Intervista a Beppe Pezzotti

 

Intervista a Beppe Pezzotti, vice presidente e consigliere delegato

della cooperativa sociale Exodus di Capriano del Colle (BS)

(Realizzata nel mese di maggio 2003)

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Ci racconta come nasce la cooperativa Exodus, con quali scopi e quali opportunità lavorative offrite ai detenuti che possono godere di misure alternative alla detenzione?

Alla fine del 1987, quando l’opinione pubblica si scagliava contro la Legge Gozzini, su sollecitazione della Caritas bresciana, del Tribunale di Sorveglianza e del Direttore della Casa Circondariale di Brescia, i responsabili del Consorzio Sol.Co. di Brescia avviarono una nuova cooperativa di solidarietà sociale denominata Exodus.

Il nome della cooperativa indicava chiaramente lo scopo che i soci fondatori ed i soci attuali, ancora oggi, intendono perseguire: "dare opportunità di lavoro ai detenuti che possono usufruire delle misure alternative al carcere previste dalle leggi vigenti".

I soci, con alcuni fondi messi a disposizione dalla Caritas e da alcuni privati, dal Consorzio Sol.Co. Brescia e dalla Regione Lombardia, presero in affitto un capannone nella zona industriale di Capriano del Colle, il più vicino possibile al carcere di Verziano, e lo attrezzarono per adibirlo a falegnameria industriale.

Verso la fine del 1987 iniziò un’avventura che, contrariamente a tutti i presupposti di ordine economico e imprenditoriale, già alla fine dei primi dodici anni di attività vede la cooperativa tra i più qualificati ed apprezzati fornitori di ante grigliate e chiuse semilavorate in legno.

Dei soci lavoratori, che hanno dato vita all’attività, nessuno aveva mai fatto il falegname o comunque lavorato nel settore del legno prima dell’impegno in cooperativa.

Un incontro provvidenziale, procurato nel 1988 da don Nolli della Caritas Bresciana, con i fratelli Piceni di Chiari dell’omonima ditta "Serramenti Piceni" permise di avviare, con la loro consulenza e la messa a disposizione di congrue commesse di lavoro, un’attività di falegnameria che fornisse a loro serramenti in legno in conto lavorazione.

Dal giugno 1990, dopo aver imparato il mestiere e fatto notevoli sacrifici per nuovi investimenti, la cooperativa è diventata fornitrice di semilavorati in legno di molte falegnamerie presenti sul territorio lombardo e dal 1994 in tutta l’Italia del nord.

Alla fine del 1992 si chiuse il bilancio con un fatturato di un miliardo e trecento milioni, grazie al lavoro di 6 soci e 5 detenuti che avevano usufruito di misure restrittive della libertà e alternative alla detenzione carceraria, mentre nel 2001 il fatturato è stato di lire 2.650.000.000, con l’impiego di 9 soci lavoratori e 9 lavoratori svantaggiati.

Chi conosce la cooperazione sociale sa che l’attività delle cooperative sociali non è solo di carattere imprenditoriale ma anche, ed in modo prevalente, di tipo sociale.

Per la nostra cooperativa, quindi, l’attività imprenditoriale di falegnameria è stato ed è tutt’ora un mezzo per creare opportunità di lavoro, di riscatto e di reinserimento sociale di persone, detenute in carcere o domiciliarmente, che possono usufruire di pene alternative quando hanno un posto di lavoro.

La nostra è dunque una cooperativa sociale di inserimento lavorativo che realizza il proprio fine di solidarietà attraverso lo svolgimento di un’attività produttiva del tutto simile a quella di tante imprese.

La nostra diversità consiste appunto nel fatto che accanto al nucleo fisso dei soci lavoratori e di alcuni volontari, che hanno alcune responsabilità gestionali, prestano la loro attività anche persone detenute e assoggettate a misure alternative alla detenzione.

 

Quali sono i principi, la filosofia di lavoro, alla quale vi ispirate?

Per i soci, per le persone detenute inserite al lavoro vogliamo, anche attraverso la collaborazione con i volontari, che la nostra cooperativa sia un ambiente dove sia per tutti percepibile il significato di alcuni nostri principi irrinunciabili come:

fare con impegno il proprio lavoro;

farlo serenamente;

essere attenti alle persone ed impegnati a comunicare e a collaborare;

provare la soddisfazione di svolgere bene il lavoro e di guadagnarsi onestamente di che vivere;

cercare costantemente di migliorare come persone, come lavoratori, come imprenditori, come gestori di un’azienda che opera direttamente sul mercato.

Operando in questo modo puntiamo a:

sviluppare un’azienda e creare nuove opportunità di vita e nuovi posti di lavoro;

costruire le migliori ante grigliate e antoni che ci siano in circolazione;

costruirle nel modo più razionale e redditizio possibile;

conquistarci e mantenere la stima e la fiducia di clienti e fornitori;

realizzare una buona redditività che ci permetta di migliorare il trattamento economico di tutti i nostri lavoratori e nel contempo di fare investimenti per crescere, lavorare meglio ed allargare le nostre opportunità.

 

Vista la tipologia dei lavoratori, mi riferisco a coloro che provengono dall’area penale, la cooperativa dispone di particolari figure di sostegno?

In cooperativa dal 1992 collaborano come soci uno psicologo, uno psichiatra e un criminologo per accrescere la qualità del lavoro sociale. Dal 2000 abbiamo assunto anche un operatore sociale che tiene i rapporti con i responsabili del carcere, con il Magistrato di Sorveglianza e con il C.S.S.A. del Ministero di Giustizia, e le persone detenute, su segnalazione degli operatori del carcere, dei volontari, dei familiari ecc., venivano contattate da due soci, ora dall’operatore sociale, della cooperativa autorizzati ad entrare negli Istituti di Pena.

 

Cosa succede in questi incontri preliminari?

Vengono illustrate ai detenuti le attività svolte dalla cooperativa, le mansioni che dovrebbero svolgere in caso di assunzione, le regole e la retribuzione che è conforme al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro delle Cooperative sociali.

Dopo la stesura di un progetto personalizzato di inserimento lavorativo, la cooperativa inoltra all’autorità competente la propria disponibilità per lo svolgimento di un periodo di prova lavorativa in sede attraverso la concessione di un permesso settimanale al detenuto.

Superata la prova, accettate le condizioni e le regole, la cooperativa dà la propria disponibilità all’assunzione dopo aver steso il progetto personalizzato definitivo di inserimento lavorativo comprendente le regole, i compiti assegnati, la retribuzione, la durata prevista dell’inserimento, le verifiche.

 

Quanto persone lavorano attualmente nella cooperativa e quante di queste sono soggetti svantaggiati, in particolare detenuti ed ex detenuti? E poi, come vengono formati i lavoratori?

L’attuale nostra forza lavoro è di 20 persone, di cui 9 provenienti dal carcere ed 11 soci lavoratori. La formazione viene fatta attraverso il lavorare facendo: in pratica la persona svantaggiata lavora con un socio fino a quando è in grado di lavorare da solo.

 

Il rapporto di lavoro è limitato alla fase di esecuzione della pena o prosegue anche dopo il carcere?

Quando il nostro responsabile sociale incontra la persona detenuta fa un accordo sulla parola. A fine pena, e comunque solo dopo aver trovato un altro posto di lavoro, la persona esce dalla cooperativa per lasciare il posto ad un’altra persona detenuta. Abbiamo avuto comunque delle persone, particolarmente motivate, che a fine pena abbiamo pregato di rimanere in cooperativa. Tenete presente che il responsabile della nostra falegnameria ha avuto un’esperienza carceraria.

 

Quali sono le percentuali di successo dei lavoratori provenienti dall’area penale, in termini di reinserimento, e da cosa dipendono invece, secondo lei, le cosiddette recidive?

Nella nostra cooperativa sono "transitate" 108 persone provenienti dal carcere: il 56% di queste, secondo una nostra statistica, si sono positivamente reinserite, il 23% sono rientrate in carcere dopo aver commesso un nuovo reato, mentre del 21% non abbiamo avuto più notizia.

Sulle recidive, invece, vi assicuro che è particolarmente difficile individuarne le motivazioni. Vi potrei raccontare di una persona che ha fatto varie recidive per truffe e che dopo essere stato da noi ha trovato il modo, forse anche il gusto, non so, di truffare anche noi facendoci pagare 12.000.000 di vecchie lire per un infortunio a nostro avviso fasullo.

 

La sua associazione le ha assegnato l’incarico di seguire i problemi dei detenuti: ci vuole spiegare in maniera più dettagliata in cosa consiste, descrivendoci anche il protocollo d’intesa sottoscritto nel 1998 con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria?

Nel 1997 la mia associazione, che è Confcooperative settore delle cooperative sociali denominato Federsolidarietà, mi ha incaricato, vista la mia esperienza fatta in Exodus, di seguire i problemi del carcere ed in modo particolare di promuovere tutte quelle iniziative che potessero facilitare il reinserimento delle persone detenute.

Nel 1998, quando responsabile del D.A.P. era il dott. Margara, abbiamo proposto e sottoscritto un protocollo d’intesa che prevede, da parte del D.A.P., di favorire l’ingresso delle cooperative sociali nelle carceri e, da parte nostra, l’impegno a mettere ha disposizione tutte quelle realtà vicine alle sedi carcerarie per fare formazione, dare lavoro alle persone detenute sia all’interno che all’esterno delle carceri.

Dopo aver sottoscritto il protocollo e ulteriormente proseguita la collaborazione con il D.A.P., in questi giorni, ad esempio, stiamo concordando le modalità affinché la cooperazione sociale possa gestire, ovviamente con le persone detenute, il confezionamento dei pasti previa formazione ed una esperienza in alcune carceri.

In alcune carceri abbiamo già avviato la gestione di servizi come le pulizie, la manutenzione ed altre attività in convenzione con le direzioni del carcere e le cooperative che assumono con il contratto di lavoro delle cooperative sociali le persone detenute usufruendo poi dei vantaggi della legge Smuraglia come previsto dall’articolo 47 del nuovo regolamento penitenziario D.P.R. 230 del 2000.

 

Ci descrive la sua proposta di lavoro volontario in Onlus quale forma di alternativa al carcere, limitatamente ai due anni di pena residua da scontare, spiegandoci i benefici che potrebbero derivare dalla sua applicazione?

È presto detto: la situazione è in continua evoluzione negativa, mi riferisco ad esempio al sovraffollamento, e se tutti i detenuti che hanno ancora due anni di pena da scontare potessero beneficiare di una pena alternativa al carcere lavorando in forma volontaria in una Onlus, certamente uscirebbero dalle carceri migliaia di persone. Attenzione, detenuti che comunque uscirebbero a breve e che, in caso di inosservanza delle misure imposte o di un nuovo reato, sconterebbero la nuova e anche la vecchia pena, quindi non un indulto mascherato ma semplicemente un modo diverso e più costruttivo di pagare i propri errori: rendersi utile per la società e per altre persone in difficoltà, come ammalati, disabili, anziani.

L’Ente Onlus avrebbe l’obbligo di garantire il vitto e l’alloggio (per chi non dispone di una famiglia), mentre lo Stato potrebbe, come già avviene per il servizio volontario per le donne, garantire ad ogni persona 500 euro al mese.

Questo è in sintesi il mio pensiero, ma abbiamo fatto di più con una precisa proposta di legge, stesa dal prof. Carlo Alberto Romano, che ripercorre grosso modo quanto appena accennato.

 

Per concludere, c’è qualcosa che ha visto nelle carceri italiane, che si potrebbe facilmente migliorare ed evitare?

Innanzi tutto bisognerebbe evitare cooperative sociali fatte da soli detenuti. Noi insistiamo che vengano fatte insieme ai detenuti ma con la presenza di soci della cooperativa che possono garantire la qualità del prodotto, l’organizzazione del lavoro, il collegamento con l’esterno e che la cooperativa abbia anche delle attività lavorative all’esterno del carcere per avere un progetto completo che preveda:

formazione all’interno del carcere;

inserimento lavorativo all’interno del carcere;

inserimento lavorativo in cooperativa all’esterno del carcere quando si matura una pena alternativa;

inserimento lavorativo a fine pena in altra realtà lavorativa.

Per fare questo è necessario, e noi lo esigiamo, che in carcere entri almeno un socio della cooperativa che si occupa di organizzare la formazione, il coordinamento delle lavorazioni, i rapporti con l’esterno, il reperimento di ordini ed altro ancora.

 

Ci sono particolari difficoltà con le quali vi trovate a fare i conti?

Le difficoltà sono molte ed una delle più pressanti è il forte turn over dei lavoratori, soggetti a facili trasferimenti, poi da non trascurare sono le problematiche dovute all’entrata e all’uscita delle materie prime da lavorare, sottoposte a controlli per garantire la sicurezza, ed infine la ristrettezza dei locali di lavoro.

Però non demordiamo, anzi proprio in questi giorni nella nostra zona partirà un progetto, chiamato PANTA REI, che ha avuto anche un contributo dalla Fondazione Cariplo di 1.300.000 euro su 5.000.000 di investimento previsto, che è sintomatico delle nostre modalità di intervento.

Verrà realizzato un insediamento produttivo per 8 imprese sociali che occuperanno almeno 250 addetti di cui 120 persone svantaggiate, e la nostra intenzione è quella di "rompere" finalmente la separazione fra cittadini e detenuti e sperimentare progetti concreti di re-inclusione sociale, attraverso la realizzazione di capannoni per attività produttive e servizi comuni come mense, uffici ed appartamenti.

 

Cooperativa sociale Exodus, Capriano del Colle (BS)

 

 

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