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Analisi risultati questionario rivolto al privato sociale Roberto Merlo, psicologo esperto di analisi degli interventi sociali
Parma, 20 maggio 2004
Dalla lettura dei dati della ricerca bisogna cercare di capire, o perlomeno di provare a interpretare, alcune questioni. La prima contraddizione dal mio punto di vista è che l’immagine, la rappresentazione che si ha in misura diversa del detenuto e dell’ex detenuto in generale, dunque non solo nel mondo della cooperazione, è un’immagine per lo meno discutibile. Ci sono alcuni elementi certamente il contatto concreto con il detenuto. Cambia la percezione. Basta vedere fra chi ha fatto inserimenti e chi non li ha fatti: le differenze che ci sono enormi. In generale però è come se ci fosse una percezione del detenuto e dell’ex-detenuto penalizzato o penalizzante a parte chi si butta in questo settore e ci lavora diciamo con mission quasi prioritaria, per il resto c’è una distorsione della percezione. In teoria si potrebbe pensare che ad esempio una parte del mondo della cooperazione potrebbe pensare al detenuto e all’ex-detenuto come una vera e propria risorsa perché spesso fra queste persone ci sono dei soggetti che nel bene e soprattutto nel male hanno delle competenze di tipo informatico, amministrativo ecc. di tanti tipi che costano alla cooperativa o comunque all’impresa se li deve prendere come viene fuori. In teoria si potrebbe addirittura pensare che in termini strumentali, come un tempo nella storia del carcere è stato, si possa intendere il ruolo del detenuto e dell’ex-detenuto come una sorta di risorsa aggiuntiva di qualcosa che non capita e l’immagine è falsata su tre aspetti: un aspetto è la professionalità del contributo che può dare anche se poi paradossalmente si riconosce che questo non costituisce un problema; un altro aspetto è il modo con cui si interpreta il processo di risocializzazione del detenuto e dell’ex-detenuto: quasi tutto è centrato su una questione molto legata all’occupazione anche se poi si riconosce, e questo è un altro paradosso, che l’assenza delle reti familiari o comunque l’assenza di un mondo di rapporti significativi è un problema tra il mondo della cooperazione e il contesto. Provo a fare degli esempi un po’ provocatori. Una delle domande che mi veniva nel leggere i dati della ricerca è: ma quanto si impegna il mondo della cooperazione a utilizzare (per quello che lo fa, evidentemente) l’inserimento di detenuti ed ex-detenuti come un elemento di promozione di se stessa nei confronti degli Enti Pubblici e delle altre cooperative del contesto? Ci sono intere aziende oggi, penso alla Benetton o a altre grosse aziende, che quando si occupano di svantaggio utilizzano questo impegno come uno strumento di promozione dell’azienda e del prodotto in termini brutali e estremi. Questa è, come dire, una logica ed è questo il punto grave della cooperazione. È una logica in cui la cooperazione pensa a se stessa, non come inserita in un contesto sociale, ma come inserita in un contesto di reti istituzionali che non sono reti perché tra istituzioni e enti la rete non si fa. Sono frottole che si fa rete. Si fanno accordi, si fanno protocolli, si fanno intese ma rete no. Cioè rinunciare a parte del tuo potere, del tuo modo di decidere per metterlo in comune con gli altri in una dimensione sopraordinata, non succede, tanto meno poi con delle istituzioni come il carcere. Il problema è che la cooperazione o le aziende in realtà il loro mercato certo che ce l’hanno con quei soggetti che non sono le istituzioni e così via, ma il loro mercato vero è il contesto sociale in cui sono inserite. È la loro immagine. Se io penso alla loro immagine allora è chiaro che il Cefal a Bologna ha giocato in modo diverso, intanto non è una cooperativa ma è un ente di formazione di provenienza religiosa di un grande filone che sta nel sociale; ma l’ha giocato in termini di immagine collettiva. Tutte le cooperative che si occupano di detenuti ed ex-detenuti quanto contatto hanno fatto in termini proprio di conclusione di immagine con i cittadini, quante lettere di detenuti e di ex-detenuti sono arrivate per Natale o per Pasqua ai cittadini di Parma. Posso pensare ad esempio che uno dei nodi fondamentali è l’isolamento, il rapporto fra carcere e città è segnato da una assenza di comunicazione ma da una assenza di comunicazione dei soggetti che sono dentro il carcere e dei soggetti che sono fuori dal carcere. Le lettere dal carcere sono, nella cultura e nella tradizione italiana, degli strumenti con cui si è creata questa comunicazione. È mai partita una campagna da parte delle cooperative che si occupano di carcerati per dire a detenuti ed ex-detenuti perché non scriviamo come detenuti ai cittadini in certe occasioni per incominciare a costruire una comunicazione. Rispetto a questo primo punto il problema penso che è, se tu stai con i piedi per terra, che più di quello che si fa non si può fare. Anzi, probabilmente le curve cominceranno ad abbassarsi perché la torta si restringerà sempre di più e le risorse saranno sempre meno e sicuramente dove si va a tagliare? Si va a tagliare in questi luoghi e se si sta con i piedi per terra allora tutto bene andiamoci a prendere una grappa signori, siamo in una situazione tale per cui la prospettiva è una e una sola: è che per i prossimi 5 anni intorno a questo tema il ruolo della cooperazione diventi sempre più marginale tolte alcune punte di eccellenza. Lasciamo perdere ogni altro discorso il resto sono tutte fantasie, finanziamenti fuori difficilissimi ottenerli, saranno 100 mila i progetti che verranno presentati in Italia per Equal, tra settoriali e non settoriali, perché ormai li presentano tutti. Oppure c’è un’altra conclusione. Se io voglio non arrendermi a questa conclusione da dove incomincio? Quali sono le azioni di minor costo e di maggior impatto su cui tento un investimento che mi consenta di trovare alleanze, risorse e opportunità per non fare come le curve dei grafici di inserimento. Io mi rendo conto delle enormi difficoltà che ci sono. Il problema è: c’è una strategia nel medio periodo (tre anni) per aggredire questi problemi? E da dove parte questa strategia per la cooperazione? Questo per quei quattro gatti di cooperative che ci stanno dentro, perché se non la troviamo il destino di questi quattro gatti è quello di restare, se gli va bene, quattro gatti se no di dover tagliare anche le luci. 5 La strategia non può partire dal problema operativo, cioè, i detenuti farli venire fuori è un casino, dentro non è possibile fare niente, perché se io tento di aggredire questo mi scontro con la totale assenza di rete. La rete con questi soggetti non riuscirò mai a farla, non si fa rete con le istituzioni si fa contratto, massimo si riesce a negoziare un protocollo ma non mollano un centimetro ad un soggetto esterno dei loro margini decisionali e operativi, sono autoreferenziali. Allora la strategia la posso fare solo con degli altri. Il mondo della cooperazione chi ha come altri? Forse, è vero che Benetton è chiaramente un’azienda con un profitto diverso, forse il mondo della cooperazione ha come altro gli attori sociali e i contesti sociali allora bisogna giocare di tre sponde, a biliardo di tre sponde, tanto sappiamo che se tentiamo di giocare la bilia diritta, appena la nostra pallina si avvicina alla bilia qualcuno la prende e la tira su e la pallina passa. Io penso seriamente come rendere alle altre cooperative che non gliene può fregare di meno e ai contesti di appartenenza di quelle poche cooperative che si occupano di questa cosa, appetibile questo prodotto. Non può essere appetibile perché facile, perché non lo è, è durissima, non può essere appetibile perché c’è collaborazione o ci sono risorse, perché non è vero. Dove può essere appetibile? O si crea un’immagine o non esiste il prodotto del vostro lavoro, certo esistono le persone, i contenuti. Io la sto mettendo giù estremizzando, esagerando tutto da una parte però qui non c’è un margine e non c’è un prodotto. È difatti la conclusione a cui è arrivato il Cefal di Bologna, che ha in programma il prossimo anno di fare a Bologna una campagna a tamburo battente sulle aziende private che però non sono cooperative. Di fatto è vero che questi protocolli che sono delle sorti di contratti, il protocollo va molto di moda nella regione Emilia - Romagna e sembrano un po’ dei contratti di esclusiva alla collaborazione, faccio un protocollo con te proprio per avere l’esclusiva della collaborazione con te, quindi quasi come volessi costringerti a vedere solo me oppure a tenere in considerazione in primis me. Sono la minoranza nei questionari le cooperative che hanno realizzato dei progetti per detenuti ed ex-detenuti. C’è un po’ un comportamento di attesa e fuori non sono connesso con il carcere e aspetto una pratica, o meglio aspetto che l’educatore faccia il mio numero di telefono. Una istituzione totale e i servizi hanno una enorme difficoltà a rispondere a delle aperture da parte dei soggetti che si chiamano cooperative. I problema è che nel breve questo problema non lo risolvo. Può venire il più aperto e disponibile direttore di carcere ma nel breve il problema non lo risolvo. Quali sono allora le azioni che posso fare per tentare di condizionare, per fare in modo che quelli che non lo risolvono trovano più conveniente affrontarlo e tentarlo di risolverlo che non affrontare che crederci. C’è un solo punto debole del sistema carcere ed è sempre e solo quello: il suo isolamento. È l’unico punto debole, e forte allo stesso tempo, che ha. O lo rompo e allora devo studiare delle iniziative che lo rompono, e io dico provocatoriamente le lettere, o costruisco una immagine e lavoro su quello oppure lotto contro i mulini a vento. Un primo punto è per me questo. Dalla ricerca emerge che in alcune realtà c’è un grande lavoro un buon prodotto che non ha assolutamente appigli. Dentro questo però ci sono delle altre questioni brutali. Detenuti ed ex detenuti tossici sono un pessimo acquisto. Chiaro che bisogna fare una scelta quando si fanno processi di inclusione: chi si esclude? E in termini strategici i dati dicono chiaro chi va escluso. Brutale ma è così. Secondo punto la questione dell’accompagnamento e del rapporto tra formazione professionale e la scarsa rilevanza che ha la formazione professionale nei processi. Io parlo in un certo modo perché spero di far provocare una reazione in modo da poter discutere anche con il cuore e non solo con la testa. In generale tutti i processi di inserimento lavorativo delle così dette fasce deboli portate avanti negli ultimi venti anni sono per gran parte una bufala. Gli enti di formazione hanno continuato a sopravvivere e a pagare i propri dipendenti, ma in termini di rapporto costi-benefici e costi-risultati facciamo ridere. Il massimo del costo-beneficio e costo-risultato che gli utenti hanno è passare da un corso a un altro nel giro di 6 mesi garantendo così la continuità dei finanziamenti all’ente. Dove in particolare sono stati una bufala? Sono stati una bufala soprattutto in un aspetto che è quello del pensare che la formazione professionale, l’accompagnamento all’inserimento in impresa, il tutoraggio ecc.., erano centrati essenzialmente sul lavoro, sulla categoria lavoro, quando quasi tutte le fasce deboli hanno problemi serissimi, alcuni anche sul lavoro, in realtà hanno problemi serissimi perché non sono capaci di costruirsi un loro mondo relazionale se non riproducendo esattamente quello da cui e in cui hanno espresso il loro disagio e la loro devianza. Non hanno queste capacità e competenze. Non hanno capacità e competenze, molto spesso, di fare processi di socializzazione, non hanno capacità e competenze nel gestire le emozioni che derivano dallo scontro con dei processi ordinari come quelli tipici del mondo del lavoro. Tradotto in termini semplici, l’orario, la gestione del confitto, l’ingoiare l’ordine cretino, ecc., tutte queste cose qui implicano una capacità emozionale che se un soggetto è veramente un soggetto debole non è in grado di gestire. Il tutoraggio o la convenzione è stata tutta giocata, o per la maggior parte giocata, sul piano dell’aumento delle competenze e delle capacità tecnicoprofessionali e sul piano del ti do una spalla per fare un inserimento. Su queste tre questioni io non ho mai visto corsi di formazione di tutor che formassero della gente capace di gestire e affrontare queste tre questioni: la gestione delle emozioni che implica la relazione lavorativa, la gestione e la comprensione di come si costruisce un modo di comunicare cioè di apprendere una rete di rapporti di relazioni ecc. In molte aziende private incominciano ad esserci dei soggetti del management che si occupano di queste cose. Le organizzazioni con cui voi avete a che fare, a partire dall’ente locale ad andare ai servizi, fino ad arrivare a quelli del carcere, sono modelli organizzativi assiro babilonesi, per fare un complimento e dire che sono moderni, non hanno la più pallida idea di che cosa è una organizzazione però, parliamoci chiaro, il 90% del mondo della cooperazione non è assiro babilonese ma è tra l’Egitto e il mondo romano in termini di qualità delle organizzazioni. Allora, ma perché non ripensiamo, e anche qui vendendo un prodotto, vendendo un servizio ad un discorso di formazione, di tutor di intermediazione sociale. Cioè di soggetti che sappiano lavorare i processi e non l’intervento dell’inserimento, perché sono i processi che curano, sono i processi che includono, gli interventi non fanno un nulla, né includono né curano e i processi non sono la somma di tanti interventi, la casa, più l’autobus, più il lavoro, non è così che funziona. Come cooperative farete parte, come dire, o della lega o del consorzio. Se vogliamo, visto che questa ricerca mette insieme tante realtà di cooperative, ci vogliamo mettere intorno ad un tavolo e andare alle nostre confederazioni a fare una proposta politica su questo? Li volete i programmi e i dati? Ve li do gratis, ma quando noi in Sicilia, quattro anni fa, abbiamo formato cinquanta tutor di intermediazione per i ragazzi minori sottoposti a provvedimenti penali dell’isola, in due anni di lavoro, hanno decuplicato il tasso di successo dei processi di inclusione sociale, in parte era un dato che da 8 a 14 e da 14 a 18 era all’interno del mondo scolastico e in parte di quello lavorativo. Allora, il problema è che qui, o troviamo una sponda, perché quei soldi te li ridurranno ancora di più, i contratti li faranno sempre più al ribasso, e gli enti locali, adesso non so Parma, sono tutti in una situazione in cui, se vanno a tagliare da qualche parte, tagliano sul sociale e tagliano selettivamente sul sociale. Il problema è come ci muoviamo noi. Allora mettiamo in piedi una strategia, nei prossimi tre anni, abbiamo delle persone, delle sinergie con cui ci possiamo incontrare, perdiamo?, Non cambia niente, ma diamoci una possibilità di scelta, non tentando piccoli accorgimenti che sono uno svilimento. Allora, tanto per continuare a provocare, io ci penserei seriamente per il prossimo Natale a far arrivare agli anziani di Parma una lettera dal carcere e, poi, sistematicamente, ogni mese un’altra lettera. Molta andrà in carta straccia. Ma o la costruiamo da qualche parte questa immagine, può non essere questa l’idea, non mi interessa, o la costruiamo questa immagine e ci facciamo alleato il contesto, ma se pensiamo di poter fare la battaglia con i soggetti con cui oggi siamo in relazione bene signori, andiamo verso una sconfitta. L’attore che si muove con strategia è una minoranza che ha certe competenze, certe capacità e che conosce perfettamente certe strategie di influenza, per quello che, in termini di scienza, oggi si conosce. Se è vero che non si possono mettere in rete le istituzioni e non si possono mettere in rete, normalmente, le organizzazioni, questo è vero, è, invece, altrettanto vero che si possono mettere in rete non i tecnici, io rifiuto di chiamarvi con questo termine, ma gli scienziati perché voi producete conoscenza, non applicate delle tecniche, so che bisogna crearla, se si crea un gruppo cosi, si deve trovare un’istituzione che te lo paga. Perché non si affrontano questi piani concreti? Il problema è che se tu stai con i piedi per terra, l’unica questione concreta è che non si può fare più di quello che si fa, ed è chiuso il discorso. In questi anni ci hanno provato in tanti, gente veramente competente e capace, ma non ci si è riusciti. O troviamo un’altra strategia che non dipende dal carcere, dal detenuto, dall’assessore, da... gli unici che possiamo decidere siamo noi qui, se dipende da noi, la decisione la possiamo prendere. Allora, il punto di partenza è: quel gruppo di scienziati, come li chiamo io perché producono conoscenza, nel senso più autentico del termine di scienza creativa, che sono appassionati attorno a queste questioni, che, altro elemento che emerge da qui, tra le righe, c’è una frammentazione fra i soggetti in cui io posso scegliere due strategie, o tento il minimo comune denominatore che cerchiamo per lo meno di intenderci, o tento il massimo comune multiplo che proviamo a costruire una strategia, perché questo poi è l’effetto della frammentarietà del carcere, se tu tratti i detenuti, non credere che non sei in qualche modo influenzato dal contesto di trattamento, lo siamo tutti, i più interessati sono gli operatori dei tossici, prima ancora che gli psichiatri. C’è una frammentazione, c’è un senso di impotenza qui dentro che è davvero il punto d’attacco su cui incominciare a lavorare. Noi cercando di gestire, da un lato, nel modo più intelligente possibile, ma anche di respirare, se no questa frammentazione e questo senso di impotenza sarà contrastato soltanto da due elementi: dalla volontà delle persone, dalla loro mission personale se siete qui da questo e, come dire, dalla capacità di interpretazione da parte di chi ci si trova messo in mezzo, come un funzionario ecc., di non contrastare questa volontà delle persone. Allora, io dico, se non si crea complicità dei soggetti, un gruppo che si incarica di un’azione strategica, che si forma sulla dimensione strategica, l’unica cosa che si può fare è il tentare di gestire il meno peggio possibile quel poco di risorse che ancora rimarrà per qualche anno, fino a quando non arriverà un ministro, o un presidente di regione, che dirà: a voi il problema. Io ho visto che se si crea un gruppo di questo genere poi, ci può stare che alla Ausl cambia il presidente e venga uno della Lega che non ne vuole sapere mezza di queste questioni qui, cioè, tu sei sottoposto a delle variabili che sono assolutamente fuori del tuo controllo, variabili politiche, variabili normative, variabili economiche, sono fuori del tuo controllo, basta una di queste variabili perché tutto il lavoro di tessitura che hai fatto, in tre mesi venga disfatto. Se tu credi in un gruppo di quel tipo, può arrivare qualsiasi delle variabili, che il gruppo persiste, questa non è fantasia. Solo che bisogna trovare dei modi per creare quel gruppo che è lui il soggetto, perché almeno lavora su quello che dipende da lui e non da variabili che dipendono da altro su cui tu, al massimo, a volte, hai un po’ di contrattualità ma comunque non hai alcuna possibilità di governo. Questa frammentarietà è il punto di debolezza del sistema, è il noto punto di debolezza. Allora, si sa, per esempio, che tu puoi fare delle splendide iniziative ma il problema vero è il problema del mantello, che i cambiamenti d’immagine avvengono per persistenza, cioè, devi trovare delle strategie che, non dico ogni settimana, ma ogni mese per 24 mesi. È così che imponi il prodotto, è così che imponi l’immagine e che quindi, come dire, ad esempio, in un altro campo, stop cene interetniche, stop iniziative di solidarietà, stop a tutte queste robe qui perché funzionano ma hanno il respiro del giornale che io domani butterò, per le persone che ci sono dentro no, è storia, è vita, ma in termini di influenza sui contesti non funzionano. Esiste poi una Banca etica, esiste del personale più che competente e capace, in grado di dare una mano sulla costruzione di un prodotto e un’immagine, e dipende solo dal produttore è, se no la frammentazione, la possibilità di avere dei tutor che non siano quelli che se qualcosa non va bene mi telefoni a casa, ma che non gravino come costo di personale sulla cooperative, perché altrimenti la cooperative muore. Allora, esistono delle possibilità, se si sono fatte da altre parti, perché non si possono fare anche qua? Esiste una legge, che è la legge sul servizio civile volontario, che qui è stata giocata malissimo, ma dove è stata giocata bene ha dimostrato di avere grandi potenzialità. Voi sapete che sono ormai, ogni anno, più di 5 mila le ragazze e ragazze che passano ad esempio in una regione come la regione Sicilia o la regione Calabria o la regione Marche, attraverso il servizio civile. Questi 5 mila, in 5 anni, ad esempio prendiamo la Sicilia, saranno 25 mila persone. Sono 25 mila persone che per un anno io tengo in formazione con me e in un processo di sensibilizzazione, fra 5 anni sono 25 mila persone che se io tengo in rete, queste sono persone che si posso tenere in rete, sono 25 mila armate di famiglia, ognuna di loro rappresenta almeno tra le 4 e le 10 persone, sono 250 mila persone che sono culturalmente sensibilizzate su quello che vogliamo. Esistono delle possibilità, il problema è che per agire ci deve essere un gruppo che è una minoranza, che è capace di strategie d’influenza, che è finanziato, non costa molto, basta trovare un ente che ce ne abbia un po’ e trovare l’escamotage, e che si metta a fare strategie se no non ne esci di qui, non ne esci, questo è gia tantissimo. Il salto di qualità non lo puoi fare, di certo tra tre anni faremo un salto di qualità, fra tre anni in termini di impresa ma, come dico sempre, oggi stanno pensando alla macchina che venderanno tra 5 o 6 anni, o ci mettiamo in questa dimensione strategica o questi dati noi li possiamo conservare, lottando contro i mulini a vento, e sperando che non succeda qualche catastrofe come è successo ad esempio nel sistema sanitario o da altre parti, perché può succedere anche con il Ministero della Giustizia, può succedere anche lì che ci va un ministro un po’ così. Quello che traggo da questa ricerca sull’inserimento socio lavorativo di detenuti ed ex detenuti nel privato sociale sono tre indicazioni grosse: non c’è immagine, non c’è prodotto, c’è un gran lavoro, una gran fatica, un tentativo di portare avanti il lavoro nel migliore dei modi possibili ma non c’è immagine, non c’è prodotto, c’è frammentazione e enorme difficoltà di influenza tra gli stessi attori, tra le cooperative ad esempio, enorme difficoltà di influenza, basta vedere i dati della percezione tra chi inserisce e chi non inserisce, sono praticamente opposti, addirittura fra noi non riusciamo a fare progetti di influenza. C’è frammentazione, mancano delle figure chiave, soprattutto queste del tutor che lavora sui processi e non sull’intervento. Diamoci tre anni di tempo, un tempo minimo per tentare di ottenere un risultato in un campo così difficile come è questo e non facendo affidamento sulle variabili su cui non abbiamo nessuna possibilità di governo. Questi sono dei dati che, come dire, a me sembrano davvero importanti. Dopo secondo me, noi facciamo una strategia di mediolungo periodo nei confronti delle centrali, dei contesti, fra di noi e ci diciamo, se è il caso, tiriamo avanti la baracca in questi tre anni cercando di fare il meno peggio possibile, ma l’obiettivo è la strategia, se no non ne usciamo. Abbiamo fatto a Bologna una ricerca longitudinale sulle rappresentazioni sociali tra cui c’era anche la figura del detenuto. Dato che di ricerche longitudinali se ne fanno poche, a distanza di cinque anni con lo stesso campione era significativa. C’era una domanda che esplorava i livelli di vicinanza, ed era: "accetteresti come vicino di casa...". A distanza di 5 anni, e a Bologna in 5 anni è cambiato tutto, sostanzialmente le figure rifiutate sono: l’adulto violento in primis, lo zingaro, l’ex-detenuto, seguono a ruota, il malato psichiatrico, il tossicodipendente, la prostituta e il barbone. I primi tre, in termini di vicinanza non li vuole nessuno, o riesci a incidere in termini di prospettiva, su questo immaginario obiettivo o ricominci. Poi subisco tutto l’ambiente del carcere, cioè io trovo una direzione che mi dice io dirò sempre no a qualsiasi proposta che viene fatta per le misure alternative, dovete convincermi...io, per principio, dico di no, dovete convincermi, questa è stata la partenza delle direzioni dei penitenziari. Dopo un anno che questi direttori hanno preso possesso del carcere si sfogavano con me dicendo: siamo al livello che io dico di sì contro gli operatori per un inserimento, devo fare il lavoro che fa la psicologa, che fanno gli educatori che dovrebbero venire qui a rompermi, e devo essere io a farlo. Qualche volta quando ci si presenta come un soggetto sociale invece che come avvocato o volontario o altro, si diventa molto più capaci di fare prendere, come dire, un po’ di strizza alla direzione. Come ad esempio gli avvocati inseriti nel Circolo Nuova Mente, una vera e propria lobby di opinione, allora il peso lo fanno sentire molto di più. Non so se non potrebbe essere anche un’idea quello di vedere se non si riesce a creare un gruppo (ne bastano tre o quattro di soggetti) che poi insiste, non tanto sul carcere ma magari sui giudici di sorveglianza, tutti i soggetti che hanno a che fare con la possibilità di rispettare, appunto, i diritti umani o non, compreso quello della cosiddetta risocializzazione. Uno dei difetti del carcere è che toglie la capacità di capire qual’è la mia posizione, perché nel carcere le posizioni sono predefinite, cioè, tu non hai il problema, come in un gruppo di lavoro, di capire chi sei tu per l’altro, tu agente y per l’altro sei quello, è tutto prestrutturato, predefinito; quando vai in un gruppo di lavoro vai in difficoltà, allora, ce l’hai quella capacità di stare nel gruppo? Quindi è fondamentale la capacità di stare in relazione con il gruppo. Un’altra cosa è la capacità di controllo della propria immagine che per molti detenuti è un punto di fortissima debolezza. Loro non sanno intuire correttamente come vengono percepiti dalle persone che stanno loro intorno. Uno dei danni che fa il carcere è che essendo totale il controllo, tu non hai bisogno di controllo. Le regole sono chiare molto chiare. Il tuo problema è imparare le regole ed essere conforme alle regole e allora vai bene. E tutto lì. In situazioni esterne le cose non sono così semplici, esiste un sistema, che si chiama matrice quadratica, che consente con un differenziale semantico di riuscire a vedere se le persone in che misura sono in grado di avere un buon controllo. Facevamo una misura iniziale su queste tre questioni: il mondo relazionale, la capacità di stare in relazione in un gruppo, la capacità operativa concreta e la capacità di intuire correttamente le immagini che gli altri hanno di te, tu hai degli altri, cioè di sapere chi sei e così via. Perché è dunque importante scegliere questi tre indicatori? Perché questi sono tre indicatori di processo in un intervento. Io so per esempio che si apprende sbagliando. Si apprende attraverso l’errore quando uno è in grado di capire l’errore che ha fatto. Per capire l’errore che ho fatto, io devo avere una sicurezza. Nessuno di noi riconosce volentieri i propri errori. Devo sentire che il comprenderlo non mi minaccia. E non minaccia neanche la mia posizione rispetto agli altri. È vero quello che dicono spesso gli operatori delle cooperative, quando ti arriva un detenuto fa come se non lo fosse. Bisogna fare degli interventi perché loro siano più tranquilli, più sicuri per potere fare questa operazione. Allora andiamo a misurare la qualità dei nostri interventi. Sul lungo periodo (5-10 anni) se adesso andassimo a fare un follow up delle persone che 10 anni fa hanno visto un vostro intervento. Oggi dove sono finiti? Può darsi che abbiano rifatto un reato, ma poi… Noi innestiamo processi di crescita non facciamo i miracoli... processi di socializzazione, non socializziamo. E lo possiamo dimostrare dati alla mano. Accanto a questo... anche se conta poco, dobbiamo continuare a pestare i piedi sino a quando non ce la facciamo ad entrare nella testa... è il costo: i nostri interventi costano pochissimo. Se il costo di un detenuto è intorno ai 300-400 euro al giorno rinchiuso il carcere, il vostro costo al giorno è 50-100 euro? Ma neanche... non date 100 euro al giorno di stipendio. Noi siamo in grado di dimostrarvi, dati alla mano, che inneschiamo processi a basso costo. Poi è vero che questo non cambia il fatto... perché ti tagliano i fondi, non perché costi poco ma per altri motivi... non è che gli fai cambiare la testa dicendogli questo, ma sai credo che su certi elementi davvero dobbiamo mettere in piedi degli indicatori di qualità, di processo, combinati con delle possibilità di valutazione in rapporto a costi-benefici, costi-risultati. Questa è una cosa che si può fare. È una buona proposta tanto più se è una proposta che pensa, concepisce il lavoro in termini di occupazione, perché il lavoro non è quello. Il problema è di uscire anche noi da una situazione in cui ci dimostriamo tutto sul "fare" quando poi, in realtà, molte delle nostre energie sono moltissimo sull’elaborare. Ma quante volte ci devi parlare tu con quel benedetto detenuto che è una testa calda e ci parli una volta, e due, e tre, poi ci parla un altro... C’è un modo per misurarlo, per farlo proprio vedere, i tutor dovevo fare proprio questo. Esiste poi un’altra esperienza molto importante cioè quella del delegato sociale. Un soggetto che ha le competenze per mettersi in relazione con il tutor. Allora il tutor va quando esce il detenuto, lo aggancia, cerca di accompagnarlo, fa intermediazione. Un accompagnamento che insegni a fare un processo di elaborazione. Credo che si possa disegnare un processo. Non è che usare degli indicatori di tipo qualitativo, scientifici, ti fa andare in là nei confronti del potere. Il potere se ne frega di scienza, conoscenza, ecc. ma ti consente di arrivare all’università. Lavoriamo solo su quei detenuti che ci danno, quei pochi che ci danno, lavoriamo solo su quelli. Quelli ce li abbiamo. Con quelli fuori dal carcere, la prima volta che li incontro, posso far compilare una paginetta e poi ogni mese spendere dieci minuti e poi formalizzare. Possiamo uscire da questa situazione di gente che lavora un sacco, ci mette l’anima, il cuore, spesso anche il portafoglio. Bisogna lavorare sugli indicatori aiutando anche le cooperative, nei termini del modello organizzativo, perché pensare in questo senso significa anche pensare all’organizzazione. Con calma non possiamo fare un programma per sei mesi in cui diciamo: andiamo avanti per sistema di ipotesi, una strategia, pezzo per pezzo. Le strategie a volte sono vincenti, a volte sono perdenti; meglio averla perché gli altri, comunque, una strategia ce l’hanno. Il comune ce l’ha, le istituzioni, tra di loro, ce l’hanno... e ce l’hanno da secoli. Il carcere è un’istituzione che ha millenni alle spalle, quindi per millenni si è costituito in termini di strategie. Se noi ci andiamo senza alleanze o con alleanze che sono dettate, come dire, da simpatie io la vedo dura. Anche sulla formazione professionale il modello è quello che noi abbiamo adottato al Cefal ai tempi, sin quando si poteva. Ci sono tanti strumenti, il problema è anche di iniziare ad usare strumenti qualitativi che testimonino la qualità del nostro lavoro. Credo che molti di noi non sappiano che stanno facendo un lavoro qualitativamente molto buono. Solo che vedono scarsi risultati, non hanno alcun riconoscimento, non lo possono dimostrare se non a parole; tra l’altro questi sono anche strumenti di governo di un’organizzazione. Li puoi utilizzare in molti modi, però perché non ci mettiamo unanimi a vedere, studiare, pensare, cominciare a disegnare una strategia. Un conto è pensare che le cose si possano fare in un certo modo, un conto è sperimentare che le cose si possano fare in un determinato modo. Certo è che nel settore dei detenuti adulti bisogna inventare moltissimo... ma la creatività viene fuori dal lavoro e dal gruppo di lavoro quando questo è messo nelle condizioni di pensare alle leve degli strumenti. Vale la pena pensare se è possibile fare l’intervento sulla zona allargata... pensarla allargata alla Regione Emilia-Romagna... già io avrei dei problemi. Ma proprio anche storicamente e politicamente, fra la Romagna e l’Emilia c’è... guardate anche le risposte che ci sono fra Rimini e Parma è un abisso. Forse conviene pensarli nei termini di locali che hanno una certa omogeneità. A me sembra che i dati della ricerca non evidenziano grandissime differenze tra Parma e Piacenza. Al di là del fine formale e istituzionale, queste ricerche documentano una situazione che credo valga la pena provare a pensare cosa si può fare per modificare questa situazione. Comunque il dato è sotto gli occhi di tutti. Per lo meno noi abbiamo 4/5 anni davanti in cui sicuramente aumentano i problemi e le difficoltà di questo lavoro, piuttosto che avere delle inversioni di tendenza. Sempre per ragioni strutturali. La vedo difficile una riforma del sistema. E se tagli, tagli in quei settori in cui sai che non perdi consenso, sai che sono irrilevanti dal punto di vista del potere, basta che tu non lo tocchi.
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