Percorsi
didattici sul carcere
(N.
B. si farà riferimento solo ad opere in lingua italiana o a traduzioni in
italiano di opere straniere)
1)
Percorso sulla storia della prigione
2)
Percorso sulle teorie della pena
3)
Percorso sulla sociologia della vita carceraria
4)
Percorso sul diritto penitenziario
5)
Percorso sul trattamento carcerario
Il
carcere può essere considerato un’istituzione totale (cfr. sociologia
della vita carceraria) che ha come scopo manifesto quello di
sanzionare gli individui che hanno commesso un reato, attraverso la
detenzione in un luogo chiuso in cui è fortemente limitata la libertà di
movimento del condannato. Si tratta di uno strumento con cui lo Stato
moderno esegue la sanzione penale, regolato da un insieme di regole che
vengono chiamate diritto penitenziario (cfr. diritto penitenziario), e
dunque di un’istituzione che è sorta storicamente, come forma
principale di sanzione penale statuale, nella seconda metà del Settecento
con lo sviluppo dell’illuminismo giuridico penale (cfr. storia della
prigione). I riformatori penali settecenteschi favorirono, da un punto di
vista teorico, la scelta del carcere come strumento di politica criminale,
in quanto ritenevano che la detenzione potesse essere una forma di pena
meno crudele dei supplizi d’ancient régime e più facilmente
quantificabile nella sua afflittività (cfr. teorie della pena). La
diffusione dell’istituzione penitenziaria si è sviluppata
contemporaneamente ad un insieme di pratiche di sapere e di discipline
scientifiche che prendono il nome di scienze criminologiche. Nell’ambito
di queste ultime discipline si sono sviluppate pratiche di intervento
sulla popolazione reclusa, che hanno l’obiettivo manifesto di
risocializzare e/o rieducare gli individui detenuti, oppure di
"curare", modificare, trasformare quegli aspetti della
personalità dei condannati che, secondo gli esperti della scienza
criminologica, conducono alla commissione di atti criminali (cfr.
trattamento carcerario).
Seguendo
tale prospettiva, il tema del carcere può essere affrontato attraverso
cinque grandi percorsi di lettura che hanno, ovviamente, numerosi canali
di comunicazione e punti di snodo.
1)
Percorso sulla storia della prigione;
2)
Percorso sulle teorie della pena;
3)
Percorso sulla sociologia della vita carceraria;
4)
Percorso sul diritto penitenziario;
5)
Percorso sul trattamento carcerario.
1.
Percorso sulla storia della prigione
Il carcere, così come noi oggi lo conosciamo, è un’invenzione
istituzionale piuttosto recente. Si può affermare che esso diventi, nel
mondo occidentale, la forma principale di sanzione per i reati attraverso
un processo storico che ha inizio alla metà del Settecento e trova il suo
pieno compimento all’inizio dell’Ottocento (M. Foucault, 1976). Prima
dell’epoca moderna il sistema penale del mondo occidentale era
caratterizzato da una pluralità di pene e il carcere non era utilizzato
che per custodire gli imputati in attesa di giudizio, nel corso delle
procedure inquisitorie, o per detenere arbitrariamente avversari politici.
Nelle incisioni della fine del Settecento di Giovanbattista Piranesi
troviamo ancora l’immagine cupa e inquietante della prigione come
"segreta" (M. Praz, 1975). I sistemi penali d’ancient régime
conoscono una grande diversità di modalità punitive. Gran parte di tali
modalità infliggono sofferenze corporali (fustigazione, amputazioni di
arti, vari tipi di tortura che vengono peraltro utilizzati soprattutto
nella fase istruttoria del processo), sino a giungere alla pena di morte
che peraltro non viene eseguita, come oggi, in modo tendenzialmente
indolore e segretamente, ma pubblicamente e attraverso
"l’arte" di provocare estrema sofferenza al condannato (i c.
d. supplizi). Altre modalità punitive erano, invece, relativamente meno
cruente: le pene di carattere pecuniario, l’esilio o il bando, la pena
della "galera" consistente nell’essere condannati a diventare
remieri sui vascelli (G. Alessi Palazzolo, 1977; A. Viario, 1980), pene
che esponevano il condannato al pubblico ludibrio (ad es. la gogna o la
pubblica ammissione delle colpe del condannato in giudizio).
A
partire dalla seconda metà del Settecento tali pene vengono
progressivamente abbandonate e sostituite con la pena del carcere che, nel
giro di pochi decenni, diventa la principale modalità di esecuzione delle
pene. Come spiegare tale fenomeno storico? Vediamo quali sono state alcune
delle principali risposte che gli studiosi hanno dato a tale domanda.
Georg
Rusche e Otto Kirchheimer, due sociologi della Scuola di Francoforte, in
un’opera pubblicata alla fine degli anni Trenta (tr. it. 1978) hanno
proposto una ricostruzione dell’evoluzione delle forme che ha assunto la
pena nel mondo occidentale a partire dal Medioevo, utilizzando un
approccio di tipo neo-marxista. Partendo da tale approccio, i due Autori
considerano la pena come un "prodotto storico", che quindi si
concretizza in forme particolari che mutano con il tempo e nello spazio.
In particolare, tali mutamenti avvengono in relazione ai modi di
produzione che si sviluppano in determinate società e "ogni modo di
produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai
propri rapporti di produzione" (D. Garland, 1999). La pena non deve
essere considerata come la risposta al crimine, ma come un meccanismo
sociale che si inserisce nella dinamica globale di lotta tra le classi.
Occorre strappare il velo ideologico che descrive le finalità manifeste
della pena, per arrivare alle sue funzioni reali. Da tale punto di vista,
i due sociologi francofortesi ritengono molto importante analizzare il
peso che il mercato del lavoro ha avuto nel condizionare i metodi
punitivi. La ricostruzione storica mostra, infatti, come l’andamento del
mercato del lavoro e la crescita demografica della popolazione fissino,
per così dire, il valore sociale della vita umana e, conseguentemente, il
ricorso a specifiche modalità sanzionatorie. Ecco allora che durante le
fasi storiche in cui la manodopera è abbondante, la politica penale può
assumere forme, quali le pene corporali o capitali, che tengono poco conto
della vita umana e, invece, nei periodi di scarsità di manodopera, le
istituzioni penali sono molto più attente a non disperdere il valore
delle risorse lavorative degli individui sottoposti a condanna. Nel
Medioevo, ad esempio, la brutalità e il disprezzo della vita umana che si
manifestano nelle esecuzioni penali sono spiegabili anche per una
situazione di eccesso di offerta di manodopera che, nel diminuire il
prezzo del lavoro, fa diminuire anche il prezzo della vita umana e che
trasforma il diritto penale in uno strumento con il quale contenere un
aumento eccessivo della popolazione rispetto alle ridotte risorse
disponibili per il suo sostentamento. Nell’epoca del mercantilismo,
invece, coi primi sviluppi dell’economia capitalistica, il nascente
potere statuale si trova a dover fare i conti con carenza di manodopera e
con il conseguente incremento dei salari. In questo periodo, dalla fine
del XV secolo all’inizio del XVIII, prevalgono forme punitive come la
servitù sulle galere, la deportazione nelle nuove colonie d’oltreoceano
e la condanna ai lavori forzati. Si tratta di pene che hanno in comune di
consentire un utilizzo coatto di manodopera e di rispondere ad esigenze di
tipo economico (quali, ad esempio, il bisogno degli stati marinari di
disporre di rematori a basso costo per intraprendere le esplorazioni del
nuovo continente americano, oppure la necessità degli stati coloniali di
popolare i territori conquistati con manodopera adatta a lavori forzati
per pubblica utilità). Nell’ambito di queste modalità punitive si
colloca il carcere che, in una prima fase, si caratterizza per le sue
finalità economiche di procacciamento di manodopera coatta e di strumento
di addestramento professionale nei confronti di una popolazione contadina
che non ha dimestichezza col lavoro di fabbrica. A tale scopo, le prime
carceri settecentesche si caratterizzano per un regime di reclusione in
cui il lavoro non rappresenta un mero strumento rieducativo o afflittivo;
le prigioni costituiscono delle vere e proprie piccole unità produttive
che si inseriscono nei meccanismi della libera concorrenza sul mercato del
lavoro (di qui le proteste delle corporazioni dei mestieri e dei
commercianti per la concorrenza sleale che tali unità pongono in essere).
Con il pieno compimento della rivoluzione industriale agli inizi
dell’Ottocento, tuttavia, il carcere muta la sua funzione produttiva,
diventando in primo luogo uno strumento di controllo delle "classi
pericolose", ovvero uno strumento di contenimento delle masse
disoccupate prodotte dai rapidi processi di inurbamento e di sviluppo
industriale. Lo stesso regime detentivo cambia di segno con
l’introduzione della detenzione unicellulare e il lavoro diventa uno
strumento puramente afflittivo fine a se stesso (esempio paradigmatico di
tale tipo di lavoro il c. d. "mulino a scalini", consistente in
una ruota a scalini che, girando intorno ad un perno centrale, consente al
condannato di salire i gradini rimanendo sempre allo stesso posto). In tal
modo, il carcere diventa un’istituzione che rappresenta, da un lato, un
sistema razionale di deterrenza basato sul timore della detenzione e sulla
degradazione sociale e, dall’altro, uno strumento di regolazione del
mercato del lavoro salariato che consente di ridurre le quote di
disoccupazione strutturale prodotte dalle periodiche crisi dell’economia
capitalistica.
Sempre
nella tradizione neo-marxista si collocano i lavori di Michael Ignatieff
(1978) e di Dario Melossi e Massimo Pavarini (1977) che riprendono in
buona misura le tesi dei due autori francofortesi. Ignatieff, peraltro,
valorizza in modo particolare il ruolo svolto dai riformatori del diritto
penale del primo Ottocento nel riuscire a creare un consenso generalizzato
delle classi abbienti sulla necessità di una riforma penale non
finalizzata esclusivamente a contenere la criminalità, ma anche
"come via d’uscita alla crisi sociale di un’intera epoca, come
parte di una più ampia strategia di riforme politiche, sociali e legali
intese a rinsaldare, su nuove basi, l’ordine sociale". In questo
senso, le tesi di Ignatieff prendono moderatamente le distanze
dall’ortodossia marxista che ritiene determinante l’aspetto
economico-strutturale dei modi di produzione sugli elementi più
strettamente culturali e sociali, quali sono appunto i movimenti
d’opinione dei riformatori penali.
Un’altra
proposta interpretativa del processo di costruzione del carcerario moderno
è stata elaborata dallo storico-filosofo francese Michel Foucault. Nella
sua opera principale dedicata a questo tema (M. Foucault, 1976), egli si
propone di studiare i cambiamenti avvenuti all’incirca tra il 1750 e il
1820 in Europa e negli Stati Uniti nel settore penalistico, come un
episodio specifico di un mutamento complessivo dei modi di esercizio del
potere nella società. In tale prospettiva, Foucault analizza le
differenze macroscopiche che intercorrono tra la forma di pena tipica
delle società d’ancient régime (o "classica" come viene
chiamata da Foucault), il supplizio, con quella tipica della società
moderna, il carcere. Il supplizio viene ricostruito dall’autore francese
come un rituale che deve svolgersi in pubblico (in contrapposizione ad una
procedura penale che è in gran parte segreta), deve seguire dettagliate
regole e costituisce il momento principale in cui si manifesta il potere
di sovranità dell’assolutismo monarchico. Secondo il pensiero
penalistico dell’epoca, ogni reato rappresenta un attacco diretto alla
persona del Sovrano e, conseguentemente, l’esecuzione pubblica del
supplizio deve manifestare la vendetta violenta di un potere che si
esercita essenzialmente sul corpo del condannato e ha come scopo quello di
incutere il terrore nella popolazione. Si tratta di un rituale "di
guerra", in cui il corpo del condannato svolge il ruolo del nemico
sul quale deve imprimersi la forza schiacciante del potere di sovranità
che deve ristabilire l’ordine "sacro" violato dall’azione
criminale.
Nella
seconda metà del Settecento, i supplizi cominciano ad essere criticati da
più parti. In particolare, i riformatori illuministi (si pensi al celebre
"Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria) invocano pene che
tengano conto dei principi umanitari e della vita del condannato, un
sistema di diritto penale più razionale e certo, limitando il potere
arbitrario del Sovrano. In questa prospettiva, la prigione viene
considerata una forma di pena più umana e capace di soddisfare
l’esigenza di certezza del diritto, in quanto può essere rigorosamente
misurata nella sua afflittività (attraverso la durata del tempo sottratto
alla libertà al condannato). Parallelamente a queste critiche pubbliche
degli studiosi di diritto penale, si sviluppano una molteplicità di
istituzioni "disciplinari" che, secondo Foucault, solo in parte
si inseriscono nella linea dei riformatori. Si tratta di una serie di
modelli segregativi, di cui il carcere rappresenta il modello
paradigmatico ma non unico (si tratta anche dell’ospedale,
dell’opificio, della scuola, della caserma, del convento), che sono
improntati ad una logica, più che punitiva, correzionale. In queste
istituzioni si esercita un "potere disciplinare" che mira ad
addestrare il detenuto, ad esercitarlo a compiti specifici, a regolare la
scansione temporale della sua esistenza di ogni giorno, ad impossessarsi
della sua "anima" come sede delle abitudini quotidiane. Tali
istituzioni si avvalgono anche di particolari tecniche architettoniche (R.
Dubbini, 1986; A. Di Lazzaro, M. Pavarini, 1994) che consentono una
sorveglianza continua del detenuto; Foucault si sofferma in particolare
sul progetto elaborato da Jeremy Bentham nel 1791 chiamato Panopticon,
progetto che attraverso una sapiente composizione delle linee di veduta
consente la segregazione unicellulare del recluso e la sua impossibilità
di venire a conoscenza del momento in cui è sorvegliato, favorendo in tal
modo la costituzione di processi di interiorizzazione delle norme. Queste
due linee di sviluppo della penalità moderna, riformatori illuministi e
istituzioni disciplinari, vengono ben presto a scontrarsi e assistiamo al
progressivo prevalere del potere disciplinare che non si limita ad
elaborare pratiche di intervento sugli individui, ma costituisce anche
nuovi campi del sapere che vengono chiamati da Foucault le "scienze
dell’uomo". Con questa espressione vengono designate quelle
discipline moderne che hanno per oggetto il comportamento dell’uomo e
come obiettivo quello di intervenire sui processi che determinano tale
comportamento. Per quanto riguarda il comportamento criminale, si tratta,
in particolare, della criminologia la quale nasce proprio in epoca moderna
avendo come obiettivo quello di indagare le cause che producono criminalità,
al fine di limitarne gli esiti socialmente pericolosi. Il carcere diventa
il laboratorio principale attraverso cui studiare i fenomeni criminali; in
tal senso, si può affermare, secondo Foucault, che il carcere più che
un’istituzione che pone un freno alla criminalità, "fabbrica"
in senso epistemologico la categoria "scientifica"
dell’individuo criminale, in quanto è all’interno del carcere che
diventa "visibile" il fenomeno criminalità così come inteso
dalla società moderna. In tal modo, Foucault giunge alla definizione
della funzione reale della prigione che non è quella di combattere la
delinquenza, ma di differenziare gli illegalismi presenti nella società.
Di fronte al gran numero delle violazioni della legge penale, il carcere
consente di marchiare come "criminali" solo quelle illegalità
che vengono commesse prevalentemente da particolari gruppi sociali, mentre
altri tipi di illegalità sfuggono a tale processo di stigmatizzazione e
di emarginazione sociale (ad esempio, la c. d. criminalità dei colletti
bianchi). Ciò consente di percepire il problema della criminalità non
come una questione politica e sociale, ma come un tema di difesa
dell’ordine pubblico nei confronti di una ridotta categoria di individui
socialmente pericolosi.
Da
un’analisi dei supplizi parte anche la riflessione di Pieter Spierenburg
(tr. it. parziale, 1997), sociologo olandese che si è ispirato al grande
storico del processo di civilizzazione del mondo occidentale moderno,
Norbert Elias. Proprio partendo dalla ricostruzione storiografica di
Elias, Spierenburg sostiene che il declino delle esecuzioni pubbliche
particolarmente cruente è legato al processo di mutamento della
sensibilità del cittadino europeo. In particolare, i supplizi
presuppongono "una società tollerante nei confronti dell’inflizione
pubblica del dolore e (...) un atteggiamento positivo, o per lo meno
indifferente, rispetto alla sofferenza dei condannati"; una società
come quella esistente in Europa nel XVI e nel XVII secolo, caratterizzata
da un basso livello di sicurezza pubblica e dalla persistenza del codice
d’onore cavalleresco di origine medioevale che concepisce l’uso della
violenza come uno strumento "normale" di regolazione delle
relazioni sociali. Nel corso del Seicento, tuttavia, prende avvio un lento
processo di revisione di questo atteggiamento tollerante nei confronti
della violenza che porterà, nella seconda metà del Settecento, alla
ripugnanza per le pene corporali troppo cruente. Tale processo di
sensibilizzazione ha inizio nell’ambito delle classi superiori della
società, per le quali per un lungo periodo di tempo diventa un vanto
poter esibire la propria delicatezza d’animo e la propria civiltà
rispetto alle classi popolari ancora legate a condizioni di vita
arretrate. È nella società di corte secentesca (tipica quella di
Versailles del "Re Sole" Luigi XIV) che prende vita quel
processo di formazione della "coscienza" dell’individuo
moderno e quella "società delle buone maniere" per la quale
diventerà incivile e barbaro straziare il corpo del condannato come
avveniva nei supplizi d’ancient régime. L’abolizione totale dei
supplizi avverrà compiutamente però solo quando tale sensibilità si sarà
diffusa ad ampi strati di popolazione, vale a dire nel corso
dell’Ottocento (L. Stone, 1981), quando la prigione diventerà la forma
di pena che sottrae allo sguardo del pubblico la sofferenza del
condannato. Ciò non significa che la dimensione della sofferenza sia
scomparsa dall’esecuzione della pena moderna, ma solamente che la pena
consistente nella privazione della libertà sembra essere compatibile con
la nuova sensibilità pubblica relativa alla violenza che lo stato può
legittimamente esercitare verso coloro che hanno trasgredito le sue leggi
più importanti.
Oltre
alle ricostruzioni di ampio raggio maggiormente accreditate appena
presentate, occorre menzionare anche gli studi, peraltro non molto
numerosi, effettuati sul tema specifico dell’evoluzione
dell’istituzione carceraria in Italia (R. Canosa, I. Colonnello, 1984).
Per il periodo preunitario sono stati prodotti lavori che hanno
ricostruito i primi sviluppi del carcere di alcuni degli Stati in cui era
divisa la nostra penisola: la Lombardia sotto il dominio austriaco (A.
Liva, 1990; M. A. Romani, 1983); la Repubblica di Venezia (U. Franzoi,
1966; G. Scarabello, 1979; A. Viario, 1980); Napoli sotto la dominazione
spagnola (G. Alessi Palazzolo, 1977); lo Stato Pontificio (D. Izzo, 1956);
la città di Verona (R. Laschi, 1904).
Venendo
al periodo successivo all’Unità d’Italia le vicende del carcere sono
state ricostruite nei vari passaggi tra il sistema liberale (1860-1925),
l’epoca fascista (1925-1945) e l’avvento della Repubblica democratica.
Al di là dei mutamenti istituzionali, è stata sottolineata una certa
continuità dell’amministrazione carceraria, soprattutto rispetto alla
sua estraneità ai mutamenti politici e culturali della società civile
(G. Neppi Modona, 1973). Tale continuità, tuttavia, sembra venir meno con
la riforma penitenziaria del 1975 che segna un punto di svolta, almeno dal
punto di vista dei principi ispiratori, della legislazione sul
penitenziario (E. Fassone, 1980). Dal punto di vista storiografico, è
stata effettuata anche l’analisi dei flussi e dei livelli di
carcerizzazione per tutto il XX secolo, anche in rapporto agli andamenti
economici del Paese e all’allarme sociale diffuso nell’opinione
pubblica (D. Melossi, 1997). L’analisi più complessiva dei tassi di
carcerazione ha mostrato la tendenziale diminuzione del numero di detenuti
rispetto al totale della popolazione extra-muraria, rapporto numerico che
è passato da circa 200 detenuti per ogni 100 mila abitanti degli anni
1898-99, ai 90 reclusi degli anni 1993-94 (M. Pavarini, 1997). Se questa
è la tendenza sui tempi lunghi, occorre segnalare che i tassi di
carcerazione hanno avuto una notevole impennata a partire dai primi anni
Novanta, se si pensa che per tutti gli anni Settanta il tasso di
carcerazione è rimasto intorno ai 50 detenuti per 100 mila abitanti.
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2.
Percorso sulle teorie della pena
La questione del carcere si può affrontare anche dal punto di vista
delle teorie della pena. Con questa espressione si intendono quelle teorie
che presentano delle argomentazioni riguardanti la giustificazione e lo
scopo della pena. In altri termini, si tratta di teorie che intendono
rispondere alle domande:
a)
se sia legittimo per lo Stato punire, con l’inflizione di sofferenza
legale, l’individuo che ha violato leggi di particolare rilevanza
sociale come dovrebbero essere quelle penali;
a1)
in subordine, per il tema che qui interessa, se la pena detentiva possa
essere ricompresa tra quelle che possono essere giustificate da un punto
di vista del dover essere;
b)
una volta che si sia risposto affermativamente alla domanda a), quale sia
la finalità a cui la pena deve tendere.
Rispetto
alla domanda a) è possibile fare immediatamente una prima distinzione tra
coloro che non ritengono giustificabile il potere punitivo dello Stato
(teorici dell’abolizionismo penale) e coloro, invece, che sono
dell’opinione che questa giustificazione si possa trovare e possa essere
argomentata (teorici del giustificazionismo penale). I teorici
dell’abolizionismo penale si possono, a loro volta, distinguere tra
coloro che non ritengono giustificabile alcun tipo di sanzione penale
comminata dall’istituzione statale (N. Christie, 1985), e coloro che
ritengono in specifico il carcere come una forma di pena non
giustificabile e rispondono quindi negativamente alla domanda a1 (T.
Mathiesen, 1996).
In
Italia lo spazio assegnato al pensiero abolizionista nella cultura
penalistica è stato peraltro assai limitato. L’influenza
dell’abolizionismo penale è giunta soprattutto dalla Scandinavia; non a
caso i due autori abolizionisti tradotti in italiano citati in precedenza
sono uno svedese (Nils Christie) e un norvegese (Thomas Mathiesen). Ciò
non significa, tuttavia, che tale pensiero debba essere svalutato; esso,
infatti, per la sua carica di "necessaria utopia", può svolgere
la funzione di un costante elemento di critica verso i sistemi punitivi
positivi.
Venendo
alle teorie giustificazioniste, esse si possono a loro volta suddividere
in due grandi filoni: le teorie assolute e le teorie relative. Per
illustrare tale distinzione è consueto citare un celebre passo del De Ira
di Seneca che suona: nemo prudens punit, quia peccatum est, sed ne
peccetur (il saggio non punisce perché l’azione commessa costituisca
peccato, ma affinché non si pecchi più in futuro). Seguendo questa
formula latina, "da una parte vi sono le dottrine che giustificano la
pena in base al quia peccatum est, che prendono cioè in considerazione
soltanto il male o fatto delittuoso commesso, e guardano così al passato;
dall’altra, vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al ne
peccetur, che prendono cioè in considerazione il bene, lo scopo che può
derivare dalla pena, e guardano così al futuro" (M. A. Cattaneo,
1990, 56). Le prime si chiameranno teorie assolute, in quanto considerano
la pena come un fine in se stessa, le seconde si chiameranno teorie
relative, in quanto considerano la pena giustificabile in quanto possieda
una finalità socialmente positiva.
Le
teorie assolute vengono anche chiamate retributive, in quanto considerano
la pena la giusta retribuzione del male che il reo ha commesso. Tali
teorie si fondano quindi sul principio che sia giusto e doveroso
retribuire il male con il male. La giustizia è un elemento essenziale
delle teorie assolute, in quanto esse ritengono giustificabile la pena da
un punto di vista morale più che giuridico (A. Amato Mangiameli, 1985).
Tali teorie paiono, infatti, di regola non accettare pienamente la
separazione tra diritto e morale sui cui si fonda la c. d.
secolarizzazione del pensiero giuridico moderno.
Risalendo
alle teorie retributive classiche di Kant e Hegel (AA.VV., 1989), i
retributivisti sostengono, al di là di ogni considerazione pratica sulla
utilità della pena, la doverosità morale della pena per ristabilire
l’ordine che il reato ha violato. Alcune teorie della retribuzione
giungono a parlare di un "diritto alla pena" del condannato, il
quale, se non fosse punito per i reati che ha commesso, perderebbe la sua
dignità di essere umano (F. D’Agostino, 1989). Nell’ambito delle
teorie della retribuzione è molto importante l’aspetto della
proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, in quanto,
nella prospettiva etica, la pena per essere giusta deve essere
adeguatamente proporzionata al male commesso.
L’aspetto
della proporzionalità è quello che rileva maggiormente rispetto al
problema del carcere visto in una prospettiva retribuzionista. Tali
teorie, infatti, essendo interessate più che altro alla giustificazione
della pena in termini di principio, si sono scarsamente occupate delle
concrete modalità di esecuzione della pena. Nella prospettiva di una pena
proporzionale al male commesso, tuttavia, il carcere può essere
considerato astrattamente come una modalità punitiva rigorosamente
quantificabile sia in base alla misura (durata della pena), sia in base al
grado di afflittività (sottrazione della sola libertà di movimento del
condannato). Se peraltro dal piano dei principi si passa al livello delle
concrete prassi dell’esecuzione penale, si presentano notevoli problemi
sotto entrambi le prospettive. Rispetto al tempo, al di là della sua
percezione che può variare da individuo a individuo, esistono casi (ad
esempio, i malati a prognosi infausta o i condannati molto avanti negli
anni) che mettono in discussione il principio egualitario della durata
della pena, proponendo la paradossale domanda "cinque anni di
reclusione comminati ad una persona di trent’anni in perfette condizioni
di salute sono equivalenti a cinque anni di reclusione comminati ad una
persona anziana, o ad una colpita da grave malattia a prognosi
infausta?" (C. Sarzotti, 1996). Molte ricerche sociologiche, inoltre,
hanno dimostrato che in realtà la pena della detenzione va molto al di là
della mera privazione della libertà di movimento, in quanto incide
pesantemente anche sulle condizioni fisiche e sulle relazioni sociali del
condannato (cfr. sociologia della vita carceraria) e colpisce anche
individui, come i familiari del condannato, che non si sono macchiati di
alcun delitto.
Venendo
al filone delle teorie relative, esse si ispirano all’insegnamento dei
pensatori della scuola del diritto naturale moderno (Hobbes, Locke,
Pufendorf) che hanno considerato la pena dal punto di vista dell’utilità
che essa può arrecare al mantenimento dell’ordine sociale (M. A.
Cattaneo, 1974; U. Scarpelli, 1981). Per tale motivo le teorie relative si
chiamano anche utilitaristiche.
Tra
le teorie relative che hanno avuto la maggiore diffusione nella cultura
penalistica occidentale, si collocano le c. d. dottrine della prevenzione,
che si dividono, a loro volta, in quelle della prevenzione generale e
della prevenzione speciale. La stessa denominazione di queste teorie
indica come esse assegnino alla pena lo scopo di prevenire i reati e
guardino, quindi, al futuro. Nel caso delle teorie della prevenzione
generale la finalità della pena è rappresentata dal distogliere la
generalità dei consociati dal commettere delitti, attraverso l’esempio
e/o la minaccia della sanzione; nel caso della prevenzione speciale,
invece, si guarda all’individuo condannato, rispetto al quale la pena
dovrebbe rappresentare un efficace deterrente per impedire che torni a
commettere reati.
Nell’ambito
delle teorie della prevenzione speciale si possono distinguere tre
ulteriori sotto settori che sono accomunati dalle finalità negative e
positive che vengono assegnate alla pena. Le finalità positive sono
quelle che tendono alla trasformazione del comportamento futuro del reo,
le finalità negative quelle che consentono la neutralizzazione e il
contenimento della capacità delinquenziale del condannato. Un primo
filone è quello delle dottrine pedagogiche dell’emenda che, partendo da
una concezione biblica della sofferenza come strumento per espiare i
peccati, considerano la pena come uno strumento di rieducazione e di
recupero morale del condannato. Un secondo indirizzo dottrinario è quello
della scuola positivistica della Nuova Difesa Sociale (M. Ancel, 1966).
Partendo dal presupposto antropologico che il delinquente è un essere
naturalisticamente inferiore, perché portatore di deviazioni genetiche o
di degenerazioni socio-culturali, tale dottrina concepisce la pena come
uno strumento scientifico-terapeutico di difesa sociale, attraverso il
quale favorire l’instaurarsi di una società organica e integrata,
sottoposta al controllo scientifico anziché moralistico dello Stato.
Un’ultimo filone teorico della prevenzione speciale è quello della
differenziazione penale proposta, alla fine del secolo scorso (ma
abbondantemente riprese in tempi più vicini a noi), dalla new penology
americana e dal c.d. Programma di Marburgo da Franz von Liszt (L.
Ferrajoli, 1989, 255). In tale prospettiva, la pena deve differenziarsi
non a seconda del reato, ma seguendo le caratteristiche della persona del
condannato, al fine di raggiungere quelle finalità che sono praticabili
nel singolo caso (ovvero risocializzazione o intimidazione o
neutralizzazione del reo).
Le
teorie della prevenzione speciale sono estremamente interessanti per il
tema del carcere, in quanto convergono tutte su di una concezione del
delitto come patologia (sociale, morale o naturale) e non come libera
scelta dell’individuo che lo ha posto in essere. Conseguentemente il
carcere non viene concepito, come nella prospettiva retributiva, quale
misura giuridica di sanzione dei reati, ma come uno strumento di
trattamento differenziato del condannato (cfr. trattamento carcerario),
attraverso cui giungere alla trasformazione o alla neutralizzazione della
sua personalità e, in particolare, della sua pericolosità sociale. Tale
volontà manipolatoria e correzionalistica della personalità del
condannato si scontra, tuttavia, con una serie di problemi di ordine
pratico e di ordine morale e giuridico. Sotto il profilo pratico, in
quanto pare ormai acclarato dall’esperienza plurisecolare della pratica
carceraria che la pena detentiva non solamente non è in grado di
rieducare o di risocializzare il condannato, ma ha invece effetti
esattamente opposti di emarginazione sociale e di "scuola del
crimine" (cfr. sociologia della vita carceraria). Anche l’effetto
di intimidazione e di contenimento della pericolosità sociale sembrano
alquanto limitati se consideriamo gli alti tassi di recidiva riscontrati
tra i detenuti e la capacità, soprattutto dei criminali più pericolosi,
di continuare a rappresentare un pericolo per la società anche
all’interno degli istituti penitenziari (si pensi ai detenuti che hanno
continuato a dirigere le operazioni della criminalità organizzata durante
la loro reclusione). Sotto il profilo morale e giuridico, concepire il
carcere come uno strumento di manipolazione dell’individuo è
incompatibile con il valore dell’autonomia della persona umana e con il
principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Considerare
il condannato come un soggetto sostanzialmente inferiore, bisognevole di
rieducazione o di riabilitazione, significa lederne la dignità umana,
garantita dal principio della libertà di coscienza dell’individuo.
Voler "costringere ad essere buoni" rappresenta
un’affermazione in sé contraddittoria, in quanto repressione ed
educazione sono difficilmente compatibili.
Tornando
alle dottrine della prevenzione generale, esse sono a loro volta
suddivisibili tra quelle della prevenzione generale positiva tramite
integrazione e quelle della prevenzione generale negativa tramite minaccia
legale. Le prime sono quelle che "assegnano alle pene funzioni di
integrazione sociale tramite il generale rafforzamento della fedeltà allo
Stato nonché la promozione del conformismo delle condotte" (L.
Ferrajoli, 1989, 263). Si tratta di teorie che valorizzano l’efficacia
simbolica della pena nel neutralizzare i fattori irrazionali
dell’indignazione e dell’odio che il reato provoca nella società. In
tale prospettiva, la sanzione penale svolge un ruolo di rassicurazione dei
sentimenti collettivi e di riconferma dei principi di solidarietà sociale
che fondano l’ordinamento delle leggi penali (E. Durkheim, 1997).
Le
dottrine della prevenzione generale negativa sono invece quelle secondo le
quali la pena deve servire a limitare la commissione dei reati nella
generalità dei consociati, o per mezzo della intimidazione provocata
dall’ "esempio" offerto dall’inflizione della condanna, o
tramite l’intimidazione prodotta dalla "minaccia" della pena
contenuta nella legge. Anche queste teorie non sono esenti da critiche, in
particolare da quella kantiana per la quale nessuna persona può essere
trattata come un mezzo per finalità sociali. Nella prospettiva della
prevenzione generale, infatti, potrebbe essere legittimata anche la
condanna dell’innocente, se questa risultasse efficace nel fornire un
esempio o una minaccia funzionali alla intimidazione dei consociati. Per
quanto riguarda il carcere, occorre chiedersi se esso possa essere
considerato un efficace strumento di prevenzione generale dei reati. Tale
domanda è probabilmente negativa per ciò che concerne l’efficacia
"reale" della pena detentiva, in quanto molte ricerche hanno
dimostrato, in molti paesi e in diversi periodi storici, come alti tassi
di carcerazione non abbiano ridotto il livello di criminalità. Dal punto
di vista, invece, della funzione "simbolica" la risposta deve
essere probabilmente più problematica, in quanto il carcere (peraltro
minacciato, più che realmente eseguito) ancora oggi sembra rispondere
soprattutto alle esigenze del sistema politico di rassicurare l’opinione
pubblica rispetto agli attacchi portati alla sicurezza sociale dalla
criminalità.
Tra
le teorie della prevenzione deve essere segnalata, in ultimo, una teoria
che pur inserendosi nel filone delle dottrine utilitaristiche ne capovolge
i presupposti generali. Si tratta della teoria elaborata da Luigi
Ferrajoli, secondo la quale l’utilità della pena non va considerata, ex
parte principis, come quella "della massima utilità possibile da
assicurare alla maggioranza formata dai non devianti (...)", ma, ex
parte populi, quella "che commisura lo scopo [della pena] alla minima
sofferenza necessaria da infliggere alla minoranza formata dai
devianti" (L. Ferrajoli, 1989, 248). In tale prospettiva, la pena non
serve tanto a limitare la commissione di atti criminali, quanto a limitare
la violenza che l’atto criminale introduce nella società, in primo
luogo la reazione irrazionale che le vittime del reato o il pubblico
possono manifestare. Seguendo tale linea argomentativa, anche il carcere
può trovare una circoscritta legittimazione come strumento di
attenuazione della violenza nella società, a patto però che limiti
rigorosamente la propria carica afflittiva, in quanto la sua utilità va
misurata anche e soprattutto rispetto alla minoranza che subisce tale
pena, e sia irrogato solamente per quei gravi delitti che suscitano
effettivamente forte sdegno e riprovazione sociale.
Vediamo
ora quali sia stata l’influenza delle varie teorie della pena nella
cultura penalistica italiana, ricordando che dal punto di vista
strettamente giuridico la nostra Costituzione non ha preso posizione sulla
funzione della pena, essendo prevalsa una concezione multi-funzionale
della sanzione penale (cfr. diritto penitenziario).
I
forti elementi moralistici presenti in tutte le teorie retributive, hanno
prodotto nei loro confronti un accentuato interesse da parte soprattutto
della cultura penalistica di matrice cattolica, la quale peraltro ha
mantenuto un atteggiamento spesso critico verso tali teorie (L. Eusebi,
1987, 1998; E. Wiesnet, 1987). Teorie che, dopo essere state a lungo
ignorate dal pensiero laico dominante negli anni Sessanta e Settanta (V.
Mathieu, 1978), hanno avuto un periodo di netta ripresa sull’onda del
movimento americano del teorico Von Hirsch chiamato del Just Desert (il
giusto merito), anche in seguito al fallimento operativo delle strategie
di politica criminale fondate sui principi della prevenzione penale (L.
Eusebi, 1983; F. Zanuso, 1998). Le teorie della retribuzione hanno, da
parte loro, finito per riconsiderare i loro presupposti metafisici,
avvicinandosi per certi aspetti ad alcune acquisizioni delle teorie della
prevenzione generale, come è avvenuto per delle dottrine del c. d.
expressionism americano, dottrine per le quali la pena svolge
essenzialmente una funzione simbolica di "esprimere" la condanna
sociale della condotta del reo e di ribadire il confine tra comportamenti
leciti ed illeciti (C. Sarzotti, 1996). La stessa distinzione tra
retribuzione e prevenzione si è attenuata, almeno da un punto di teoria
della pena, in autori come Herbert L. Hart che hanno sostenuto la validità
della teoria preventiva rispetto allo scopo generale della pena e la
validità della teoria retributiva sul piano della distribuzione della
pena, ovvero di quei principi retributivi che legittimano l’inflizione
della pena al solo colpevole, vale a dire a chi l’ha meritata, e in
misura proporzionata alla gravità del reato commesso (H. L. Hart, 1981).
Si è giunti sino alla decisa negazione della divisione
prevenzione-retribuzione, in quanto tale contrapposizione sarebbe assurda,
"perché le opposte soluzioni non riguardano la stessa questione.
Quando si sostiene che si punisce per prevenire crimini, con ciò si
risponde alla domanda: qual è lo scopo della legislazione penale? Quando
si dice che si punisce perché il reo è incorso in una colpa
giuridico-morale, con ciò si risponde alla domanda: con quale motivazione
giuridico-morale si infligge la pena?" (A. Ross, 1972, 78-79).
Le
teorie relativistiche della prevenzione penale hanno avuto senza dubbio il
loro massimo periodo di sviluppo nel corso del costituirsi del Welfare
State italiano e ad essa si è ispirata la riforma dell’ordinamento
penitenziario del 1975. In particolare, sono state dibattute le tesi
dell’indirizzo criminologico della Nuova Difesa Sociale (F. Cavalla,
1979), in relazione anche alla sua compatibilità con la tradizionale
dottrina cattolica della sanzione penale (G. Bettiol, 1964). Sull’onda
dei movimenti d’oltreoceano di contestazione delle politiche criminali
fondate sui principi preventivi, anche in Italia le teorie della
prevenzione (soprattutto di quella speciale) sono state poste in
discussione, a partire dai primi anni Ottanta (M. Pavarini, 1983). In
particolare, di fronte al permanere di alti tassi di recidiva e
dell’evidente funzione emarginante del carcere è stato da più parti
posto in dubbio lo scopo rieducativo della pena citato nell’art. 27
della Costituzione, scopo che ha ispirato la riforma penitenziaria e
l’introduzione nel nostro ordinamento dei benefici premiali per i
detenuti (cfr. diritto penitenziario). A queste critiche negative,
peraltro, non sono corrisposte proposte teoriche e culturali che abbiano
tentato di "ridare senso" alla pena del carcere, in una
prospettiva non meramente retributiva o contenitiva.
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3.
Percorso sulla sociologia della vita carceraria
Il processo di consolidamento dell’istituzione carceraria ha reso
possibile anche lo sviluppo di indagini che hanno analizzato, con gli
strumenti della ricerca sociologica e antropologica, la vita della comunità
carceraria. La ricerca in Italia in questo settore ha incontrato
tradizionalmente numerose difficoltà dovute alla "chiusura" del
mondo penitenziario. Tuttavia, soprattutto a partire dagli anni Settanta,
sono state intraprese alcune ricerche che si sono ispirate ad alcune
teorizzazioni provenienti dalla sociologia delle istituzioni. Da questo
punto di vista, vanno segnalati i lavori di Donald Clemmer (tr. it.
parziale, 1997), Gresham Sykes (tr. it. parziale, 1997) ed Erving Goffman
(1968) che hanno certamente contribuito a sviluppare la sociologia della
vita carceraria in Italia con alcune ricerche che seppure risalenti a
periodi non recentissimi (in particolare, le ricerche di Clemmer risalgono
agli Stati Uniti degli anni Trenta, mentre il lavoro più importante di
Sykes è su un carcere di massima sicurezza dello Stato della Virginia
negli anni Cinquanta), hanno elaborato le principali categorie teoriche
con le quali analizzare i risultati della ricerca empirica. È il caso, ad
esempio, del concetto di "prigionizzazione del detenuto" di
Clemmer, con il quale il sociologo americano designa quel "processo
graduale, lento, progressivo nel tempo, ma caratterizzato da fasi alterne
e stadi differenziati e talora irreversibile, che culmina con
l’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con
l’adozione cioè da parte del detenuto dei costumi, della cultura e del
codice d’onore del carcere" (E. Santoro, 1997, 40). Oppure della
nozione di "istituzione totale", entro la quale rientra non solo
il carcere, ma anche altre istituzioni chiuse come l’ospedale
psichiatrico, definita da Goffman come quell’istituzione nella quale
"1. tutte le fasi della vita sono vissute nello stesso luogo e sotto
il controllo di una sola autorità; 2. ogni fase dell’attività
quotidiana si svolge alla presenza immediata di un folto gruppo di persone
che sono trattate nello stesso modo e che devono eseguire tutte assieme le
stesse azioni; 3. tutte le fasi dell’attività quotidiana sono
strettamente programmate: un’attività termina quando ne comincia
un’altra, con l’intera sequenza imposta dall’alto, da un esplicito
sistema formale di regole e da un corpo di funzionari; 4. le varie attività
imposte compongono un singolo piano disegnato per conseguire gli scopi
ufficiali dell’istituzione" (E. Santoro, 1997, 47).
Nella
produzione più recente va segnalata l’analisi del sistema carcerario
americano operata da Nils Christie (1996). Lo studioso scandinavo ha
introdotto anche nel dibattito italiano il tema della privatizzazione
delle carceri, analizzando i mutamenti che tale fenomeno ha provocato nel
regime penitenziario che per primo ha sperimentato questa nuova formula
organizzativa. L’instaurarsi di un vero e proprio sistema del business
penitenziario, rispetto al quale il detenuto diventa il consumatore del
servizio detenzione, lo sviluppo di un settore imprenditoriale che offre
sul mercato prodotti per la sicurezza e per l’amministrazione
carceraria, lo snaturamento del ruolo degli operatori penitenziari che da
pubblici funzionari si trasformano in dipendenti che rispondono al proprio
datore di lavoro privato; si tratta degli elementi principali di un
processo di privatizzazione che, pur essendo oggi limitato ad alcuni Stati
confederali degli Stati Uniti, probabilmente non mancherà di svolgere una
certa influenza anche in Europa nel prossimo futuro (alcuni tentativi di
privatizzazione sono stati sperimentati in Francia). In particolare,
sembra di scorgere in tale processo la tendenza a considerare sempre di più
la prigione come una struttura di mero contenimento delle persone che
hanno commesso reati e che rappresentano un pericolo e un peso economico
per la società. Si tratta di una popolazione carceraria composta da
soggetti emarginati socialmente e culturalmente, di particolari
provenienze etniche (per lo più neri e ispanici), inadatti ad un mercato
del lavoro sempre più flessibile e, quindi, esigente in termini di
capacità di adattamento lavorativo e di assorbimento dello stress da
licenziamento.
Per
quanto riguarda il sistema penitenziario italiano, è difficile affermare
se si stia allineando a questa tendenza. Le ricerche effettuate sulla vita
carceraria nel nostro paese si sono soffermate per lo più su aspetti
specifici dell’universo penitenziario, senza affrontare un’analisi
complessiva dell’istituzione totale. Un altro settore di pubblicazioni
sul carcere ha invece privilegiato la ricostruzione diretta e a-teorica
delle esperienze degli attori del carcerario, ponendosi in una prospettiva
di denuncia culturale e politica piuttosto che in una dimensione più
strettamente di ricerca socio-antropologica.
Rispetto
alle ricerche su temi specifici si possono ricordare le ricerche
effettuate sui temi del lavoro penitenziario, dei detenuti stranieri,
delle recluse negli istituti femminili, della salute in carcere, della
detenzione di persone sieropositive. L’insieme di queste ricerche ha
dimostrato come la concreta realtà istituzionale del carcere non abbia
permesso una soddisfacente tutela di quei diritti dei detenuti che sono
astrattamente enunciati nell’ordinamento penitenziario (D. Zolo, E.
Santoro, 1997) (cfr. diritto penitenziario).
La
riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 ha posto, ad esempio, il
lavoro intramurario ed extramurario come il principale generatore di
diritti e di opportunità di reinserimento sociale per il detenuto. Tale
riforma è rimasta peraltro in gran parte sulla carta per problemi di
carattere burocratico, di restrizione dei fondi ministeriali e di scarsa
sensibilità della società civile. Analizzando in profondità i
meccanismi che conducono alla non garanzia del lavoro per i detenuti si è
potuto constatare, inoltre, una notevole disuguaglianza tra categorie di
detenuti (L. Berzano, 1994). In particolare, è stato possibile
individuare due variabili principali che sembrano incidere pesantemente
sulle possibilità del detenuto di reinserirsi (o inserirsi per la prima
volta) nel mondo del lavoro: le risorse personali del detenuto e
l’accessibilità a risorse della rete sociale in cui egli è inserito. A
seconda se tali risorse possano essere considerate deboli o forti, è
stata elaborata una classificazione delle modalità con le quali il
detenuto vive l’esperienza carceraria. Ad un estremo di tale
classificazione troviamo quei detenuti che vivono il carcere come una
"parentesi" della loro esistenza, parentesi non eccessivamente
traumatica "e tale da non pregiudicare gravemente un futuro
riequilibrio della propria biografia". Si tratta di quella quota di
detenuti che hanno mantenuto rapporti con la famiglia d’origine, che
hanno già esercitato lavori regolari prima della detenzione e che, a
causa della loro giovane età, sono alle loro prime esperienze detentive.
All’altro estremo della scala sociale della popolazione detenuta,
troviamo invece coloro la cui condizione carceraria viene definita come
"terminale dell’esclusione". Si tratta di una categoria di
persone che hanno superato i trent’anni, con alle spalle oltre cinque
carcerazioni, con legami familiari molto precari e che prima della
detenzione non hanno mai lavorato o hanno esercitato solamente occupazioni
saltuarie e irregolari. Tali soggetti hanno molta più difficoltà non
solamente a trovare un lavoro intramurario, ma anche ad accedere alle
misure premiali alternative alla detenzione. Questa situazione innesca un
processo di etichettamento sociale fondato sullo stigma dell’ex detenuto
che pone seri vincoli (per non dire una quasi impossibilità) al processo
di reinserimento sociale. "La gravità dello status di questa (...)
condizione carceraria è nell’essere quasi sempre una "strada senza
ritorno". In essa i tratti prevalenti sono la destrutturazione della
biografia dei detenuti e la loro conseguente sfiducia. Cadono le speranze,
gli obiettivi del passato, anche quelli dei quali già prima del carcere
si rinviava sine die la realizzazione. In questa ultima forma sociale del
carcere convivono drammaticamente tutti gli aspetti dei processi di
emarginazione: la condizione carceraria come sindrome della esclusione
finale" (L. Berzano, 1994, 131).
In
quest’ultima categoria di detenuti sembrano collocarsi la maggioranza
dei detenuti di nazionalità straniera (W. Piroch, M. R. Mielke, A.
D’Ottavi, D. Lucchini, 1992). Si tratta di una quota di popolazione
detenuta che è andata crescendo di dimensione negli ultimi anni (in
Italia dal 10,7% del 1987 al 22,3% del 1997), raggiungendo la massima
concentrazione negli istituti di pena metropolitani dove la percentuale di
detenuti non italiani supera ormai in molti casi il quaranta per cento. La
tutela dei diritti di questi detenuti appare molto problematica; essi
vengono di solito collocati in apposite sezioni divise per nazionalità,
al fine di evitare che si possano consumare in carcere vendette che hanno
la loro radice nelle rivalità esistenti negli ambienti
dell’immigrazione clandestina. I detenuti stranieri con grande difficoltà
riescono ad accedere ai benefici premiali previsti dalla legge anche
quando avrebbero i requisiti per poterli ottenere, non potendo di solito
avvalersi di un’assistenza tecnico-giuridica di qualità. Anche il
regime penitenziario interno, pensato e progettato per detenuti italiani,
presenta numerosi problemi per questi detenuti: dal regime alimentare alla
possibilità di esercitare le pratiche del proprio culto religioso, dalla
comunicazione con il personale di custodia per problemi di lingua alle
condizioni igieniche delle celle, spesso rese insoddisfacenti dal
sovraffollamento e dalla promiscuità di soggetti che provengono da
culture che non conoscono gli standard di civiltà europei.
Un
altro problema che tocca i detenuti stranieri, ma che riguarda tutta la
popolazione reclusa, è quello della tutela della loro salute. La
condizione detentiva di per sé è una fonte di sofferenza che va al di là
della semplice privazione della libertà di movimento. In particolare,
sono stati evidenziati i seguenti problemi di carattere psicologico e
sanitario: 1. l’erosione dell’individualità, il danneggiamento cioè
della capacità individuale di pensare e agire in modo autonomo; 2. la
deculturazione, ossia la perdita dei valori e della attitudini che il
soggetto aveva prima dell’ingresso in carcere; 3. danni fisici e
psicologici che affliggono l’individuo durante il periodo della sua
permanenza in carcere; 4. l’isolamento, la carenza cioè di interazione
sociale con il mondo esterno e con gli altri individui chiusi in carcere;
5. la privazione degli stimoli, con adattamento alla povertà
dell’ambiente fisico che circonda l’individuo ed al ritmo monotono e
lento della vita istituzionale; 6. l’estraniamento, ovvero l’incapacità
di adeguarsi alle novità dell’ambiente esterno (tecnologiche, sociali,
etc.) una volta conclusa l’esperienza del carcere (F. Ceraudo, 1988).
Uno dei medici penitenziari francesi di maggior esperienza nel settore, ha
analizzato i principali danni alla salute che la detenzione comporta (D.
Gonin, 1994): danni visivi dovuti alla protratta impossibilità di
accedere a prospettive di sguardo in campo lungo (l’orizzonte del
detenuto è sempre limitato da mura), danni all’apparato digerente e
dentario, nonché notevole incidenza di patologie dermatologoche, dovute
ad una alimentazione spesso troppo monotona e alla condizione di continuo
stress che la detenzione comporta, compromissione del sistema respiratorio
a causa della lunga permanenza in locali spesso angusti e con
insufficiente aerazione, disturbi del sonno dovuti all’impossibilità di
godere di regolari periodi di quiete notturna. A questo tipo di patologie
causate da fattori esterni al detenuto, si devono aggiungere inoltre
quelle provocate dalla tendenza, più o meno inconscia, del recluso stesso
ad autopunirsi, infliggendosi delle torture che possono arrivare, nei casi
estremi, al suicidio.
Legata
ai danni di carattere sanitario provocati dalla detenzione, esiste inoltre
la questione della sessualità dei reclusi. Da tale punto di vista, è
noto come il desiderio sessuale e la mancanza di una compagnia di sesso
opposto sia uno degli aspetti più dolorosi della detenzione e che
contribuiscono maggiormente a destrutturare la personalità del
prigioniero. In Italia, diversamente da molti paesi europei, non sono
state introdotte misure, quali ad esempio le c. d. visite coniugali, atte
ad alleviare tale tipo di sofferenza. Questo ha comportato il persistere
di pratiche omosessuali all’interno degli istituti che rappresentano un
problema soprattutto per la diffusione del virus HIV.
Il
tema dell’AIDS in carcere è stato uno dei temi più studiati
nell’ambito della sociologia della vita carceraria in Italia non solo
per la sua indubbia drammaticità, ma anche per le contraddizioni del
nostro sistema penitenziario che il fenomeno AIDS ha contribuito a far
emergere (A. R. Favretto, C. Sarzotti, 1999). I primi casi di detenuti
sieropositivi vennero scoperti in Italia nella seconda metà degli anni
Ottanta, suscitando una reazione di panico e di terrore, soprattutto
nell’ambito del personale di custodia. A questa prima fase di reazione,
che favorì l’espulsione indiscriminata dei detenuti sieropositivi dal
circuito penitenziario con l’emanazione della legge 222 del 1993 (cfr.
diritto penitenziario), ha fatto seguito una elaborazione più articolata
da parte dell’amministrazione penitenziaria dei problemi della
sieropositività in carcere, con la costituzione in molti istituti di
sezioni apposite per reclusi colpiti dall’HIV (P. Buffa, C. Sarzotti,
1998). I problemi che questo tipo di detenuti introducono nella vita
detentiva sono innumerevoli e hanno contribuito a sottolineare le carenze
organizzative degli istituti di pena. Tutti i servizi che il carcere offre
ai propri "utenti" sono stati messi a dura prova dalla presenza
di reclusi sieropositivi: da quello sanitario (cure adeguate ed
aggiornate) a quello igienico-alimentare (pulizia delle celle e
alimentazione differenziata), da quello assistenziale-psicologico
(sostegno psico-terapeutico alle persone che scoprono di essere
sieropositive in carcere) a quello trattamentale-risocializzante
(costruzione di rapporti con le agenzie esterne che sappiano garantire
percorsi di reinserimento per i detenuti rilasciati). La questione della
prevenzione della diffusione dell’AIDS ha posto all’ordine del giorno,
inoltre, due fenomeni sommersi e spesso negati dall’istituzione: i
rapporti sessuali e il consumo di sostanze stupefacenti per via iniettiva
all’interno degli istituti. La semplice proibizione di questi
comportamenti con i divieti del regolamento penitenziario non li ha certo
fatti venir meno nella realtà degli istituti (B. Magliona, C. Sarzotti,
1996). L’immagine del detenuto sieropositivo ha, inoltre, fatto emergere
gli elementi contraddittori della cultura carceraria degli operatori
penitenziari della custodia e del settore trattamentale (C. Sarzotti,
1999). In particolare, la figura del detenuto sieropositivo, metà malato
e metà criminale, ha evidenziato le differenze tra un "codice
paterno" della custodia che considera la pena come uno strumento di
retribuzione del reato e che si muove seguendo la logica militare della
sicurezza della detenzione, e un "codice materno" del
trattamento che vede l’operatore (assistente sociale, psicologo,
educatore etc.) collocarsi ambiguamente "dalla parte" del
recluso per poter intraprendere un percorso d’aiuto che molte volte non
è rispettoso della sua autonomia e della sua libertà di scelta. Del
resto, uno degli elementi più studiati dei rapporti tra detenuto e
operatore carcerario è quello dell’ambiguità di un’istituzione che,
da un lato, deve imporre la propria autorità con gli strumenti
dell’ordine e della sicurezza e, dall’altra, deve cercare di operare
un cambiamento interiore del condannato attraverso la sua collaborazione e
modalità d’approccio "amichevoli" (G. Mosconi, 1998).
Un
altro aspetto indagato della condizione carceraria è quello delle donne
recluse (G. Parca, 1973; E. Campelli, T. Pitch, F. Faccioli, V. Giordano,
1992; N. Policek, 1992). Si può parlare di una condizione particolare, in
quanto le donne sono ospitate in istituti appositi e sono tradizionalmente
in numero molto inferiore alla popolazione reclusa di sesso maschile
(circa il 5%) e quindi non si presentano problemi di sovraffollamento.
Questa situazione di "privilegio" rispetto alle condizioni
detentive è, peraltro, aggravata dalla posizione delle recluse madri che
possono tenere con sé i figli solamente sino all’età di tre anni (art.
18 del regolamento penitenziario).
Passando
al secondo filone di ricerche prodotte in chiave in senso lato sociologica
sulle condizioni di vita carceraria, esso possono a loro volta essere
suddivise in due grandi tipi: le memorie dei carcerati e la denuncia
ideologica delle aberrazioni dell’istituzione carceraria.
Il
primo tipo di pubblicazioni ha precedenti illustri, si pensi a "Le
mie prigioni" di Silvio Pellico e ai "Quaderni dal carcere"
di Antonio Gramsci, e scaturisce per lo più dall’esperienza carceraria
di qualche personaggio delle classi sociali colte che per qualche
vicissitudine abbia dovuto trascorrere un periodo della propria vita in
detenzione. Esemplari recenti di questo tipo di scritti sono quelli di
Adriano Sofri (1993) e Vittorio Cusani.
Il
secondo filone, invece, ha preso avvio in Italia a partire dagli anni
Settanta, sull’onda della protesta politica di denuncia della società
capitalistica. Tale filone ha prodotto sia delle vere e proprie ricerche
sui vari aspetti del mondo carcerario (A. Ricci, G. Salierno, 1971) e
sulla funzione più complessiva del carcere nella società (D. Melossi,
1988; G. Mosconi, 1982), sia saggi più propriamente ideologici di
ricostruzione dei processi culturali e repressivi che hanno portato il
carcere ad assumere un ruolo centrale rispetto al controllo sociale della
società disciplinare (E. Gallo, V. Ruggiero, 1989; AA.VV, 1980; M. Perrot,
1980).
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4.
Percorso sul diritto penitenziario
L’esecuzione della sanzione penale è stata interessata, negli
ultimi decenni e in tutti i paesi occidentali, da quel processo giuridico
evolutivo che suole chiamarsi di giurisdizionalizzazione. Con questa
espressione si vuole intendere quella tendenza a controllare in misura
sempre maggiore con strumenti giuridici, e in particolare attraverso
l’operato di apposite categorie di giudici, le modalità con le quali
viene eseguita la pena. Si tratta di una tendenza relativamente recente,
in quanto tali modalità sono state, dall’avvento della modernità,
tradizionale appannaggio del potere esecutivo (B. Magliona, C. Sarzotti,
1993). Un maggior controllo giuridico sulle modalità di esecuzione della
sanzione penale ha significato in primo luogo una maggiore attenzione ai
diritti dei detenuti, in quanto il carcere si è rivelato, da un lato, la
pena più utilizzata e, dall’altro, la forma sanzionatoria che ha dato
luogo in maggior misura a prevaricazioni, discriminazioni e abusi nei
confronti delle persone recluse. Fenomeni che sono stati favoriti senza
dubbio dal carattere separato e autoritario dell’istituzione carcere,
carattere che ha spesso ostacolato la trasparenza e il controllo
dell’opinione pubblica sulle attività che si svolgono all’interno
della società intramuraria.
Il
processo attraverso il quale il diritto, come strumento dello stato
democratico, ha cercato di regolare le modalità di esecuzione della pena
detentiva si è avvalso, oltre che delle norme di diritto penitenziario
interne ai vari Stati nazionali, anche della produzione normativa di
organismi internazionali che hanno emanato direttive e raccomandazioni. In
particolare, tali organismi si sono occupati della questione dei diritti
umani delle persone recluse, avendo come punto di riferimento ideale la
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del
1948. Nell’ambito dei diritti umani sono stati fatti rientrare una serie
molto ampia di diritti che sono stati evidenziati da istituzioni
internazionali e, in particolare, dal Consiglio d’Europa che, sin dal
1987, ha emanato le "Regole penitenziarie europee", attraverso
le quali sono state stabilite le regole minime per il trattamento umano
dei detenuti (P. Comucci, A. Presutti, 1989; M. Pastore, 1996). Il
Consiglio non si è limitato ad enunciare dei principi generali, ma ha
anche verificato attraverso delle ispezioni in diversi paesi europei il
rispetto (molto spesso non) effettivo di tali principi (A. Cassese, 1299).
Accanto
agli strumenti giuridici esistenti nel diritto internazionale sui diritti
umani dei detenuti, esistono le norme emanate dai singoli ordinamenti
penitenziari nazionali. In questa sede ci concentreremo sull’ordinamento
italiano che ha come suo fondamento giuridico essenziale il riferimento
normativo dell’art. 27, terzo comma della nostra Carta Costituzionale
che così recita: "le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato". Pur non prendendo posizione netta per alcuna delle
diverse funzioni che sono state attribuite alla sanzione penale,
l’assemblea Costituente decise tuttavia di fare un esplicito richiamo
alla funzione rieducativa anche allo scopo di segnare maggiormente la
distanza dal precedente ordinamento fascista che aveva concepito la pena
in termini di pura retribuzione e difesa sociale (G. Micali, 1991). Questa
prevalenza della funzione rieducativa e risocializzante della pena è
stata in seguito ribadita anche dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale che, pur oscillando nel corso degli anni, ha comunque
sempre ribadito che tali funzioni sono preminenti rispetto agli elementi
di difesa sociale e di prevenzione che fanno correre "il rischio di
strumentalizzare l’individuo a fini generali di politica criminale
(prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni
collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il
singolo all’esemplarità della sanzione" (E. Gallo, 1994).
Muovendo
dal dettato costituzionale, peraltro a lungo disatteso, la cultura
penalistica italiana cominciò nel corso degli anni Sessanta a reclamare
un adeguamento dell’ordinamento penitenziario rimasto ancorato alla
situazione normativa prerepubblicana. Una maggiore sensibilità ai fattori
sociali, economici e culturali che stanno spesso alla base dei fenomeni di
criminalità e la diffusione nel sistema politico, sia nei partiti di
governo che d’opposizione, di un’ideologia solidaristica che vedeva
nel criminale più che un soggetto da cui difendersi una persona da
reintegrare nella società, favorirono l’emanazione della riforma
dell’ordinamento penitenziario con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (G.
Neppi Modona, 1977).
Nella
prospettiva della riforma, la pena perde la sua principale valenza di
repressione dei reati, ma si fa carico della "responsabilità
collettiva" che ha portato l’individuo a violare la legge penale e
deve testimoniare dell’impegno positivo che lo Stato deve mettere in
atto per il suo reinserimento sociale. L’esigenza
"dell’addolcimento" delle pene era, inoltre, dovuta alla
permanenza in vigore di un codice penale come quello Rocco del 1932 che
non era stato possibile riformare e che presentava indubbie durezze
sanzionatorie. La riforma del 1975 è dunque ispirata al principio
dell’osservazione scientifica della personalità e delle caratteristiche
socio-culturali del detenuto e dalla conseguente individualizzazione del
trattamento carcerario. In altri termini, il legislatore del 1975 ha
ritenuto che ogni condannato debba essere attentamente seguito nel suo
percorso riabilitativo e che per esso debba essere approntato un personale
programma risocializzativo che concepisca la pena come uno strumento
positivo di rieducazione (F. Bricola, 1977; V. Grevi, 1988 e 1994).
Al
di là degli strumenti d’intervento non strettamente giuridici previsti
dalla riforma del 1975 che verranno trattati in seguito (cfr. trattamento
carcerario), occorre brevemente ricordare quali siano le misure introdotte
da tale riforma e in particolare le c.d. pene alternative al carcere.
Partendo, infatti, dal presupposto che il carcere è un’istituzione
avente inevitabilmente effetti negativi sulla personalità e sui legami
sociali del condannato e deve pertanto rappresentare l’extrema ratio
della sanzione penale, il legislatore ha ritenuto utile prevedere delle
pene alternative alla detenzione, nel senso che si possono scontare al di
fuori degli istituti di pena (T. Padovani, 1981; E. Dolcini, C. E. Paliero,
1988). In altri termini, si è ritenuto che per una serie di reati di
minore gravità e sulla base di un giudizio di non pericolosità sociale
del condannato, sia possibile che determinate pene non siano scontate in
carcere.
Tali
pene alternative al carcere sono le seguenti:
-
L’affidamento
in prova al servizio sociale e l’affidamento in casi particolari,
viene concesso al fine di favorire il reinserimento sociale dei
condannati attraverso l’assistenza e il controllo dei Centri di
Servizio Sociale per Adulti, organismi creati ad hoc per la gestione
dei percorsi di reinserimento. Il presupposto di questa misura è che
si tratti di condannati che non presentano pericolosità sociale e per
i quali i rischi di recidiva siano molto bassi. Oltre a tale requisito
occorre anche che il condannato mostri disponibilità e idoneità alla
misura alternativa attraverso un consenso non espresso solamente in
termini formali. Nel corso del periodo di prova il condannato è
scarcerato, ma deve sottoporsi a precisi obblighi, prescrizioni e
divieti che riguardano i suoi spostamenti sul territorio, il lavoro
svolto, le frequentazioni sociali etc. La misura può essere revocata
qualora tali prescrizioni non siano rispettate. L’affidamento in
casi particolari è rivolto, invece, specificamente ai condannati
tossicodipendenti o alcoldipendenti. È applicabile qualora il
condannato, al momento dell’esecuzione della pena, si stia
sottoponendo ad un trattamento terapeutico di riabilitazione o quando
egli dichiari la sua volontà di sottoporsi a tale trattamento. In
tali casi, il Tribunale di Sorveglianza concorda con il soggetto che
ha in cura il condannato (Ser.T. o comunità terapeutica privata) un
programma terapeutico che dovrà essere rispettato per evitare la
revoca della misura. Il presupposto del provvedimento in questo caso
non è la mancata pericolosità sociale del soggetto, in quanto si
ritiene che tale pericolosità sia strettamente legata al suo stato di
tossicodipendenza. Peraltro l’affidamento non può essere concesso
per più di due volte, al fine di evitare una strumentalizzazione
della misura da parte di persone tossicodipendenti che non possiedano
una sincera volontà di curarsi.
La
semilibertà è un istituto che ha come finalità quella di favorire il
reinserimento sociale del condannato, attraverso una graduale riduzione
della pena. In tale prospettiva, la misura consiste nella liberazione
del condannato durante il giorno al fine di svolgere "attività
lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale".
Il condannato deve dunque rientrare in carcere per trascorrervi la notte
e nel corso della giornata deve seguire le prescrizioni che il Tribunale
di Sorveglianza stabilisce: rispettare gli orari di lavoro, frequentare
solo determinate persone, non abbandonare la propria dimora, etc. La
semilibertà è di regola concedibile solo dopo aver scontato metà
della pena, in seguito alla verifica che il percorso di reinserimento
stia dando esito positivo. Si tratta quindi di uno strumento per
accelerare tale percorso, attraverso una gradualità delle forme
detentive che possa anche riabituare il detenuto allo stato di libertà.
La
detenzione domiciliare (introdotta non dalla riforma del 1975, ma dalla
successiva legge 10 ottobre 1986, n. 663, c. d. "legge Gozzini")
consiste in una pena detentiva da eseguirsi però al di fuori
dell’istituzione carceraria. L’individuo condannato deve, infatti,
risiedere "nella propria abitazione o in altro luogo di privata
dimora, ovvero in luogo pubblico di cura e di assistenza". Di
regola, essa può essere concessa solo ad alcuni soggetti che vengono
considerati "deboli" ed ha quindi finalità prettamente
umanitarie: donna incinta o che ha con sé figli inferiori ai tre anni,
malati gravi che hanno bisogno di costanti contatti con i presidi
sanitari territoriali, ultrasessantacinquenni inabili anche
parzialmente, giovani inferiori ai 21 anni per comprovate esigenze di
studio, di lavoro, di salute, di famiglia.
La
libertà anticipata ha una finalità a carattere premiale di riduzione
della pena detentiva. Il legislatore ha concesso a chiunque stia
scontando una pena detentiva, dando "prova di partecipazione
all’opera di rieducazione", di ottenere la riduzione della pena
di 45 giorni per ogni semestre di detenzione effettivamente eseguita. La
partecipazione al progetto rieducativo è stata interpretata dalla
prassi giudiziaria come la permanenza della buona condotta del detenuto
nella vita carceraria, desumibile dal non essere stato oggetto di
rapporti disciplinari e dall’aver partecipato alle attività
intramurarie. Tale prassi ha reso funzionale l’istituto della libertà
anticipata soprattutto rispetto ai fini di un maggior controllo degli
stabilimenti di pena.
Esistono
inoltre altre misure alternative alla detenzione, quali i permessi premio,
le licenze e il lavoro all’esterno, che hanno la finalità di evitare il
totale isolamento del condannato dalla vita sociale provocato dal carcere,
favorendo in tal modo il suo graduale reinserimento nel mondo della
famiglia e del lavoro.
Le
misure alternative al carcere sono state introdotte come istituti che
avevano come presupposto un periodo di detenzione nel quale il condannato
doveva essere osservato per elaborare una prognosi di pericolosità
sociale. Tale presupposto è stato, tuttavia, progressivamente abbandonato
e oggi alle misure alternative si può accedere anche prima di essere
entrati in carcere, in quanto si è ritenuto che l’esperienza detentiva,
per alcune categorie di condannati, sia comunque da evitare per i suoi
connotati di stigmatizzazione sociale e di esposizione al contatto con la
criminalità professionale (cfr. sociologia della vita carceraria).
Ma
quali sono gli organi che sono chiamati ad applicare questo insieme di
normative? La riforma del 1975 ha istituito una serie di organi a cui è
stata assegnata la competenza a concedere i benefici premiali, a
sorvegliare l’andamento della vita degli istituti di pena e gestire i
percorsi sanzionatori al di fuori del circuito carcerario. Oltre al Centro
Servizio Sociale per Adulti che, come si è detto, ha il compito di
presiedere al controllo dell’effettuazione delle misure alternative,
hanno particolare importanza due organi giurisdizionali: il Magistrato di
Sorveglianza e il Tribunale di Sorveglianza.
Il
primo è un giudice monocratico che possiede i seguenti compiti: vigilare
sugli istituti di pena in modo da controllare che la pena detentiva venga
attuata in conformità alla legge, provvedere ai reclami presentati dai
detenuti, concedere permessi e licenze, approvare il programma di
trattamento individuale e le proposte di ammissione al lavoro esterno. Il
Tribunale di Sorveglianza, invece, è organo collegiale composto da due
magistrati di sorveglianza e da due giudici non togati esperti di
psicologia, criminologia, pedagogia, medicina, etc. Le sue competenze
riguardano la concessione e la revoca di tutte le misure alternative di
cui si è detto (affidamento in prova, semilibertà, detenzione
domiciliare, liberazione anticipata), nonché la funzione d’organo
d’appello per i ricorsi contro i provvedimenti dei giudici di
sorveglianza.
Lo
spirito fortemente riformatore che aveva caratterizzato la produzione
normativa della seconda metà degli anni Settanta sino all’emanazione
della Legge Gozzini nel 1986, ha dovuto scontrarsi, tuttavia, con la dura
realtà istituzionale del carcere e dei fattori sociali criminogeni e con
il periodico susseguirsi delle emergenze criminali del nostro Paese
(terrorismo e criminalità organizzata). Sotto il primo profilo, la
funzione rieducativa della pena carceraria ha dovuto, da un lato, fare i
conti con la scarsità delle risorse umane e finanziarie previste per il
trattamento risocializzante e, dall’altro, con la limitata capacità
strutturale di tale trattamento di incidere sui fattori di carattere
sociale ed economico che portano gli individui a delinquere. In tal modo,
è cresciuta nell’opinione pubblica e nella cultura penalistica la
sfiducia nei confronti della capacità risocializzativa della pena e si è
invocato da più parti il ritorno ad un carcere repressivo e/o meramente
contenitivo di soggetti socialmente pericolosi (A. Margara, 1993). Anche
l’atteggiamento del legislatore è sembrato perdere lo slancio utopico
della riforma e rifugiarsi in un uso "cinico" del diritto
penitenziario, o come mezzo per limitare il problema sempre incombente del
sovraffollamento degli istituti di pena, o come strumento per evitare le
"rivolte dei detenuti" così numerose nella storia del nostro
Paese prima dell’introduzione dei benefici premiali subordinati alla
buona condotta in carcere (B. Guazzaloca, M. Pavarini, 1995).
Sotto
il secondo profilo, invece, si è assistito, soprattutto a partire dagli
anni 1991-1993, all’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi
che hanno escluso dall’accesso alle misure alternative una particolare
categoria di condannati per reati di criminalità organizzata e politica,
per i quali opera una sorta di presunzione di impossibilità al recupero
sociale fondata sul tipo di reato che hanno commesso (B. Guazzaloca, 1992;
A. Presutti, 1994). In contrasto con queste norme particolarmente
restrittive, si è andata sviluppando la tendenza ad emanare norme di
diritto penitenziario ad hoc per singole categorie di condannati per i
quali, invece, l’accesso ai benefici premiali è molto facilitato. Si
tratta, oltre che della normativa già ricordata per i tossicodipendenti e
gli alcoldipendenti, delle normative riguardanti ad esempio i soggetti
colpiti dal virus HIV (B. Magliona, C. Sarzotti, 1993) e i c. d.
collaboratori di giustizia. Tali opposte e molteplici esigenze di politica
criminale hanno provocato una situazione di grave disagio nell’opinione
pubblica e negli addetti ai lavori, diffondendo la sensazione di una
"mancanza di senso" della sanzione penale. Da un lato, infatti,
la pena sembra perdere i suoi connotati di certezza e di determinatezza,
in quanto influiscono sulla sua esecuzione elementi disparati che non
hanno più alcun riferimento alla gravità del reato commesso (condizioni
di salute, predisposizione a collaborare con le autorità inquirenti,
stato di tossicodipendenza, contiguità sociale con la criminalità
organizzata etc.). Dall’altro, la pena del carcere in specifico sembra
diventare un elemento liberamente negoziabile in fase esecutiva senza più
alcun rapporto alla sua funzione preventiva, ma in una logica
utilitaristica dello scambio tra Stato e detenuto che esclude
esplicitamente ogni riferimento alla dimensione risocializzativa (N.
Amato, 1990).
Da
ultimo è intervenuta nella materia del diritto penitenziario la legge 27
maggio 1998, n. 165, c. d. "legge Simeone-Saraceni" che ha in
certo qual modo confermato tali tendenze (F. Della Casa, C. E. Paliero, M.
G. Grazioso, 1999). Tale normativa ha ancora una volta mostrato la volontà
del legislatore di affrontare il problema della costante progressione
della popolazione detenuta attraverso misure che consentano al condannato,
là dove possibile, di evitare l’incarcerazione sin dal momento della
sentenza di condanna. A tale scopo, si è affrontato il problema dello
scarso accesso alle misure alternative da parte di quei soggetti
economicamente deboli che, non potendo fruire di un’assistenza giuridica
adeguata, non riescono ad evitare il carcere anche quando ne avrebbero
diritto. Tutte le misure alternative, infatti, sono concesse solamente su
richiesta del condannato e non d’ufficio. Per ovviare a tale
inconveniente, il legislatore ha introdotto, per le pene inferiori ai tre
anni di reclusione (quattro per i tossicodipendenti), l’obbligo per
l’autorità giudiziaria di avvertire il condannato che deve essere
eseguita contro di lui una sentenza di condanna detentiva, specificando
che egli può, entro 30 giorni, presentare istanza al Tribunale di
Sorveglianza per accedere alle misure alternative. Nel corso di questo
periodo, l’esecuzione della sentenza è sospesa. Si tratta di una
normativa che, pur essendo largamente condivisibile nei suoi intenti
generali di maggiore equità sociale nella concessione delle misure
alternative, ha presentato dei notevoli punti deboli dal punto di vista
applicativo. In particolare, l’attuazione della legge è in gran parte
affidata ai Tribunali di Sorveglianza per i quali non è stato introdotto
alcun aumento degli organici, incrementando in tal modo dei carichi di
lavoro che erano già in precedenza assai elevati. Il pericolo da
scongiurare è che, da un lato, la magistratura di sorveglianza non riesca
a smaltire le nuove richieste e che quindi il diritto alle misure
alternative rimanga "sulla carta". Dall’altro, tale
magistratura non sembra possedere le risorse umane e di tempo per poter
vagliare attentamente e con le dovute informazioni le istanze dei
condannati, in modo tale che il procedimento di esecuzione sembra
diventare sempre più burocratico e incerto, legato com’è alle
interpretazioni della legge, a volte anche molto distanti fra loro,
fornite dai diversi tribunali di sorveglianza (G. Mosconi, M. Pavarini,
1993).
Inoltre,
per l’ennesima volta, il nostro legislatore si è mosso in una logica
settoriale e legata all’emergenza del momento, tralasciando di
affrontare la questione della pena in termini più generali. In
particolare, si è mancato di compiere una scelta precisa verso l’ormai
da molti auspicata riforma del codice penale e verso quello che viene
chiamato il processo penale bifasico. Processo che dovrebbe fondarsi
sull’ampliamento per il giudice del dibattimento della possibilità di
irrogare in sentenza condanne di natura diversa dalla semplice detenzione,
quali i lavori socialmente utili, la semilibertà, la condanna al
risarcimento della vittima, etc., lasciando alla magistratura di
sorveglianza un margine di minore discrezionalità sulle modalità di
esecuzione della pena. Tale cambiamento strutturale del sistema penale sarà
possibile, tuttavia, solamente con il definitivo superamento
dell’attuale codice penale (sul quale ha recentemente fornito un parere
autorevole la c.d. commissione Grosso) e con una precisa scelta di
politica criminale che veda sempre di più il carcere solamente come una
(e neppure la principale) delle possibili forme di sanzione penale, da
riservarsi a quei crimini di particolare rilevanza sociale per i quali la
detenzione appaia ancor oggi la modalità meno brutale di reazione della
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5.
Percorso sul trattamento carcerario
Il progressivo sviluppo del carcere come forma principale di
esecuzione delle pene registratosi a partire dall’Ottocento si è
accompagnato alla crescita di un apparato statale costituito da funzionari
professionali (i c. d. operatori penitenziari) che hanno il compito di
amministrare gli istituti di pena con una elevata autonomia gestionale. Si
assiste in tal modo ad un fenomeno di burocratizzazione e di
razionalizzazione dell’esecuzione penale, in quanto lo stato diventa il
gestore monopolistico anche di questo settore del sistema penale che in
passato era stato, in molte realtà istituzionali, lasciato ai privati (cfr.
storia della prigione). Vengono costituiti "(a)pparati amministrativi
sempre più organizzati entro l’ambito di un territorio, sotto la guida
di funzionari dotati di una preparazione tecnica e retribuiti per le loro
competenze professionali – direttori delle carceri, guardiani, ufficiali
medici, assistenti sociali, probation officers e, più tardi, criminologi,
psichiatri e psicologi -, ciascuno con un proprio percorso di carriera,
una propria competenza, ideologia e propri interessi" (D. Garland,
1999, 223). La costituzione di tali apparati è legata al fatto che il
carcere non è più concepito, come in epoca premoderna, un semplice luogo
di detenzione in cui contenere individui in attesa di giudizio o
politicamente pericolosi, ma viene considerato un sistema attraverso il
quale intervenire sulla personalità e sullo stile di vita dei condannati,
per qualche tipo di finalità educativa, preventiva, risocializzativa,
etc. Si potrà parlare in senso compiuto "di sistema penitenziario
(...) soltanto da quando la complessità dei fini che la privazione della
libertà vuole raggiungere (...) postula una organizzazione non
rudimentale e una complessità di interventi regolati da quella che fu
denominata fin dalla metà dell’800 "scienza
penitenziaria"" (L. Daga, 1990, 754). Nasce in tal modo il
cosiddetto "carcere trattamentale".
I
primi modelli di carcere trattamentale sono di origine statunitense, in
quanto oltreoceano vennero sperimentati e realizzate per la prima volta,
nella seconda metà del Settecento, alcune idee di fondo che si sono in
seguito condensate nel progetto panottico dell’inglese Jeremy Bentham (cfr.
storia della prigione). Tali modelli sono caratterizzati in una
prima fase dalla detenzione monocellulare, in quanto si ispirano
direttamente al modello della cella monastica. Lo stesso termine
penitenziario, infatti, mostra la sua derivazione religiosa, che fa
riferimento al concetto di isolamento come penitenza e come strumento di
espiazione dei peccati in auge nella prigione monastica medioevale. Tali
ispirazione religiosa di estrazione cattolica, che aveva avuto in Europa
qualche limitata realizzazione come il carcere di San Michele a Roma
inaugurato agli inizi del Settecento, trovò nel protestantesimo dei
quaccheri americani un potente fattore di sviluppo e di spinta alla
realizzazione di esperienze concrete di istituti carcerari. Prendendo le
mosse dal concetto di carcere come medicina spirituale, nel 1774 venne
inaugurato il penitenziario di Walnut Street nello stato della
Pennsylvania, massimo esempio del c. d. modello trattamentale filadelfiano.
Tale modello era fondato sul principio dell’isolamento assoluto dei
detenuti e sul lavoro quotidiano. La solitudine della cella e del lavoro
durante la giornata doveva servire, da un lato, a correggere
"l’anima del criminale" attraverso un isolamento che favorisse
l’affievolirsi delle passioni che avevano portato al reato e il
raccoglimento spirituale. Dall’altro, l’isolamento consentiva il
superamento delle deplorevoli condizioni di promiscuità in cui erano
ospitati i detenuti nelle carceri settecentesche, favorendo in tal modo
un’efficace azione di contrasto al diffondersi del "contagio della
pestilenza delinquenziale", delinquenza che veniva concepita come un
fenomeno quasi fisico di patologia sociale. Il sistema filadelfiano,
tuttavia, presentò immediatamente dei notevoli problemi per la sua
concreta attuazione dovuti sia ad un regime detentivo eccessivamente
rigido (molti detenuti non reggevano psicologicamente al prolungato
isolamento), sia ai costi economici estremamente elevati, essendo
difficile disporre di una quantità di edifici penitenziari in grado di
ospitare la popolazione detenuta in regime monocellulare.
Dal
tentativo di superare questi inconvenienti di carattere pratico nacque il
secondo modello carcerario americano che si diffuse ben presto in tutto il
mondo, il modello auburniano. Si tratta di un modello che, pur non
stravolgendo il modello filadelfiano, ha cercato pragmaticamente di
introdurre delle correzioni al regime di rigido isolamento. Il carattere
pragmatico del modello è dovuto al fatto che non venne elaborato
teoricamente, ma fu la risultante di una serie di compromessi pratici
nella gestione del carcere di Auburn, inaugurato nello Stato di New York
nel 1818, da parte del direttore Elam Lynds. Le principali correzioni
introdotte rispetto al sistema filadelfiano erano: l’isolamento solo
notturno dei detenuti che durante il giorno potevano lavorare in spazi
comuni, pur dovendo rispettare la regola del silenzio; una maggior
attenzione agli aspetti produttivi del lavoro dei reclusi, per consentire
anche una maggiore economicità della gestione del penitenziario (anche se
il carcere non diventò mai una vera e propria fabbrica in grado di
vendere i propri prodotti sul mercato); una rigorosa separazione tra le
diverse categorie di detenuti: "gli scellerati induriti dal crimine
rimanevano nell’isolamento ininterrotto, i recuperabili venivano isolati
all’inizio della pena e poi ammessi al lavoro in comune, i meno
criminali e depravati avevano facoltà di lavorare da subito, con
separazione di notte e comunità durante il giorno" (L. Daga, 1990,
757).
I
modelli americani ebbero una rapida diffusione in tutta Europa, anche se
nell’analizzare i sistemi penitenziari occorre sempre distinguere
nettamente i principi teorici ispiratori, da ciò che sono le concrete
pratiche carcerarie. Sotto questo secondo profilo, infatti, i principi
teorici di stampo americano nascondevano una realtà della vita carceraria
negli istituti molto più brutale e disorganizzata. Limitandoci alle linee
evolutive del carcere trattamentale in Italia, si può affermare che alla
metà dell’Ottocento la situazione sia molto articolata. Il modello
auburniano, ad esempio, era stato adottato dalla riforma penitenziaria
piemontese, mentre in Toscana il regolamento degli stabilimenti penali del
1853 aveva preferito il modello filadelfiano. Con l’unità nazionale,
venne istituita una apposita commissione che avanzò numerose proposte di
riforma del sistema penitenziario al fine di una sua maggiore uniformità
sul territorio della penisola, che peraltro non vennero attuate
soprattutto per ragioni economiche. In tal modo, alla fine
dell’Ottocento in Italia erano presenti pressochè tutti i vari sistemi
di esecuzione della pena detentiva. In particolare, esistevano i bagni
penali, in cui i reclusi erano costretti ai lavori forzati, legati con
catene e vestiti in casacca rossa da galeotti; l’ergastolo di Volterra e
le case di forza con segregazione cellulare; le case di reclusione per le
pene di oltre un anno; le prigioni correzionali; le case di relegazione
per i delitti passionali e meno gravi; le colonie penali di Pianosa,
Gorgona e Capraia in cui si trovavano anche i soggetti al domicilio coatto
nelle isole; pii istituti dipendenti dall’amministrazione penitenziaria
per minorenni considerati dalla legge abbandonati, vagabondi, senza
avvenire.
Parallelamente
a questa diversità di situazioni carcerarie dovuta non tanto ad un
progetto di intervento mirato sulla popolazione reclusa, ma alla
sopravvivenza dei vecchi istituti e regimi di pena elaborati dagli Stati
preunitari, si sviluppano, a partire ancora una volta dal mondo
anglosassone, nuovi principi trattamentali. Tali principi erano scaturiti
dalla constatazione del fallimento dei modelli monocellulari e dalla
necessità di rendere flessibile la pena in base al comportamento del
detenuto in carcere. In particolare, in Irlanda, il capo
dell’amministrazione penitenziaria Lord Crofton, nominato nel 1854,
cominciò a sperimentare un nuovo tipo di trattamento differenziato
fondato sulla rigida divisione degli istituti a seconda del livello di
sicurezza richiesto. La popolazione reclusa, in questo modo, veniva
classificata attraverso una suddivisione in cinque categorie, basata sul
comportamento tenuto in carcere dal detenuto rispetto al lavoro, alla
disciplina e al profitto scolastico.
Il
principio della differenziazione trattamentale si estese ben presto in
tutta Europa e il congresso penitenziario internazionale tenutosi a Roma
nel 1885 sancì la necessità dei sistemi carcerari di tener conto della
"distinzione da fare tra alcune categorie di detenuti, e
conseguentemente tra gli stabilimenti in cui essi saranno assegnati".
Tali categorie erano quelle dei condannati e dei giudicabili, dei giovani
e degli adulti, dei condannati a pene brevi e a pene lunghe. Ad ognuna di
queste categorie di condannati dovevano essere approntati dei regimi
carcerari specifici, con specifiche forme di trattamento idonee alla
trasformazione dei soggetti reclusi, trasformazione che ormai non si
considerava più possibile ottenere con il solo ausilio della funzione
emendativa della privazione della libertà.
La
tendenza alla differenziazione trattamentale è sorretta, alla fine
dell’Ottocento e all’inizio del nostro secolo, dall’egemonia
culturale del pensiero positivistico e della Scuola Positiva (i cui
massimi esponenti sono italiani, Cesare Lombroso ed Enrico Ferri) che
considera la criminalità come una manifestazione di patologia
individuale, da curarsi con appositi trattamenti di carattere medicale (E.
Somma, 1986). Di qui il collegamento tra status di recluso e status di
malato e l’influenza del modello curativo-ospedaliero sulla struttura
del carcere. In tale prospettiva, la segregazione cellulare deve lasciare
il posto a precisi strumenti di osservazione e di classificazione della
personalità del condannato e a interventi mirati che consentano di
guarire il delinquente dalla sua malattia, la delinquenza. Il carcere
diventa luogo di osservazione scientifica e laboratorio sperimentale per
l’elaborazione di tecniche di manipolazione del comportamento umano. Si
tratta in buona misura di una illusione scientista, improntata ad un
determinismo ingenuo, che non otterrà risultati pratici di rilievo, ma
che contribuisce a modificare il sistema penitenziario, introducendo la
nozione di pena indeterminata attraverso le c. d. misure di sicurezza. Il
nostro codice penale del 1930, infatti, introduce il principio del
"doppio binario" che prevede, oltre alla pena, la comminazione,
ad alcuni tipi di condannato, delle misure di sicurezza che non sono
determinate nel tempo dalla gravità del reato commesso, ma dalla prognosi
di pericolosità sociale che deve essere periodicamente verificata dal
giudice. Il nostro regolamento carcerario del 1931 prevedeva, inoltre, il
passaggio da un istituto di pena all’altro, in base alla classificazione
dei detenuti ottenuta attraverso l’osservazione scientifica del loro
comportamento in detenzione.
Col
secondo dopoguerra e la caduta dei regimi totalitari che avevano
insanguinato l’Europa, il tema della riforma dei sistemi penitenziari
torna all’ordine del giorno. La produzione normativa di numerosi
organismi internazionali (cfr. diritto penitenziario) pone al centro
dell’attenzione il tema dei diritti umani dei detenuti che erano stati
negati da molti sistemi penitenziari sia col mantenimento di regimi
detentivi afflittivi e meramente contenitivi, sia con le tecniche di
manipolazione degli individui che avevano avuto come esito estremo le
aberranti pratiche concentrazionarie dei lager nazisti. Si tende quindi al
miglioramento delle condizioni carcerarie e ad una progressiva riduzione
della pena carceraria, a favore delle c. d. misure alternative alla
detenzione. Il fine che si ritiene preferibile è quello che mira al
reinserimento del recluso e negli anni Sessanta e Settanta molti
ordinamenti penitenziari europei istituiscono un vero e proprio diritto
alla rieducazione del detenuto. La prospettiva della rieducazione e del
reinserimento sociale, per un verso, mantiene valido il tema della
differenziazione della pena carceraria, ma, per altro verso, contesta ogni
strumento trattamentale che consideri il condannato nel ruolo passivo di
malato. Ciò che viene ritenuto necessario, infatti, per garantire
l’efficacia delle strategie di risocializzazione e rieducazione è il
consenso del detenuto, la sua partecipazione attiva e responsabile al
programma trattamentale. Come garantire, tuttavia, che tale consenso sia
sincero ed effettivo? Gli strumenti di cui i sistemi penitenziari europei
si sono dotati per agevolare il consenso alla risocializzazione, infatti,
ruotano intorno al tema della flessibilità della pena. Introducendo i c.
d. benefici premiali (cfr. diritto penitenziario), gli ordinamenti
penitenziari sono andati a costituire quel processo relazionale che è
stato definito "sinallagma carcerario" e che consiste in uno
scambio tra disponibilità da parte del detenuto ad accettare il percorso
trattamentale e concessione di misure premiali alternative alla
detenzione. Il pericolo che si cela al di sotto di questo scambio,
tuttavia, è che il consenso espresso dal recluso sia fittizio, imposto
esclusivamente dall’assoluto desiderio di ritornare in libertà, con
conseguente abbandono del percorso risocializzativo appena ne sia data
concreta possibilità. Non a caso i risultati di maggior rilievo ottenuti
da queste strategie di politica carceraria hanno riguardato la vita
intramuraria, dove si è assistito ad un notevole abbassamento della
tensione interna tra custode e custoditi e alla quasi totale scomparsa
delle rivolte carcerarie.
Oltre
a questa contraddizione di fondo e a carenze dei sistemi penitenziari,
quali il sovraffollamento degli istituti e le scarsità di risorse
impiegate per il trattamento di cui si è già trattato (cfr. diritto
penitenziario), occorre ricordare altri due nodi problematici che hanno
reso difficile l’attuazione delle politiche di reinserimento: le
strutture architettoniche carcerarie e la qualità professionale degli
operatori penitenziari. Sotto il primo profilo, rimanendo alla situazione
italiana, gli istituti di pena si sono rivelati inadeguati alle nuove
politiche di risocializzazione (S. Lenci, 1976). A prescindere dalle
condizioni di perenne sovraffollamento che snaturano la funzione degli
spazi in chiave puramente contenitiva, ci si è trovati a dover fare i
conti, o con antichi edifici nati con scopi diversi dalla detenzione e
riadattati alla meglio, oppure con una nuova generazione di istituti,
costruiti negli anni Ottanta in seguito all’emergenza terrorismo, sul
modello delle carceri di massima sicurezza e quindi pensati come strutture
che devono garantire in primo luogo l’impossibilità di evadere.
Sotto
il secondo profilo, si è registrato una sensibile carenza nella
predisposizione degli operatori penitenziari ad adeguarsi alla cultura del
trattamento, soprattutto per quanto riguarda il settore che si occupa
della custodia dei detenuti (agenti di polizia penitenziaria). Da questo
punto di vista, si è assistito ad un conflitto sommerso tra questa
categoria di operatori penitenziari e gli operatori del trattamentale,
ovvero quelle figure professionali che hanno il compito di predisporre i
programmi individuali di trattamento per i detenuti (assistenti sociali,
educatori, criminologi, psicologi, medici penitenziari) (R. Breda, 1995).
In questo conflitto tra il "codice paterno" e il "codice
materno" degli operatori del carcere si sono rivelate le
contraddizioni e le arretratezze del nostro sistema penitenziario (C.
Sarzotti, 1999). Da un lato, gli operatori della custodia, pur avendo,
secondo la legge, anche compiti di collaborazione al percorso
trattamentale, concepiscono ancora in buona misura il carcere come mero
luogo di contenimento dei reclusi e spesso non hanno la preparazione
professionale per partecipare attivamente a tale percorso. Dall’altro,
gli operatori del trattamentale nutrono una profonda diffidenza nei
confronti dei loro colleghi del custodiale e si rivelano spesso
impossibilitati, per carenze professionali e di organizzazione interna, a
collaborare in rete con gli operatori sociali che lavorano all’esterno
del carcere (operatori dei Ser.T. e dei servizi sociali comunali,
volontari etc.), impedendo in tal modo quell’apertura del carcere alla
società civile ritenuta da più parti condizione necessaria per efficaci
strategie di reinserimento sociale.
L’insieme
di tali difficoltà di diversa natura ha condotto alla progressiva crisi
dell’ideologia del trattamento nel corso degli anni Ottanta e Novanta.
Tassi di recidiva in costante crescita, fenomeni come quelli del
progressivo aumento in carcere di una popolazione detenuta proveniente da
enclaves di radicata emarginazione sociale [disoccupati, senza fissa
dimora, stranieri non integrati (H. Tulkens, 1982)], e di persone per cui
il carcere non costituisce che il termine finale di un disagio sociale
manifestatosi con la tossicodipendenza (D. Malfatti, 1995) o con la
sieropositività (P. Buffa, 1996), hanno condotto a ripensare ai termini
(ridotti) in cui è possibile parlare oggi di trattamento penitenziario.
Le
linee di tale ripensamento sono state sostanzialmente di due tipi. Una
prima tendenza ha contestato radicalmente la nozione di trattamento
negando che il sistema penitenziario abbia come "obiettivo lo
stabilire una diagnosi ed un trattamento per individui che presentino
sintomi di devianza sociale (criminali), ma invece semplicemente quello di
far passare il messaggio secondo il quale alcuni atti non sono
autorizzati" (L. Daga, 1990, 772). Al carcere rimarrebbe quindi la
funzione, per un verso, simbolica di ribadire la disapprovazione sociale
degli atti criminali, e per altro verso, materiale di contenere
fisicamente individui socialmente pericolosi. È questa la linea che, per
certi aspetti, sembra prevalere negli Stati Uniti.
Una
seconda tendenza, prevalente nei paesi europei, partendo dalla
constatazione (tutt’altro che scontata secondo il pensiero abolizionista
(cfr. teorie della pena) della ostinata impossibilità delle nostre società
di poter fare a meno del carcere, rovescia "la prospettiva, dalla
necessità di giustificare l’utilità della pena privativa della libertà,
(...) alla doverosità (per governi che vogliono tener conto dei diritti
fondamentali della persona umana) di limitare la dannosità della
privazione della libertà" (L. Daga, 1990). Partendo dal presupposto
che il carcere sia un male necessario (e che conseguentemente debba essere
utilizzato dal legislatore con grande parsimonia), si ritiene che debbano
essere limitati il più possibile i "danni collaterali"
provocate dalle detenzioni, soprattutto di lunga durata. Le attività
trattamentali, in tale prospettiva, vanno intese come strumenti che
contrastano i danni della prigionizzazione (cfr. sociologia della vita
carceraria) e che possono aumentare le chances di risocializzazione del
detenuto solamente in via eventuale. Per contrastare gli effetti negativi
della detenzione si auspica innanzitutto la progressiva apertura del
carcere alla società esterna sia attraverso una maggiore collaborazione
con le istituzioni e le realtà socio-culturali ed economiche
extra-murarie, sia attraverso l’adozione di metodi di conduzione della
vita interna al carcere che si ispirino a modelli comunitari che
responsabilizzino e coinvolgano attivamente il detenuto. Le stesse regole
della comunità dei detenuti all’interno del carcere possono essere
utilizzate in questa prospettiva; ad esempio, per favorire scelte più
responsabili per prevenire la diffusione del contagio da HIV (S. Ronconi,
1996).
Si
negano, in tal modo, due principi tradizionali dell’ideologia
trattamentale: quello della separatezza del carcerario dalla società
civile e quello della rigida differenziazione tra categorie di detenuti
che ha come conseguenza la gerarchizzazione dell’organizzazione
carceraria. L’individuo recluso diventa un soggetto adulto a tutti gli
effetti, rispetto al quale non occorre intervenire come su un oggetto
passivo (modello medicale tradizionale); egli non "va
reinserito", ma aiutato a riacquistare la capacità di utilizzare
delle risorse relazionali della sua rete sociale extra-muraria (c. d.
tecniche di empowerment sociale). Oggi il trattamento carcerario, quindi,
non dovrebbe consistere nell’applicazione di un programma per modificare
il comportamento del recluso quando egli sarà liberato, ma nell’offerta
di opportunità di reinserimento sociale che si inseriscono in un progetto
di vita necessariamente non determinabile dall’operatore. La stessa
autogestione da parte dei detenuti di determinate attività intramurarie
(lavori di pulizia e di manutenzione delle celle, organizzazione di
attività sportive e culturali, etc.) può essere considerata, in tale
prospettiva, funzionale ad evitare quei processi di spersonalizzazione e
di abulia relazionale che si manifestano dopo lunghi periodi di
detenzione.
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