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Istituzione: una parola equivoca Prima
ancora di affrontare il territorio specifico delle istituzioni totali
diventa necessario chiarire il significato che attribuiamo alla parola istituzione,
intorno al quale si sono esercitate generazioni di sociologi, antropologi,
etnografi, giuristi e filosofi. L’area
semantica della parola istituzione è multivalente, contraddittoria,
ambigua. Ma questa ambiguità è di grande interesse perché nasconde una
tensione concettuale che in qualche modo raccoglie tensioni effettive della
vita sociale. Intorno
alla nozione di istituzione si sono confrontati due opposti modelli. Modello
statico. La
sociologia di Talcott Parsons e dei suoi allievi, come pure l’etnologia
classica, hanno privilegiato la tensione passiva consegnandoci una
definizione reificata della istituzione. Da questo orientamento,
l’istituzione viene intesa come un quadro strutturato e stabilizzato di
attività sociali, di norme, regole e funzioni. Modello
dinamico. Cornelius
Castoriadis, Reneé Lourou, Georges Lapassade, a partire dagli anni ‘40,
hanno sottolineato la caratterizzazione dinamica dell’istituzione,
evidenziandone in particolaree la sua natura processuale. Questo
orientamento, epistemologico, al quale anch’io mi riferisco, e che in
Italia è stato seguito da Franco Basaglia, ed in Europa da Ronald Laing,
David Cooper, Ivan Ilich e tanti altri, è noto come analisi
istituzionale. L’analisi istituzionale, sviluppando un orientamento
costruttivista, ha proposto una importante distinzione analitica tra società
istituente e società istituita
e si è dedicata alla descrizione
dei loro rapporti. L’impianto
dell’analisi istituzionale connette quindi alla nozione di istituzione: •
Una tensione attiva: la
produzione istituente, il lavoro di istituzione, il fatto di istituire un
ordine. Chiameremo gli attori di questa tensione: istituenti ordinari.
(Spinta divergente). •
Una tensione passiva: la
resistenza di un ordine istituito, delle norme e delle consuetudini
consolidate. Chiameremo le personificazioni di questa tensione passiva:
guardiani dell’istituito. (Resistenza conformizzante)[1]. •
Una tensione processuale: i
processi di istituzionalizzazione. Questa terza tensione è indispensabile
per svelare ed enunciare nel divenire, e non soltanto nel quadro binario
delle prime due istanze, le implicazioni di ognuno degli attori nella
situazione d’intervento. Sia
la tensione attiva che la tensione passiva, infine, muovono verso un compito.
Anche il compito, secondo Pichon Riviere e Armando Bauleo, è un elemento
fondante di questo quadro analitico. La
nozione di istituzione totale è
stata proposta dal sociologo americano Ervin
Goffman, indotto ad interessarsi di carceri e manicomi
dall’internamento di sua moglie in una istituzione psichiatrica. In
Asylum, il suo saggio più noto e meglio articolato, egli afferma che:
“Uno degli aspetti fondamentali della società moderna è che l’uomo
tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni
diversi, sotto diverse autorità e senza alcuno schema razionale di
carattere globale”. La
caratteristica principale delle istituzioni totali sarebbe allora proprio la
rottura delle barriere che abitualmente separano le tre sfere principali
della vita di ogni individuo: la famiglia, il lavoro, il divertimento. Lo
sguardo di Goffman si ferma qui: alle apparenze, alla superficie. Sotto questa apparenza tuttavia, altri ricercatori, – Michel Foucault e Franco Basaglia in particolare – hanno messo bene in evidenza un dispositivo disciplinare e di potere che unifica alla radice quelle “sfere della vita” che Goffman, invece, considera separate l’una dall’altra da precise barriere. Michel
Foucault,
ad esempio, nella sua lettura dei dispositivi del controllo sociale che si
sono affermati negli ultimi secoli, enfatizza il potere disciplinare, vale a
dire quell’insieme di pratiche e di conoscenze orientate sugli individui
allo scopo di renderli conformi a determinati codici di comportamento. Un
potere distribuito ed articolato in tutte le istituzioni – dalla famiglia
alla scuola, dal lavoro alla prigione e al manicomio – più che
identificato in una specifica istituzione[2].
Soprattutto un potere che lavora per indurre in tutte le persone che
ricadono sotto il suo dominio una forte interiorizzazione o
internalizzazione di valori, modelli identitari, contenuti di significato
riferibili alla normalità; e che tratta gli incorreggibili[3]
per recuperarli alla conformità, per rinormalizzarli. Il
continuum della società disciplinare, sarebbe quindi operante, nello
scenario foucaultiano, proprio nell’esercizio sui corpi, nella microfisica
di questo potere. Se
proviamo a tradurre in un modello relazionale la nozione di potere
disciplinare ci appare una struttura gerarchica entro cui: a)
un attore gestisce rigidamente un codice normativo (custode del codice); b)
un altro attore viene costretto a stare nella relazione conformizzando i
suoi comportamenti a quel codice (iniziato). Se non si conforma subisce un
trattamento correzionale, una penalizzazione (esclusione), ma per
conformizzarsi deve compiere operazioni di dissociazione identitaria. L’implicazione
del potere disciplinare è così un processo dissociativo in seguito al
quale l’iniziato conforma un’area della sua coscienza al codice
normativo gestito dal custode, e dissocia altre aree della sua coscienza
mantenendole in condizioni di latenza (latenze dissociate). Franco
Basaglia
articola ulteriormente questo sguardo e mette al centro della sua
riflessione la divisione dei ruoli e la relazione di potere che ad essa
corrisponde. “Famiglia,
scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta
divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e
scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e
organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è
la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può
ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione
e violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da
parte del potere, del non potere; la violenza e l’esclusione sono alla
base di ogni rapporto che s’instauri nella nostra società”[4]. Divisione
dei ruoli, esercizio di potere, violenza ed esclusione caratterizzano ogni
istituzione e nella società occidentale vengono giustificati come necessità
intrinseca alla finalità dell’istituzione: l’educazione (famiglia,
scuola): trattamento educativo; la malattia (ospedale, ospedale
psichiatrico): trattamento terapeutico; la ‘colpa’ (carcere):
trattamento risocializzante. Questa
giustificazione, fissata in norma, definisce il limite, il confine, la
‘linea di colore’ “fra un bene che si accoglie (che siamo noi) e un
male che si rifiuta (che sono loro)”[5].
Loro, i diversi, i rifiuti, gli elementi di disturbo, gli esclusi. Ovvero le
contraddizioni generate dalle relazioni dominanti nell’inclusione ma che
gli inclusi non vogliono vedere e cercano di far sparire. Le istituzioni
dell’esclusione, sono così “aree di scarico” e di compenso delle
proprie contraddizioni dove la società relega e nasconde le proprie
contraddizioni”[6]. Nel
grado di intensità con cui i guardiani dell’istituito esercitano il loro
potere e gli istituenti ordinari esercitano la loro spinta divergente.
Insomma, ciò che definisce il carattere totalizzante di una relazione o di
una istituzione è, in definitiva, l’intensità del potere, da alcuni
esercitato e da altri subìto. Nelle micro-dimensioni, nelle dinamiche molecolari, gli attori che subiscono le torsioni esercitate da chi si erge a guardiano dell’istituito possono opporre azioni che istituiscono processi avversativi alla richiesta correzionale o di conformizzazione: processi di istituzionalizzazione. Questa
attività istituente ordinaria è ciò che Lapassade e altri hanno chiamato:
costruzione della realtà sociale quotidiana. Le
istituzioni ordinarie mantengono dunque un certo grado di elasticità e
porosità in modo tale da non escludere, almeno potenzialmente, un esito
trasformativo dell’azione dell’istituente ordinario. Processi
avversativi ordinari alle richieste di correzione,
adeguamento e rinormalizzazione
che i guardiani dell’istituito impongono, per quanto presenti e attivi tra
la “popolazione detenuta”, hanno scarsissime probabilità di decollare
per via ordinaria. Al contrario essi vengono istituzionalmente decollati! Se
una trasformazione qualitativa essenziale può prodursi essa, in genere,
dipende da istituenti straordinari
(movimenti sociali, rivoluzioni, etc.) che investono con la loro azione
collettiva le macrodimensioni della formazione sociale. Le
istituzioni totali sono anelastiche e non porose. La relazione tra gli
attori che le fanno vivere è gerarchica, unidirezionale, intransitiva e
resistente ad ogni dialettica ordinaria. Le
istituzioni totali esercitano costitutivamente una torsione relazionale
mortificante sull’attore recluso. Il
vissuto di questa torsione viene significato in quadri diversi nelle istituzioni
totali volontarie (eremi, conventi, …) e nelle istituzioni
totali involontarie (carceri, manicomi, …). Ma la diversa
elaborazione simbolica investe soltanto il piano della dissociazione
dalla torsione, non quello specifico della torsione. 2.1
Tre esempi problematici Le
nozioni di ‘istituzione ordinaria’ e ‘istituzione totale’ sono
ovviamente da intendere come semplici ‘modelli concettuali’. Nella
realtà quotidiana i dispositivi totalizzanti sono
potenzialmente all’opera in tutte le istituzioni. Farò perciò tre esempi che mettono in seria difficoltà la distinzione. O meglio sconsigliano di impiegare ingenuamente la nozione di ‘istituzione ordinaria’. «Mio
padre, proprio mio padre, è stato la mia prima istituzione totale». Detta
da una psichiatra questa dichiarazione ci induce a riflettere non solo su un
vissuto personale ma anche su un
dispositivo relazionale. La
neuropsichiatra infantile Antonella
Sapio, del resto, in Cosicomesei, un libro che abbiamo pubblicato di
recente[7],
racconta tra le altre la storia di Antonio, dodici anni che viene portato da
lei con la richiesta esplicita di un trattamento riabilitativo. Antonio, le
dice la madre, a differenza di suo fratello, ha un rendimento scolastico
“che fa fare brutte figure alla famiglia”. Antonio,
da parte sua, non si riconosce affatto nelle descrizioni che di lui la madre
propone e non capisce proprio perché lo si voglia psichiatrizzare. Il
rendimento scolastico, non è tutto, e poi la scuola lo annoia, non lo
stimola, ed anzi scoraggia le sue migliori intenzioni. Antonio è un ragazzo
vivace, intelligente, ma non
ancora conformizzato: questo per la sua famiglia è il vero guaio! A
me interessa osservare che in questa famiglia, Antonio non è sicuramente in
grado di esercitare una azione istituente in conflitto con l’istituito
(deciso e gestito dalla madre). La richiesta di adattamento e
conformizzazione al codice è anelastica, gerarchica, assoluta.
Disattenderla o avversarla implica una prospettiva di coazione trattamentale. Ho
proposto questo esempio per indurvi a riflette sul fatto che in questa
famiglia, vale a dire in questa ‘istituzione ordinaria’ opera un
dispositivo relazionale tipico delle istituzioni totali. Il
secondo esempio riguarda la scuola. In
una ricerca sull’abbandono scolastico che insieme a Nicola Valentino ho
condotto nel 1998/99 all’IPIA di Bagnoli la risposta più frequente che
gli studenti hanno dato a domande sul loro vissuto scolastico può essere
sintetizzata così: «Mi sento un carcerato». In quella scuola la percentuale di abbandoni raggiungeva l’80%., vale a dire che su cento iscritti al primo anno non più di venti arrivavano al diploma. In quella ricerca, durata circa un anno, ci fu presto chiaro che gli studenti avevano una percezione lucidissima della crisi di senso di quella scuola (nata in un contesto di forte industrializzazione ma ora collocata in un’area meridionale sacrificata e deindustrializzata) e della sua funzione di “vuoto contenitore”. Era chiaro a tutti, dal Preside ai bidelli, che lì non ci si andava per apprendere qualcosa di traducibile, dopo i cinque anni, in lavoro. Ci si andava per un’altra ragione: perché “costretti” dall’obbligo scolastico e dalle pressioni genitoriali. Non a caso dunque, forme di relazione, gradi e articolazioni del controllo presentavano analogie evidenti con i dispositivi all’opera nelle istituzioni totali. Gli allievi erano scoraggiati e impossibilitati a mettere in atto un qualsivoglia processo istituente. I loro controllori si consideravano a tutti gli effetti “guardiani dell’istituito”. L’unica risorsa che restava agli allievi più vivaci e intraprendenti era l’evasione: “l’abbandono scolastico”. Chi
restava era il problema, non chi se ne andava! Anche
questo esempio nasce dalla nostra diretta esperienza di ricerca in una casa
di cura per anziani, con 700 ospedalizzati. “Un
ricoverato ed una ricoverata che si sono conosciuti in quella casa di cura,
decidono di sposarsi. Sono due liberi cittadini, e pertanto il loro progetto
va a buon fine. Ma l’amministrazione osteggia l’idea di “una camera
tutta per loro”; ed anzi non gli consente, neppure per una notte, di
dormire insieme. Nessuna
legge o norma scritta vieta alle persone ospedalizzate di avere rapporti
sessuali ma il personale è istruito in modo rigido a prevenire questa
eventualità e a impedirla. Le donne che hanno ancora un ciclo mestruale
vengono sottoposte a “sorveglianza speciale”. E se un uomo e una donna
mostrano apertamente un certo rapporto affettivo vengono subito separati in
reparti diversi senza possibilità di contatti tra loro. Tutti i tentativi di mettere in moto un processo istituente teso al cambiamento del dispositivo relazionale operante sono stati repressi. E allora, possiamo dire che in questa casa di cura la vita di relazione sessuale è regolata in modo diverso da quanto avviene in una istituzione totale? 3.
I dispositivi dell’istituzione totale come analizzatori In
ogni istituzione ordinaria, abbiamo visto, sono potenzialmente all’opera
quei dispositivi relazionali totalizzanti che caratterizzano ordinariamente
le istituzioni totali. Qualora essi trovino nelle dinamiche quotidiane della
vita istituzionale condizioni favorevoli per manifestarsi, uno o più attori
di quella specifica istituzione, subiscono una vasta gamma di torsioni e di
mortificazioni alle quali potranno sottrarsi dissociandosi in varie forme
dalla loro condizione, oppure, con una risposta più radicale, abbandonando
l’istituzione. Per
portare a consapevolezza i dispositivi relazionali totalizzanti,
effettivamente operanti nelle istituzioni ordinarie (ma generalmente
invisibili ai loro attori perché da essi considerati “naturali” e
inconsapevolmente vissuti) possiamo servirci di due specchi analitici
particolari. Uno
di essi è il momento istituente
dell’istituzione, vale a dire l’istituzione dell’istituzione. In
questo specchio del passato, ha osservato Ivan Ilich, risulta possibile
riconoscere la radicale alterità della topologia mentale del secolo in cui
viviamo e divenire con ciò consapevoli dei suoi assiomi generativi. Un
secondo specchio analitico, fondamentale per la ricerca-azione che noi
promuoviamo, è rappresentato dai dispositivi
basilari e paradigmatici delle istituzioni totali. Se confrontati alle
procedure che vengono effettivamente impiegate per interpretare e per
comunicare a fini pratici il vissuto quotidiano di una istituzione ordinaria
(famiglia, scuola, ospedale, luogo di lavoro, etc.) essi sono
particolarmente idonei a fare risaltare e mettere per così dire ‘allo
scoperto’ modalità, procedure e gradi di controllo totalizzante nella
relazione tra gli attori di quella istituzione. Il
monitoraggio delle dinamiche istituzionali che consegue a questo metodo di
ricerca ha come implicazione prospettica e non eludibile una ecologia
della vita di relazione. 4.
Origini del dispositivo relazionale dicotomico inclusione-esclusione
(l’istituzione dell’istituzione) Per
identificare il codice genetico delle relazioni che fondano la società
occidentale ci dobbiamo trasferire nel Vicino Oriente circa quattromila anni
prima di Cristo. A Ur, a Sumer, nelle prime città stato della Mesopotamia.
Lì, come successivamente nelle Polis greche, e poi nelle Civitas della
penisola che abitiamo, un muro ha cominciato a delimitare e significare gli
spazi relazionali. Un muro di pietra, non solo una metafora; una
pietrificazione degli spazi e degli sguardi che si sono dati un limite e una
filosofia, un’estetica, una mitologia del limite. In
breve, nel chiuso dei muri di cinta s’è progressivamente consolidato e
‘naturalizzato’ un dispositivo relazionale fondato sulla dicotomia
inclusione-esclusione. In tale dicotomia gli esclusi non sono soltanto
gerarchicamente inferiori agli inclusi; assai peggio essi sono privati della
loro qualità specifica; vengono disumanizzati. Il
buon cittadino, il “cittadino normale”, in questa filigrana, è per così
dire un incluso perfettamente adattato, “normato”; educato ad una certa
gamma di discipline che omologano insieme all’anima il suo corpo. Murato
fuori e murato dentro ma inconsapevolmente cieco rispetto all’esistenza di
quei muri. Alla perimetrazione esterna corrisponde infatti la
perimetrazione interna del suo sguardo, dei suoi sensi, della sua coscienza
ordinaria indotta a dissociare da sé quanto viene socialmente riprovato e
condannato all’esclusione: ciò che viene messo fuori dal luogo comune
esteriore viene nel contempo disaggregato e dissociato interiormente[8]. 5.
Prima implicazione del dispositivo inclusione/esclusione: il trattamento A
fondamento della legittimazione delle istituzioni, sia ordinarie che totali,
nella società occidentale, almeno a partire dal XVIII secolo e dai suoi
ottimismi illuministici, sta la nozione di trattamento. La
divisione dei ruoli, l’esercizio del potere, le torsioni della vita
relazionale, la violenza e l’esclusione sarebbero giustificati dalla
finalità assegnata all’istituzione; –
Trattamento educativo (famiglia, scuola); –
Trattamento terapeutico (ospedale, ospedale psichiatrico); –
Trattamento rinormalizzante e risocializzante (carcere, manicomio). –
Trattamento delle cause sociali che promuovono criminalità e devianza. L’azione
trattamentale opera per indurre una forte inetriorizzazione
del mito identitario dei valori, dei modelli, dei contenuti di
significato riferibili alla normalità. Chi
non conforma i suoi comportamenti a questi codici subisce una qualche
penalizzazione: stigmatizzazione, trattamento, esclusione. Anche
chi si conforma tuttavia deve dissociare parti di sé dalla sua coscienza
ordinaria. L’implicazione
del potere disciplinare, o, che è lo stesso, dell’azione trattamentale
ordinaria è così un processo dissociativo in seguito al quale l’iniziato
conforma un’area della sua coscienza al codice normativo gestito dal
custode, e dissocia altre aree della sua coscienza mantenendole in
condizioni di latenza, dissociate. L’esito
dell’azione trattamentale è così la produzione di una identità
di sopravvivenza strutturata all’interno di una molteplicità
identitaria intrisa di malessere.
6.
Dal modello trattamentale al modello attuariale Negli
ultimi scorci del 900 – a partire dagli anni 70 e segnatamente negli anni
90 – lo sguardo sull’esclusione sembra tuttavia subire una evoluzione.
Le categorie sociali che vengono riferite a quest’area (immigrati, nomadi,
consumatori di droghe illegali) essendo sempre più considerate fonti
potenziali di rischio criminale soggiaciono a strategie intese a
neutralizzarle preventivamente. La
differenza specifica rispetto al modello trattamentale di questo nuovo
orientamento del controllo sociale, definito attuariale[9],
consiste nel fatto che il primo coltiva l’utopia della rinormalizzazione
dei soggetti devianti, mentre il secondo sposta l’attenzione dai soggetti
singoli alle categorie di soggetti classificando queste ultime secondo le
potenzialità di rischio che vengono ad esse attribuite. Così
su questi gruppi “portatori di rischio per la sicurezza collettiva”,
permanentemente esclusi dalle risorse che consentono l’inclusione sociale,
l’unico intervento effettivamente auspicato diventa la prevenzione
situazionale, vale a dire la sorveglianza
di massa e la costrizione entro uno spazio fortificato.[10] Il
dispositivo del controllo sociale-penale diventa preventivo e
probabilistico. Centri di permanenza temporanea, campi nomadi, comunità terapeutiche chiuse, e altri raccoglitori per persone anziane, con handicap, con lunghe detenzioni manicomiali alle spalle, o circuiti per nuovi cronici sembrano corrispondere pienamente a questo indirizzo. Il
sindaco di Comiso ha dichiarato; “Bisogna evitare contatti tra i profughi
e la criminalità. È necessario stabilire alcuni criteri di gestione del
campo. Permettere ad esempio l’uscita libera di cento kossovari, magari
senza una lira in tasca, potrebbe trasformarsi in falsa umanità”. La
“vera umanità” infatti sta nel tenerli chiusi mentre si va a bombardare
la loro terra! Chiusi in spazi d’eccezione, vale a dire in “zone di
sospensione della legge, così come zone di sospensione assoluta della legge
erano i campi di concentramento”[11] 7.
Oltre il modello attuariale si affaccia la prospettiva bio-tecnologica del
controllo e si comincia a parlare di post-umanità Perché
disperdere energie nei trattamenti di qualunque grado se le biotecnologie
sono ormai prossime a realizzare la clonazione umana? La pecora Dolly,
dopotutto, ha già fatto sentire i suoi belati. E Craig Venter, ricercatore
della Celera Genomic, una società biotecnologica americana, ha annunciato
(nel mese di aprile del 2000) di aver messo a punto l’esatta sequenza
biochimica che compone il materiale genetico umano. Tra le implicazioni
inquietanti dell’ingegneria genetica non si può trascurare la
programmazione di individui destinati a svolgere ruoli subalterni (schiavi)
o la riprogrammazione di individui il cui comportamento sia ritenuto
criminale da chi controlla la matassa dei
poteri. Ed infatti c’è già chi lavora a costruire la
legittimazione culturale di questa prospettiva. Francis
Fukuyama, ad esempio, un intellettuale anti-umanista americano: «
Il periodo aperto dalla rivoluzione francese ha visto fiorire diverse
dottrine che si proponevano di trionfare sui limiti della natura umana,
creando un nuovo tipo di essere non soggetto ai pregiudizi e alle
limitazioni del passato. Il fallimento di queste esperienze, alla fine del
XX secolo, ha dimostrato i limiti del costruttivismo sociale, suffragando
– a contrario – un ordine liberale, imperniato sul mercato, fondato su
verità manifeste attinenti alla Natura e al dio della Natura. Ma è
senz’altro possibile che gli strumenti dei costruzionisti sociali del
secolo, dalla socializzazione fin dalla prima infanzia all’agit prop e ai
campi di lavoro, passando per la psicanalisi siano stati troppo grossolani
per modificare in profondità il substrato naturale del comportamento umano.
Il carattere aperto delle scienze contemporanee della natura ci permette di
ipotizzare che nel corso delle prossime generazioni la biotecnologia possa
dotarci degli strumenti atti a permetterci di compiere ciò che gli
specialisti dell’ingegneria sociale non sono stati in grado di fare. A
questo stadio, avremo definitivamente concluso la storia umana, poiché
avremo abolito gli esseri umani in quanto tali. Allora incomincerà una
nuova storia al di là dell’uomo»[12] Le strategie trattamentali hanno sostanzialmente fallito il loro scopo, le strategie attuariali (contenimento di gruppi sociali a rischio entro spazi fortificati) tamponano questo fallimento, ma le biotecnologie potrebbero riuscire proprio là dove esse hanno fallito. Se i trattamenti identitari generano, simultaneamente all’identità dell’inclusione anche identità escluse (patologie da negare, trattare e purificare)), le biotecnologie potrebbero esercitarsi ad eliminare definitivamente “l’esterno”. Come non si vuole riconoscere un esterno al “villaggio globale” così non ci dovrebbe essere un “esterno” all’identità clonata di ciascun cittadino. La
dissociazione come risorsa Vorrei
non esserci, purtroppo mi trovo qui Vorrei
evadere, ma non posso. Vorrei
dimenticare, ma come fare? Finalmente
sono uscito dalla cella, finalmente
sono evaso dal mio corpo finalmente
ho dimenticato, anche soltanto per un'ora, di
trovarmi dentro (J.
A. detenuto di lingua araba)[13] Come
ha fatto J. A. ad “evadere dal suo corpo”? A “dimenticare anche
soltanto per un’ora” di trovarsi dentro? J.
A., come molti altri detenuti, la grande maggioranza direi, ha modificato il
suo stato di coscienza: si è dissociato. Per
comprendere questa operazione compiuta da J.A. dobbiamo servirci della
nozione di molteplicità identitaria elaborata da Pierre Janet. 1.
Molteplicità identitaria e dissociazione Nel
1889, Pierre Janet, pubblicando
la sua tesi di laurea[14],
propone un nuovo sguardo sul problema dell’unità personale che egli
rappresenta come insieme di esistenze psicologiche simultanee, come insieme
di personalità del tutto differenti. Janet
pone l’accento, in particolare, sulla simultaneità di queste esistenze
per attirare la nostra attenzione sul fatto che egli non si riferisce a
“variazioni successive della personalità” le quali, in definitiva,
“non alterano l’idea di io che resta uno in tutti i momenti
dell’esistenza”. In ciascun momento, egli dice, sono all’opera più di
un “io”. L’esistenza
simultanea di personalità diverse in ciascuno di noi mette in crisi
l’idea stessa di unità personale proiettata in un solo “io”. Questa
unità e questo “io” sarebbero soltanto un’apparenza. Al loro posto
opererebbe invece una molteplicità identitaria che, instancabilmente, tenta
esperienze di aggregazione e di disaggregazione. Affermare
come ha fatto Janet che l’unità personale è un insieme di esistenze
psicologiche simultanee ha come implicazione forte l’ordinarietà della
dissociazione. La quale, come hanno documentato negli anni più recenti
Ernest Hilgard (1977), Arnold Ludwig (1983) e Georges Lapassade (1996)
rappresenta un dispositivo psicobiologico comune e universale soggiacente
non solo ad un’ampia varietà di stati modificati (transe ipnotica, transe
medianica, personalità multiple, possessione spiritica, …) ma, più in
generale all’intera esperienza identitaria che tutti ordinariamente
facciamo. Nella
vita ordinaria il dispositivo della dissociazione si manifesta in forme
semplici, rapide, caleidoscopiche. Ad esempio mentre ascoltate la mia
relazione alcune preoccupazioni legate alla vostra vita di relazione
irrompono e vi “portano via” temporaneamente. Oppure una qualche mia
parola apre in voi un transito improvviso verso memorie di stato proprie di
altre vostre configurazioni identitarie. Ed ecco una piccola transe. Nelle
condizioni estreme il transito verso altri nodi o configurazioni identitarie
viene sostanzialmente autoindotto e poco a poco si struttura ritualmente. Di
seguito vedremo le fondamentali dinamiche dissociative proprie di queste
esperienze. 2.
Configurazioni di assenza: non vedere, non pensare, non sentire, non
soffrire «Di
notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata da donne che
russavano piano, o sognavano ad alta voce, o piangevano silenziosamente, o
si giravano e rigiravano – donne e ragazze che dicevano così spesso
durante il giorno “non vogliamo pensare”, “non vogliamo sentire,
altrimenti diventiamo pazze” – a volte provavo un’infinita tenerezza,
me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le
fin troppe impressioni di un giorno troppo lungo, pensavo “Su, lasciatemi
essere il cuore pensante di questa baracca”»[15]. Hetty
Hillesum
in questa pagina di diario (1941-43) relativa alla sua esperienza nel campo
di smistamento per ebrei di Westerbork ci racconta che donne e ragazze
internate dicevano spesso “non vogliamo pensare”, “non vogliamo
sentire”. Si tratta di una risposta di assenza alle torsioni che il loro
corpo sta subendo. Questo
tipo di dissociazione che ricerca una qualche forma di disattivazione del
pensiero e d’insensibilizzazione psico-fisica implica uno spostamento
identitario, un mutamento di configurazione della coscienza, e, in forme
spontanee, può essere indotto da una certa modificazione del proprio
chimismo. Il
nostro corpo è attrezzato per mettere in campo, senza alcun intervento
esterno, almeno in situazioni estreme, risposte che muovono in questa
direzione: la vertigine ad esempio, lo svenimento, il sonno, o il sonno
catalettico. Vertigine,
svenimento Daniel
Gonin,
un medico penitenziario francese, ha osservato che tra i neo-reclusi la
vertigine è un’esperienza frequente. L’andar
via, per eccellenza, il venire meno, il rendersi temporaneamente assenti.
Sottrarsi a una situazione vissuta come insostenibile e, per questa via,
annullarla. Questo “annullamento della realtà” – ha osservato Roger
Callois – si ritrova in tutti i giochi di vertigine, vale a dire in
quelle “attività ludiche che permettono di accedere a una specie di
spasmo, di transe o di smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa
precipitazione”[16]. Callois
fa seguire una considerazione uteriore di notevole interesse: anche chi
consuma oppioidi, eroina, pratica questo gioco. Sonno Il
sonno come risorsa analgesica e lenitiva del dolore provocato dal trauma
dell’internamento è molto simile ad altre configurazioni della coscienza
comunemente sperimentate dopo un lutto, una rottura affettiva o, più in
generale, un’esperienza relazionale improvvisamente e inaspettatamente
spezzata. Ognuno potrà quindi cercare tra le sue memorie di stato qualcosa
di analogo. Noi
ci limitiamo qui[17]
a due esempi specifici delle istituzioni totali. Nel
campo di concentramento di Ravensbruck
una internata “non appena si metteva a sedere sulle assi cadeva
addormentata. Per farla uscire dal sonno bisognava scuoterla con forza”[18] Nel
carcere di Rebibbia, a Roma, un
detenuto non appena rientrava in cella dopo aver passato la giornata in
semilibertà crollava istantaneamente addormentato sulla branda. Autoproduzione
di oppioidi Un
altro interessante modificatore endogeno delle configurazioni della
coscienza che il nostro corpo è in grado di produrre quando venga
adeguatamente stimolato, sono le endorfine, le beta endorfine e le
encefaline. Si tratta di oppioidi ad effetto analgesico e anestetico che
entrano in gioco per attenuare la coscienza di un forte dolore fisico, della
stanchezza, della fame e di altri richiami. Il
neurofisiologo Marco Margnelli ne ha esplorato la funzione nelle esperienze
estatiche[19]
. Molti
carcerati trascorrono l’intero tempo dell’aria correndo
ininterrottamente, oppure si flettono incessantemente sulle braccia, per
autoindurre questo tipo di transe anestetica. Non
c’è film sulla vita carceraria che non mostri queste figure classiche,
anche se inquadrate in contesti interpretativi assai diversi dal nostro. Anche
la letteratura carceraria, del resto, fornisce una ricca documentazione. Chi
ha letto il libro di Jeorge Jackson, uno dei primi esponenti delle Pantere
Nere, morto in carcere, ricorderà che le flessioni erano una delle tecniche
a cui ricorreva per “rilassarsi”. Solgenitsin
racconta le storie estreme dei faticatori, di quegli internati cioè che si
sottoponevano a inenarrabili sforzi fisici per poter essere “sollevati”. In
tutti questi casi, la tecnica di stimolazione degli oppioidi passa per lo
sforzo fisico. In
Tibet, i monaci lamaisti Lun-gon-pa che svolgono una funzione di
collegamento tra monasteri a volte molto distanti, o per restare più vicini
i maratoneti, sfruttano ritualmente questi oppioidi stimolando la loro
produzione mediante la corsa. [Questa
risposta dissociativa presenta tuttavia alcuni limiti sostanziali: –
il farmaco endogeno agisce per un arco di tempo limitato e quindi obbliga ad
un lavoro ripetitivo e ciclico senza fine; –
la tolleranza agli oppioidi aumenta con il consumo e quindi obbliga il
produttore consumatore a produrne quantitativi crescenti per sperimentare
gli stessi effetti; –
l’intervento sul sintomo per ammutolirlo non modifica in nulla la fonte
del malessere sicché chi lo opera non può risolvere il suo problema; –
la perdita di presenza impedisce il controllo della propria dissociazione e
dunque espone al rischio di rovesciamento della risorsa
in veleno.] 3
Dissociazione teatralizzata dal corpo A
differenza delle fenomenologie precedenti qui siamo di fronte a un gruppo di
dissociazioni intese a perseguire una maggiore presenza mediante la
rappresentazione espressiva, la messa in scena di ciò che l’istituzione
occulta. “Nei
lager staliniani – ad esempio
– alcuni criminali comuni con condanne lunghe, stanchi della vita, si
suicidavano in modo particolare: si tatuavano sulla fronte le parole
‘Schiavo di Stalin’ oppure ‘Schiavo del PCUS’. Diventavano così una
sfida ambulante, un’offesa costante al potere, lasciando alle guardie
l’unica alternativa di fucilarli sul posto”[20]. Nelle
carceri italiane la fucilazione viene sostituita dall’Ospedale
Psichiatrico Giudiziario, ma non è detto che questo sia meglio. Dissociazione
teatralizzata dal corpo è quella mediante cui i reclusi scrivono col sangue
sulla propria carne con lame, lamette, vetri, chiodi, aghi, ferro filato o
quant’altro. Si mutilano di
parti del corpo – lobi, falangi – e le inviano a magistrati o
funzionari. E lo fanno autoanestetizzandosi e ostentando una capacità non
ordinaria di controllo del dolore. Generalmente,
queste scrizioni sul corpo vengono considerate autoaggressive,
autodistruttive e classificate con una parola magica del lessico
psichiatrico: autolesionismo. Ma nel vissuto di chi le mette in atto il
corpo che esse feriscono è quello “lavorato” dall’insieme delle
torsioni reclusive subite. Il
silenzio insondabile e reiterato opposto dal carcere alle richieste
impellenti e motivate di trasferimento, per fare un esempio, taglia il corpo
del detenuto con lame invisibili per giorni e per notti, per settimane e per
mesi, prima che quello stesso detenuto decida di dissociarsi dal corpo e far
vedere quei tagli servendosi di una lametta. Questa
forma di dissociazione teatralizzata riporta l’attenzione sullo scempio
compiuto e occultato dall’istituzione, lo mostra ricorrendo ad un
linguaggio analogico: mi hai reso cieco, dunque mi cucio le palpebre; mi hai
reso muto, quindi m’infilzo le labbra; mi hai tolto la sessualità, perciò
mi mozzo il pene. Il corpo dissociato diventa in tal modo scena e teatro
delle torture che lo hanno invisibilmente attraversato. Automanipolare
il corpo per esporre le ferite che non lasciano segni esteriori coniuga la
dissociazione con il suo padroneggiamento. Come se ci venisse detto:
“Dissociandomi da ‘quel corpo’ me ne riapproprio per incidere sulla
sua pelle la ‘mia’ storia, la ‘mia’ narrazione, la ‘mia’ identità.
Un’identità nuova, più che ribadita; una identità di transe scritta col
sangue e, dunque, ancora viva. Quanto
sia relativa la nozione di autolesionismo, del resto, appare evidente da una
presa di posizione di Francesco Ceraudo, presidente nazionale dei medici
penitenziari, che, di fronte ai reiterati silenzi del ministero di Grazia e
Giustizia alle richieste della sua categoria, ha dichiarato: «Mi farò
cucire la bocca con veri e propri punti di sutura se non riceverò
prontamente una risposta. E lo farò per far capire che si sono voluti
imbavagliare i medici penitenziari.»[21] Può
essere di un qualche interesse anche la comparazione di questa risposta con
le transe fachiriche che si
presentano nel rituale sufi di alcune tarique, segnatamente i Rifa’iyya di
Skhoder, nei Balcani, e i Qadiriyya di Baghdad. In
entrambi i casi, ad una certa fase del rituale entrati in transe dopo la
danza rotante ,“i devoti iniziano a compiere incredibili performances
fachiriche quali trafiggersi i fianchi con delle spade o infilzarsi il capo
con dei coltelli”[22]. Lo
stato di coscienza e del corpo che si presenta in queste esperienze
fachiriche sarebbe analogo a quello che si registra nell’anestesia
ipnotica[23]. Ma,
al di là di questa notazione neuro-fisiologica, l’aspetto più
interessante sembra essere quello riferito allo sdoppiamento identitario.
Nello stato di transe fachirica l’adepto si identifica con Ahmed Rifa’i,
fondatore nel XII secolo, a Bassora, della tariqa. E, come egli ritiene
riuscisse a fare questi, domina il dolore o neutralizza il veleno micidiale
dei serpenti e degli scorpioni. 4.
DISSOCIAZIONE ADATTATIVA: DUE VARIANTI 4.1
Sopravvivere ad ogni costo: l’identità di conversione È
una risposta frequente nelle situazioni estreme. La ritroviamo infatti sia
nei campi di concentramento nazisti, con i kapò[24],
che nei gulag sovietici, con gli intendenti che mantenevano l’ordine
interno bastonando a più non posso e perfino uccidendo altri prigionieri[25].
Ma è comune anche tra gli ergastolani[26]
e nei manicomi[27]. Ogni
comportamento gli appare dunque legittimo pur di sopravvivere. Ma,
sopravvivere ad ogni costo significa necessariamente sopravvivere a costo di
altri. E così questa scelta implica, oltre alla dissociazione dalla propria
precedente identità, anche una desolidarizzazione nei confronti di chiunque
(ognuno è solo contro tutti); una indifferenza per la sorte comune; e
l’affermazione di un interesse esclusivo per la propria sorte. In
breve, la parte dissociata si costruisce, si organizza intorno ad un nuovo
nucleo identitario che potremmo chiamare identità
di conversione. Alcuni
ricercatori per definire questa condizione hanno elaborato, infatti, la
nozione di conversione: “Il
soggetto assume come proprio, e lo considera come unico possibile, il
giudizio che dà lo staff su di lui e su tutto l’ambiente circostante” (Goffman)[28]. Prima
ancora, Clemmer (1940) aveva proposto la nozione di prisonizzazione:
“Processo di progressiva assunzione da parte del ristretto dei valori, dei
principi e della cultura, oltre che degli atteggiamenti e delle abitudini
tipiche del clima carcerario” (Clemmer 1940)[29]. Conversione
e prisonizzazione, possono sfociare, per usare le parole di Goffman, in una
sorta di colonizzazione: “Il
soggetto si adatta alla vita istituzionale che diventa, da un certo momento
in avanti, l’unica concepibile per lui”.[30] Dopo
aver dissociato il passato ecco che si compie, infine, anche lo smarrimento
del futuro. Se ci sarà un “dopo” ci sarà solo grazie – e per grazia
– dell’istituzione reclusiva. La propria traiettoria appare in tutto e
per tutto “esterna a sé” e rispetto ad essa ci si dichiara insieme
impotenti ed irresponsabili. L’adattamento,
a questo punto, assume la forma di una vera e propria dipendenza. 4.2
Sopravvivere ma non ad ogni costo Nell’estate
del 1941, racconta Margarete Buber
Neuman, le SS introdussero nella sartoria di Ravensbruck
i turni di notte che aggravarono lo stato di debilitazione delle
prigioniere. Nel
campo si verificarono alcuni casi di paralisi che arrivarono in breve tempo
ad un centinaio. Le
malate presentavano tutte gli stessi sintomi: all’improvviso diventavano
incapaci di compiere il benché minimo movimento. Fu diagnosticata una
epidemia di poliomielite e fu imposta la quarantena. Dopo
circa due settimane arrivò nel campo un medico delle SS specialista in
poliomielite. Saltò fuori che la paralisi era dovuta a una psicosi di
massa. Alcune malate furono sottoposte a scariche elettriche che le fecero
sobbalzare come ranocchie. Quando le altre lo vennero a sapere recuperarono
all’istante le loro capacità di movimento. Le
275 Testimoni di Geova internate nel campo di Ravensbruck “sembravano
tutte aver completamente interiorizzato l’ordinamento del campo”. Questo
blocco veniva portato ad esempio di ordine esemplare e modello anche dagli
ufficiali delle SS. In realtà però non si trattava di una scelta di
‘sopravvivere ad ogni costo’ come dimostra il fatto che, le stesse
internate, resistettero fermamente alla proposta di abiura della loro fede. “In
un certo senso le Testimoni di Geova si potevano ritenere delle
‘prigioniere volontarie’. Infatti per essere immediatamente rilasciate
sarebbe stato sufficiente presentarsi al capo sorvegliante e firmare una
dichiarazione con la quale abiuravano la loro fede. Il testo del documento
suonava all’incirca così: ‘Con la presente dichiaro che da questo
momento non sono più una Testimone di Geova e non presterò più il mio
sostegno all’Unione Internazionale dei Testimoni di Geova, né con la
predicazione, né con gli scritti’.” L’adattamento
messo in atto dalle Testimoni di Geova nel campo di Ravensbruck può essere
considerato, per limpidezza di comportamenti, paradigmatico. C’è
un adattamento esemplare a norme e regolamenti estremi e perfino assurdi.
Ma, insieme, c’è anche un rifiuto, altrettanto esemplare, ad abiurare, a
varcare i confini del nucleo cultural-religioso della loro identità. Le
Testimoni di Geova si presentano così come internate nettamente dissociate
ma pienamente in grado di controllare la loro dissociazione, presenti ad
essa. Il
loro adattamento risponde a una strategia di gruppo interessata a
salvaguardare il gruppo e, insieme, i valori che tessono la sua coesione. La
sopravvivenza di ciascuna di esse non può in alcun caso tradire i valori
comuni. Anche
i Batisti nei gulag sovietici, e molti detenuti politici italiani negli
ultimi trent’anni, hanno messo in atto questo dispositivo di
“adattamento non ad ogni costo”. Che possiamo schematicamente riassumere
in tre linee di forza: a)
Non è importante il fine (sopravvivere) ma come ogni giorno e a quale
prezzo si persegue quel fine. b)
Il patrimonio di valori etici, politici o religiosi che era stato posto a
fondamento della propria vita fino al momento dell’arresto non deve essere
intaccato dall’adattamento; esso peraltro corrisponde ad una rete di
relazioni comunque operanti, anche se interrotte. c)
Come c’è stato un “prima”, così ci potrà essere un “dopo”
l’istituzione totale, non per sua “grazia” ma nonostante essa. d)
il patrimonio di valori e la rete relazionale che lo tiene in vita, il
“prima” e il “dopo” costituiscono àncore di riferimento capaci di
infondere energie per un’attività interiore di resistenza alle
mortificazioni inflitte dalla reclusione. 4.2.1
La salute spirituale e l’ascesa Secondo
Solzenicyn, una implicazione dell’adattamento “non ad ogni costo”
sarebbe la salute spirituale. Grazie al mirabile influsso dello spirito
sereno sul corpo umano chi compie questa scelta manterrebbe il suo corpo in
grande forma anche nelle condizioni più avverse. Di
più, questa scelta può diventare anche la premessa di una ascesa
spirituale: “Se
hai rinunciato a sopravvivere a qualunque costo, la reclusione inizia una
mirabile trasformazione del tuo carattere: l’Ascesa”. “In
carcere (nell’isolamento, ma anche in celle comuni) l’uomo è
contrapposto al suo dolore. Questo è una montagna, ma lui deve assimilarlo,
abituarvisi, rielaborare il dolore in sé, e sé nel dolore. È l’opera
morale suprema, ha sempre elevato tutti. Il duello con gli anni e le mura è
un lavoro morale e una via verso l’ascesa (se uno riesce a percorrerla)”[31]. In
effetti non mancano significative testimonianze su questo percorso di
ascesa. Etty Hillesum, ad esempio, nei suoi Diari[32]
scrive: “Com’è possibile che quel pezzetto di brughiera recintato dal
filo spinato, dove si riversava e scorreva tanto dolore umano, sia diventato
un ricordo quasi dolce? Che il mio spirito non sia diventato più tetro in
quel luogo, ma più luminoso e sereno?”. Il centro di dolore umano a cui
Etty fa riferimento è il campo di smistamento di Westerbork, da cui partirà
per Auschwitz, dove incontrerà la morte nel 1943. 4.2.2
La dissociazione autoscopica Una
variante singolare, non di gruppo, di questo orientamento è quella attuata
da Bruno Bettelheim, Victor Frankl, Primo Levi, Yehiel de-Nur tra altri, nei
campi di concentramento, e da molti carcerati e manicomializzati in tutto il
mondo. Si tratta in breve di una dissociazione autoscopica, e cioè della
maturazione di un nuovo nodo identitario: l’io che osserva ciò che fa e
che viene fatto al recluso. L’io che osserva guarda freddamente ciò che
fa il recluso, ciò che gli fanno, e ciò che fanno intorno tanti altri.
Osserva e registra in una memoria di stato minuziosa, quella che sarà poi,
in un mutato contesto, la sua testimonianza. Osserva per testimoniare. Se
esco vivo di qui, dice l’io dissociato che osserva, darò testimonianza di
ciò che è successo a questo corpo e a tanti altri che ho visto… Questa
configurazione identitaria osservatrice non va confusa con quella che molti
osservatori definiscono Osservatore nascosto. Quest’ultima infatti è in
stretta relazione con la rete identitaria che osserva e il suo linguaggio
non è verbale, mentre la prima si istituisce, sin dall’inizio, con una
intenzione pubblica e un linguaggio verbale. È anch’essa un testimone, ma
un testimone estroverso. Osserva per poi riferire al mondo e per questa
funzione peculiare attrezza le sue censure e la sua memoria. Forse proprio
questa è anche la ragione del fatto che le sue testimonianze quando
finalmente vengono date lasciano che le dà sempre insoddisfatto. Qualcosa,
gli sembra, non è stato detto, qualcosa di essenziale, ma cosa?
Paradossalmente per quanto non sia facile ammetterlo e riconoscerlo anche
questa è una configurazione identitaria di assenza. Molti
sopravvissuti ad una condizione estrema che avevano seguito questa via,
riguadagnata la libertà, dopo ripetute e pubbliche testimonianze, si sono
uccisi (Bettelheim, Levi); mentre altri dopo anni di smarrimento si sono
lasciati morire (Antonin Artaud)[33];
ed altri ancora, pur dopo voluminose testimonianze, hanno ritenuto di non
essere ancora riusciti a dire ciò che nell’internamento si erano proposti
di dire; di non esserci riusciti con il pubblico ma neppure con se stessi
(De Nur)[34]. Si
può concludere allora con una semplice e difficile domanda: chi ha ucciso
Bettelheim e Levi? Chi ha spinto Artaud a lasciarsi morire? Chi ha impedito
a De Nur di dirsi e dire ciò che sentiva di dover dire? Aleksàndr
Solzenicyn ritiene che chi ha sopportato il lager “come se fosse
d’acciaio” e si è disintegrato non appena riottenuta la libertà è
rimasto ucciso da un “fenomeno di decompressione”. Ma
che significa in sostanza la parola “decompressione”? Forse
essa allude all’incapacità di gestire, nel nuovo contesto, le dinamiche
dissolutive delle operazioni di dissociazione compiute durante il periodo di
“compressione” reclusiva. Forse
essa rimarca l’assenza di una sufficiente consapevolezza della propria
molteplicità identitaria. Come dire che queste “vittime della libertà”
sono, prima ancora, vittime di un’epistemologia errata che porta a far
coincidere l’identità dissociata costruita per far fronte alla reclusione
con l’Identità tout-court. Per
questo non convince la nozione di immunizzazione
che Goffman e altri hanno proposto per rappresentare quella resistenza alla
depersonalizzazione che consisterebbe nel “porsi un po’ nella posizione
dell’etnologo tradizionale e studiare l’ambiente come se esso fosse un
mondo estraneo al proprio”[35].
Ciò può indubbiamente corazzare, come testimonia un detenuto che ha
praticato questa via, contro “le multiformi sevizie” ma non può
impedire al “veleno del carcere” di esercitare la sua mortificazione. Ciò
che mi succede è intollerabile: non potendo sottrarmi realmente alla
situazione mi sottraggo istituendo un Altrove in cui autorecludermi e
ricrearmi. C’è
qui il ricorso alla fantasia che consentendo una fuga immaginaria,
illusoria, rende in qualche modo possibile creare un mondo sostitutivo. Come
il bruco verde si crea un bozzolo in cui rinchiudersi per attuare la sua
metamorfosi in farfalla, così il recluso può crearsi una personalissima
prigione di segni in cui proteggersi e tentare una riunificazione delle sue
parti dissociate intorno ad una nuova identità. Caratteristiche
salienti della risposta creativa è quella di contrapporre al dolore
inflitto dalla privazione del contesto relazionale aperto un atto creativo
di segni che diano vita, forma ed espressione a nuove relazioni immaginarie. Un
atto e non il suo prodotto! Questi
linguaggi, infatti, non possono prescindere dalla ripetizione instancabile
dell’atto che li genera, perché solo in questa ripetizione, nel suo farsi
e disfarsi, il dolore esistenziale momentaneamente si acquieta e comunque si
ritira sullo sfondo. Nell’atto
è il corpo stesso che si mette in gioco, gioca, appunto, e così facendo
libera endorfine, beta endorfine, encefaline, vale a dire oppiacei
analgesici, come nell’esperienza estatica. Nondimeno,
come ogni altro atto creativo è anche una terapia. E in quanto tale può
essere portatrice di autoguarigione. Questa
prigione dev’essere incessantemente reistituita, poiché è funzione
dell’atto che la istituisce e non del suo prodotto. Colui
che la istituisce tendenzialmente non vorrebbe più uscirne perché fuori
ritrova immediatamente i mondi reali da cui fugge. Per
la creazione di un altrove di segni il soggetto pesca nei bacini culturali
già interiorizzati, nel patrimonio semiotico accumulato nel corso della
vita. Nondimeno
il “nuovo mondo” manifesta una certa indifferenza ai codici vigenti
nella vita ordinaria. E ciò non dipende dal grado di acculturazione e di
competenza linguistica, ma dalla necessità di “stare fuori” da quelle
norme che sono pur sempre il tessuto di quel mondo che ha escluso e recluso
il loro autore. Questa
risposta elimina nello stesso tempo il “prima”, il “durante” e il
“dopo”: lo spazio tempo che essa istituisce è puramente immaginario. Implicazioni: 1)
Il rimedio che ti salva, ti uccide. Poiché è una risposta non esce dalla
relazione. La parte che ti salva porta con sé l'imprint della condizione
reclusiva. 2)
L’eventuale cambiamento di contesto viene rifiutato poiché distrugge il
“mondo-rifugio” in cui ci si è rinserrati. Ma quel “mondo rifugio”
porta con se l’imprint del contesto in cui è stato creato e nel nuovo
contesto non può più funzionare come una sia pur paradossale risorsa. 3)
Rischio di rovesciamento della risorsa in veleno. Chi pratica questa risorsa
infatti non esce dalla reclusione che gli procura dolore; mentre, più la
pratica, più da essa dipende, e più, di conseguenza, ne diventa
prigioniero. Prigioniero volontario e, quindi, carcerato e carceriere di se
stesso. Una nuova dissociazione che strutturandosi finisce per smarrire la
sua ragione originaria e la sua funzione (che è quella di essere una
risorsa in una situazione mortificante) e si trasforma in una nuova, più
occulta e più dolorosa catena (Tea). [1]
Un inciso: possiamo ricondurre a questa tensione anche l’importante
osservazione di Ivan Ilich
secondo cui, ai nostri giorni, i guardiani dell’istituito non si
limitano a difendere l’acquisito ma si attivano nel proporre i valori e
i parametri culturali dell’istituzione come mito, per costruire nella
situazione in cui operano la percezione sociale della loro carenza e,
quindi, per fare nascere l’illusione della loro necessità. [2]
Foucault Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino
1993, Einaudi [3]
L’incorreggibile, per Foucault, è “colui che oppone resistenza a ogni
disciplina”. Esso manifesta il fallimento delle tecniche di
addestramento e delle procedure di raddrizzamento familiari. proprio per
ciò richiama una nuova tecnologia del raddrizzameznto e della correzione.
La nozione di incorreggibile nasce
nel XVIII secolo e implica la genesi delle istituzioni correzionali e
trattamentali moderne. Michel Foucault, Gli anormali, Milano 2000,
Feltrinelli [4]
Franco Basaglia, L’istituzione negata, Milano1968, Einaudi, p. 115 [5]
Franco Basaglia, L’esclusione (la soluzione finale), in AA.VV., Le
scelte del 68, Milano 1998, Libro del Leoncavallo [6]
Franco Basaglia, L’istituzione negata, Milano1968, Einaudi [7]Antonella
Sapio, Cosicomesei, Dogliani 2000, Sensibili alle foglie [8]
Janet Pierre, Disaggregazione spiritismo doppie personalità, Roma 1996,
Sensibili alle foglie [9]
Il termine “attuariale” richiama la matematica applicata alle
assicurazioni. “Dal punto di vista della logica assicurativa esiste un
complesso di fattori di rischio (ineliminabili) che sono distribuiti
casualmente nell’ambito di una collettività e che dunque non sono
direttamente riferibili a singoli soggetti, se non in quanto questi
rientrino in gruppi determinati e qualificati in base a maggiori o minori
tassi di rischiosità” (Alessandro De Giorgi, Le teorie della penologia
attuariale, Tesi di Laurea in diritto penale avanzato, Università degli
studi di Bologna, Facoltà di Giurisprudenza, Anno Accademico 1997/1998). [10]
Una interessante rassegna degli orientamenti criminologici di impostazione
attuariale la offre Alessandro De Giorgi, Le teorie della penologia
attuariale, Tesi di Laurea in diritto penale avanzato, Università degli
studi di Bologna, Facoltà di Giurisprudenza, Anno Accademico 1997/1998 [11]
Intervista al filosofo Giorgio Agamben (16/02/2000), Archivio personale [12]
Francis Fukuyama, La fin de l’histoire dix ans aprés, Le Monde, 17
giugno 199; Patrick Viveret, Una sfida all’umanesimo, Le Monde
Diplomatique-Il manifesto, 22 febbraio 1999 [13]
In Facce e maschere, n. 2, Luglio 1997, Giornale prodotto dal Progetto
Ekotonos, Carcere di San Vittore, Milano [14]
Pierre Janet, L’Automatisme psychologique, … …; tr. it.:
Disaggregazione, spiritismo, doppie personalità, Roma 1996, Sensibili
alle foglie [15]
Hetty Hillesum, Diario 1941-43, Milano 1987, Adelphi [16]
Roger Callois, Il gioco e gli uomini, Milano 1995 [17]
In Nel Bosco di Bistorco abbiamo dedicato un capitolo al sonno dei
cacerati. [18]
Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler”, Bologna 1994,
Il Mulino [19]
Marco Margnelli, L’estasi, Roma …, Sensibili alle foglie [20]
Victor Zaglavsky, in Margarete Buber-Neumann …… [21]
Carceri, tutti contro Flick, il Manifesto, 16-06-1998 [22]
Pietro Fumarola, Georges Lapassade, Guglielmo Zappatore, Estasi,
Possessione e simbolismi sincretici nel mondo islamico, Lecce
…, Lacaita editore [23]
Marco Margnelli, L’estasi, Roma 1996, Sensibili alle foglie. [24]
Alcuni internati nei campi di concentramento nazisti cercavano di vestirsi
come le SS e imitavano i loro giochi di ardimento (chi regge più
frustate, ad esempio). [25]
Aleksànder Solzenicin, Arcipelago Gulag V, VI, VII, Milano …, Mondadori,
p. 74 [26]
Nicola Valentino, Ergastolo, Roma 1994, Sensibili alle foglie. In
particolare pp. 65-67. [27]
Nicola Valentino, Ergastolo, Roma 1994, Sensibili alle foglie. In
particolare p. 65. [28]
Goffman E., Asylums, Torino 1968, Einaudi [29]
Clemmer D., The prison community, Christopher Houge Bogton, 1940 [30]
Goffman E., Asylums, Torino 1968, Einaudi [31]
Aleksàndr Solzenicyn, Arcipelago gulag, Milano 1975, Mondadori [32]
Hetty Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 1985, Adelphi Edizioni [33]
Antonin Artaud, Nel vortice dell’elettroschoc, Roma 1998, Sensibili alle
foglie [34]
Ka-Tzetnik 135633, Shiviti. Una visione, Roma 1997, Sensibili alle foglie [35]
Aldo Ricci e Giulio Salierno, Il carcere in Italia, Torino 1971, Einaudi Coop. Sensibili alle Fogli (Renato Curcio)
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