di analisi
In questa situazione abbiamo ritenuto utile portare avanti una piccola ricerca, orientata a definire la cultura delle due organizzazioni coinvolte - il carcere e le associazioni di volontariato – e quindi dei tre gruppi professionali coinvolti – agenti di polizia penitenziaria, educatori e volontari. Perché una analisi della cultura? La cultura è importante perché è un insieme di forze potenti, nascoste e spesso inconsce che determinano il nostro comportamento individuale e collettivo, i modi della percezione, lo schema del pensiero e i valori. Una persona in quanto individuo è un’entità multiculturale e mostra differenti comportamenti a seconda degli schemi culturali che le vengono sollecitati dalla situazione e dalle realtà in cui si trova inserito. Se questa persona fa un determinato lavoro in una certa organizzazione assorbe parecchi temi culturali condivisi dagli altri nell’organizzazione e caratterizzanti contemporaneamente quell’organizzazione e il modo in cui egli appartiene al suo interno. La cultura organizzativa è quindi importante perché gli elementi culturali determinano, oltre che strategie ed obiettivi, anche modi di agire e possibilità di riconoscere ed interagire con la realtà. Questi sono stati i presupposti che ci hanno guidato nel definire le modalità di ricerca. Abbiamo quindi ritenuto non utile ricorrere a strumenti di indagine più quantitativa come i questionari e i sondaggi che, pur essendo apparentemente "più scientifici" non permettono di fare emergere gli assunti di base che sono molto spesso taciti e inconsapevoli. Abbiamo quindi puntato sulle interviste a testimoni privilegiati delle due organizzazioni coinvolte e su focus group, mirati ad agenti e volontari. Le interviste sono state fatte a tre direttori, a tre comandanti, ad un medico, a tre educatori di diversi istituti penitenziari e a due presidenti di associazioni di volontariato. In tali interviste abbiamo cercato di indagare con varie domande alcune aree:
I focus group sono stati fatti con gli agenti in un solo istituto penitenziario e con i volontari in due realtà territoriali. I focus group sono incontri di piccolo gruppo condotti da un consulente esterno che, sulla base di una scaletta aiuta i partecipanti ad esprimere, attraverso racconti di vita, quelle che sono le modalità di relazioni che vengono perseguite all’interno della loro organizzazione su cui riflettere in seguito per cogliere elementi della cultura. Nei focus group con gli agenti abbiamo cercato di analizzare elementi relativi alle modalità di socializzazione degli istituti penitenziari:
Parallelamente con i volontari abbiamo indagato:
Ad entrambi i gruppi e stato poi chiesto di descrivere "le finalità dell’Istituto penitenziario oggi" con 5 parole e con una Metafora… se l’Istituto penitenziario fosse una macchina, il volontario cosa sarebbe… e l’agente? 3. Considerazioni dello studio
La presenza di una forte separazione/scissione tra il carcere e l’esterno e nel carcere tra le sue varie aree è l’elemento che maggiormente colpisce chi si accosta al problema della comunicazione nel mondo penitenziario. Tale elemento, emerso non solo dai colloqui condotti, ma anche dall’osservazione del contesto, dei luoghi e dei diversi stili di accoglienza sperimentati dalle intervistatrici, è rappresentato sicuramente dalle "strutture murarie", ma è soprattutto fortemente presente nei vissuti di chi opera all’interno e di chi da fuori si reca presso gli istituti come volontario. "Il carcere non si trovava" ci ha detto una volontaria nel raccontare il suo primo approccio con l’istituzione penitenziaria. In effetti il carcere molte volte è collocato lontano dalla città, separato da contesti abitativi, poco segnalato e quindi non facilmente raggiungibile. Per entrare, anche solo nelle direzioni, bisogna sottostare ad una prassi di controllo che sembra un rito per sancire la separatezza tra il dentro e il fuori… "attenda… la mando a prendere da un agente"… " l’accompagno in direzione", sono le frasi che ci hanno accompagnato al nostro ingresso in tutti i carceri. "Il nuovo era un ospite. Comunque o chiunque fosse… un ospite. Dunque un estraneo" scrive G. Cassitta nel suo recente romanzo sull’Asinara, a sottolineare l’atteggiamento di diffidenza che percorre l’istituto penitenziario nei confronti del nuovo. La scissione tra il dentro e il fuori, che risponde comunque ad un mandato dell’istituzione carceraria, è stata sicuramente introiettata nella cultura dell’organizzazione, che stenta così a pensare luoghi e momenti "tra", connessioni che facilitino la messa in relazione delle parti che costituiscono l’organizzazione e il contesto, o si è "fuori" o si è "dentro", o si è nelle sezioni, o si è nell’amministrazione, o si è un agente o si è un educatore, o un volontario o un ospite. La sensazione è che la dicotomia sia tra un aspetto positivo ed uno negativo. O è nel regolamento o è "anarchia". Lo spazio ricoperto dal regolamento all’interno degl’istituti penitenziari è amplissimo e imbriglia lo svilupparsi di un possibile pensiero di osservazione e progettazione, un pensiero nuovo che possa trovare spazi e tempi e modalità per nuove connessioni. Tra le aree esistenti all’interno, sicurezza e trattamentale, pochi e gerarchici sono gli spazi di comunicazione e la sensazione è che questo comporti una grossa difficoltà negli operatori non solo ad usarsi reciprocamente come risorsa, ma anche a "pensarsi" come attori che hanno come obiettivo comune e cliente finale il detenuto. Da tutte le interviste e anche dai focus è emerso che non ci sono luoghi e momenti codificati di incontro tra agenti, volontari ed educatori. Gli incontri sono quasi sempre informali anche se in molte realtà sono continui. È anche emerso che gli operatori hanno competenze molto distinte e attività specifiche e punti di osservazione talmente diversi tra loro da non permettere di riconoscere i punti di contatto, i risultati comuni che ci possono essere. Se ci sono poi contrasti, non immediatamente sanabili, il più delle volte si fa ricorso all’intervento del Direttore che interviene in modo autoritario e facendo riferimento alle norme e alle disposizioni interne che devono essere osservate, bloccando quindi il problema e la crescita che potrebbe nascere nel ricercarne soluzioni nuove. Una organizzazione che non progetta, non gestisce momenti di confronto, che non pensa a luoghi di integrazione tra le sue parti, è una organizzazione che sottovaluta l’importanza per i propri obiettivi dell’integrazione, che non accorda sufficiente valore ai propri mezzi, che non permette quindi agli operatori che a vario livello intervengono di sentirsi partecipi, di sentirsi visti. A fronte quindi di obiettivi di integrazione rimangono forti e persistenti residui di atteggiamenti di separazione tra s e il contesto. Il dentro, come abbiamo sottolineato in precedenza, ha le sue regole ben definite che lo differenziano in modo netto e chiaro. Meglio impararlo subito in modo forte e inequivocabile. Un altro rito che sancisce tale assunto culturale ci viene dal racconto degli inserimenti lavorativi degli agenti di polizia penitenziaria. "Sono montato di guardia subito, con in mano un’arma pericolosissima, che non sapevo usare, in un carcere di massima sicurezza, poi mi hanno fatto fare una perquisizione ad un famoso mafioso e poi sono stato messo in turno nel penale", ci ha raccontato un agente. Significativo poi il racconto di un altro agente di recentissima assunzione che ci ha fatto presente come la prassi di inserimento nel tirocinio durante il percorso formativo sia stata caratterizzata da una attenzione maggiore alla conoscenza del contesto, mentre poi, all’atto dell’assunzione reale, l’inserimento sia stato di poco diverso dal racconto precedente. Sono comunque gli agenti presenti in servizio che si fanno carico dell’inserimento dei propri colleghi. Questa non è un’attività "progettata", ma un momento in cui al "nuovo", attraverso poche parole e gesti quotidiani, si chiede di identificarsi in quanto vede fare, perpetuando i valori e le regole, anche implicite, presenti nell’istituto penitenziario. Da questi doppi messaggi, di modernizzazione dichiarata e conservazione agita, nascono sicuramente forti contraddizioni che si riflettono poi sugli atteggiamenti quotidiani. Anche nei racconti dei volontari rispetto al loro primo ingresso nel carcere si è evidenziata come l’apprendimento della regola sia richiesta come base fondamentale per l’inserimento e l’accettazione e come tale apprendimento a volte sia stato molto difficile e doloroso. Nell’istituto penitenziario si sente fortemente la sensazione di "una prigione dei punti di vista che tutto irrigidisce" e che non crea connessioni in una realtà che ha risorse scarsissime. In questa situazione il volontario è certamente percepito come risorsa indispensabile sia dall’area trattamentale che dalla dirigenza ai vari livelli. È una risorsa fondamentale che permette di affrontare in qualche modo i problemi di umanizzazione delle strutture, ma è una risorsa che è comunque portatrice e spesso "prigioniera" di un punto di vista specifico. Il volontario entra da fuori. Non è una risorsa interna. "Molte delle attività di pertinenza dell’area trattamentale sono promosse, organizzate, e realizzate con l’apporto di operatori volontari o comunque non appartenenti allo staff penitenziario" viene sottolineato in "Il carcere trasparente". "Il potere rimane in mano alle singole direzioni: selezione, limiti, controllo su tutte le attività", continua a sottolineare il libro menzionato. Il volontario quindi pur essendo una risorsa fondamentale non è integrato nella logica dell’organizzazione nella quale opera e nella quale è da un lato riconosciuto come fondamentale ma dall’altra è vincolata entro spazi limitati e per certi aspetti identificata come "estranea". Il volontario viene da fuori, con una spinta ideale, e fatica a vedere le difficoltà e i limiti di chi deve muoversi "dentro", rispettando regole e norme di sicurezza, facendo i conti con la programmazione di un quotidiano che è anche fatto di turni, carichi di lavoro pesanti e relazioni fortemente gerarchiche. Molte sono le piccole cose che non vanno nel carcere… che potrebbero essere modificate con pochi sforzi… perché non vengono fatte? è un interrogativo ricorrente che si sente tra i volontari. È una situazione in cui le difficoltà dell’attività quotidiana rendono più facile per gli agenti percepire il volontario come un carico di lavoro in più che rendersi conto che il lavoro che questi fanno con i detenuti può avere una ricaduta sul clima interno contribuendo ad allentare le tensioni: "la ricaduta anche in termini di sicurezza è elevata: se il detenuto vive meglio la sicurezza è maggiore, è più facile per lui accettare le regole, il detenuto si sente più persona e meno carcerato, si riappropria della sua identità di persona". C’è la sensazione di due mondi a confronto:
Le organizzazioni "solide", sono caratterizzate da una parcellizzazione e specializzazione delle mansioni che crea scissione tra progettazione e esecuzione e tra "pensiero" e "azione". È presente una forte gerarchia, compiti ben definiti, regole "certe" e "legami forti" che danno una sensazione di "stabilità" che può divenire tanto forte da paralizzare. La spersonalizzazione più volte sottolineata è però compensata dalla sensazione di sicurezza che la "solidità" dà, rende inoltre possibile collocare sempre le responsabilità altrove, ad altri "livelli". Nel modello "gassoso", a rete, la cui caratteristica sono i legami deboli, le regole si costruiscono e si modificano in itinere, come pure le professionalità di chi aderisce e la flessibilità ne è caratteristica principale. L’adesione alla Vision diviene un processo negoziale. La persona e l’organizzazione confrontano i propri progetti e i propri interessi in un’ottica in cui la Vision stessa si nutre ed evolve anche dal materiale innovativo e dalla creatività che il processo negoziale stesso genera. Il senso di appartenenza può oscillare a seconda delle fasi di vita della persona e dell’organizzazione e l’ingresso e l’uscita delle risorse umane non è un’eccezione. Queste due immagini estreme ci sembrano straordinariamente somiglianti alle due organizzazioni di cui ci siamo occupati: da una parte il carcere con tutte le sue rigidità e la difficoltà a muovere limiti e regole e ad alleggerire i legami, dall’altra le associazioni a cui la metafora si addice in quanto rappresenta bene la forte valenza di adesione "volontaria" ed a valenza individuale, la labilità dei legami e la possibile instabilità da questo generata. Si tratta quindi di due mondi molto lontani che incontrandosi trovano naturalmente grosse difficoltà anche solo a "comprendersi". Nella realtà degli Istituti di pena il contesto di "scissione" favorisce meccanismi proiettivi delle parti "cattive" sull’altro che rinforzano la separazione e non permettono l’individuazione di obiettivi minimi di accordo su cui lavorare assieme tra area trattamentale, agenti e volontariato. D’altro canto, anche per le associazioni, i meccanismi proiettivi verso l’istituzione carceraria sono altrettanto percorribili e permettono di collocare all’esterno anche eventuali problemi interni. Nei momenti di presenza fisica di due degli attori (volontario e agente) non c’è un vedersi/riconoscersi reciproco, ma questo non esiste neppure nella Vision organizzativa, che non prevede spazi riconosciuti di incontro, scambio di informazione o coinvolgimento degli agenti nei progetti. Spesso questo viene sottolineato anche dagli agenti che esprimono la sensazione di "non essere visti", di avere informazioni utili sul quotidiano, sui comportamenti e sui bisogni dei detenuti, ma di non avere occasione di scambiarle con nessuno. Questo acuisce la sensazione di frustrazione già presente in loro per trovarsi immersi in una realtà che non li aiuta, non li stimola, sono "detenuti" anche loro, in qualche modo, spesso vivono dentro e hanno poco contatto con le realtà esterne di quartiere. "Dopo il servizio sarei finito dentro la mia camera, in una caserma fotocopia dell’ultima sezione dei detenuti", racconta Cassitta nel libro menzionato. L’immagine sociale dell’agente di polizia penitenziaria d’altronde è negativa. Cassitta sottolinea tale concetto in particolare in due passi del suo libro. Quando un agente saluta il padre prima di andare a prendere servizio in un carcere: "…questo mestiere non lo capisce. Meglio il gregge da domare". Quando parla del nome della barca che lo porta all’Asinara "il nome Cantiello è quello di un brigadiere ucciso durante la rivolta nel carcere di Alessandria. Gennaro Cantiello. Un eroe. Piccolo però. Perché in questo mestiere non è concesso diventare grandi e avere piazze a disposizione con il proprio nome". La formazione che hanno, inoltre, non favorisce comportamenti collaborativi e di attenzione al detenuto da un punto di vista umano. Non hanno ricevuto dalla formazione strumenti di osservazione e di relazione con l’altro che permettano loro di supportare i progetti sul detenuto. Continua quindi ad essere rinforzato dall’organizzazione il ruolo di "guardia" e non quello di "agente". Non sono inoltre stimolati dall’organizzazione a coprire questi spazi relazionandosi con educatori e volontari a questo scopo. Inoltre hanno un vissuto dell’educatore come di un operatore che definendo, orientando e valutando i percorsi dei detenuti ha maggiore potere di loro sui detenuti e si comporta con superiorità anche nei loro confronti. Hanno detto gli agenti a proposito di "parole", tempi, gesti che hanno dovuto imparare durante la loro socializzazione lavorativa: "queste sono le chiavi… arrangiati!"… "devi aprire e chiudere"… "non devi pensare"… "non devi esprimere pareri e sensazioni". Sembra quindi naturale che i volontari ritengano che "quando ascoltano è solo per cogliere gli aspetti negativi (sono addestrati ad ascoltare e a cogliere solo il negativo)". Sono certamente inseriti in una situazione demotivante, in cui l’unica arma che sembrano avere è quella di far valere il loro potere di ruolo "boicottando" le attività delle altre figure. Per quanto riguarda l’educatore l’elemento che ci sentiamo maggiormente di sottolineare è il limitato spazio che ha preso sia nelle interviste sia nei focus. L’attenzione maggiore si concentra sicuramente sugli agenti e in secondo piano sui volontari. In alcune interviste con i direttori e i comandanti l’educatore e il volontario sono stati usati come due sinonimi e accomunati nell’area trattamentale. Mentre all’inizio può essere stato percepito, come riporta Cassitta "io ero una sorta di piccola inutilità, un apostrofo insignificante che creava piccoli disturbi alla quiete del silenzio. Ero una freccia molto misera che regalava novità, ma non tanto grande da creare grossi dissapori nella silente ed ovattata parodia del silenzio", attualmente la consapevolezza della sua importanza per tutti i progetti di umanizzazione è diffusa tra tutti i soggetti intervistati. Rimane però negli agenti una percezione di distanza, la sensazione di un operatore che si pone su un piano di superiorità rispetto a loro. "Non chiedono informazioni, non cercano confronti. Si rivolgono a noi solo per portare fuori il detenuto con cui vogliono parlare", ci ha detto un agente. Hanno la sensazione che anche il detenuto abbia maggiore considerazione dell’educatore in quanto lo percepisce come colui che "ha il potere di farli uscire, avere contatti con i famigliari, noi no", aggiungono, e precisano: "quando si preparano per il colloquio con l’educatore si trasformano, danno il meglio di sé, nel quotidiano noi vediamo altre cose". Troviamo conferma di ciò sempre nel libro di Cassetta. "I detenuti non raccontano mai niente dentro le celle, chiedono soltanto. Usano altri canoni per parlare, altra gente, quelli dietro la scrivania. Noi solo per aprire, chiudere e contare, senza mai contare nulla". Questa è senz’altro una risorsa molto limitata che, per il numero di detenuti di cui in genere deve occuparsi, non riesce a sviluppare spazio di intervento e progettualità. "Tra noi e gli agenti ci sono stati problemi, agli inizi, perché il nostro era un ruolo nuovo ed è stato difficile anche per noi definirlo. Ora il ruolo è più chiaro anche se rischia di burocratizzarsi (siamo pochissimi per cui non riusciamo a seguire tutti i progetti e a monitorare i cambiamenti come vorremmo). Con gli agenti non esistono incontri formalizzati, ma sarebbero utili. Io chiedo spesso loro informazioni, perché sono quelli che più vedono il detenuto", ci dice un educatore, sottolineando così un percorso in atto, da una parte verso il tentativo di costruire progetti negoziati con il detenuto e dall’altra di creare, all’interno, comunicazione. Questo è però ancora lasciato alla soggettività del professionista, all’interno di tempi e risorse inadeguati e non definito come processo interno. Il volontariato, peraltro, sottolinea come la qualità della relazione con gli educatori sia ancora fortemente legata agli atteggiamenti soggettivi e alle possibilità che il contesto offre, a volte sottolineando aspetti di rigidità e burocratizzazione anche a proposito di questo ruolo. Su questo un educatore in un’intervista offre un interessante spunto di riflessione: "noi siamo visti dal volontariato come coloro che frenano. In effetti, noi molto spesso dobbiamo inquadrare le proposte all’interno di un contesto istituzionale che sicuramente non abbraccia immediatamente e con entusiasmo le novità". Si percepisce, nella realtà degli istituti penitenziari, un senso di impotenza che imprigiona tutto il contesto, partendo dai detenuti fino ai volontari, che spesso diviene rassegnazione. Si tratta di atteggiamenti che passano anche attraverso la constatazione di "piccole cose semplici che non vanno", ma che nessuno pensa di modificare. È, diremmo, una sorta di "impotenza del pensiero prefigurativo" dell’organizzazione che non permette neppure di riconoscere il potere e il valore di ciò che si potrebbe modificare, di "inpensabilità" del cambiamento stesso. C’è inoltre una mancata percezione del tempo che passa (tempo che è scandito solo dai "riti" interni della vita quotidiana: pasti, visite, etc…), un tempo che sembra dilatato e lunghissimo anche agli agenti in turno. Per quanto riguarda la realtà del volontariato, questa è percepita come "giudicante" dall’interno del carcere e dall’area sicurezza in particolare. C’è la sensazione che "non capiscano i problemi" e i limiti che questa ha e tendano a giudicare le difficoltà reali presentate sempre come "strumentali", addotte per ostacolare. Anche questa è comunque una realtà complessa, in cui spesso esiste frammentazione e non sempre l’immagine che abbiamo ricevuto dai focus e dalle risposte dei partecipanti ci hanno dato un’immagine delle associazioni compatta, esistono grosse differenze tra loro legate alle diverse idealità e alle diverse modalità di affrontare il problema del lavoro in carcere. Dalla recente indagine condotta sulle organizzazioni di volontariato nell’ambito della giustizia emerge infatti, a conferma di quanto da noi rilevato, che "esistono tipi diversi di organizzazioni, in ragione della loro storia e ciclo di vita, della collocazione geografica, della ispirazione ideale". In particolare vengono individuate 3 tipologie di organizzazioni connotate da modalità di relazioni interne ed esterne (enti pubblici del territorio etc…) diverse e da servizi e risultati diversi:
Nei focus che abbiamo condotto la sensazione di trovarsi di fronte a tutte queste tipologie di organizzazioni è stata netta e decifrabile non solo da ciò che veniva detto, ma anche dai diversi stili di relazione tra i protagonisti e dai diversi "significati" e sottolineature dati ai problemi descritti. Le diverse associazioni, al di là del dichiarato, non sembrano scambiare frequentemente informazioni, né tra loro, né in alcuni casi internamente alle associazioni stesse. Alcuni volontari mal tollerano un coordinamento perché vivono la scelta come individuale, ideale e libera e non riescono a pensarsi all’interno di un progetto comune che pone vincoli e necessità di coordinamento. Abbiamo trovato conferma a questo nell’indagine che dice a questo proposito: "Emerge la non elevata consuetudine alla dialettica interna, attraverso riunioni periodiche, per discutere aspetti organizzativi, programmazione a breve - medio termine della propria operatività, monitoraggio e valutazione dei risultati, così come è emersa una scarsa consuetudine alla riflessione sull’operatività specifica insieme agli operatori pubblici. La cultura del fare domina sulla costante riflessione e messa in causa dell’agire, attitudine quest’ultima dei gruppi più ampi". L’attitudine a definire il "fare" come prioritario è emersa in più occasioni, anche nella selezione dei possibili partecipanti all’iniziativa formativa "gli altri non possono partecipare perché il sabato hanno già fissata l’attività", hanno detto confermando che il riflettere veniva "dopo", negli eventuali spazi liberi dal fare, spazi difficilmente immaginabili nelle giornate tipo descritte dai volontari. La fretta è certamente un’altra componente rilevata e che contamina un fare che assume l’aspetto dell’emergenza creando molte assonanze con i vissuti di incombenza dell’operatività presenti all’interno del carcere. Ci è stato inoltre detto che le presenze nelle associazioni subiscono spesso cambiamenti perché qualche membro lascia il gruppo e sembra che questo sia dovuto alla sensazione di peso o inutilità che questi ricavano dopo un po’ di tempo. Ciò è quasi automaticamente collegato con la realtà che il volontario vive in carcere che diviene così a nostro avviso un luogo su cui è possibile "proiettare le parti cattive" senza doversi troppo interrogare se c’è altro in questo turn over, qualcosa che possa anche avere a che fare con le associazioni stesse, con la loro vita o con "l’oggetto" su cui lavorano: l’esclusione, l’emarginazione che invece sembra tanto "contaminare" il contesto e tutti i soggetti che vi operano. Analoga sensazione viene riportata nell’indagine citata che dopo aver parlato dei problemi che il volontario incontra nel contesto del carcere e delle difficoltà di relazioni costruttive con gli operatori della giustizia aggiunge: "Per superare questi problemi il volontario organizzato deve anche risolvere i propri che tende in parte a mascherare, a nascondere dietro quelli degli organismi che incontra, enfatizzando i limiti e i vincoli esterni o degli altri soggetti piuttosto che evidenziare le carenze organizzative interne, la scarsa preparazione dei propri operatori o altri ancora". 4. Alcune suggestioni
Nei focus group abbiamo chiesto di descrivere in modo anonimo attraverso alcune parole, le finalità dell’istituzione penitenziaria come venivano percepite, Dalle descrizioni raccolte emergono alcuni elementi di condivisione ed in particolare, sia gli agenti che i volontari individuano:
I volontari colgono una funzione contenitiva e di allontanamento del problema che l’istituzione penitenziaria svolge nei confronti del contesto. Gli agenti colgono aspetti di recupero e reinserimento nei confronti del detenuto. Ci sembra significativo che la funzione contenitiva sia vista solo dall’esterno e quella riabilitativa solo dall’interno. Abbiamo inoltre chiesto di descrivere con una metafora l’immagine che ognuno aveva dell’agente, dell’educatore e del volontario.
Metafora: "se l’Istituto carcerario fosse una macchina, il volontario, l’educatore e l’agente, cosa sarebbero?"
L’agente
Mentre si vede come elemento "costitutivo" e di movimento (motore, ruota anteriore) della realtà, è colto dal volontario soprattutto con una valenza di "regolazione/controllo" del mezzo (freni e chiave) ed in seconda battuta di contenimento (carrozzeria e telaio) e strumento da usare nell’emergenza (clacson e ruota di scorta).
L’educatore
È visto dall’agente prevalentemente come elemento di direzione e movimento (volante, ruota), dal volontario è colto, oltre che in questa valenza, in misura minore, ma interessante, come optional che "migliora" la qualità del viaggio o serve in emergenza.
Il volontario
Per gli agenti l’immagine prevalente è quella di un optional che migliora la qualità del viaggio, questa immagine è anche condivisa dalla maggioranza dei volontari che si dividono tra optional che migliorano la qualità del viaggio o che servono in "emergenza" anche se una parte di questi si rappresenta come un elemento di "movimento" (motore/semiasse). 5. Conclusioni
Proviamo a riassumere di seguito ed in modo sintetico le principali caratteristiche/criticità rilevate nel percorso di analisi del contesto:
La sensazione che abbiamo in questo momento rispetto ai possibili problemi di relazione e confronto tra agenti di polizia penitenziaria, educatori e volontari è quindi quella non di una relazione problematica, ma di una relazione mai pensata tra questi attori centrali per il raggiungimento degli obiettivi sul detenuto. Ci sembra, perciò, della massima importanza costruire un "luogo" in cui tutte queste sensazioni, emozioni, vissuti, da sempre rimossi da organizzazioni così gerarchiche, trovino ascolto. Questo ci ha suggerito di proporre un percorso che riduca al massimo i momenti teorici e di lezione frontale per lasciare spazio alla raccolta dei vissuti, alla costruzione e alla cura della relazione e alla condivisione dei linguaggi, un luogo che renda possibile vedere l’altro all’interno delle sue fatiche e dei suoi percorsi di riflessione costruendo soprattutto capacità di ascolto. Traccia del percorso di formazione per agenti di polizia penitenziarie, educatori e volontari degli Istituti penitenziari
Metodologia
Il corso si caratterizza per l’impianto metodologico che punterà in modo particolare su una modalità di laboratorio attivo e partecipato. Durante infatti gli incontri verranno usati lavori di gruppo, giochi didattici e simulazioni che costituiranno il terreno su cui svolgere osservazioni e riflessioni sulla complessità della comunicazione soprattutto in presenza di culture diverse di appartenenza. Ente Gestore: CSV di Modena
A cura di
Studio Egla- Donatella Piccioni - Via Bonoli, 7- 30247 - Forlì tel. 0543-30247 dopicci@tin.it Studio Egla – Emma Melloni - via Pestalozzi, 31 - 42100 Reggio Emilia tel. 0522-555575- emmamell@tin.it |