Percorsi didattici

 

Percorsi didattici sul carcere

di Claudio Sarzotti

 

(N. B. si farà riferimento solo ad opere in lingua italiana o a traduzioni in italiano di opere straniere)

 

1) Percorso sulla storia della prigione

2) Percorso sulle teorie della pena

3) Percorso sulla sociologia della vita carceraria

4) Percorso sul diritto penitenziario

5) Percorso sul trattamento carcerario

 

Premessa

 

Il carcere può essere considerato un’istituzione totale (cfr. sociologia della vita carceraria) che ha come scopo manifesto quello di sanzionare gli individui che hanno commesso un reato, attraverso la detenzione in un luogo chiuso in cui è fortemente limitata la libertà di movimento del condannato. Si tratta di uno strumento con cui lo Stato moderno esegue la sanzione penale, regolato da un insieme di regole che vengono chiamate diritto penitenziario (cfr. diritto penitenziario), e dunque di un’istituzione che è sorta storicamente, come forma principale di sanzione penale statuale, nella seconda metà del Settecento con lo sviluppo dell’illuminismo giuridico penale (cfr. storia della prigione). I riformatori penali settecenteschi favorirono, da un punto di vista teorico, la scelta del carcere come strumento di politica criminale, in quanto ritenevano che la detenzione potesse essere una forma di pena meno crudele dei supplizi d’ancient régime e più facilmente quantificabile nella sua afflittività (cfr. teorie della pena). La diffusione dell’istituzione penitenziaria si è sviluppata contemporaneamente ad un insieme di pratiche di sapere e di discipline scientifiche che prendono il nome di scienze criminologiche. Nell’ambito di queste ultime discipline si sono sviluppate pratiche di intervento sulla popolazione reclusa, che hanno l’obiettivo manifesto di risocializzare e/o rieducare gli individui detenuti, oppure di "curare", modificare, trasformare quegli aspetti della personalità dei condannati che, secondo gli esperti della scienza criminologica, conducono alla commissione di atti criminali (cfr. trattamento carcerario).

Seguendo tale prospettiva, il tema del carcere può essere affrontato attraverso cinque grandi percorsi di lettura che hanno, ovviamente, numerosi canali di comunicazione e punti di snodo.

1) Percorso sulla storia della prigione;

2) Percorso sulle teorie della pena;

3) Percorso sulla sociologia della vita carceraria;

4) Percorso sul diritto penitenziario;

5) Percorso sul trattamento carcerario.

 

1. Percorso sulla storia della prigione


Il carcere, così come noi oggi lo conosciamo, è un’invenzione istituzionale piuttosto recente. Si può affermare che esso diventi, nel mondo occidentale, la forma principale di sanzione per i reati attraverso un processo storico che ha inizio alla metà del Settecento e trova il suo pieno compimento all’inizio dell’Ottocento (M. Foucault, 1976). Prima dell’epoca moderna il sistema penale del mondo occidentale era caratterizzato da una pluralità di pene e il carcere non era utilizzato che per custodire gli imputati in attesa di giudizio, nel corso delle procedure inquisitorie, o per detenere arbitrariamente avversari politici. Nelle incisioni della fine del Settecento di Giovanbattista Piranesi troviamo ancora l’immagine cupa e inquietante della prigione come "segreta" (M. Praz, 1975). I sistemi penali d’ancient régime conoscono una grande diversità di modalità punitive. Gran parte di tali modalità infliggono sofferenze corporali (fustigazione, amputazioni di arti, vari tipi di tortura che vengono peraltro utilizzati soprattutto nella fase istruttoria del processo), sino a giungere alla pena di morte che peraltro non viene eseguita, come oggi, in modo tendenzialmente indolore e segretamente, ma pubblicamente e attraverso "l’arte" di provocare estrema sofferenza al condannato (i c. d. supplizi). Altre modalità punitive erano, invece, relativamente meno cruente: le pene di carattere pecuniario, l’esilio o il bando, la pena della "galera" consistente nell’essere condannati a diventare remieri sui vascelli (G. Alessi Palazzolo, 1977; A. Viario, 1980), pene che esponevano il condannato al pubblico ludibrio (ad es. la gogna o la pubblica ammissione delle colpe del condannato in giudizio).

A partire dalla seconda metà del Settecento tali pene vengono progressivamente abbandonate e sostituite con la pena del carcere che, nel giro di pochi decenni, diventa la principale modalità di esecuzione delle pene. Come spiegare tale fenomeno storico? Vediamo quali sono state alcune delle principali risposte che gli studiosi hanno dato a tale domanda.

Georg Rusche e Otto Kirchheimer, due sociologi della Scuola di Francoforte, in un’opera pubblicata alla fine degli anni Trenta (tr. it. 1978) hanno proposto una ricostruzione dell’evoluzione delle forme che ha assunto la pena nel mondo occidentale a partire dal Medioevo, utilizzando un approccio di tipo neo-marxista. Partendo da tale approccio, i due Autori considerano la pena come un "prodotto storico", che quindi si concretizza in forme particolari che mutano con il tempo e nello spazio. In particolare, tali mutamenti avvengono in relazione ai modi di produzione che si sviluppano in determinate società e "ogni modo di produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai propri rapporti di produzione" (D. Garland, 1999). La pena non deve essere considerata come la risposta al crimine, ma come un meccanismo sociale che si inserisce nella dinamica globale di lotta tra le classi. Occorre strappare il velo ideologico che descrive le finalità manifeste della pena, per arrivare alle sue funzioni reali. Da tale punto di vista, i due sociologi francofortesi ritengono molto importante analizzare il peso che il mercato del lavoro ha avuto nel condizionare i metodi punitivi. La ricostruzione storica mostra, infatti, come l’andamento del mercato del lavoro e la crescita demografica della popolazione fissino, per così dire, il valore sociale della vita umana e, conseguentemente, il ricorso a specifiche modalità sanzionatorie. Ecco allora che durante le fasi storiche in cui la manodopera è abbondante, la politica penale può assumere forme, quali le pene corporali o capitali, che tengono poco conto della vita umana e, invece, nei periodi di scarsità di manodopera, le istituzioni penali sono molto più attente a non disperdere il valore delle risorse lavorative degli individui sottoposti a condanna. Nel Medioevo, ad esempio, la brutalità e il disprezzo della vita umana che si manifestano nelle esecuzioni penali sono spiegabili anche per una situazione di eccesso di offerta di manodopera che, nel diminuire il prezzo del lavoro, fa diminuire anche il prezzo della vita umana e che trasforma il diritto penale in uno strumento con il quale contenere un aumento eccessivo della popolazione rispetto alle ridotte risorse disponibili per il suo sostentamento. Nell’epoca del mercantilismo, invece, coi primi sviluppi dell’economia capitalistica, il nascente potere statuale si trova a dover fare i conti con carenza di manodopera e con il conseguente incremento dei salari. In questo periodo, dalla fine del XV secolo all’inizio del XVIII, prevalgono forme punitive come la servitù sulle galere, la deportazione nelle nuove colonie d’oltreoceano e la condanna ai lavori forzati. Si tratta di pene che hanno in comune di consentire un utilizzo coatto di manodopera e di rispondere ad esigenze di tipo economico (quali, ad esempio, il bisogno degli stati marinari di disporre di rematori a basso costo per intraprendere le esplorazioni del nuovo continente americano, oppure la necessità degli stati coloniali di popolare i territori conquistati con manodopera adatta a lavori forzati per pubblica utilità). Nell’ambito di queste modalità punitive si colloca il carcere che, in una prima fase, si caratterizza per le sue finalità economiche di procacciamento di manodopera coatta e di strumento di addestramento professionale nei confronti di una popolazione contadina che non ha dimestichezza col lavoro di fabbrica. A tale scopo, le prime carceri settecentesche si caratterizzano per un regime di reclusione in cui il lavoro non rappresenta un mero strumento rieducativo o afflittivo; le prigioni costituiscono delle vere e proprie piccole unità produttive che si inseriscono nei meccanismi della libera concorrenza sul mercato del lavoro (di qui le proteste delle corporazioni dei mestieri e dei commercianti per la concorrenza sleale che tali unità pongono in essere). Con il pieno compimento della rivoluzione industriale agli inizi dell’Ottocento, tuttavia, il carcere muta la sua funzione produttiva, diventando in primo luogo uno strumento di controllo delle "classi pericolose", ovvero uno strumento di contenimento delle masse disoccupate prodotte dai rapidi processi di inurbamento e di sviluppo industriale. Lo stesso regime detentivo cambia di segno con l’introduzione della detenzione unicellulare e il lavoro diventa uno strumento puramente afflittivo fine a se stesso (esempio paradigmatico di tale tipo di lavoro il c. d. "mulino a scalini", consistente in una ruota a scalini che, girando intorno ad un perno centrale, consente al condannato di salire i gradini rimanendo sempre allo stesso posto). In tal modo, il carcere diventa un’istituzione che rappresenta, da un lato, un sistema razionale di deterrenza basato sul timore della detenzione e sulla degradazione sociale e, dall’altro, uno strumento di regolazione del mercato del lavoro salariato che consente di ridurre le quote di disoccupazione strutturale prodotte dalle periodiche crisi dell’economia capitalistica.

Sempre nella tradizione neo-marxista si collocano i lavori di Michael Ignatieff (1978) e di Dario Melossi e Massimo Pavarini (1977) che riprendono in buona misura le tesi dei due autori francofortesi. Ignatieff, peraltro, valorizza in modo particolare il ruolo svolto dai riformatori del diritto penale del primo Ottocento nel riuscire a creare un consenso generalizzato delle classi abbienti sulla necessità di una riforma penale non finalizzata esclusivamente a contenere la criminalità, ma anche "come via d’uscita alla crisi sociale di un’intera epoca, come parte di una più ampia strategia di riforme politiche, sociali e legali intese a rinsaldare, su nuove basi, l’ordine sociale". In questo senso, le tesi di Ignatieff prendono moderatamente le distanze dall’ortodossia marxista che ritiene determinante l’aspetto economico-strutturale dei modi di produzione sugli elementi più strettamente culturali e sociali, quali sono appunto i movimenti d’opinione dei riformatori penali.

Un’altra proposta interpretativa del processo di costruzione del carcerario moderno è stata elaborata dallo storico-filosofo francese Michel Foucault. Nella sua opera principale dedicata a questo tema (M. Foucault, 1976), egli si propone di studiare i cambiamenti avvenuti all’incirca tra il 1750 e il 1820 in Europa e negli Stati Uniti nel settore penalistico, come un episodio specifico di un mutamento complessivo dei modi di esercizio del potere nella società. In tale prospettiva, Foucault analizza le differenze macroscopiche che intercorrono tra la forma di pena tipica delle società d’ancient régime (o "classica" come viene chiamata da Foucault), il supplizio, con quella tipica della società moderna, il carcere. Il supplizio viene ricostruito dall’autore francese come un rituale che deve svolgersi in pubblico (in contrapposizione ad una procedura penale che è in gran parte segreta), deve seguire dettagliate regole e costituisce il momento principale in cui si manifesta il potere di sovranità dell’assolutismo monarchico. Secondo il pensiero penalistico dell’epoca, ogni reato rappresenta un attacco diretto alla persona del Sovrano e, conseguentemente, l’esecuzione pubblica del supplizio deve manifestare la vendetta violenta di un potere che si esercita essenzialmente sul corpo del condannato e ha come scopo quello di incutere il terrore nella popolazione. Si tratta di un rituale "di guerra", in cui il corpo del condannato svolge il ruolo del nemico sul quale deve imprimersi la forza schiacciante del potere di sovranità che deve ristabilire l’ordine "sacro" violato dall’azione criminale.

Nella seconda metà del Settecento, i supplizi cominciano ad essere criticati da più parti. In particolare, i riformatori illuministi (si pensi al celebre "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria) invocano pene che tengano conto dei principi umanitari e della vita del condannato, un sistema di diritto penale più razionale e certo, limitando il potere arbitrario del Sovrano. In questa prospettiva, la prigione viene considerata una forma di pena più umana e capace di soddisfare l’esigenza di certezza del diritto, in quanto può essere rigorosamente misurata nella sua afflittività (attraverso la durata del tempo sottratto alla libertà al condannato). Parallelamente a queste critiche pubbliche degli studiosi di diritto penale, si sviluppano una molteplicità di istituzioni "disciplinari" che, secondo Foucault, solo in parte si inseriscono nella linea dei riformatori. Si tratta di una serie di modelli segregativi, di cui il carcere rappresenta il modello paradigmatico ma non unico (si tratta anche dell’ospedale, dell’opificio, della scuola, della caserma, del convento), che sono improntati ad una logica, più che punitiva, correzionale. In queste istituzioni si esercita un "potere disciplinare" che mira ad addestrare il detenuto, ad esercitarlo a compiti specifici, a regolare la scansione temporale della sua esistenza di ogni giorno, ad impossessarsi della sua "anima" come sede delle abitudini quotidiane. Tali istituzioni si avvalgono anche di particolari tecniche architettoniche (R. Dubbini, 1986; A. Di Lazzaro, M. Pavarini, 1994) che consentono una sorveglianza continua del detenuto; Foucault si sofferma in particolare sul progetto elaborato da Jeremy Bentham nel 1791 chiamato Panopticon, progetto che attraverso una sapiente composizione delle linee di veduta consente la segregazione unicellulare del recluso e la sua impossibilità di venire a conoscenza del momento in cui è sorvegliato, favorendo in tal modo la costituzione di processi di interiorizzazione delle norme. Queste due linee di sviluppo della penalità moderna, riformatori illuministi e istituzioni disciplinari, vengono ben presto a scontrarsi e assistiamo al progressivo prevalere del potere disciplinare che non si limita ad elaborare pratiche di intervento sugli individui, ma costituisce anche nuovi campi del sapere che vengono chiamati da Foucault le "scienze dell’uomo". Con questa espressione vengono designate quelle discipline moderne che hanno per oggetto il comportamento dell’uomo e come obiettivo quello di intervenire sui processi che determinano tale comportamento. Per quanto riguarda il comportamento criminale, si tratta, in particolare, della criminologia la quale nasce proprio in epoca moderna avendo come obiettivo quello di indagare le cause che producono criminalità, al fine di limitarne gli esiti socialmente pericolosi. Il carcere diventa il laboratorio principale attraverso cui studiare i fenomeni criminali; in tal senso, si può affermare, secondo Foucault, che il carcere più che un’istituzione che pone un freno alla criminalità, "fabbrica" in senso epistemologico la categoria "scientifica" dell’individuo criminale, in quanto è all’interno del carcere che diventa "visibile" il fenomeno criminalità così come inteso dalla società moderna. In tal modo, Foucault giunge alla definizione della funzione reale della prigione che non è quella di combattere la delinquenza, ma di differenziare gli illegalismi presenti nella società. Di fronte al gran numero delle violazioni della legge penale, il carcere consente di marchiare come "criminali" solo quelle illegalità che vengono commesse prevalentemente da particolari gruppi sociali, mentre altri tipi di illegalità sfuggono a tale processo di stigmatizzazione e di emarginazione sociale (ad esempio, la c. d. criminalità dei colletti bianchi). Ciò consente di percepire il problema della criminalità non come una questione politica e sociale, ma come un tema di difesa dell’ordine pubblico nei confronti di una ridotta categoria di individui socialmente pericolosi.

Da un’analisi dei supplizi parte anche la riflessione di Pieter Spierenburg (tr. it. parziale, 1997), sociologo olandese che si è ispirato al grande storico del processo di civilizzazione del mondo occidentale moderno, Norbert Elias. Proprio partendo dalla ricostruzione storiografica di Elias, Spierenburg sostiene che il declino delle esecuzioni pubbliche particolarmente cruente è legato al processo di mutamento della sensibilità del cittadino europeo. In particolare, i supplizi presuppongono "una società tollerante nei confronti dell’inflizione pubblica del dolore e (...) un atteggiamento positivo, o per lo meno indifferente, rispetto alla sofferenza dei condannati"; una società come quella esistente in Europa nel XVI e nel XVII secolo, caratterizzata da un basso livello di sicurezza pubblica e dalla persistenza del codice d’onore cavalleresco di origine medioevale che concepisce l’uso della violenza come uno strumento "normale" di regolazione delle relazioni sociali. Nel corso del Seicento, tuttavia, prende avvio un lento processo di revisione di questo atteggiamento tollerante nei confronti della violenza che porterà, nella seconda metà del Settecento, alla ripugnanza per le pene corporali troppo cruente. Tale processo di sensibilizzazione ha inizio nell’ambito delle classi superiori della società, per le quali per un lungo periodo di tempo diventa un vanto poter esibire la propria delicatezza d’animo e la propria civiltà rispetto alle classi popolari ancora legate a condizioni di vita arretrate. È nella società di corte secentesca (tipica quella di Versailles del "Re Sole" Luigi XIV) che prende vita quel processo di formazione della "coscienza" dell’individuo moderno e quella "società delle buone maniere" per la quale diventerà incivile e barbaro straziare il corpo del condannato come avveniva nei supplizi d’ancient régime. L’abolizione totale dei supplizi avverrà compiutamente però solo quando tale sensibilità si sarà diffusa ad ampi strati di popolazione, vale a dire nel corso dell’Ottocento (L. Stone, 1981), quando la prigione diventerà la forma di pena che sottrae allo sguardo del pubblico la sofferenza del condannato. Ciò non significa che la dimensione della sofferenza sia scomparsa dall’esecuzione della pena moderna, ma solamente che la pena consistente nella privazione della libertà sembra essere compatibile con la nuova sensibilità pubblica relativa alla violenza che lo stato può legittimamente esercitare verso coloro che hanno trasgredito le sue leggi più importanti.

Oltre alle ricostruzioni di ampio raggio maggiormente accreditate appena presentate, occorre menzionare anche gli studi, peraltro non molto numerosi, effettuati sul tema specifico dell’evoluzione dell’istituzione carceraria in Italia (R. Canosa, I. Colonnello, 1984). Per il periodo preunitario sono stati prodotti lavori che hanno ricostruito i primi sviluppi del carcere di alcuni degli Stati in cui era divisa la nostra penisola: la Lombardia sotto il dominio austriaco (A. Liva, 1990; M. A. Romani, 1983); la Repubblica di Venezia (U. Franzoi, 1966; G. Scarabello, 1979; A. Viario, 1980); Napoli sotto la dominazione spagnola (G. Alessi Palazzolo, 1977); lo Stato Pontificio (D. Izzo, 1956); la città di Verona (R. Laschi, 1904).

Venendo al periodo successivo all’Unità d’Italia le vicende del carcere sono state ricostruite nei vari passaggi tra il sistema liberale (1860-1925), l’epoca fascista (1925-1945) e l’avvento della Repubblica democratica. Al di là dei mutamenti istituzionali, è stata sottolineata una certa continuità dell’amministrazione carceraria, soprattutto rispetto alla sua estraneità ai mutamenti politici e culturali della società civile (G. Neppi Modona, 1973). Tale continuità, tuttavia, sembra venir meno con la riforma penitenziaria del 1975 che segna un punto di svolta, almeno dal punto di vista dei principi ispiratori, della legislazione sul penitenziario (E. Fassone, 1980). Dal punto di vista storiografico, è stata effettuata anche l’analisi dei flussi e dei livelli di carcerizzazione per tutto il XX secolo, anche in rapporto agli andamenti economici del Paese e all’allarme sociale diffuso nell’opinione pubblica (D. Melossi, 1997). L’analisi più complessiva dei tassi di carcerazione ha mostrato la tendenziale diminuzione del numero di detenuti rispetto al totale della popolazione extra-muraria, rapporto numerico che è passato da circa 200 detenuti per ogni 100 mila abitanti degli anni 1898-99, ai 90 reclusi degli anni 1993-94 (M. Pavarini, 1997). Se questa è la tendenza sui tempi lunghi, occorre segnalare che i tassi di carcerazione hanno avuto una notevole impennata a partire dai primi anni Novanta, se si pensa che per tutti gli anni Settanta il tasso di carcerazione è rimasto intorno ai 50 detenuti per 100 mila abitanti.

Bibliografia essenziale

G. Alessi Palazzolo (1977), Pene e "remieri" a Napoli tra Cinque e Seicento. Un aspetto singolare dell’illegalismo d’Ancient Régime, in "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", XV, p. 235 ss.

R. Canosa, I. Colonnello (1984), Storia del carcere in Italia dalla fine del 1500 all’unità, Roma.

A. Di Lazzaro, M. Pavarini (a cura di) (1994), Immagini del carcere. L’archivio fotografico delle prigioni italiane, Roma, Ministero di Grazia e Giustizia.

R. Dubbini (1986), Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della punizione (1700-1880), Milano.

E. Fassone (1980), La pena in Italia dall’Ottocento alla riforma penitenziaria, Bologna, Il Mulino.

M. Foucault (1976), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi.

U. Franzoi (1966), Le prigioni della Repubblica di Venezia, Venezia.

D. Garland (1999), Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale, Milano, Il Saggiatore.

M. Ignatieff (1978), Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, Milano, Mondadori.

D. Izzo (1956), Da Filippo Franci alla riforma Doria (1667-1907), "Rassegna di Storia Penitenziaria", p. 298 ss.

R. Laschi (1904), Pene e carceri nella storia di Verona, in Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere e arti, n. 64, II, p. 68 ss.

A. Liva (1990), Carcere e diritto a Milano nell’età delle riforme: la casa di correzione e l’ergastolo da Maria Teresa a Giuseppe II, in L. Berlinguer, F. Colao (a cura di), Le politiche criminali del XVIII secolo, Milano, Giuffrè.

D. Melossi, M. Pavarini (1977), Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, Il Mulino.

D. Melossi (1997), Andamento economico, incarcerazione, omicidi e allarme sociale in Italia: 1863-1994, in "Storia d’Italia", Annali, vol. XII La criminalità, Torino, Einaudi, p. 37 ss.

G. Neppi Modona (1973), Carcere e società civile, in "Storia d’Italia", vol. V I documenti, Torino, Einaudi.

M. Pavarini (1997), La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell’Italia del XX secolo, in "Storia d’Italia", Annali, vol. XII La criminalità, Torino, Einaudi, p. 983 ss.

M. Praz (a cura di) (1975), Le carceri di Piranesi, Milano.

M. A. Romani (1983), Alle origini del sistema carcerario nella Lombardia Austriaca: l’Imperial Regia Casa di Pena di Mantova, in Atti e Memorie del Museo del Risorgimento di Mantova, XVIII, Mantova, p. 81 ss.

G. Rusche, O. Kirchheimer (1978), Pena e struttura sociale, Bologna, Il Mulino.

G. Scarabello (1979), Carcerati e carceri a Venezia nell’età moderna, Roma.

P. Spierenburg (1997), La formazione dello Stato e la trasformazione delle modalità repressive, in E. Santoro, op. cit., p. 298 ss.

L. Stone (1981), Viaggio nella storia, Bari, Laterza.

A. Viario (1980), La pena della galera. La condizione dei condannati a bordo delle galere veneziane, in G. Cozzi (a cura di), op. cit., p. 377 ss.

2. Percorso sulle teorie della pena
La questione del carcere si può affrontare anche dal punto di vista delle teorie della pena. Con questa espressione si intendono quelle teorie che presentano delle argomentazioni riguardanti la giustificazione e lo scopo della pena. In altri termini, si tratta di teorie che intendono rispondere alle domande:

a) se sia legittimo per lo Stato punire, con l’inflizione di sofferenza legale, l’individuo che ha violato leggi di particolare rilevanza sociale come dovrebbero essere quelle penali;

a1) in subordine, per il tema che qui interessa, se la pena detentiva possa essere ricompresa tra quelle che possono essere giustificate da un punto di vista del dover essere;

b) una volta che si sia risposto affermativamente alla domanda a), quale sia la finalità a cui la pena deve tendere.

Rispetto alla domanda a) è possibile fare immediatamente una prima distinzione tra coloro che non ritengono giustificabile il potere punitivo dello Stato (teorici dell’abolizionismo penale) e coloro, invece, che sono dell’opinione che questa giustificazione si possa trovare e possa essere argomentata (teorici del giustificazionismo penale). I teorici dell’abolizionismo penale si possono, a loro volta, distinguere tra coloro che non ritengono giustificabile alcun tipo di sanzione penale comminata dall’istituzione statale (N. Christie, 1985), e coloro che ritengono in specifico il carcere come una forma di pena non giustificabile e rispondono quindi negativamente alla domanda a1 (T. Mathiesen, 1996).

In Italia lo spazio assegnato al pensiero abolizionista nella cultura penalistica è stato peraltro assai limitato. L’influenza dell’abolizionismo penale è giunta soprattutto dalla Scandinavia; non a caso i due autori abolizionisti tradotti in italiano citati in precedenza sono uno svedese (Nils Christie) e un norvegese (Thomas Mathiesen). Ciò non significa, tuttavia, che tale pensiero debba essere svalutato; esso, infatti, per la sua carica di "necessaria utopia", può svolgere la funzione di un costante elemento di critica verso i sistemi punitivi positivi.

Venendo alle teorie giustificazioniste, esse si possono a loro volta suddividere in due grandi filoni: le teorie assolute e le teorie relative. Per illustrare tale distinzione è consueto citare un celebre passo del De Ira di Seneca che suona: nemo prudens punit, quia peccatum est, sed ne peccetur (il saggio non punisce perché l’azione commessa costituisca peccato, ma affinché non si pecchi più in futuro). Seguendo questa formula latina, "da una parte vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al quia peccatum est, che prendono cioè in considerazione soltanto il male o fatto delittuoso commesso, e guardano così al passato; dall’altra, vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al ne peccetur, che prendono cioè in considerazione il bene, lo scopo che può derivare dalla pena, e guardano così al futuro" (M. A. Cattaneo, 1990, 56). Le prime si chiameranno teorie assolute, in quanto considerano la pena come un fine in se stessa, le seconde si chiameranno teorie relative, in quanto considerano la pena giustificabile in quanto possieda una finalità socialmente positiva.

Le teorie assolute vengono anche chiamate retributive, in quanto considerano la pena la giusta retribuzione del male che il reo ha commesso. Tali teorie si fondano quindi sul principio che sia giusto e doveroso retribuire il male con il male. La giustizia è un elemento essenziale delle teorie assolute, in quanto esse ritengono giustificabile la pena da un punto di vista morale più che giuridico (A. Amato Mangiameli, 1985). Tali teorie paiono, infatti, di regola non accettare pienamente la separazione tra diritto e morale sui cui si fonda la c. d. secolarizzazione del pensiero giuridico moderno.

Risalendo alle teorie retributive classiche di Kant e Hegel (AA.VV., 1989), i retributivisti sostengono, al di là di ogni considerazione pratica sulla utilità della pena, la doverosità morale della pena per ristabilire l’ordine che il reato ha violato. Alcune teorie della retribuzione giungono a parlare di un "diritto alla pena" del condannato, il quale, se non fosse punito per i reati che ha commesso, perderebbe la sua dignità di essere umano (F. D’Agostino, 1989). Nell’ambito delle teorie della retribuzione è molto importante l’aspetto della proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, in quanto, nella prospettiva etica, la pena per essere giusta deve essere adeguatamente proporzionata al male commesso.

L’aspetto della proporzionalità è quello che rileva maggiormente rispetto al problema del carcere visto in una prospettiva retribuzionista. Tali teorie, infatti, essendo interessate più che altro alla giustificazione della pena in termini di principio, si sono scarsamente occupate delle concrete modalità di esecuzione della pena. Nella prospettiva di una pena proporzionale al male commesso, tuttavia, il carcere può essere considerato astrattamente come una modalità punitiva rigorosamente quantificabile sia in base alla misura (durata della pena), sia in base al grado di afflittività (sottrazione della sola libertà di movimento del condannato). Se peraltro dal piano dei principi si passa al livello delle concrete prassi dell’esecuzione penale, si presentano notevoli problemi sotto entrambi le prospettive. Rispetto al tempo, al di là della sua percezione che può variare da individuo a individuo, esistono casi (ad esempio, i malati a prognosi infausta o i condannati molto avanti negli anni) che mettono in discussione il principio egualitario della durata della pena, proponendo la paradossale domanda "cinque anni di reclusione comminati ad una persona di trent’anni in perfette condizioni di salute sono equivalenti a cinque anni di reclusione comminati ad una persona anziana, o ad una colpita da grave malattia a prognosi infausta?" (C. Sarzotti, 1996). Molte ricerche sociologiche, inoltre, hanno dimostrato che in realtà la pena della detenzione va molto al di là della mera privazione della libertà di movimento, in quanto incide pesantemente anche sulle condizioni fisiche e sulle relazioni sociali del condannato (cfr. sociologia della vita carceraria) e colpisce anche individui, come i familiari del condannato, che non si sono macchiati di alcun delitto.

Venendo al filone delle teorie relative, esse si ispirano all’insegnamento dei pensatori della scuola del diritto naturale moderno (Hobbes, Locke, Pufendorf) che hanno considerato la pena dal punto di vista dell’utilità che essa può arrecare al mantenimento dell’ordine sociale (M. A. Cattaneo, 1974; U. Scarpelli, 1981). Per tale motivo le teorie relative si chiamano anche utilitaristiche.

Tra le teorie relative che hanno avuto la maggiore diffusione nella cultura penalistica occidentale, si collocano le c. d. dottrine della prevenzione, che si dividono, a loro volta, in quelle della prevenzione generale e della prevenzione speciale. La stessa denominazione di queste teorie indica come esse assegnino alla pena lo scopo di prevenire i reati e guardino, quindi, al futuro. Nel caso delle teorie della prevenzione generale la finalità della pena è rappresentata dal distogliere la generalità dei consociati dal commettere delitti, attraverso l’esempio e/o la minaccia della sanzione; nel caso della prevenzione speciale, invece, si guarda all’individuo condannato, rispetto al quale la pena dovrebbe rappresentare un efficace deterrente per impedire che torni a commettere reati.

Nell’ambito delle teorie della prevenzione speciale si possono distinguere tre ulteriori sotto settori che sono accomunati dalle finalità negative e positive che vengono assegnate alla pena. Le finalità positive sono quelle che tendono alla trasformazione del comportamento futuro del reo, le finalità negative quelle che consentono la neutralizzazione e il contenimento della capacità delinquenziale del condannato. Un primo filone è quello delle dottrine pedagogiche dell’emenda che, partendo da una concezione biblica della sofferenza come strumento per espiare i peccati, considerano la pena come uno strumento di rieducazione e di recupero morale del condannato. Un secondo indirizzo dottrinario è quello della scuola positivistica della Nuova Difesa Sociale (M. Ancel, 1966). Partendo dal presupposto antropologico che il delinquente è un essere naturalisticamente inferiore, perché portatore di deviazioni genetiche o di degenerazioni socio-culturali, tale dottrina concepisce la pena come uno strumento scientifico-terapeutico di difesa sociale, attraverso il quale favorire l’instaurarsi di una società organica e integrata, sottoposta al controllo scientifico anziché moralistico dello Stato. Un’ultimo filone teorico della prevenzione speciale è quello della differenziazione penale proposta, alla fine del secolo scorso (ma abbondantemente riprese in tempi più vicini a noi), dalla new penology americana e dal c.d. Programma di Marburgo da Franz von Liszt (L. Ferrajoli, 1989, 255). In tale prospettiva, la pena deve differenziarsi non a seconda del reato, ma seguendo le caratteristiche della persona del condannato, al fine di raggiungere quelle finalità che sono praticabili nel singolo caso (ovvero risocializzazione o intimidazione o neutralizzazione del reo).

Le teorie della prevenzione speciale sono estremamente interessanti per il tema del carcere, in quanto convergono tutte su di una concezione del delitto come patologia (sociale, morale o naturale) e non come libera scelta dell’individuo che lo ha posto in essere. Conseguentemente il carcere non viene concepito, come nella prospettiva retributiva, quale misura giuridica di sanzione dei reati, ma come uno strumento di trattamento differenziato del condannato (cfr. trattamento carcerario), attraverso cui giungere alla trasformazione o alla neutralizzazione della sua personalità e, in particolare, della sua pericolosità sociale. Tale volontà manipolatoria e correzionalistica della personalità del condannato si scontra, tuttavia, con una serie di problemi di ordine pratico e di ordine morale e giuridico. Sotto il profilo pratico, in quanto pare ormai acclarato dall’esperienza plurisecolare della pratica carceraria che la pena detentiva non solamente non è in grado di rieducare o di risocializzare il condannato, ma ha invece effetti esattamente opposti di emarginazione sociale e di "scuola del crimine" (cfr. sociologia della vita carceraria). Anche l’effetto di intimidazione e di contenimento della pericolosità sociale sembrano alquanto limitati se consideriamo gli alti tassi di recidiva riscontrati tra i detenuti e la capacità, soprattutto dei criminali più pericolosi, di continuare a rappresentare un pericolo per la società anche all’interno degli istituti penitenziari (si pensi ai detenuti che hanno continuato a dirigere le operazioni della criminalità organizzata durante la loro reclusione). Sotto il profilo morale e giuridico, concepire il carcere come uno strumento di manipolazione dell’individuo è incompatibile con il valore dell’autonomia della persona umana e con il principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Considerare il condannato come un soggetto sostanzialmente inferiore, bisognevole di rieducazione o di riabilitazione, significa lederne la dignità umana, garantita dal principio della libertà di coscienza dell’individuo. Voler "costringere ad essere buoni" rappresenta un’affermazione in sé contraddittoria, in quanto repressione ed educazione sono difficilmente compatibili.

Tornando alle dottrine della prevenzione generale, esse sono a loro volta suddivisibili tra quelle della prevenzione generale positiva tramite integrazione e quelle della prevenzione generale negativa tramite minaccia legale. Le prime sono quelle che "assegnano alle pene funzioni di integrazione sociale tramite il generale rafforzamento della fedeltà allo Stato nonché la promozione del conformismo delle condotte" (L. Ferrajoli, 1989, 263). Si tratta di teorie che valorizzano l’efficacia simbolica della pena nel neutralizzare i fattori irrazionali dell’indignazione e dell’odio che il reato provoca nella società. In tale prospettiva, la sanzione penale svolge un ruolo di rassicurazione dei sentimenti collettivi e di riconferma dei principi di solidarietà sociale che fondano l’ordinamento delle leggi penali (E. Durkheim, 1997).

Le dottrine della prevenzione generale negativa sono invece quelle secondo le quali la pena deve servire a limitare la commissione dei reati nella generalità dei consociati, o per mezzo della intimidazione provocata dall’ "esempio" offerto dall’inflizione della condanna, o tramite l’intimidazione prodotta dalla "minaccia" della pena contenuta nella legge. Anche queste teorie non sono esenti da critiche, in particolare da quella kantiana per la quale nessuna persona può essere trattata come un mezzo per finalità sociali. Nella prospettiva della prevenzione generale, infatti, potrebbe essere legittimata anche la condanna dell’innocente, se questa risultasse efficace nel fornire un esempio o una minaccia funzionali alla intimidazione dei consociati. Per quanto riguarda il carcere, occorre chiedersi se esso possa essere considerato un efficace strumento di prevenzione generale dei reati. Tale domanda è probabilmente negativa per ciò che concerne l’efficacia "reale" della pena detentiva, in quanto molte ricerche hanno dimostrato, in molti paesi e in diversi periodi storici, come alti tassi di carcerazione non abbiano ridotto il livello di criminalità. Dal punto di vista, invece, della funzione "simbolica" la risposta deve essere probabilmente più problematica, in quanto il carcere (peraltro minacciato, più che realmente eseguito) ancora oggi sembra rispondere soprattutto alle esigenze del sistema politico di rassicurare l’opinione pubblica rispetto agli attacchi portati alla sicurezza sociale dalla criminalità.

Tra le teorie della prevenzione deve essere segnalata, in ultimo, una teoria che pur inserendosi nel filone delle dottrine utilitaristiche ne capovolge i presupposti generali. Si tratta della teoria elaborata da Luigi Ferrajoli, secondo la quale l’utilità della pena non va considerata, ex parte principis, come quella "della massima utilità possibile da assicurare alla maggioranza formata dai non devianti (...)", ma, ex parte populi, quella "che commisura lo scopo [della pena] alla minima sofferenza necessaria da infliggere alla minoranza formata dai devianti" (L. Ferrajoli, 1989, 248). In tale prospettiva, la pena non serve tanto a limitare la commissione di atti criminali, quanto a limitare la violenza che l’atto criminale introduce nella società, in primo luogo la reazione irrazionale che le vittime del reato o il pubblico possono manifestare. Seguendo tale linea argomentativa, anche il carcere può trovare una circoscritta legittimazione come strumento di attenuazione della violenza nella società, a patto però che limiti rigorosamente la propria carica afflittiva, in quanto la sua utilità va misurata anche e soprattutto rispetto alla minoranza che subisce tale pena, e sia irrogato solamente per quei gravi delitti che suscitano effettivamente forte sdegno e riprovazione sociale.

Vediamo ora quali sia stata l’influenza delle varie teorie della pena nella cultura penalistica italiana, ricordando che dal punto di vista strettamente giuridico la nostra Costituzione non ha preso posizione sulla funzione della pena, essendo prevalsa una concezione multi-funzionale della sanzione penale (cfr. diritto penitenziario).

I forti elementi moralistici presenti in tutte le teorie retributive, hanno prodotto nei loro confronti un accentuato interesse da parte soprattutto della cultura penalistica di matrice cattolica, la quale peraltro ha mantenuto un atteggiamento spesso critico verso tali teorie (L. Eusebi, 1987, 1998; E. Wiesnet, 1987). Teorie che, dopo essere state a lungo ignorate dal pensiero laico dominante negli anni Sessanta e Settanta (V. Mathieu, 1978), hanno avuto un periodo di netta ripresa sull’onda del movimento americano del teorico Von Hirsch chiamato del Just Desert (il giusto merito), anche in seguito al fallimento operativo delle strategie di politica criminale fondate sui principi della prevenzione penale (L. Eusebi, 1983; F. Zanuso, 1998). Le teorie della retribuzione hanno, da parte loro, finito per riconsiderare i loro presupposti metafisici, avvicinandosi per certi aspetti ad alcune acquisizioni delle teorie della prevenzione generale, come è avvenuto per delle dottrine del c. d. expressionism americano, dottrine per le quali la pena svolge essenzialmente una funzione simbolica di "esprimere" la condanna sociale della condotta del reo e di ribadire il confine tra comportamenti leciti ed illeciti (C. Sarzotti, 1996). La stessa distinzione tra retribuzione e prevenzione si è attenuata, almeno da un punto di teoria della pena, in autori come Herbert L. Hart che hanno sostenuto la validità della teoria preventiva rispetto allo scopo generale della pena e la validità della teoria retributiva sul piano della distribuzione della pena, ovvero di quei principi retributivi che legittimano l’inflizione della pena al solo colpevole, vale a dire a chi l’ha meritata, e in misura proporzionata alla gravità del reato commesso (H. L. Hart, 1981). Si è giunti sino alla decisa negazione della divisione prevenzione-retribuzione, in quanto tale contrapposizione sarebbe assurda, "perché le opposte soluzioni non riguardano la stessa questione. Quando si sostiene che si punisce per prevenire crimini, con ciò si risponde alla domanda: qual è lo scopo della legislazione penale? Quando si dice che si punisce perché il reo è incorso in una colpa giuridico-morale, con ciò si risponde alla domanda: con quale motivazione giuridico-morale si infligge la pena?" (A. Ross, 1972, 78-79).

Le teorie relativistiche della prevenzione penale hanno avuto senza dubbio il loro massimo periodo di sviluppo nel corso del costituirsi del Welfare State italiano e ad essa si è ispirata la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. In particolare, sono state dibattute le tesi dell’indirizzo criminologico della Nuova Difesa Sociale (F. Cavalla, 1979), in relazione anche alla sua compatibilità con la tradizionale dottrina cattolica della sanzione penale (G. Bettiol, 1964). Sull’onda dei movimenti d’oltreoceano di contestazione delle politiche criminali fondate sui principi preventivi, anche in Italia le teorie della prevenzione (soprattutto di quella speciale) sono state poste in discussione, a partire dai primi anni Ottanta (M. Pavarini, 1983). In particolare, di fronte al permanere di alti tassi di recidiva e dell’evidente funzione emarginante del carcere è stato da più parti posto in dubbio lo scopo rieducativo della pena citato nell’art. 27 della Costituzione, scopo che ha ispirato la riforma penitenziaria e l’introduzione nel nostro ordinamento dei benefici premiali per i detenuti (cfr. diritto penitenziario). A queste critiche negative, peraltro, non sono corrisposte proposte teoriche e culturali che abbiano tentato di "ridare senso" alla pena del carcere, in una prospettiva non meramente retributiva o contenitiva.

Bibliografia essenziale

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E. Wiesnet (1987), Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena, Milano, Giuffrè.

F. Zanuso (1998), Postmodernità e pena: alcune riflessioni sulla "Just Desert Theory", "Diritto e Società", n. s. IV, p. 615 ss.

3. Percorso sulla sociologia della vita carceraria
Il processo di consolidamento dell’istituzione carceraria ha reso possibile anche lo sviluppo di indagini che hanno analizzato, con gli strumenti della ricerca sociologica e antropologica, la vita della comunità carceraria. La ricerca in Italia in questo settore ha incontrato tradizionalmente numerose difficoltà dovute alla "chiusura" del mondo penitenziario. Tuttavia, soprattutto a partire dagli anni Settanta, sono state intraprese alcune ricerche che si sono ispirate ad alcune teorizzazioni provenienti dalla sociologia delle istituzioni. Da questo punto di vista, vanno segnalati i lavori di Donald Clemmer (tr. it. parziale, 1997), Gresham Sykes (tr. it. parziale, 1997) ed Erving Goffman (1968) che hanno certamente contribuito a sviluppare la sociologia della vita carceraria in Italia con alcune ricerche che seppure risalenti a periodi non recentissimi (in particolare, le ricerche di Clemmer risalgono agli Stati Uniti degli anni Trenta, mentre il lavoro più importante di Sykes è su un carcere di massima sicurezza dello Stato della Virginia negli anni Cinquanta), hanno elaborato le principali categorie teoriche con le quali analizzare i risultati della ricerca empirica. È il caso, ad esempio, del concetto di "prigionizzazione del detenuto" di Clemmer, con il quale il sociologo americano designa quel "processo graduale, lento, progressivo nel tempo, ma caratterizzato da fasi alterne e stadi differenziati e talora irreversibile, che culmina con l’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con l’adozione cioè da parte del detenuto dei costumi, della cultura e del codice d’onore del carcere" (E. Santoro, 1997, 40). Oppure della nozione di "istituzione totale", entro la quale rientra non solo il carcere, ma anche altre istituzioni chiuse come l’ospedale psichiatrico, definita da Goffman come quell’istituzione nella quale "1. tutte le fasi della vita sono vissute nello stesso luogo e sotto il controllo di una sola autorità; 2. ogni fase dell’attività quotidiana si svolge alla presenza immediata di un folto gruppo di persone che sono trattate nello stesso modo e che devono eseguire tutte assieme le stesse azioni; 3. tutte le fasi dell’attività quotidiana sono strettamente programmate: un’attività termina quando ne comincia un’altra, con l’intera sequenza imposta dall’alto, da un esplicito sistema formale di regole e da un corpo di funzionari; 4. le varie attività imposte compongono un singolo piano disegnato per conseguire gli scopi ufficiali dell’istituzione" (E. Santoro, 1997, 47).

Nella produzione più recente va segnalata l’analisi del sistema carcerario americano operata da Nils Christie (1996). Lo studioso scandinavo ha introdotto anche nel dibattito italiano il tema della privatizzazione delle carceri, analizzando i mutamenti che tale fenomeno ha provocato nel regime penitenziario che per primo ha sperimentato questa nuova formula organizzativa. L’instaurarsi di un vero e proprio sistema del business penitenziario, rispetto al quale il detenuto diventa il consumatore del servizio detenzione, lo sviluppo di un settore imprenditoriale che offre sul mercato prodotti per la sicurezza e per l’amministrazione carceraria, lo snaturamento del ruolo degli operatori penitenziari che da pubblici funzionari si trasformano in dipendenti che rispondono al proprio datore di lavoro privato; si tratta degli elementi principali di un processo di privatizzazione che, pur essendo oggi limitato ad alcuni Stati confederali degli Stati Uniti, probabilmente non mancherà di svolgere una certa influenza anche in Europa nel prossimo futuro (alcuni tentativi di privatizzazione sono stati sperimentati in Francia). In particolare, sembra di scorgere in tale processo la tendenza a considerare sempre di più la prigione come una struttura di mero contenimento delle persone che hanno commesso reati e che rappresentano un pericolo e un peso economico per la società. Si tratta di una popolazione carceraria composta da soggetti emarginati socialmente e culturalmente, di particolari provenienze etniche (per lo più neri e ispanici), inadatti ad un mercato del lavoro sempre più flessibile e, quindi, esigente in termini di capacità di adattamento lavorativo e di assorbimento dello stress da licenziamento.

Per quanto riguarda il sistema penitenziario italiano, è difficile affermare se si stia allineando a questa tendenza. Le ricerche effettuate sulla vita carceraria nel nostro paese si sono soffermate per lo più su aspetti specifici dell’universo penitenziario, senza affrontare un’analisi complessiva dell’istituzione totale. Un altro settore di pubblicazioni sul carcere ha invece privilegiato la ricostruzione diretta e a-teorica delle esperienze degli attori del carcerario, ponendosi in una prospettiva di denuncia culturale e politica piuttosto che in una dimensione più strettamente di ricerca socio-antropologica.

Rispetto alle ricerche su temi specifici si possono ricordare le ricerche effettuate sui temi del lavoro penitenziario, dei detenuti stranieri, delle recluse negli istituti femminili, della salute in carcere, della detenzione di persone sieropositive. L’insieme di queste ricerche ha dimostrato come la concreta realtà istituzionale del carcere non abbia permesso una soddisfacente tutela di quei diritti dei detenuti che sono astrattamente enunciati nell’ordinamento penitenziario (D. Zolo, E. Santoro, 1997) (cfr. diritto penitenziario).

La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 ha posto, ad esempio, il lavoro intramurario ed extramurario come il principale generatore di diritti e di opportunità di reinserimento sociale per il detenuto. Tale riforma è rimasta peraltro in gran parte sulla carta per problemi di carattere burocratico, di restrizione dei fondi ministeriali e di scarsa sensibilità della società civile. Analizzando in profondità i meccanismi che conducono alla non garanzia del lavoro per i detenuti si è potuto constatare, inoltre, una notevole disuguaglianza tra categorie di detenuti (L. Berzano, 1994). In particolare, è stato possibile individuare due variabili principali che sembrano incidere pesantemente sulle possibilità del detenuto di reinserirsi (o inserirsi per la prima volta) nel mondo del lavoro: le risorse personali del detenuto e l’accessibilità a risorse della rete sociale in cui egli è inserito. A seconda se tali risorse possano essere considerate deboli o forti, è stata elaborata una classificazione delle modalità con le quali il detenuto vive l’esperienza carceraria. Ad un estremo di tale classificazione troviamo quei detenuti che vivono il carcere come una "parentesi" della loro esistenza, parentesi non eccessivamente traumatica "e tale da non pregiudicare gravemente un futuro riequilibrio della propria biografia". Si tratta di quella quota di detenuti che hanno mantenuto rapporti con la famiglia d’origine, che hanno già esercitato lavori regolari prima della detenzione e che, a causa della loro giovane età, sono alle loro prime esperienze detentive. All’altro estremo della scala sociale della popolazione detenuta, troviamo invece coloro la cui condizione carceraria viene definita come "terminale dell’esclusione". Si tratta di una categoria di persone che hanno superato i trent’anni, con alle spalle oltre cinque carcerazioni, con legami familiari molto precari e che prima della detenzione non hanno mai lavorato o hanno esercitato solamente occupazioni saltuarie e irregolari. Tali soggetti hanno molta più difficoltà non solamente a trovare un lavoro intramurario, ma anche ad accedere alle misure premiali alternative alla detenzione. Questa situazione innesca un processo di etichettamento sociale fondato sullo stigma dell’ex detenuto che pone seri vincoli (per non dire una quasi impossibilità) al processo di reinserimento sociale. "La gravità dello status di questa (...) condizione carceraria è nell’essere quasi sempre una "strada senza ritorno". In essa i tratti prevalenti sono la destrutturazione della biografia dei detenuti e la loro conseguente sfiducia. Cadono le speranze, gli obiettivi del passato, anche quelli dei quali già prima del carcere si rinviava sine die la realizzazione. In questa ultima forma sociale del carcere convivono drammaticamente tutti gli aspetti dei processi di emarginazione: la condizione carceraria come sindrome della esclusione finale" (L. Berzano, 1994, 131).

In quest’ultima categoria di detenuti sembrano collocarsi la maggioranza dei detenuti di nazionalità straniera (W. Piroch, M. R. Mielke, A. D’Ottavi, D. Lucchini, 1992). Si tratta di una quota di popolazione detenuta che è andata crescendo di dimensione negli ultimi anni (in Italia dal 10,7% del 1987 al 22,3% del 1997), raggiungendo la massima concentrazione negli istituti di pena metropolitani dove la percentuale di detenuti non italiani supera ormai in molti casi il quaranta per cento. La tutela dei diritti di questi detenuti appare molto problematica; essi vengono di solito collocati in apposite sezioni divise per nazionalità, al fine di evitare che si possano consumare in carcere vendette che hanno la loro radice nelle rivalità esistenti negli ambienti dell’immigrazione clandestina. I detenuti stranieri con grande difficoltà riescono ad accedere ai benefici premiali previsti dalla legge anche quando avrebbero i requisiti per poterli ottenere, non potendo di solito avvalersi di un’assistenza tecnico-giuridica di qualità. Anche il regime penitenziario interno, pensato e progettato per detenuti italiani, presenta numerosi problemi per questi detenuti: dal regime alimentare alla possibilità di esercitare le pratiche del proprio culto religioso, dalla comunicazione con il personale di custodia per problemi di lingua alle condizioni igieniche delle celle, spesso rese insoddisfacenti dal sovraffollamento e dalla promiscuità di soggetti che provengono da culture che non conoscono gli standard di civiltà europei.

Un altro problema che tocca i detenuti stranieri, ma che riguarda tutta la popolazione reclusa, è quello della tutela della loro salute. La condizione detentiva di per sé è una fonte di sofferenza che va al di là della semplice privazione della libertà di movimento. In particolare, sono stati evidenziati i seguenti problemi di carattere psicologico e sanitario: 1. l’erosione dell’individualità, il danneggiamento cioè della capacità individuale di pensare e agire in modo autonomo; 2. la deculturazione, ossia la perdita dei valori e della attitudini che il soggetto aveva prima dell’ingresso in carcere; 3. danni fisici e psicologici che affliggono l’individuo durante il periodo della sua permanenza in carcere; 4. l’isolamento, la carenza cioè di interazione sociale con il mondo esterno e con gli altri individui chiusi in carcere; 5. la privazione degli stimoli, con adattamento alla povertà dell’ambiente fisico che circonda l’individuo ed al ritmo monotono e lento della vita istituzionale; 6. l’estraniamento, ovvero l’incapacità di adeguarsi alle novità dell’ambiente esterno (tecnologiche, sociali, etc.) una volta conclusa l’esperienza del carcere (F. Ceraudo, 1988). Uno dei medici penitenziari francesi di maggior esperienza nel settore, ha analizzato i principali danni alla salute che la detenzione comporta (D. Gonin, 1994): danni visivi dovuti alla protratta impossibilità di accedere a prospettive di sguardo in campo lungo (l’orizzonte del detenuto è sempre limitato da mura), danni all’apparato digerente e dentario, nonché notevole incidenza di patologie dermatologoche, dovute ad una alimentazione spesso troppo monotona e alla condizione di continuo stress che la detenzione comporta, compromissione del sistema respiratorio a causa della lunga permanenza in locali spesso angusti e con insufficiente aerazione, disturbi del sonno dovuti all’impossibilità di godere di regolari periodi di quiete notturna. A questo tipo di patologie causate da fattori esterni al detenuto, si devono aggiungere inoltre quelle provocate dalla tendenza, più o meno inconscia, del recluso stesso ad autopunirsi, infliggendosi delle torture che possono arrivare, nei casi estremi, al suicidio.

Legata ai danni di carattere sanitario provocati dalla detenzione, esiste inoltre la questione della sessualità dei reclusi. Da tale punto di vista, è noto come il desiderio sessuale e la mancanza di una compagnia di sesso opposto sia uno degli aspetti più dolorosi della detenzione e che contribuiscono maggiormente a destrutturare la personalità del prigioniero. In Italia, diversamente da molti paesi europei, non sono state introdotte misure, quali ad esempio le c. d. visite coniugali, atte ad alleviare tale tipo di sofferenza. Questo ha comportato il persistere di pratiche omosessuali all’interno degli istituti che rappresentano un problema soprattutto per la diffusione del virus HIV.

Il tema dell’AIDS in carcere è stato uno dei temi più studiati nell’ambito della sociologia della vita carceraria in Italia non solo per la sua indubbia drammaticità, ma anche per le contraddizioni del nostro sistema penitenziario che il fenomeno AIDS ha contribuito a far emergere (A. R. Favretto, C. Sarzotti, 1999). I primi casi di detenuti sieropositivi vennero scoperti in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta, suscitando una reazione di panico e di terrore, soprattutto nell’ambito del personale di custodia. A questa prima fase di reazione, che favorì l’espulsione indiscriminata dei detenuti sieropositivi dal circuito penitenziario con l’emanazione della legge 222 del 1993 (cfr. diritto penitenziario), ha fatto seguito una elaborazione più articolata da parte dell’amministrazione penitenziaria dei problemi della sieropositività in carcere, con la costituzione in molti istituti di sezioni apposite per reclusi colpiti dall’HIV (P. Buffa, C. Sarzotti, 1998). I problemi che questo tipo di detenuti introducono nella vita detentiva sono innumerevoli e hanno contribuito a sottolineare le carenze organizzative degli istituti di pena. Tutti i servizi che il carcere offre ai propri "utenti" sono stati messi a dura prova dalla presenza di reclusi sieropositivi: da quello sanitario (cure adeguate ed aggiornate) a quello igienico-alimentare (pulizia delle celle e alimentazione differenziata), da quello assistenziale-psicologico (sostegno psico-terapeutico alle persone che scoprono di essere sieropositive in carcere) a quello trattamentale-risocializzante (costruzione di rapporti con le agenzie esterne che sappiano garantire percorsi di reinserimento per i detenuti rilasciati). La questione della prevenzione della diffusione dell’AIDS ha posto all’ordine del giorno, inoltre, due fenomeni sommersi e spesso negati dall’istituzione: i rapporti sessuali e il consumo di sostanze stupefacenti per via iniettiva all’interno degli istituti. La semplice proibizione di questi comportamenti con i divieti del regolamento penitenziario non li ha certo fatti venir meno nella realtà degli istituti (B. Magliona, C. Sarzotti, 1996). L’immagine del detenuto sieropositivo ha, inoltre, fatto emergere gli elementi contraddittori della cultura carceraria degli operatori penitenziari della custodia e del settore trattamentale (C. Sarzotti, 1999). In particolare, la figura del detenuto sieropositivo, metà malato e metà criminale, ha evidenziato le differenze tra un "codice paterno" della custodia che considera la pena come uno strumento di retribuzione del reato e che si muove seguendo la logica militare della sicurezza della detenzione, e un "codice materno" del trattamento che vede l’operatore (assistente sociale, psicologo, educatore etc.) collocarsi ambiguamente "dalla parte" del recluso per poter intraprendere un percorso d’aiuto che molte volte non è rispettoso della sua autonomia e della sua libertà di scelta. Del resto, uno degli elementi più studiati dei rapporti tra detenuto e operatore carcerario è quello dell’ambiguità di un’istituzione che, da un lato, deve imporre la propria autorità con gli strumenti dell’ordine e della sicurezza e, dall’altra, deve cercare di operare un cambiamento interiore del condannato attraverso la sua collaborazione e modalità d’approccio "amichevoli" (G. Mosconi, 1998).

Un altro aspetto indagato della condizione carceraria è quello delle donne recluse (G. Parca, 1973; E. Campelli, T. Pitch, F. Faccioli, V. Giordano, 1992; N. Policek, 1992). Si può parlare di una condizione particolare, in quanto le donne sono ospitate in istituti appositi e sono tradizionalmente in numero molto inferiore alla popolazione reclusa di sesso maschile (circa il 5%) e quindi non si presentano problemi di sovraffollamento. Questa situazione di "privilegio" rispetto alle condizioni detentive è, peraltro, aggravata dalla posizione delle recluse madri che possono tenere con sé i figli solamente sino all’età di tre anni (art. 18 del regolamento penitenziario).

Passando al secondo filone di ricerche prodotte in chiave in senso lato sociologica sulle condizioni di vita carceraria, esso possono a loro volta essere suddivise in due grandi tipi: le memorie dei carcerati e la denuncia ideologica delle aberrazioni dell’istituzione carceraria.

Il primo tipo di pubblicazioni ha precedenti illustri, si pensi a "Le mie prigioni" di Silvio Pellico e ai "Quaderni dal carcere" di Antonio Gramsci, e scaturisce per lo più dall’esperienza carceraria di qualche personaggio delle classi sociali colte che per qualche vicissitudine abbia dovuto trascorrere un periodo della propria vita in detenzione. Esemplari recenti di questo tipo di scritti sono quelli di Adriano Sofri (1993) e Vittorio Cusani.

Il secondo filone, invece, ha preso avvio in Italia a partire dagli anni Settanta, sull’onda della protesta politica di denuncia della società capitalistica. Tale filone ha prodotto sia delle vere e proprie ricerche sui vari aspetti del mondo carcerario (A. Ricci, G. Salierno, 1971) e sulla funzione più complessiva del carcere nella società (D. Melossi, 1988; G. Mosconi, 1982), sia saggi più propriamente ideologici di ricostruzione dei processi culturali e repressivi che hanno portato il carcere ad assumere un ruolo centrale rispetto al controllo sociale della società disciplinare (E. Gallo, V. Ruggiero, 1989; AA.VV, 1980; M. Perrot, 1980).

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4. Percorso sul diritto penitenziario
L’esecuzione della sanzione penale è stata interessata, negli ultimi decenni e in tutti i paesi occidentali, da quel processo giuridico evolutivo che suole chiamarsi di giurisdizionalizzazione. Con questa espressione si vuole intendere quella tendenza a controllare in misura sempre maggiore con strumenti giuridici, e in particolare attraverso l’operato di apposite categorie di giudici, le modalità con le quali viene eseguita la pena. Si tratta di una tendenza relativamente recente, in quanto tali modalità sono state, dall’avvento della modernità, tradizionale appannaggio del potere esecutivo (B. Magliona, C. Sarzotti, 1993). Un maggior controllo giuridico sulle modalità di esecuzione della sanzione penale ha significato in primo luogo una maggiore attenzione ai diritti dei detenuti, in quanto il carcere si è rivelato, da un lato, la pena più utilizzata e, dall’altro, la forma sanzionatoria che ha dato luogo in maggior misura a prevaricazioni, discriminazioni e abusi nei confronti delle persone recluse. Fenomeni che sono stati favoriti senza dubbio dal carattere separato e autoritario dell’istituzione carcere, carattere che ha spesso ostacolato la trasparenza e il controllo dell’opinione pubblica sulle attività che si svolgono all’interno della società intramuraria.

Il processo attraverso il quale il diritto, come strumento dello stato democratico, ha cercato di regolare le modalità di esecuzione della pena detentiva si è avvalso, oltre che delle norme di diritto penitenziario interne ai vari Stati nazionali, anche della produzione normativa di organismi internazionali che hanno emanato direttive e raccomandazioni. In particolare, tali organismi si sono occupati della questione dei diritti umani delle persone recluse, avendo come punto di riferimento ideale la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948. Nell’ambito dei diritti umani sono stati fatti rientrare una serie molto ampia di diritti che sono stati evidenziati da istituzioni internazionali e, in particolare, dal Consiglio d’Europa che, sin dal 1987, ha emanato le "Regole penitenziarie europee", attraverso le quali sono state stabilite le regole minime per il trattamento umano dei detenuti (P. Comucci, A. Presutti, 1989; M. Pastore, 1996). Il Consiglio non si è limitato ad enunciare dei principi generali, ma ha anche verificato attraverso delle ispezioni in diversi paesi europei il rispetto (molto spesso non) effettivo di tali principi (A. Cassese, 1299).

Accanto agli strumenti giuridici esistenti nel diritto internazionale sui diritti umani dei detenuti, esistono le norme emanate dai singoli ordinamenti penitenziari nazionali. In questa sede ci concentreremo sull’ordinamento italiano che ha come suo fondamento giuridico essenziale il riferimento normativo dell’art. 27, terzo comma della nostra Carta Costituzionale che così recita: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Pur non prendendo posizione netta per alcuna delle diverse funzioni che sono state attribuite alla sanzione penale, l’assemblea Costituente decise tuttavia di fare un esplicito richiamo alla funzione rieducativa anche allo scopo di segnare maggiormente la distanza dal precedente ordinamento fascista che aveva concepito la pena in termini di pura retribuzione e difesa sociale (G. Micali, 1991). Questa prevalenza della funzione rieducativa e risocializzante della pena è stata in seguito ribadita anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, pur oscillando nel corso degli anni, ha comunque sempre ribadito che tali funzioni sono preminenti rispetto agli elementi di difesa sociale e di prevenzione che fanno correre "il rischio di strumentalizzare l’individuo a fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo all’esemplarità della sanzione" (E. Gallo, 1994).

Muovendo dal dettato costituzionale, peraltro a lungo disatteso, la cultura penalistica italiana cominciò nel corso degli anni Sessanta a reclamare un adeguamento dell’ordinamento penitenziario rimasto ancorato alla situazione normativa prerepubblicana. Una maggiore sensibilità ai fattori sociali, economici e culturali che stanno spesso alla base dei fenomeni di criminalità e la diffusione nel sistema politico, sia nei partiti di governo che d’opposizione, di un’ideologia solidaristica che vedeva nel criminale più che un soggetto da cui difendersi una persona da reintegrare nella società, favorirono l’emanazione della riforma dell’ordinamento penitenziario con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (G. Neppi Modona, 1977).

Nella prospettiva della riforma, la pena perde la sua principale valenza di repressione dei reati, ma si fa carico della "responsabilità collettiva" che ha portato l’individuo a violare la legge penale e deve testimoniare dell’impegno positivo che lo Stato deve mettere in atto per il suo reinserimento sociale. L’esigenza "dell’addolcimento" delle pene era, inoltre, dovuta alla permanenza in vigore di un codice penale come quello Rocco del 1932 che non era stato possibile riformare e che presentava indubbie durezze sanzionatorie. La riforma del 1975 è dunque ispirata al principio dell’osservazione scientifica della personalità e delle caratteristiche socio-culturali del detenuto e dalla conseguente individualizzazione del trattamento carcerario. In altri termini, il legislatore del 1975 ha ritenuto che ogni condannato debba essere attentamente seguito nel suo percorso riabilitativo e che per esso debba essere approntato un personale programma risocializzativo che concepisca la pena come uno strumento positivo di rieducazione (F. Bricola, 1977; V. Grevi, 1988 e 1994).

Al di là degli strumenti d’intervento non strettamente giuridici previsti dalla riforma del 1975 che verranno trattati in seguito (cfr. trattamento carcerario), occorre brevemente ricordare quali siano le misure introdotte da tale riforma e in particolare le c.d. pene alternative al carcere. Partendo, infatti, dal presupposto che il carcere è un’istituzione avente inevitabilmente effetti negativi sulla personalità e sui legami sociali del condannato e deve pertanto rappresentare l’extrema ratio della sanzione penale, il legislatore ha ritenuto utile prevedere delle pene alternative alla detenzione, nel senso che si possono scontare al di fuori degli istituti di pena (T. Padovani, 1981; E. Dolcini, C. E. Paliero, 1988). In altri termini, si è ritenuto che per una serie di reati di minore gravità e sulla base di un giudizio di non pericolosità sociale del condannato, sia possibile che determinate pene non siano scontate in carcere.

Tali pene alternative al carcere sono le seguenti:

  1. L’affidamento in prova al servizio sociale e l’affidamento in casi particolari, viene concesso al fine di favorire il reinserimento sociale dei condannati attraverso l’assistenza e il controllo dei Centri di Servizio Sociale per Adulti, organismi creati ad hoc per la gestione dei percorsi di reinserimento. Il presupposto di questa misura è che si tratti di condannati che non presentano pericolosità sociale e per i quali i rischi di recidiva siano molto bassi. Oltre a tale requisito occorre anche che il condannato mostri disponibilità e idoneità alla misura alternativa attraverso un consenso non espresso solamente in termini formali. Nel corso del periodo di prova il condannato è scarcerato, ma deve sottoporsi a precisi obblighi, prescrizioni e divieti che riguardano i suoi spostamenti sul territorio, il lavoro svolto, le frequentazioni sociali etc. La misura può essere revocata qualora tali prescrizioni non siano rispettate. L’affidamento in casi particolari è rivolto, invece, specificamente ai condannati tossicodipendenti o alcoldipendenti. È applicabile qualora il condannato, al momento dell’esecuzione della pena, si stia sottoponendo ad un trattamento terapeutico di riabilitazione o quando egli dichiari la sua volontà di sottoporsi a tale trattamento. In tali casi, il Tribunale di Sorveglianza concorda con il soggetto che ha in cura il condannato (Ser.T. o comunità terapeutica privata) un programma terapeutico che dovrà essere rispettato per evitare la revoca della misura. Il presupposto del provvedimento in questo caso non è la mancata pericolosità sociale del soggetto, in quanto si ritiene che tale pericolosità sia strettamente legata al suo stato di tossicodipendenza. Peraltro l’affidamento non può essere concesso per più di due volte, al fine di evitare una strumentalizzazione della misura da parte di persone tossicodipendenti che non possiedano una sincera volontà di curarsi.

  • La semilibertà è un istituto che ha come finalità quella di favorire il reinserimento sociale del condannato, attraverso una graduale riduzione della pena. In tale prospettiva, la misura consiste nella liberazione del condannato durante il giorno al fine di svolgere "attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale". Il condannato deve dunque rientrare in carcere per trascorrervi la notte e nel corso della giornata deve seguire le prescrizioni che il Tribunale di Sorveglianza stabilisce: rispettare gli orari di lavoro, frequentare solo determinate persone, non abbandonare la propria dimora, etc. La semilibertà è di regola concedibile solo dopo aver scontato metà della pena, in seguito alla verifica che il percorso di reinserimento stia dando esito positivo. Si tratta quindi di uno strumento per accelerare tale percorso, attraverso una gradualità delle forme detentive che possa anche riabituare il detenuto allo stato di libertà.

  • La detenzione domiciliare (introdotta non dalla riforma del 1975, ma dalla successiva legge 10 ottobre 1986, n. 663, c. d. "legge Gozzini") consiste in una pena detentiva da eseguirsi però al di fuori dell’istituzione carceraria. L’individuo condannato deve, infatti, risiedere "nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura e di assistenza". Di regola, essa può essere concessa solo ad alcuni soggetti che vengono considerati "deboli" ed ha quindi finalità prettamente umanitarie: donna incinta o che ha con sé figli inferiori ai tre anni, malati gravi che hanno bisogno di costanti contatti con i presidi sanitari territoriali, ultrasessantacinquenni inabili anche parzialmente, giovani inferiori ai 21 anni per comprovate esigenze di studio, di lavoro, di salute, di famiglia.

  • La libertà anticipata ha una finalità a carattere premiale di riduzione della pena detentiva. Il legislatore ha concesso a chiunque stia scontando una pena detentiva, dando "prova di partecipazione all’opera di rieducazione", di ottenere la riduzione della pena di 45 giorni per ogni semestre di detenzione effettivamente eseguita. La partecipazione al progetto rieducativo è stata interpretata dalla prassi giudiziaria come la permanenza della buona condotta del detenuto nella vita carceraria, desumibile dal non essere stato oggetto di rapporti disciplinari e dall’aver partecipato alle attività intramurarie. Tale prassi ha reso funzionale l’istituto della libertà anticipata soprattutto rispetto ai fini di un maggior controllo degli stabilimenti di pena.

  • Esistono inoltre altre misure alternative alla detenzione, quali i permessi premio, le licenze e il lavoro all’esterno, che hanno la finalità di evitare il totale isolamento del condannato dalla vita sociale provocato dal carcere, favorendo in tal modo il suo graduale reinserimento nel mondo della famiglia e del lavoro.

    Le misure alternative al carcere sono state introdotte come istituti che avevano come presupposto un periodo di detenzione nel quale il condannato doveva essere osservato per elaborare una prognosi di pericolosità sociale. Tale presupposto è stato, tuttavia, progressivamente abbandonato e oggi alle misure alternative si può accedere anche prima di essere entrati in carcere, in quanto si è ritenuto che l’esperienza detentiva, per alcune categorie di condannati, sia comunque da evitare per i suoi connotati di stigmatizzazione sociale e di esposizione al contatto con la criminalità professionale (cfr. sociologia della vita carceraria).

    Ma quali sono gli organi che sono chiamati ad applicare questo insieme di normative? La riforma del 1975 ha istituito una serie di organi a cui è stata assegnata la competenza a concedere i benefici premiali, a sorvegliare l’andamento della vita degli istituti di pena e gestire i percorsi sanzionatori al di fuori del circuito carcerario. Oltre al Centro Servizio Sociale per Adulti che, come si è detto, ha il compito di presiedere al controllo dell’effettuazione delle misure alternative, hanno particolare importanza due organi giurisdizionali: il Magistrato di Sorveglianza e il Tribunale di Sorveglianza.

    Il primo è un giudice monocratico che possiede i seguenti compiti: vigilare sugli istituti di pena in modo da controllare che la pena detentiva venga attuata in conformità alla legge, provvedere ai reclami presentati dai detenuti, concedere permessi e licenze, approvare il programma di trattamento individuale e le proposte di ammissione al lavoro esterno. Il Tribunale di Sorveglianza, invece, è organo collegiale composto da due magistrati di sorveglianza e da due giudici non togati esperti di psicologia, criminologia, pedagogia, medicina, etc. Le sue competenze riguardano la concessione e la revoca di tutte le misure alternative di cui si è detto (affidamento in prova, semilibertà, detenzione domiciliare, liberazione anticipata), nonché la funzione d’organo d’appello per i ricorsi contro i provvedimenti dei giudici di sorveglianza.

    Lo spirito fortemente riformatore che aveva caratterizzato la produzione normativa della seconda metà degli anni Settanta sino all’emanazione della Legge Gozzini nel 1986, ha dovuto scontrarsi, tuttavia, con la dura realtà istituzionale del carcere e dei fattori sociali criminogeni e con il periodico susseguirsi delle emergenze criminali del nostro Paese (terrorismo e criminalità organizzata). Sotto il primo profilo, la funzione rieducativa della pena carceraria ha dovuto, da un lato, fare i conti con la scarsità delle risorse umane e finanziarie previste per il trattamento risocializzante e, dall’altro, con la limitata capacità strutturale di tale trattamento di incidere sui fattori di carattere sociale ed economico che portano gli individui a delinquere. In tal modo, è cresciuta nell’opinione pubblica e nella cultura penalistica la sfiducia nei confronti della capacità risocializzativa della pena e si è invocato da più parti il ritorno ad un carcere repressivo e/o meramente contenitivo di soggetti socialmente pericolosi (A. Margara, 1993). Anche l’atteggiamento del legislatore è sembrato perdere lo slancio utopico della riforma e rifugiarsi in un uso "cinico" del diritto penitenziario, o come mezzo per limitare il problema sempre incombente del sovraffollamento degli istituti di pena, o come strumento per evitare le "rivolte dei detenuti" così numerose nella storia del nostro Paese prima dell’introduzione dei benefici premiali subordinati alla buona condotta in carcere (B. Guazzaloca, M. Pavarini, 1995).

    Sotto il secondo profilo, invece, si è assistito, soprattutto a partire dagli anni 1991-1993, all’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi che hanno escluso dall’accesso alle misure alternative una particolare categoria di condannati per reati di criminalità organizzata e politica, per i quali opera una sorta di presunzione di impossibilità al recupero sociale fondata sul tipo di reato che hanno commesso (B. Guazzaloca, 1992; A. Presutti, 1994). In contrasto con queste norme particolarmente restrittive, si è andata sviluppando la tendenza ad emanare norme di diritto penitenziario ad hoc per singole categorie di condannati per i quali, invece, l’accesso ai benefici premiali è molto facilitato. Si tratta, oltre che della normativa già ricordata per i tossicodipendenti e gli alcoldipendenti, delle normative riguardanti ad esempio i soggetti colpiti dal virus HIV (B. Magliona, C. Sarzotti, 1993) e i c. d. collaboratori di giustizia. Tali opposte e molteplici esigenze di politica criminale hanno provocato una situazione di grave disagio nell’opinione pubblica e negli addetti ai lavori, diffondendo la sensazione di una "mancanza di senso" della sanzione penale. Da un lato, infatti, la pena sembra perdere i suoi connotati di certezza e di determinatezza, in quanto influiscono sulla sua esecuzione elementi disparati che non hanno più alcun riferimento alla gravità del reato commesso (condizioni di salute, predisposizione a collaborare con le autorità inquirenti, stato di tossicodipendenza, contiguità sociale con la criminalità organizzata etc.). Dall’altro, la pena del carcere in specifico sembra diventare un elemento liberamente negoziabile in fase esecutiva senza più alcun rapporto alla sua funzione preventiva, ma in una logica utilitaristica dello scambio tra Stato e detenuto che esclude esplicitamente ogni riferimento alla dimensione risocializzativa (N. Amato, 1990).

    Da ultimo è intervenuta nella materia del diritto penitenziario la legge 27 maggio 1998, n. 165, c. d. "legge Simeone-Saraceni" che ha in certo qual modo confermato tali tendenze (F. Della Casa, C. E. Paliero, M. G. Grazioso, 1999). Tale normativa ha ancora una volta mostrato la volontà del legislatore di affrontare il problema della costante progressione della popolazione detenuta attraverso misure che consentano al condannato, là dove possibile, di evitare l’incarcerazione sin dal momento della sentenza di condanna. A tale scopo, si è affrontato il problema dello scarso accesso alle misure alternative da parte di quei soggetti economicamente deboli che, non potendo fruire di un’assistenza giuridica adeguata, non riescono ad evitare il carcere anche quando ne avrebbero diritto. Tutte le misure alternative, infatti, sono concesse solamente su richiesta del condannato e non d’ufficio. Per ovviare a tale inconveniente, il legislatore ha introdotto, per le pene inferiori ai tre anni di reclusione (quattro per i tossicodipendenti), l’obbligo per l’autorità giudiziaria di avvertire il condannato che deve essere eseguita contro di lui una sentenza di condanna detentiva, specificando che egli può, entro 30 giorni, presentare istanza al Tribunale di Sorveglianza per accedere alle misure alternative. Nel corso di questo periodo, l’esecuzione della sentenza è sospesa. Si tratta di una normativa che, pur essendo largamente condivisibile nei suoi intenti generali di maggiore equità sociale nella concessione delle misure alternative, ha presentato dei notevoli punti deboli dal punto di vista applicativo. In particolare, l’attuazione della legge è in gran parte affidata ai Tribunali di Sorveglianza per i quali non è stato introdotto alcun aumento degli organici, incrementando in tal modo dei carichi di lavoro che erano già in precedenza assai elevati. Il pericolo da scongiurare è che, da un lato, la magistratura di sorveglianza non riesca a smaltire le nuove richieste e che quindi il diritto alle misure alternative rimanga "sulla carta". Dall’altro, tale magistratura non sembra possedere le risorse umane e di tempo per poter vagliare attentamente e con le dovute informazioni le istanze dei condannati, in modo tale che il procedimento di esecuzione sembra diventare sempre più burocratico e incerto, legato com’è alle interpretazioni della legge, a volte anche molto distanti fra loro, fornite dai diversi tribunali di sorveglianza (G. Mosconi, M. Pavarini, 1993).

    Inoltre, per l’ennesima volta, il nostro legislatore si è mosso in una logica settoriale e legata all’emergenza del momento, tralasciando di affrontare la questione della pena in termini più generali. In particolare, si è mancato di compiere una scelta precisa verso l’ormai da molti auspicata riforma del codice penale e verso quello che viene chiamato il processo penale bifasico. Processo che dovrebbe fondarsi sull’ampliamento per il giudice del dibattimento della possibilità di irrogare in sentenza condanne di natura diversa dalla semplice detenzione, quali i lavori socialmente utili, la semilibertà, la condanna al risarcimento della vittima, etc., lasciando alla magistratura di sorveglianza un margine di minore discrezionalità sulle modalità di esecuzione della pena. Tale cambiamento strutturale del sistema penale sarà possibile, tuttavia, solamente con il definitivo superamento dell’attuale codice penale (sul quale ha recentemente fornito un parere autorevole la c.d. commissione Grosso) e con una precisa scelta di politica criminale che veda sempre di più il carcere solamente come una (e neppure la principale) delle possibili forme di sanzione penale, da riservarsi a quei crimini di particolare rilevanza sociale per i quali la detenzione appaia ancor oggi la modalità meno brutale di reazione della comunità democratica.

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    5. Percorso sul trattamento carcerario
    Il progressivo sviluppo del carcere come forma principale di esecuzione delle pene registratosi a partire dall’Ottocento si è accompagnato alla crescita di un apparato statale costituito da funzionari professionali (i c. d. operatori penitenziari) che hanno il compito di amministrare gli istituti di pena con una elevata autonomia gestionale. Si assiste in tal modo ad un fenomeno di burocratizzazione e di razionalizzazione dell’esecuzione penale, in quanto lo stato diventa il gestore monopolistico anche di questo settore del sistema penale che in passato era stato, in molte realtà istituzionali, lasciato ai privati (cfr. storia della prigione). Vengono costituiti "(a)pparati amministrativi sempre più organizzati entro l’ambito di un territorio, sotto la guida di funzionari dotati di una preparazione tecnica e retribuiti per le loro competenze professionali – direttori delle carceri, guardiani, ufficiali medici, assistenti sociali, probation officers e, più tardi, criminologi, psichiatri e psicologi -, ciascuno con un proprio percorso di carriera, una propria competenza, ideologia e propri interessi" (D. Garland, 1999, 223). La costituzione di tali apparati è legata al fatto che il carcere non è più concepito, come in epoca premoderna, un semplice luogo di detenzione in cui contenere individui in attesa di giudizio o politicamente pericolosi, ma viene considerato un sistema attraverso il quale intervenire sulla personalità e sullo stile di vita dei condannati, per qualche tipo di finalità educativa, preventiva, risocializzativa, etc. Si potrà parlare in senso compiuto "di sistema penitenziario (...) soltanto da quando la complessità dei fini che la privazione della libertà vuole raggiungere (...) postula una organizzazione non rudimentale e una complessità di interventi regolati da quella che fu denominata fin dalla metà dell’800 "scienza penitenziaria"" (L. Daga, 1990, 754). Nasce in tal modo il cosiddetto "carcere trattamentale".

    I primi modelli di carcere trattamentale sono di origine statunitense, in quanto oltreoceano vennero sperimentati e realizzate per la prima volta, nella seconda metà del Settecento, alcune idee di fondo che si sono in seguito condensate nel progetto panottico dell’inglese Jeremy Bentham (cfr. storia della prigione). Tali modelli sono caratterizzati in una prima fase dalla detenzione monocellulare, in quanto si ispirano direttamente al modello della cella monastica. Lo stesso termine penitenziario, infatti, mostra la sua derivazione religiosa, che fa riferimento al concetto di isolamento come penitenza e come strumento di espiazione dei peccati in auge nella prigione monastica medioevale. Tali ispirazione religiosa di estrazione cattolica, che aveva avuto in Europa qualche limitata realizzazione come il carcere di San Michele a Roma inaugurato agli inizi del Settecento, trovò nel protestantesimo dei quaccheri americani un potente fattore di sviluppo e di spinta alla realizzazione di esperienze concrete di istituti carcerari. Prendendo le mosse dal concetto di carcere come medicina spirituale, nel 1774 venne inaugurato il penitenziario di Walnut Street nello stato della Pennsylvania, massimo esempio del c. d. modello trattamentale filadelfiano. Tale modello era fondato sul principio dell’isolamento assoluto dei detenuti e sul lavoro quotidiano. La solitudine della cella e del lavoro durante la giornata doveva servire, da un lato, a correggere "l’anima del criminale" attraverso un isolamento che favorisse l’affievolirsi delle passioni che avevano portato al reato e il raccoglimento spirituale. Dall’altro, l’isolamento consentiva il superamento delle deplorevoli condizioni di promiscuità in cui erano ospitati i detenuti nelle carceri settecentesche, favorendo in tal modo un’efficace azione di contrasto al diffondersi del "contagio della pestilenza delinquenziale", delinquenza che veniva concepita come un fenomeno quasi fisico di patologia sociale. Il sistema filadelfiano, tuttavia, presentò immediatamente dei notevoli problemi per la sua concreta attuazione dovuti sia ad un regime detentivo eccessivamente rigido (molti detenuti non reggevano psicologicamente al prolungato isolamento), sia ai costi economici estremamente elevati, essendo difficile disporre di una quantità di edifici penitenziari in grado di ospitare la popolazione detenuta in regime monocellulare.

    Dal tentativo di superare questi inconvenienti di carattere pratico nacque il secondo modello carcerario americano che si diffuse ben presto in tutto il mondo, il modello auburniano. Si tratta di un modello che, pur non stravolgendo il modello filadelfiano, ha cercato pragmaticamente di introdurre delle correzioni al regime di rigido isolamento. Il carattere pragmatico del modello è dovuto al fatto che non venne elaborato teoricamente, ma fu la risultante di una serie di compromessi pratici nella gestione del carcere di Auburn, inaugurato nello Stato di New York nel 1818, da parte del direttore Elam Lynds. Le principali correzioni introdotte rispetto al sistema filadelfiano erano: l’isolamento solo notturno dei detenuti che durante il giorno potevano lavorare in spazi comuni, pur dovendo rispettare la regola del silenzio; una maggior attenzione agli aspetti produttivi del lavoro dei reclusi, per consentire anche una maggiore economicità della gestione del penitenziario (anche se il carcere non diventò mai una vera e propria fabbrica in grado di vendere i propri prodotti sul mercato); una rigorosa separazione tra le diverse categorie di detenuti: "gli scellerati induriti dal crimine rimanevano nell’isolamento ininterrotto, i recuperabili venivano isolati all’inizio della pena e poi ammessi al lavoro in comune, i meno criminali e depravati avevano facoltà di lavorare da subito, con separazione di notte e comunità durante il giorno" (L. Daga, 1990, 757).

    I modelli americani ebbero una rapida diffusione in tutta Europa, anche se nell’analizzare i sistemi penitenziari occorre sempre distinguere nettamente i principi teorici ispiratori, da ciò che sono le concrete pratiche carcerarie. Sotto questo secondo profilo, infatti, i principi teorici di stampo americano nascondevano una realtà della vita carceraria negli istituti molto più brutale e disorganizzata. Limitandoci alle linee evolutive del carcere trattamentale in Italia, si può affermare che alla metà dell’Ottocento la situazione sia molto articolata. Il modello auburniano, ad esempio, era stato adottato dalla riforma penitenziaria piemontese, mentre in Toscana il regolamento degli stabilimenti penali del 1853 aveva preferito il modello filadelfiano. Con l’unità nazionale, venne istituita una apposita commissione che avanzò numerose proposte di riforma del sistema penitenziario al fine di una sua maggiore uniformità sul territorio della penisola, che peraltro non vennero attuate soprattutto per ragioni economiche. In tal modo, alla fine dell’Ottocento in Italia erano presenti pressochè tutti i vari sistemi di esecuzione della pena detentiva. In particolare, esistevano i bagni penali, in cui i reclusi erano costretti ai lavori forzati, legati con catene e vestiti in casacca rossa da galeotti; l’ergastolo di Volterra e le case di forza con segregazione cellulare; le case di reclusione per le pene di oltre un anno; le prigioni correzionali; le case di relegazione per i delitti passionali e meno gravi; le colonie penali di Pianosa, Gorgona e Capraia in cui si trovavano anche i soggetti al domicilio coatto nelle isole; pii istituti dipendenti dall’amministrazione penitenziaria per minorenni considerati dalla legge abbandonati, vagabondi, senza avvenire.

    Parallelamente a questa diversità di situazioni carcerarie dovuta non tanto ad un progetto di intervento mirato sulla popolazione reclusa, ma alla sopravvivenza dei vecchi istituti e regimi di pena elaborati dagli Stati preunitari, si sviluppano, a partire ancora una volta dal mondo anglosassone, nuovi principi trattamentali. Tali principi erano scaturiti dalla constatazione del fallimento dei modelli monocellulari e dalla necessità di rendere flessibile la pena in base al comportamento del detenuto in carcere. In particolare, in Irlanda, il capo dell’amministrazione penitenziaria Lord Crofton, nominato nel 1854, cominciò a sperimentare un nuovo tipo di trattamento differenziato fondato sulla rigida divisione degli istituti a seconda del livello di sicurezza richiesto. La popolazione reclusa, in questo modo, veniva classificata attraverso una suddivisione in cinque categorie, basata sul comportamento tenuto in carcere dal detenuto rispetto al lavoro, alla disciplina e al profitto scolastico.

    Il principio della differenziazione trattamentale si estese ben presto in tutta Europa e il congresso penitenziario internazionale tenutosi a Roma nel 1885 sancì la necessità dei sistemi carcerari di tener conto della "distinzione da fare tra alcune categorie di detenuti, e conseguentemente tra gli stabilimenti in cui essi saranno assegnati". Tali categorie erano quelle dei condannati e dei giudicabili, dei giovani e degli adulti, dei condannati a pene brevi e a pene lunghe. Ad ognuna di queste categorie di condannati dovevano essere approntati dei regimi carcerari specifici, con specifiche forme di trattamento idonee alla trasformazione dei soggetti reclusi, trasformazione che ormai non si considerava più possibile ottenere con il solo ausilio della funzione emendativa della privazione della libertà.

    La tendenza alla differenziazione trattamentale è sorretta, alla fine dell’Ottocento e all’inizio del nostro secolo, dall’egemonia culturale del pensiero positivistico e della Scuola Positiva (i cui massimi esponenti sono italiani, Cesare Lombroso ed Enrico Ferri) che considera la criminalità come una manifestazione di patologia individuale, da curarsi con appositi trattamenti di carattere medicale (E. Somma, 1986). Di qui il collegamento tra status di recluso e status di malato e l’influenza del modello curativo-ospedaliero sulla struttura del carcere. In tale prospettiva, la segregazione cellulare deve lasciare il posto a precisi strumenti di osservazione e di classificazione della personalità del condannato e a interventi mirati che consentano di guarire il delinquente dalla sua malattia, la delinquenza. Il carcere diventa luogo di osservazione scientifica e laboratorio sperimentale per l’elaborazione di tecniche di manipolazione del comportamento umano. Si tratta in buona misura di una illusione scientista, improntata ad un determinismo ingenuo, che non otterrà risultati pratici di rilievo, ma che contribuisce a modificare il sistema penitenziario, introducendo la nozione di pena indeterminata attraverso le c. d. misure di sicurezza. Il nostro codice penale del 1930, infatti, introduce il principio del "doppio binario" che prevede, oltre alla pena, la comminazione, ad alcuni tipi di condannato, delle misure di sicurezza che non sono determinate nel tempo dalla gravità del reato commesso, ma dalla prognosi di pericolosità sociale che deve essere periodicamente verificata dal giudice. Il nostro regolamento carcerario del 1931 prevedeva, inoltre, il passaggio da un istituto di pena all’altro, in base alla classificazione dei detenuti ottenuta attraverso l’osservazione scientifica del loro comportamento in detenzione.

    Col secondo dopoguerra e la caduta dei regimi totalitari che avevano insanguinato l’Europa, il tema della riforma dei sistemi penitenziari torna all’ordine del giorno. La produzione normativa di numerosi organismi internazionali (cfr. diritto penitenziario) pone al centro dell’attenzione il tema dei diritti umani dei detenuti che erano stati negati da molti sistemi penitenziari sia col mantenimento di regimi detentivi afflittivi e meramente contenitivi, sia con le tecniche di manipolazione degli individui che avevano avuto come esito estremo le aberranti pratiche concentrazionarie dei lager nazisti. Si tende quindi al miglioramento delle condizioni carcerarie e ad una progressiva riduzione della pena carceraria, a favore delle c. d. misure alternative alla detenzione. Il fine che si ritiene preferibile è quello che mira al reinserimento del recluso e negli anni Sessanta e Settanta molti ordinamenti penitenziari europei istituiscono un vero e proprio diritto alla rieducazione del detenuto. La prospettiva della rieducazione e del reinserimento sociale, per un verso, mantiene valido il tema della differenziazione della pena carceraria, ma, per altro verso, contesta ogni strumento trattamentale che consideri il condannato nel ruolo passivo di malato. Ciò che viene ritenuto necessario, infatti, per garantire l’efficacia delle strategie di risocializzazione e rieducazione è il consenso del detenuto, la sua partecipazione attiva e responsabile al programma trattamentale. Come garantire, tuttavia, che tale consenso sia sincero ed effettivo? Gli strumenti di cui i sistemi penitenziari europei si sono dotati per agevolare il consenso alla risocializzazione, infatti, ruotano intorno al tema della flessibilità della pena. Introducendo i c. d. benefici premiali (cfr. diritto penitenziario), gli ordinamenti penitenziari sono andati a costituire quel processo relazionale che è stato definito "sinallagma carcerario" e che consiste in uno scambio tra disponibilità da parte del detenuto ad accettare il percorso trattamentale e concessione di misure premiali alternative alla detenzione. Il pericolo che si cela al di sotto di questo scambio, tuttavia, è che il consenso espresso dal recluso sia fittizio, imposto esclusivamente dall’assoluto desiderio di ritornare in libertà, con conseguente abbandono del percorso risocializzativo appena ne sia data concreta possibilità. Non a caso i risultati di maggior rilievo ottenuti da queste strategie di politica carceraria hanno riguardato la vita intramuraria, dove si è assistito ad un notevole abbassamento della tensione interna tra custode e custoditi e alla quasi totale scomparsa delle rivolte carcerarie.

    Oltre a questa contraddizione di fondo e a carenze dei sistemi penitenziari, quali il sovraffollamento degli istituti e le scarsità di risorse impiegate per il trattamento di cui si è già trattato (cfr. diritto penitenziario), occorre ricordare altri due nodi problematici che hanno reso difficile l’attuazione delle politiche di reinserimento: le strutture architettoniche carcerarie e la qualità professionale degli operatori penitenziari. Sotto il primo profilo, rimanendo alla situazione italiana, gli istituti di pena si sono rivelati inadeguati alle nuove politiche di risocializzazione (S. Lenci, 1976). A prescindere dalle condizioni di perenne sovraffollamento che snaturano la funzione degli spazi in chiave puramente contenitiva, ci si è trovati a dover fare i conti, o con antichi edifici nati con scopi diversi dalla detenzione e riadattati alla meglio, oppure con una nuova generazione di istituti, costruiti negli anni Ottanta in seguito all’emergenza terrorismo, sul modello delle carceri di massima sicurezza e quindi pensati come strutture che devono garantire in primo luogo l’impossibilità di evadere.

    Sotto il secondo profilo, si è registrato una sensibile carenza nella predisposizione degli operatori penitenziari ad adeguarsi alla cultura del trattamento, soprattutto per quanto riguarda il settore che si occupa della custodia dei detenuti (agenti di polizia penitenziaria). Da questo punto di vista, si è assistito ad un conflitto sommerso tra questa categoria di operatori penitenziari e gli operatori del trattamentale, ovvero quelle figure professionali che hanno il compito di predisporre i programmi individuali di trattamento per i detenuti (assistenti sociali, educatori, criminologi, psicologi, medici penitenziari) (R. Breda, 1995). In questo conflitto tra il "codice paterno" e il "codice materno" degli operatori del carcere si sono rivelate le contraddizioni e le arretratezze del nostro sistema penitenziario (C. Sarzotti, 1999). Da un lato, gli operatori della custodia, pur avendo, secondo la legge, anche compiti di collaborazione al percorso trattamentale, concepiscono ancora in buona misura il carcere come mero luogo di contenimento dei reclusi e spesso non hanno la preparazione professionale per partecipare attivamente a tale percorso. Dall’altro, gli operatori del trattamentale nutrono una profonda diffidenza nei confronti dei loro colleghi del custodiale e si rivelano spesso impossibilitati, per carenze professionali e di organizzazione interna, a collaborare in rete con gli operatori sociali che lavorano all’esterno del carcere (operatori dei Ser.T. e dei servizi sociali comunali, volontari etc.), impedendo in tal modo quell’apertura del carcere alla società civile ritenuta da più parti condizione necessaria per efficaci strategie di reinserimento sociale.

    L’insieme di tali difficoltà di diversa natura ha condotto alla progressiva crisi dell’ideologia del trattamento nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Tassi di recidiva in costante crescita, fenomeni come quelli del progressivo aumento in carcere di una popolazione detenuta proveniente da enclaves di radicata emarginazione sociale [disoccupati, senza fissa dimora, stranieri non integrati (H. Tulkens, 1982)], e di persone per cui il carcere non costituisce che il termine finale di un disagio sociale manifestatosi con la tossicodipendenza (D. Malfatti, 1995) o con la sieropositività (P. Buffa, 1996), hanno condotto a ripensare ai termini (ridotti) in cui è possibile parlare oggi di trattamento penitenziario.

    Le linee di tale ripensamento sono state sostanzialmente di due tipi. Una prima tendenza ha contestato radicalmente la nozione di trattamento negando che il sistema penitenziario abbia come "obiettivo lo stabilire una diagnosi ed un trattamento per individui che presentino sintomi di devianza sociale (criminali), ma invece semplicemente quello di far passare il messaggio secondo il quale alcuni atti non sono autorizzati" (L. Daga, 1990, 772). Al carcere rimarrebbe quindi la funzione, per un verso, simbolica di ribadire la disapprovazione sociale degli atti criminali, e per altro verso, materiale di contenere fisicamente individui socialmente pericolosi. È questa la linea che, per certi aspetti, sembra prevalere negli Stati Uniti.

    Una seconda tendenza, prevalente nei paesi europei, partendo dalla constatazione (tutt’altro che scontata secondo il pensiero abolizionista (cfr. teorie della pena) della ostinata impossibilità delle nostre società di poter fare a meno del carcere, rovescia "la prospettiva, dalla necessità di giustificare l’utilità della pena privativa della libertà, (...) alla doverosità (per governi che vogliono tener conto dei diritti fondamentali della persona umana) di limitare la dannosità della privazione della libertà" (L. Daga, 1990). Partendo dal presupposto che il carcere sia un male necessario (e che conseguentemente debba essere utilizzato dal legislatore con grande parsimonia), si ritiene che debbano essere limitati il più possibile i "danni collaterali" provocate dalle detenzioni, soprattutto di lunga durata. Le attività trattamentali, in tale prospettiva, vanno intese come strumenti che contrastano i danni della prigionizzazione (cfr. sociologia della vita carceraria) e che possono aumentare le chances di risocializzazione del detenuto solamente in via eventuale. Per contrastare gli effetti negativi della detenzione si auspica innanzitutto la progressiva apertura del carcere alla società esterna sia attraverso una maggiore collaborazione con le istituzioni e le realtà socio-culturali ed economiche extra-murarie, sia attraverso l’adozione di metodi di conduzione della vita interna al carcere che si ispirino a modelli comunitari che responsabilizzino e coinvolgano attivamente il detenuto. Le stesse regole della comunità dei detenuti all’interno del carcere possono essere utilizzate in questa prospettiva; ad esempio, per favorire scelte più responsabili per prevenire la diffusione del contagio da HIV (S. Ronconi, 1996).

    Si negano, in tal modo, due principi tradizionali dell’ideologia trattamentale: quello della separatezza del carcerario dalla società civile e quello della rigida differenziazione tra categorie di detenuti che ha come conseguenza la gerarchizzazione dell’organizzazione carceraria. L’individuo recluso diventa un soggetto adulto a tutti gli effetti, rispetto al quale non occorre intervenire come su un oggetto passivo (modello medicale tradizionale); egli non "va reinserito", ma aiutato a riacquistare la capacità di utilizzare delle risorse relazionali della sua rete sociale extra-muraria (c. d. tecniche di empowerment sociale). Oggi il trattamento carcerario, quindi, non dovrebbe consistere nell’applicazione di un programma per modificare il comportamento del recluso quando egli sarà liberato, ma nell’offerta di opportunità di reinserimento sociale che si inseriscono in un progetto di vita necessariamente non determinabile dall’operatore. La stessa autogestione da parte dei detenuti di determinate attività intramurarie (lavori di pulizia e di manutenzione delle celle, organizzazione di attività sportive e culturali, etc.) può essere considerata, in tale prospettiva, funzionale ad evitare quei processi di spersonalizzazione e di abulia relazionale che si manifestano dopo lunghi periodi di detenzione.

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