Polizia e società multiculturale

La formazione della Polizia per la società multiculturale

di Marina Pirazzi

Scopo ed organizzazione del documento

 

A conclusione del progetto NAPAP - La formazione della polizia per l'agire nelle società multiculturali, si vuole presentare al Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno, in particolare alla Direzione Generale degli Istituti d'Istruzione, e ai Comandi delle Polizie Municipali di Bologna e Modena, un documento che, inquadrando l'esperienza nel contesto europeo ed italiano nei quali essa si è realizzata, ha lo scopo di richiamare l'attenzione su alcune considerazioni ed illustrare uno dei possibili percorsi da mettere in atto per attrezzare la Polizia di Stato e le Polizie Municipali ad offrire un servizio professionalmente valido ed equo, nel contesto della società multiculturale italiana.  

Il progetto europeo NAPAP (NGOs and Police Against Prejudice) nasce come un progetto promosso e coordinato dalle ONG (Organizzazioni Non Governative) e dalle associazioni di cittadini di etnia minoritaria, in partenariato con le Polizie e le autorità locali e con un contributo della Commissione Europea, affinché nella formazione delle forze dell'ordine siano introdotti i cittadini di etnia minoritaria e le loro associazioni, in vista della preparazione degli operatori di polizia ad offrire un servizio equo e professionalmente valido nell'odierna società multiculturale.  NAPAP raccoglie 11 progetti partner in 9 Paesi; il progetto italiano è stato realizzato in cooperazione con il Ministero dell'Interno Direzione Generale degli Istituiti d'Istruzione, i Comuni di Bologna e Modena, il Forum dei cittadini non comunitari della Provincia di Bologna, la Regione Emilia-Romagna. Ha avuto una durata di due anni (novembre 1997 ottobre 1999), nel corso dei quali sono stati formati 90 operatori della Polizia di Stato e 57 operatori delle Polizie Municipali di Bologna e Modena.  

Il documento non intende affrontare i numerosi e diversi aspetti che il passaggio dall'erogazione di un servizio di polizia per una società monoculturale all'erogazione di un servizio di polizia per una società multiculturale implica: esso si sofferma sulla componente di formazione, includendovi anche i gruppi di contatto con cittadini di etnie minoritarie, a partire dall'esperienza maturata nell'ambito del progetto NAPAP.  

I primi due capitoli tracciano un breve profilo del contesto italiano ed europeo nel quale è maturata l'esigenza di dare vita al progetto NAPAP. Il terzo capitolo entra nel merito del progetto descrivendo il corso negli aspetti del contenuto e metodologici. Infine, il quarto capitolo, dopo avere disegnato i possibili quadri di riferimento teorico-concettuali, suggerisce alcuni quesiti ai quali sarà necessario rispondere se si vorrà adeguare la formazione di base degli operatori di polizia (e l'aggiornamento per coloro che già sono in servizio) alla società multiculturale nella quale viviamo. 

Quanto scritto nei capitoli che seguono si completa necessariamente, per un esaustiva trattazione dell'esperienza NAPAP, con il rapporto di fine progetto del coordinatore italiano, le riflessioni del valutatore nazionale, la relazione della coordinatrice delle attività didattiche. Inoltre, per meglio comprendere l'esperienza complessiva nel suo contesto europeo, sono utili la lettura dell'ESOAR (European State of the Art Report) redatto dal coordinatore e dal valutatore transnazionali. 

2. Il contesto europeo della lotta alle discriminazioni su base razziale o etnica

Sono numerosi i richiami e le iniziative che le varie istituzioni comunitarie hanno lanciato negli ultimi 15 anni sul tema della discriminazione razziale e della xenofobia: a partire dalle Risoluzioni del Consiglio d'Europa (1985), dalle Commissioni d'Inchiesta su razzismo e xenofobia nominate dal Parlamento europeo (1985, 90, 93), dalle indagini dell'Eurobarometro  (1988/89 e 1997) per arrivare all'Anno europeo contro il razzismo (1997) e alla costituzione dell'Osservatorio Europeo. 

Il Trattato di Amsterdam, sottoscritto dai Pesi membri nel 1997, con l'Art.131 fa della non discriminazione uno dei principi fondamentali dell'UE e, seppure con alcune limitazioni significative, apre la via allo sviluppo di un'azione comune per prevenire e combattere il razzismo e la xenofobia su scala europea. In particolare, l'Art.29 stimola i Paesi membri a sviluppare un'azione comune per prevenire razzismo e xenofobia.

Nel 1998 è stato creato l'Osservatorio Europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia, con sede a Vienna. Gli scopi dell'Osservatorio sono di raccogliere ed analizzare dati e informazioni per impostare un sistema di monitoraggio e di prevenzione, aumentare la consapevolezza del pubblico e sviluppare strategie di lotta al razzismo. E' creato come corpo indipendente dell'Unione, nel cui consiglio d'amministrazione sono rappresentati gli stati membri, la Commissione Europea, il Parlamento Europeo e il Consiglio d'Europa. Una delle prime attività dell'Osservatorio è stata la creazione di RAXEN il network europeo d'informazione su razzismo e xenofobia: servirà per raccogliere, elaborare e valutare informazioni e dati provenienti da tutte le organizzazioni ed istituzioni coinvolte ed interessate.

Una ricerca condotta per conto della Commissione Europea nel 1997 ha messo in evidenza che il razzismo in Europa è cresciuto, se si paragonano i dati di questa ricerca con quella realizzata nel 1988. Oggi un europeo su tre si dichiara nettamente o molto razzista. In questo quadro allarmante l'Italia, anche se non si colloca ai primi posti nell'esternazione di sentimenti di razzismo, non fa eccezione:  30% degli intervistati dichiara di essere molto o piuttosto razzista , mentre 35% si definisce un poco razzista e l'assimilazione è vista spesso come l'unica possibile via offerta agli immigrati per inserirsi nella società di accoglienza (anche 25% delle risposte nell'intera Unione Europea vanno in questa direzione). I risultati mettono in luce la complessità del fenomeno: sono molte infatti le persone interrogate che credono fermamente alla democrazia e al rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali e sociali. Una vita insoddisfacente, la paura della disoccupazione, la mancanza di fiducia negli uomini politici e nelle autorità pubbliche: l'indagine dimostra che esiste un legame tra questi sentimenti e gli atteggiamenti negativi verso gli immigrati e i gruppi etnici minoritari. 

Eppure l'84% degli intervistati ha chiesto un rafforzamento nelle azioni di lotta contro il razzismo da parte delle istituzioni europee. Poiché la lotta al razzismo non può limitarsi alla sua condanna morale  o ad un dibattito tra razzisti ed antirazzisti, l'Unione Europea, a partire dal 1997, ha sostenuto, soprattutto attraverso la Direzione Generale V, svariate iniziative che, promosse e gestite da ONG, associazioni o istituzioni, hanno collegato Paesi e città della Comunità Europea, nel comune obiettivo di individuare efficaci pratiche di lotta contro la discriminazione ed il razzismo.

 

2.1 LEuropa multietnica e le forze di polizia

 

E vero che l'Europa è sempre stata multietnica, esistono infatti in diversi Paesi delle stabili minoranze etniche (come, per esempio, ebrei e zingari) alcune delle quali spesso rivendicano una base territoriale. E però altrettanto vero che è stato nel periodo postbellico che l'Europa ha conosciuto un'importante ondata migratoria di lavoratori e delle loro famiglie, non solo dal Sud dell'Europa e dal Mediterraneo ma anche dalle ex colonie. Più di recente, l'arrivo di rifugiati da molti e diversi Paesi ha ulteriormente ampliato questa diversità. In particolare, sin dagli anni '70, con la recessione economica, il razzismo e la xenofobia contro queste minoranze sono diventati sempre più evidenti. 

In questa mutata situazione le istituzioni, e in particolare la polizia, hanno importanti responsabilità. In primo luogo, quando intervengono atti di natura razzista o xenofoba che contravvengono la legge, é responsabilità della polizia trattare questi casi per prevenirli e dare protezione alle vittime e alle loro comunità. In secondo luogo, la polizia, come ogni altra istituzione pubblica, deve garantire che il modo in cui tratta i membri delle comunità immigrate e di etnia minoritaria sia equo e rispettoso dei diritti umani e si ponga allo stesso livello del servizio fornito a tutti i segmenti della società. 

In tutti i Paesi, secondo le loro leggi e costituzioni e in accordo con i numerosi trattati internazionali, le forze di polizia sono tenute a trattare con equità le persone di qualunque provenienza etnica, nel quadro dunque dell'osservanza della legge. Eppure, in molti Paesi le comunità di etnia minoritaria sentono di non essere sempre protette o trattate in modo giusto e con il rispetto dovuto. Benché non sia a nostra conoscenza l'esistenza di ricerche sistematiche su questi temi, è però vero che sono numerosissimi i racconti di casi dove si lamenta il comportamento inappropriato della polizia (parolacce, molestie, violenza, insensibilità a certi elementi culturali, sottovalutazione della reale portata del fenomeno della discriminazione, ecc.) e ciò avviene nei più diversi Paesi, anche di consolidata pratica democratica.

A ciò si deve aggiungere che, anche quando come si diceva si tratta di Paesi democratici, la legge stessa può discriminare ponendo le etnie minoritarie  in una posizione di non uguali rispetto alla polizia. Poiché queste comunità sono colpite dalle restrizioni relative all'immigrazione, alla cittadinanza, alla residenza e allo stile di vita, e poiché la polizia è responsabile dell'applicazione della legge, allora è evidente che questa é percepita dalle comunità di etnia minoritaria come un'agenzia che deve esercitare il controllo su di loro, piuttosto che un'agenzia il cui compito è di proteggere e rispondere ai bisogni di ogni diverso settore della società. Ciò diventa ancor più grave perché la polizia è vista spesso come la manifestazione più vicina e immediata dello Stato, ossia il volto che lo Stato decide di mostrare verso i cittadini: un primo approccio negativo con la polizia può portare ad un pregiudizio verso l'intero ruolo dello Stato.

Molte delle preoccupazioni dei cittadini di etnia minoritaria nascono dalla percezione di essere vittime di un eccesso di attenzione da parte della polizia che tende ad occuparsi di un tipo di crimine commesso soprattutto da membri di quelle comunità, che é più incline a considerarli colpevoli e può usare il proprio potere in modo più duro contro di loro. D'altro canto, esistono anche le preoccupazioni di non essere sufficientemente tutelati da parte delle forze di polizia: la polizia sarebbe in questo caso meno propensa a tutelare i cittadini di etnia minoritaria quando questi sono vittime di crimini, in particolare di incidenti seri con uso di violenza che hanno un gravissimo impatto sulla vita di queste persone e sulle loro possibilità di inserimento nelle nostre società.

Dunque, le forze di polizia in Europa si trovano a fare fronte ad una società che diventa sempre più diversa nella sua composizione etnica e dove razzismo, nazionalismo e xenofobia sono sempre più diffusi. La formazione, accompagnata da innovazioni nella struttura e nell'organizzazione, è uno dei mezzi attraverso i quali le organizzazioni di polizia possono essere assistite a riconoscere e a rispondere in modo appropriato alla diversità etnica e ad apprezzare il loro ruolo nel combattere gli ostacoli all'integrazione, nel rispetto della democrazia e dei diritti umani. 

Il Consiglio d'Europa commissionò una ricerca nel 1991 i cui elementi fondamentali sono riportati in Police training concerning migrants and ethnic relations. Scopo della ricerca era di  stabilire in quale misura i diversi stati membri fornivano formazione su questi temi e di identificare esempi di pratiche positive. L'indagine mise in luce notevoli differenze nelle pratiche adottate dai vari stati: si andava dalla non trattazione del tema, a percorsi di formazione stabilmente inseriti nei programmi educativi a livello nazionale. In ogni caso, in numerosi Paesi, il tempo e la quantità di formazione apparivano molto limitati e, spesso, la formazione era fornita  solo nei corsi di base o ad operatori specializzati. All'epoca della ricerca, otto Paesi avevano programmi di formazione specificatamente legati al tema dei migranti e delle etnie minoritarie ma solo due di questi, la Gran Bretagna e l'Olanda, avevano sviluppato piani per assicurare che questi temi fossero trattati nella formazione di tutti gli operatori di polizia ed erano inoltre state create squadre speciali per fornire supporto e consigli specializzati. Da allora molte cose sono cambiate e numerosi altri Paesi hanno aumentato e migliorato il proprio impegno nella formazione su questi temi, come ad esempio, Danimarca e Spagna.

 

2.2 La situazione in Italia

 

L'Italia, benché abbia conosciuto episodi dolorosi di razzismo anche violento, non ha dovuto affrontare i grandi scontri che altri Paesi, anche europei, hanno vissuto (basti pensare alla rivolta di Brixton, a Londra, nel 1981).  

Tuttavia, la situazione generale, come dimostrano alcune ricerche cui si accenna nei paragrafi successivi e come provano le testimonianze di molte vittime di episodi di discriminazione su base razziale, é tale da destare più di una preoccupazione. 

Inoltre, la Polizia è ancora vista come una forza per intervenire sull'immigrazione illegale e per la prevenzione e la repressione della delinquenza, piuttosto che una forza per la protezione dei diritti dei cittadini e dei lavoratori immigrati. La Polizia stessa non ha ancora fatto passi significativi e di sostanziale cambiamento, in senso strategico, organizzativo e strutturale, per adeguarsi alla presenza di cittadini appartenenti a minoranze visibili e, soprattutto, così come gran parte delle altre istituzioni, stenta a riconoscere i cittadini di etnia minoritaria come vittime di discriminazione, sia essa istituzionale o individuale, intenzionale o no.

Anche da parte delle ONG che lavorano nel campo della difesa degli immigrati e dei loro diritti, e tanto più tra le associazioni dei cittadini di etnia minoritaria, persiste una posizione di sfiducia, quando non di aperta sfida, nei confronti di un'istituzione dalla quale sentono di doversi spesso difendere mentre vorrebbero riceverne protezione. Se, dunque, si ritiene che per le forze di polizia  sia giunto il momento, improrogabile, di introdurre cambiamenti nel proprio modo di operare nei confronti dei cittadini di etnia minoritaria, é però altrettanto vero che deve esserci da parte delle ONG e delle associazioni di difesa dei diritti umani un cambiamento importante, che porti a considerare la polizia come autore di possibili azioni protettive e preventive di conflitti interculturali e dunque come un alleato nella lotta contro le discriminazioni, le violenze e i soprusi su base razziale ed etnica. E questa la strada intrapresa da COSPE con il progetto NAPAP.

 

2.2.1 La sicurezza

 

La sicurezza nelle nostre città e il senso d'insicurezza dei loro abitanti è attualmente una delle più serie fonti di preoccupazione per le forze di polizia, oltre che per le amministrazioni locali e i cittadini stessi. 

Una ricerca del CENSIS mostra che, nonostante la diminuzione dei reati del 2,4% fra il 1990 e il 1997 e una lieve inversione della tendenza nei due anni seguenti, il 34% degli italiani è convinto che la propria zona di residenza sia diventata più pericolosa negli ultimi anni e ben il 66,4% pensa che in Italia i reati siano aumentati. Come recita il rapporto CENSIS:

Molti italiani scelgono la via della difesa personale, adottando comportamenti spontanei di prevenzione: il 72% di norma è guardingo con gli sconosciuti; il 68% evita di uscire da solo la notte; il 40,6% evita di attraversare a piedi determinate zone e quartieri; il 45,3% ha installato una porta blindata; il 38,3% un antifurto sull'automobile. Ma gli italiani si spingono anche verso forme esasperate di autotutela organizzata: ben il 31,7% si dice favorevole alla costituzione di ronde da parte di privati cittadini, vista l'insufficiente presenza delle forze dell'ordine.  

Nell'aprile del 1998 erano solo 1 milione e 42 mila gli immigrati presenti in Italia provenienti da Paesi in via di sviluppo e dal centro Europa, di questi il 22,6% era in condizioni di irregolarità e i dati dimostrano non esservi alcuna relazione significativa fra numerosità di immigrati in una certa zona e la percentuale di irregolari presenti nella stessa. Continua il rapporto del CENSIS:

Nella graduatoria provinciale sono 15 le province, tutte del Centro-Nord, in cui ad elevati livelli di benessere si associano migliori opportunità di lavoro, più alti tassi di criminalità e una grande concentrazione di cittadini extracomunitari (3,3% rispetto all1,8% della media paese), regolari e non, quindi le condizioni ideali per delinquere: eppure la percentuale d'immigrati denunciati, indagati o segnalati sul totale degli immigrati (4,5%) è sostanzialmente identica a quella rilevata nelle altre province con diverse caratteristiche  (4,7%) e quella della media in Italia (4,3%). Ma resta troppo facile vedere nel diverso un pericolo: nella percezione collettiva quello dell'immigrazione è il quarto problema nazionale (26,6%), dopo la disoccupazione (63,9%), la mafia (44,7%) e la droga (26,8%); e il 48,3% degli italiani ritiene che una futura convivenza multietnica nel nostro Paese sarebbe una fonte di conflitto sociale.

 

2.2.2 Atteggiamenti e comportamenti razzisti

 

Un'altra interessante ricerca è stata condotta dal progetto Città sicure della Regione Emilia-Romagna nel 1998.

Essa ci avverte dell'esistenza di alcune condizioni culturali di fondo predisposte (e perciò fondate su pregiudizi) a declinare in senso razzista e xenofobo il rapporto conflittuale con limmigrato.

Dalla ricerca emerge la presenza di un diffuso sentimento di ostilità/paura degli emiliano-romagnoli nei confronti degli immigrati. La ricerca scopre che quasi 20% del campione esprime sentimenti dichiaratamente legati a pregiudizi xenofobi, quando non proprio razzisti, a fronte di un'equivalente percentuale di chi invece manifesta un atteggiamento culturale di apertura nei confronti degli stranieri. Ma, riprendendo le parole di Pavarini,

quello che più inquieta è che questo universo sociale ancora sospeso e poco strutturato (la maggioranza grigia di cui non è ancora possibile determinare con sicurezza un profilo ideologico coerente nei confronti degli stranieri) manifesta sentimenti per nulla entusiastici, anzi per lo più seriamente preoccupati per la presenza degli immigrati, cogliendo in questi più elementi di fastidio, disturbo e paura che elementi di arricchimento, novità ed interesse. Sono già presenti alcuni indici che lasciano sospettare un rischio temibile di un'evoluzione verso una percezione sociale diffusa dello straniero come soggetto pericoloso e criminale, cioè come nemico. Questa ricerca ci avverte dell'estrema prossimità verso quel punto critico, sorpassato il quale il panico sociale tende a mettere in moto un processo di crescita autoreferenziale, fino a produrre progressivamente una realtà sociale sempre più corrispondente a quella virtuale sempre più costruita sui pregiudizi. Lo straniero, temuto come pericoloso e criminale, finirà effettivamente sempre più per diventare pericoloso e criminale e ciò validerà sempre più la percezione sociale allarmata, e tutto ciò in ossequio alla regola aurea che vuole che le profezie prima o poi se effettivamente e diffusamente condivise finiscano per avverarsi.

Continua Melossi, autore della ricerca:

quale che sia il contributo effettivo degli stranieri alla massa dei comportamenti criminali e devianti, ufficialmente registrati e non, sta di fatto che il loro contributo alla popolazione carceraria  anche nel nostro Paese è già assai rilevante, superando il 15% e quindi di molte volte più ampio di qualsiasi stima della percentuale della popolazione straniera in Italia, anche tenuto conto del fatto che la composizione demografica di questa popolazione è assai più vicina al profilo tipico dell'individuo criminalizzabile. Anche se s'ipotizzasse che nella particolare congiuntura italiana gli stranieri contribuiscano più che in altre situazioni al totale dell'attività criminale, è tuttavia chiaro che vi sono elementi di discriminazione strutturale e culturale che vanno ad aggiungersi a probabili comportamenti discriminatori da parte dei rappresentanti delle principali agenzie di controllo penale. La particolare debolezza degli stranieri, la loro più alta visibilità ed esposizione al pericolo di criminalizzazione, sono ipotesi particolarmente ovvie da proporre.

La ricerca conclude riportando come proprio risultato originale quello di avere messo in luce il fatto che il contatto con gli immigrati di qualsiasi tipo sembra essere efficace nel ridurre il livello di pregiudizio di per sé, a prescindere da qualsiasi altra caratteristica di chi risponde. 

In Italia, come altrove in Europa, la questione della discriminazione sulla base della razza, della nazionalità, dell'origine etnica e religiosa è caratterizzata, da un lato,  da una condanna generale, dall'altro dall'impossibilità di valutare realisticamente la dimensione quantitativa e qualitativa del fenomeno. Stime non sistematiche, né basate su dati attendibili, sembrano suggerire un livello significativo di casi di razzismo che rimangono sconosciuti e ciò ovviamente rende difficile individuare le caratteristiche di specifiche forme di discriminazione su base razziale. Attualmente non esistono in Italia dei modelli per il monitoraggio degli episodi di razzismo o di discriminazione su base razziale. Il primo tentativo, a nostra conoscenza, di creare un attività di monitoraggio di questo tipo è stato fatto dall'Istituzione dei Servizi per l'Immigrazione del Comune di Bologna, nel quadro del progetto DGV Città Antirazziste. Nel 1997 il servizio di monitoraggio riportava 87 segnalazioni; per 29 di queste erano indicate le forze dell'ordine come autori. Anche se un successivo controllo da parte delle stesse forze dell'ordine indicava che nessuno di questi casi vedeva una responsabilità istituzionale o personale degli operatori (controllo di cui non era comunque dato conoscere l'istruttoria la quale  non ha mai coinvolto le vittime o presunte tali), rimane l'incontrovertibile segnale di una difficoltà di rapporto tra polizia e carabinieri e cittadini di etnia minoritaria.

Ci preme segnalare che il comportamento discriminatorio della polizia, così come di altre istituzioni, è invece argomento assai dibattuto in Europa. Per tutti basti l'esempio della Gran Bretagna dove nel 1997, con il Rapporto Macpherson, si concluse l'Inchiesta Stephen Laurence. Il rapporto Macpherson critica in modo indubitabile, e senza mezzi termini, il fallimento della Polizia Metropolitana di Londra nell'investigare in modo adeguato l'assassinio di Stephen Lawrence, il diciottenne nero assassinato nel 1993 ad una fermata d'autobus in un quartiere di Londra. Si legge nel rapporto che il razzismo istituzionale ha portato ad errori fondamentali  nel corso dell'investigazione mentre i colpevoli sono ancora liberi. Si riconosce che il fallimento nell'azione cominciò proprio con gli operatori di polizia coinvolti ed il loro rifiuto di riconoscere che l'assassinio era un delitto a matrice razzista. La polizia del Regno Unito, in seguito alle raccomandazioni del rapporto, ha intrapreso una profonda revisione delle proprie strategie e azioni, in collaborazione con le altre istituzioni e con le istanze della società civile che combattono il razzismo.

 

2.2.3 Le leggi

 

La L. 25 giugno 1993 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) riconosce come reati la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico e la violenza per gli stessi motivi, arrivando a vietare ogni forma organizzativa o associazione che abbia tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione per i medesimi motivi. 

Con l'approvazione del D. Lgs. 25 luglio 1998 n.286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), l'Italia riconosce allArt.43 la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e ammette l'azione civile contro di essa. La definizione di discriminazione adottata riprende quasi fedelmente quella della L.13 ottobre 1975, con la quale l'Italia ratificava la convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (Convenzione di New York, 1966).

Una circolare ministeriale del marzo 1998 precisa che gli stessi fatti (cioè quelli attinenti alla definizione di atto discriminatorio, ndr) potrebbero anche rilevare ai fini disciplinari e, nei casi più gravi, assumere valenza penale o giustificare l'adozione di una misura di prevenzione.  

La legge attribuisce dunque alla polizia italiana, così come ad altre istituzioni, un importante ruolo nel proteggere le minoranze contro la violazione della legge alla quale esse sono particolarmente vulnerabili. D'altro canto, poiché anche i pubblici ufficiali sono riconosciuti come possibili autori di atti di discriminazione (Art.43, comma 2, punto a) appare chiaro che la polizia ha bisogno di avere una buona comprensione della natura delle diverse forme di razzismo ed essere competente ed efficace nell'applicazione della legge.

 

2.2.4 I mezzi di comunicazione di massa

 

Se è vero che la radio, la televisione e la stampa non creano il razzismo, è però vero che essi possono scegliere di ignorarlo, combatterlo o farsene cassa di risonanza. Si può ignorarlo tenendo le etnie minoritarie fuori dalla produzione delle notizie, presentando dei servizi esotici sugli stranieri, usando una terminologia offensiva, creando sempre dei collegamenti tra le minoranze e certi problemi sociali.  

Il potere di immagini spettacolari e la vastissima audience raggiunta da radio e televisione necessitano di una sensibilità particolarmente acuta nel riferire dei problemi che coinvolgono le minoranze etniche - che spesso vivono ai margini della società - e la maggioranza dei nativi. Invece, i mezzi di comunicazione di massa spesso incoraggiano una domanda d'informazione semplicistica e che polarizzi le presentazioni.  I servizi sugli immigrati, ad esempio, spesso presentano un solo aspetto della questione: da un lato abbiamo i bambini immigrati problematici, i criminali e quelli che pretendono i benefici del wellfare e, dall'altra parte, abbiamo le care persone della porta accanto che non farebbero male a una mosca. I timori dell'altra parte del pubblico quello che comprende anche le minoranze - non sono presi in considerazione, né vengono approfondite le aree di possibile conflitto e, se ciò avviene, l'approccio è moralizzatore, con il possibile effetto di esacerbare proprio quei timori che si vorrebbe combattere.  

E cosa condivisa e risaputa che le forze di polizia agiscono in base a criteri di selettività, non è infatti possibile reprimere tutti i reati che presumibilmente hanno luogo. Certamente, sulle scelte che la polizia (come istituzione) ed i singoli poliziotti operano, influiscono diversi fattori, come il sapere professionale e l'esperienza personale ma anche le pressioni interne ed esterne. Le pressioni arrivano dalle più diverse fonti ma certamente quelle più convincenti sono quelle che provengono dai mezzi di comunicazione di massa. In una situazione come quella italiana, dove l'immigrazione è ancora confinata a ristretti ambiti sociali, poco integrata e poco evidente nel tessuto sociale complessivo (non dimentichiamo che in Italia abbiamo una percentuale di presenza di immigrati che si aggira attorno al 2,5%, comprese le stime degli irregolari) le opinioni personali sono fortemente influenzate dai mass media. I quali hanno una "tradizionale preferenza per le cattive notizie, l'abitudine a utilizzare stereotipi, la necessità di attirare i lettori con notizie allarmistiche, l'abitudine di ragionare per emergenze e tendono quindi a fornire una rappresentazione dell'immigrazione in termini di problema, in particolare di un problema di criminalità". 

Al di là delle rappresentazioni, i media sono in grado di veicolare pressioni all'azione (da parte di comitati di cittadini, di politici, ecc.)  costringendo la polizia ad effettuare interventi che rispondono più alle richieste dei giornali o delle televisioni locali che alle priorità che il sapere di polizia individuerebbe autonomamente. Sotto la spinta di queste pressioni s'innesca un processo circolare che coinvolge più attori: il comitato o il gruppo di cittadini o commercianti portano  le loro proposte al giornale purché sufficientemente organizzati o potenti da farle pesare questo fa la sua campagna reclamando l'intervento della polizia. Il politico locale, spesso dopo avere letto il giornale, sollecita a sua volta interventi più energici, la polizia a questo punto interviene (ma spesso interviene prima, proprio per evitare queste accuse d'inerzia), il giornale a questo punto ha materiale sufficiente per fare un articolo sulla dichiarazione del politico, sull'intervento della polizia, sulla soddisfazione  o meno dei comitati. A questo punto la sua campagna e quelle seguenti risulta giustificata dalla gravità del fenomeno, illustrata dagli arresti prodotti, dalla refurtiva sequestrata, dall'abbondanza di reazioni e di interventi, tutti in realtà sollecitati dalla stessa campagna.

Tutto ciò avviene a dispetto della costanza dei fatti criminali come è successo negli USA, dove dal 72 al 90 la spesa destinata all'assistenza diminuiva mentre quella riservata alla giustizia penale quintuplicava e la criminalità, nello stesso periodo, rimaneva costante. In gran Bretagna, a fronte di una caduta della criminalità dell'8% (ma l'opinione pubblica per il 75% crede che sia aumentata) la popolazione carceraria è aumentata del 35% in due anni. In Italia, ad un telegiornale della sera, quello del grande ascolto, venivano riservati 5 minuti per la presentazione (con grande dovizia di mezzi informatici per una presentazione efficace ed accattivante) di una ricerca commissionata da privati sulla percezione della criminalità come fenomeno preoccupantemente in crescita, ma non si citava un solo dato del Dipartimento di Pubblica Sicurezza mentre la Ministro Jervolino, nei 30 secondi che le venivano concessi, cercava di comunicare che tutti i dati a disposizione del Ministero dell'Interno dimostrano la diminuzione della grande criminalità.

3. Lesperienza di formazione nel progetto NAPAP

 

Il progetto NAPAP aveva lo scopo di consolidare o, secondo la situazione dei diversi Paesi partner, introdurre, le ONG e le associazioni dei cittadini di etnia minoritaria nella formazione della polizia all'agire nelle società multiculturali.  Ciò non poteva avvenire che in modi diversi nei vari Paesi, tenendo conto della grande diversità delle situazioni di partenza che variavano da Paesi, come l'Italia, dove nella formazione di base degli operatori della Polizia di Stato ancora non è inserito alcun elemento relativo alla presenza di immigrati e etnie minoritarie (se non per i riferimenti giuridici relativi all'ingresso di immigrati irregolari o clandestini e, negli incontri di aggiornamento, aspetti della cultura islamica come fonte di terrorismo), a Paesi, come La Gran Bretagna, dove cittadini di etnia minoritaria sono già da qualche tempo associati alla formazione della polizia.  

Va precisato che il termine ONG ha diverse accezioni nei Paesi che hanno partecipato al progetto. Forzando un po' la schematizzazione, possiamo dire che nei Paesi del Sud Europa l'acronimo indica organizzazioni a dominanza bianca (mutuando l'espressione dall'inglese white lead), a volte anche legalmente molto connotate rispetto ad altre associazioni private di volontariato o di assistenza, come è il caso dell'Italia dove ONG sono comunemente intese le organizzazione di cooperazione internazionale riconosciute dalla legge n.49/87, oggi ricomprese sotto l'ampio ombrello delle ONLUS Organizzazioni non lucrative di utilità sociale . Nel Nord dell'Europa si tende invece ad attribuire l'appellativo di ONG a tutte le forme associative miste o caratterizzate per appartenenza etnica. Di fatto, nell'esperienza del NAPAP, sono state usate diverse terminologie che hanno non poco confuso la comunicazione transnazionale nel primo anno di progetto (accanto a ONG, si è parlato anche di comunità e di associazioni di cittadini di etnia minoritaria) e che rispecchiavano le realtà, non solo dei Paesi, ma anche dei singoli progetti, dove partner della polizia potevano essere di volta in volta ONG, in ognuna delle accezioni prima descritte, oppure istituzioni (come a Francoforte) o le cosiddette QuaNGOs16 (come a Berlino). 

Le vicende del progetto, in questi due anni, ci sembrano paradigmatiche di quello che potrebbe essere il percorso del progressivo e crescente coinvolgimento delle etnie minoritarie nella formazione della polizia. Il progetto ha infatti subito un evoluzione che lo ha portato dai primi incontri transnazionali dove erano presenti solo i coordinatori, i rappresentanti delle polizie e i consulenti incaricati della valutazione, agli ultimi seminari transnazionali dove i cittadini di etnia minoritaria erano ampiamente rappresentati e hanno guadagnato uno spazio e un tempo per ragionare insieme transnazionalmente circa la propria posizione nel progetto e nella formazione della polizia. Alcune delle conclusioni raggiunte nel corso di questi incontri ci sono sembrate rilevanti anche per gli scopi di questo documento e le riportiamo perciò di seguito. 

Nel seminario tenutosi a Bologna nel giugno 1999, i rappresentanti dei cittadini di etnia minoritaria coinvolti nei diversi progetti, hanno chiesto e ottenuto di incontrarsi separatamente una giornata prima dell'inizio dei lavori in plenaria e ciò ha permesso loro di rafforzarsi nel proprio ruolo e nella propria capacità di negoziare la presenza nei progetti. Dalle conclusioni raggiunte nel gruppo di lavoro, abbiamo estrapolato sei punti che ci sembrano particolarmente significativi:

  1. non si possono escludere dalla formazione, e perciò dai luoghi e dai momenti decisionali del progetto, coloro che sono vittime del pregiudizio; nemmeno ONG e associazioni impegnate nella lotta contro il razzismo possono parlare per loro;

  2. ciò non significa necessariamente che, in qualunque contesto e in qualunque Paese, cittadini di  etnia minoritaria debbano essere formatori, ma certo devono avere un ruolo a pari merito delle ONG e della polizia nella programmazione della formazione stessa;

  3. la presenza in aula di persone di etnia minoritaria potrebbe avere l'effetto paradossale di perpetuare (o introdurre nuovi) stereotipi, così come potrebbe essere il risultato di un approccio unicamente basato sulla consapevolezza delle differenze culturali. E perciò necessario che il ruolo e i compiti di cittadini di etnia minoritaria impiegati direttamente nella formazione sia chiarito a tutti - non rappresentanti di una certa cultura ma individui - e che essi ricevano una preparazione adeguata prima di entrare in aula;

  4. la formazione da sola non è la risposta adeguata, essa deve essere accompagnata dalla disciplina interna della polizia perché, mentre gli atteggiamenti sono difficili da cambiare, i comportamenti possono essere controllati e sanzionati;

  5. la partnership tra etnie minoritarie e polizia può essere molto difficile da sostenere e i disaccordi possono essere anche profondi; in ogni caso, tali disaccordi vanno presi in considerazione e affrontati in modo che la partnership non sia solo di facciata con l'unico scopo di fornire una buona immagine della polizia;

  6. deve essere sempre fatta un'accurata e precisa valutazione dell'efficacia della formazione realizzata.

3.1 In Italia

 

Il progetto italiano è nato dall'impegno che COSPE ha assunto da anni nella lotta contro il razzismo e per lo sviluppo armonico di una società multiculturale in Italia. Le esperienze di COSPE nel settore della lotta al razzismo risalgono alla fine degli anni 80, quando furono avviati i primi corsi di antirazzismo genericamente rivolti ad un'audience spontaneamente interessata al tema, passando in seguito alla formazione di personale di istituzioni ed enti locali. L'approccio adottato è sempre stato, fino a quest'esperienza NAPAP, di sollecitare i partecipanti ad una presa di coscienza dei propri pregiudizi e degli stereotipi per un loro superamento a livello individuale. 

Una tappa importante nell'evoluzione delle attività in questo settore fu la partecipazione al progetto Monitoraggio degli incidenti di razzismo promosso dall'Istituzione dei Servizi per l'Immigrazione del Comune di Bologna (1996-97) che vedeva associate istituzioni e gruppi dell'area bolognese per offrire un servizio dove le vittime o i testimoni di episodi di razzismo, o presunto tale, potessero trovare un luogo di ascolto e di sostegno anche legale, se opportuno e possibile. Si può affermare che risalga a quell'epoca il primo contatto in chiave collaborativa tra COSPE e la Polizia di Stato, quando questa fu invitata a prendere parte al gruppo di coordinamento che gestiva il progetto, esperienza culminata con la realizzazione di un seminario che aveva lo scopo di fare incontrare la Polizia di Stato italiana, rappresentata dalla Questura di Bologna e da alcuni sindacati di polizia, e la Polizia inglese, rappresentata dal capo della Polizia di Northumbria (Contea all'estremo Nord dell'Inghilterra) per uno scambio sul tema dell'impegno delle forze dell'ordine nella lotta alla discriminazione razziale. 

L'incontro con il progetto Città sicure della Regione Emilia-Romagna ed il decisivo sostegno istituzionale da esso apportato, ha reso possibile la realizzazione del progetto NAPAP in Italia, promosso e gestito da COSPE, in partenariato con il Comune di Bologna, il Comune di Modena, il Forum Metropolitano dei cittadini non comunitari della Provincia di Bologna, la Regione Emilia-Romagna, il Ministero dell'Interno- Direzione Generale degli Istituti d'Istruzione, con il contributo della Commissione Europea. 

Dato lo scopo di questo documento, tralasciamo ogni altro riferimento alla vita del progetto per il quale rimandiamo alla relazione del coordinatore, concentrandoci qui sull'aspetto strettamente legato alla formazione.

 

3.1.1 Tratti salienti e lezioni apprese nell'esperienza formativa

 

Il corso di formazione del progetto NAPAP si poneva come esperimento le cui ipotesi fondanti,  i contenuti e le modalità di attuazione dovevano essere verificati, anche in vista di una loro possibile utilizzazione futura nella formazione delle forze di polizia in Italia.  

Purtroppo, la definizione del programma dei corsi ha sofferto profondamente della totale mancanza d'informazione da parte del Ministero circa il normale contesto formativo dei partecipanti, informazione imprescindibile per la buona programmazione di un corso di formazione. La definizione del curriculum è stata così necessariamente basata su una serie di presupposizioni, semplicemente intuite o desunte dall'esperienza condotta nel primo anno, per fornire risposte provvisorie a domande fondamentali, la cui verifica, speriamo, possa avvenire in futuro. Le presupposizioni sulle quali è stata basata la programmazione del corso possono essere così brevemente riassunte:

gli operatori di polizia normalmente non ricevono alcuna formazione relativa alle capacità comunicative in generale,  tantomeno a riguardo delle competenze relative alla comunicazione interculturale;

gli operatori di polizia non hanno alcuna familiarità con i metodi d'insegnamento partecipativi e di apprendimento attivo, non direttivi;

gli operatori di polizia non conoscono il D.Lgs. 25 luglio 1998, n.286 Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, relativamente agli articoli che riguardano la discriminazione;

gli operatori, soprattutto ai gradi più bassi, non hanno opportunità di riflettere sulle possibili e diverse mission della polizia che possono emergere anche nel confronto con altri modi di fare polizia nel mondo e soprattutto in Europa.

Al termine del primo anno di progetto si è proceduto ad una revisione profonda del corso ritenuto da più parti troppo lungo e troppo univocamente orientato alla presa di coscienza, e cioè alla sollecitazione di un cambiamento di atteggiamenti nei riguardi del razzismo. La revisione è stata operata adottando la tecnica della task analysis (analisi dei compiti): si è proceduto alla definizione dei compiti per poi passare alle conoscenze, agli atteggiamenti e alle abilità/capacità che i partecipanti devono possedere per assolvere in modo soddisfacente a tali compiti. Tracciato così un profilo ideale del corso, si è passati ad una progressiva riduzione delle varie componenti, fino a raggiungere un programma che fosse, oltre che stimato idoneo ed efficace, anche realistico rispetto al tempo e alle risorse a disposizione. Benché la programmazione secondo task analysis ne tenesse conto (nella misura minima in cui era possibile prevederlo senza avere alcun contatto e alcuna conferma da parte della polizia), il corso del secondo anno non ha potuto differenziare il contenuto della formazione tra i diversi gradi - e dunque tra i differenti compiti e le differenti responsabilità - dei formandi.  La scelta del Comitato Scientifico del progetto fu di procedere alla formazione congiunta di tutti gli operatori dagli agenti agli ispettori superiori (massimo grado dei partecipanti della Polizia di Stato nel secondo anno di progetto) nell'intento di favorirne la comunicazione e la capacità collaborativa.  

Il quadro di riferimento teorico della nostra formazione nel secondo anno è riconducibile ad un modello di formazione all'antirazzismo (si veda la trattazione sui diversi modelli possibili nel par. 4.1), dove sono presi in considerazione sia i comportamenti che gli atteggiamenti soggiacenti, nel tentativo di assicurare che gli atteggiamenti e i pregiudizi degli operatori di polizia non interferiscano con lo standard professionale del loro lavoro. Il corso proposto e sperimentato rifiuta il multiculturalismo nel senso di fornire informazione sulle culture e, almeno nelle intenzioni, cerca di evitare il lavoro frontale, argomentativo, di confronto, quello insomma che dà lezioni, perché ciò, sappiamo, rafforza i pregiudizi.  

I docenti erano persone di provata esperienza e competenza nel settore. Merita una particolare riflessione la composizione etnica, nazionale e di genere dei formatori. E necessario che in un corso circa la discriminazione su base razziale, etnica e religiosa, la composizione del corpo docente affronti questi aspetti: si pensa che un corso sui temi dello svantaggio sistematico di una parte della società (contrapposta al vantaggio sistematico dell'altra) non possa avere credibilità se esso è concepito ed erogato unicamente da chi gode dei vantaggi. Si potrebbe pensare forse ad un corso sullo svantaggio delle donne tenuto soltanto da uomini? Proprio per rappresentare la ricchezza delle diversità, il gruppo dei docenti era costituito  da un formatore maschio nigeriano nero, un formatore maschio inglese bianco, un formatore maschio olandese bianco, un formatore maschio italiano bianco e una formatrice bianca italiana femmina.  

La scelta di assicurare la partecipazione di un formatore appartenente ad una etnia minoritaria, accanto a formatori appartenenti all'etnia maggioritaria (italiani e non, maschi o femmine, ma comunque bianchi) va ulteriormente commentata. Essa non si risolve in un tentativo di soddisfare la richiesta di conoscere l'altro, né di trasmettere conoscenze di tipo antropologico ma, al contrario, essa sfida l'interpretazione dei problemi di discriminazione come prodotto d'ignoranza, proponendo piuttosto la teoria della falsa conoscenza che va senz'altro contrastata, soprattutto nella sua forma più comune dello stereotipo. La presenza di formatori di etnia minoritaria, stranieri o donne, propone ai partecipanti situazioni individuali vere che possono corrispondere oppure no alle loro aspettative, mettendo i partecipanti direttamente a confronto con persone che appartengono alle categorie in questione. I formatori, però, devono essere persone professionalmente esperte, preparate a questo confronto e non essere presenti solo perché appartenenti ad una certa categoria. La presenza di formatori stranieri e/o appartenenti a etnie minoritarie mette a nudo l'insufficienza dell'idea che il problema soggiacente al razzismo sia l'ignoranza (non conoscenza) e che basterebbe conoscersi meglio per superarlo, tanto che, nonostante la presenza di formatori neri, di sesso femminile, ecc., inevitabilmente si scatenano le stesse dinamiche dei rapporti stereotipizzati nei confronti di quelle categorie di individui, invalidando così, oltre alla credenza che il problema vero sia l'ignoranza, anche la presunta neutralità nella professionalità dei formatori e l'idea della normalità della società italiana. In questo modo, la richiesta da parte dei partecipanti di ricevere informazioni su altri gruppi etnici, di conoscere l'altro, può cominciare  a trovare una risposta evitando il rischio di includere l'altro nello stereotipo, allo stesso modo come si spera che avvenga nei gruppi di contatto (si veda oltre, lo stesso paragrafo).  

E' compito dei formatori gestire questo confronto, resistendo al tentativo dei partecipanti di considerarli casi eccezionali rispetto allo stereotipo (che ne riceverebbe così una conferma) o di creare nuovi stereotipi usando il singolo caso come giustificazione.  Non sempre si riesce a dominare queste dinamiche: i fatti indicano che i partecipanti ai corsi tendono a non considerare il formatore, benché nero, un cittadino di etnia minoritaria, gli extracomunitari essendo altri. Un'eventuale riprogrammazione e riproposizione del corso dovrà inevitabilmente continuare a fare i conti con questa, per certi versi, non troppo sorprendente percezione da parte degli operatori di polizia, forse potenziando altre forme di contatto diretto con i cittadini di origine straniera (gruppi di contatto, community contributors, o altro: esistono diverse esperienze da studiare), senza dimenticare che in ognuna di queste possibili vie è sempre in agguato il pericolo d'inquinamento delle dinamiche che abbiamo descritto. Probabilmente, la presenza di individui di gruppi minoritari o svantaggiati in aula (siano essi docenti, o persone risorsa della comunità o altro) e le percezioni e le dinamiche di comunicazione che si stabiliscono andrebbero tematizzati nell'ambito della formazione stessa. 

Un'ulteriore riflessione merita il concetto di atteggiamento e le difficoltà e implicazioni di un corso che miri al loro cambiamento, ma soprattutto merita attenzione l'ipotesi che sia necessario produrne un cambiamento. Il termine si riferisce a certe regolarità nei sentimenti, nei pensieri e nella predisposizione di un individuo ad agire in risposta ad un aspetto e/o stimolo del suo ambiente. Essi non sono direttamente disponibili per l'osservazione ma si possono dedurre dalle espressioni verbali e non o, a volte, dal comportamento. Non è certamente immaginabile di potere veramente cambiare gli atteggiamenti di partecipanti ad un corso così breve e, inoltre, è incredibilmente difficile misurarne l'entità del cambiamento, proprio per la loro natura di difficile definizione, per la loro contraddittorietà e scarsa visibilità. Sorgono quindi due domande: come valutare gli atteggiamenti?  E qual è l'etica di cambiare gli atteggiamenti? Ci sembra che la risposta possa risiedere in un'altra domanda: come formatori dobbiamo piuttosto chiederci qual è l'etica di non tentare di cambiarle. Come formatori non possiamo infatti ignorare gli atteggiamenti e d'altra parte non possiamo nemmeno ignorare che chi insegna influisce sugli atteggiamenti di chi impara, che lo voglia o no, che ciò sia intenzionale e programmato o no; questo processo, peraltro, avviene costantemente nella vita perché i nostri atteggiamenti vengono sfidati dall'ambiente e dalle persone con le quali interagiamo. Altri pensano che (e certamente questa è la conclusione raggiunta dagli esperti il cui parere è stato raccolto in Police training concerning migrants and ethnic relations), nel breve periodo, la formazione dovrebbe avere come focus l'acquisizione dei comportamenti corretti secondo lo standard dei comportamenti attesi dagli operatori di polizia, senza preoccuparsi degli atteggiamenti. Gli  atteggiamenti personali sugli immigrati e sulle questioni di rilevanza etnica, dicono questi autori, non attengono alla sfera della formazione e i formatori non dovrebbero cercare di giudicare o cambiare direttamente queste opinioni, ma piuttosto assistere gli operatori a diventarne consapevoli e a riflettere sulle loro implicazioni. Sul lungo termine, secondo la teoria comportamentista, saranno proprio le occasioni di apprendimento positive, create da una formazione orientata al comportamento, che  svilupperanno atteggiamenti personali positivi su questi temi. In sostanza, per questa visione delle cose, il cambiamento degli atteggiamenti farà seguito al cambiamento dei comportamenti, ovviamente solo nel quadro di una strategia formativa chiara dove nulla è lasciato al caso. Nel concreto, ciò significa introdurre nella formazione l'acquisizione delle competenze necessarie per avviare e gestire un programma di monitoraggio dei casi di razzismo, la conseguente catalogazione dei casi segnalati, l'elaborazione di statistiche, la loro comunicazione alle istanze superiori e al pubblico, le azioni da intraprendere per prevenire queste forme di discriminazione e per reprimerle. 

In conclusione, se conclusione può esservi su questo argomento, nel corso sperimentato si è ritenuto di agire sugli atteggiamenti dei partecipanti come elemento che portasse gradualmente a mettere in discussione i comportamenti nell'ambito del corso stesso, senza pretesa di arrivare ad un vero e, soprattutto, profondo cambiamento di atteggiamenti ma semplicemente sperando di innescare una miccia di cambiamento che dovrà avere ben altri elementi di supporto per portare al cambiamento vero, quello dell'agire. E importante ricordare che il progetto, promosso e gestito da una ONG, non potrebbe in ogni caso assumersi la responsabilità di modificare l'agire degli operatori di polizia, responsabilità che rimane nell'ambito delle politiche delle forze dell'ordine. D'altra parte, l'assenza di questo contesto generale di sostegno nella polizia non incoraggiava ad una fuga in avanti che non avrebbe poi avuto alcun riscontro nell'operare quotidiano dei poliziotti. Siamo del parere che un corso che fosse inserito stabilmente nel curriculum formativo degli operatori di polizia e in un contesto dell'agire di polizia che tenesse conto della società multiculturale, meriterebbe una revisione del peso di questa componente nel complesso del corso.

 

3.1.2 Il curriculum

 

Le presupposizioni e le considerazioni prima ricordate, insieme con la valutazione del primo anno di sperimentazione del corso, ci hanno dunque portati all'elaborazione di un programma che andiamo brevemente ad illustrare. 

La formazione si divide in due fasi: la formazione in aula e i gruppi di contatto. La parte che avviene in aula dura 30 ore più 3 ore di follow-up a distanza di circa un mese.

 

Formazione in aula

Contenuto

Commento

Presentazione del corso

Obiettivi

Presentazione dei partecipanti

Familiarizzarsi con la metodologia

Poiché i temi da trattare nel corso toccano spesso punti di alta sensibilità e poiché la possibilità di ognuno di esprimere i sentimenti e le emozioni suscitati dagli esercizi e dai giochi proposti è elemento fondamentale per la buona riuscita del corso, le ore iniziali vengono trascorse cercando di rompere il ghiaccio (interviste a coppie e presentazione successiva a tutto il gruppo), a riflettere sulle aspettative di ognuno e a confrontarle con gli obiettivi stabiliti da chi ha programmato il corso (discussioni in gruppi), a decidere insieme quali sono i comportamenti di ognuno che possono favorire il buon clima di rispetto e fiducia reciproca (discussioni in gruppo).

Parlare liberamente di altro (cosa mi piace, cosa non mi piace) dà la possibilità di prendere in conto sia il poliziotto che l'uomo, mettendo subito in chiaro che, in questa formazione, c'è spazio per il poliziotto e per l'uomo civile che lo accompagna.

Contenuto

Commento

Concetti di identità, cultura, etnia, pregiudizi e stereotipi, discriminazione e le sue varie forme, razzismo (tipi e forme)

E il momento del corso dove più direttamente si affronta l'area degli atteggiamenti, dove la formazione non è mai informativa e prescrittiva e non intervengono elementi di conoscenza e abilità in alcuna forma, con l'unica eccezione di tipi e forme del razzismo che viene effettivamente presentato con lezione frontale. Anch'essa, tuttavia, se il dibattito e l'analisi che lo hanno preceduto è stato ricco e positivo, risulta essere piuttosto una sistematizzazione dei contenuti espressi dai partecipanti. 

Tutti questi temi sono affrontati attraverso lavori di gruppo (ricerca delle definizioni) poi ricondotti a momento unitario nell'aula - dove vengono confrontati (senza necessità di operare una scelta) con le definizioni  elaborate dai docenti - e giochi.

Il gioco dell'Italianometro, che apre questa sessione, ha lo scopo di approfondire l'analisi dei concetti di identità e cultura dati per scontati e di mettere in discussione per ciascun individuo (anche profondamente) il posizionamento di ognuno nella scala di valori, caratteristiche ed elementi fondamentali o supposti tali che definiscono la categoria di italiano, e per riflesso, le categorie usate rispetto agli altri straniero, extracomunitario, nero, nigeriano, donna, ecc.). Il gioco ha dimostrato in tutti i corsi di produrre l'effetto desiderato e, a distanza di tempo, è questo uno degli esercizi, se non l'esercizio, che più ha lasciato traccia nella consapevolezza dei partecipanti.

Comunicazione:

processo complesso,

le dimensioni della comunicazione,

l'importanza dell'ascolto attivo,

il pregiudizio comunicativo,

nei panni degli altri,

la comunicazione interculturale

E uno dei due momenti dedicati all'apprendimento di alcune capacità/abilità ritenute necessarie all'agire della polizia. I partecipanti sono gradualmente condotti, attraverso esercitazioni, giochi, simulazioni e giochi di ruolo, a percorrere il processo di comunicazione dalle sue forme apparentemente più semplici alla complessità di una comunicazione interculturale. Ogni tappa è poi ricondotta ad un quadro di riferimento teorico con l'ausilio di lucidi.

Esercizio della lettera: serve ad evidenziare ciò che non è ovvio ma sempre presente l'uso di codici e l'incrinatura che essi introducono nella comunicazione perfetta alla quale tendiamo.

Esercizio sull'ascolto attivo: è un classico esercizio di provocazione, di breve durata, occasione per evidenziare ciò che spesso non si considera e cioè che il 50% di una comunicazione riuscita lo si deve alle capacità di ascolto attive.

Gioco dei tre gruppi di oggetti: descrivere le tre persone alle quali appartengono questi oggetti. Evidenzia quanto il pregiudizio comunicativo, che è d'altronde inevitabile, sia determinante nell'indirizzare la comunicazione in un senso piuttosto che in un altro e quanto c'è di interpretazione piuttosto che di fatti oggettivi nel nostro pre-giudizio sugli altri.

Gioco di ruolo dell'infrazione stradale: applicazione  delle riflessioni già condotte sul pregiudizio comunicativo. Gli operatori di polizia sono portati ad osservare come ci si può, senza necessariamente volerlo, comportare in modo diverso di fronte ad un contravventore nero.

Gioco di ruolo dell'USL: permette di uscire completamente dalle situazioni che quotidianamente vivono gli operatori di polizia e di mettere i partecipanti nel ruolo di coloro che, senza potere, fruiscono di un servizio. Il gioco si è mostrato sempre efficace nel fare riflettere (e sentire)  i partecipanti circa la disparità della comunicazione quando una delle parti ha potere e l'altra no.

Gioco del personaggio famoso: due squadre, in base a due regole (a loro insaputa) diverse, si sfidano ad indovinare un personaggio famoso. Il gioco rivela la difficoltà di comunicare quando le regole della comunicazione sono differenti, come nel caso della comunicazione interculturale ma soprattutto fa sperimentare le emozioni di chi sente di non avere potuto partecipare ad armi pari perché ignorante delle regole. 

Contenuto

Commento

Le possibili missioni della polizia: fare osservare professionalmente le leggi, la strategia per la soluzione dei problemi, la polizia di comunità.

La missione della polizia italiana in un contesto multiculturale.

E il momento più precisamente deputato alla trasmissione di conoscenze. L'intervento è introdotto per offrire ai partecipanti, anche ai gradi più bassi, la possibilità di inquadrare il proprio agire quotidiano in una visione ampia del senso della propria azione. L'idea sottesa è che la consapevolezza dei limiti  e dei vantaggi dei diversi modelli possa meglio motivare gli operatori di polizia nel proprio agire quotidiano, soprattutto in relazione ai cittadini di etnia minoritaria, inducendo ad un analisi della costruzione sociale della criminalità e della selettività e discrezionalità che ne sono alla base. La lezione è condotta con il metodo tradizionale della lezione frontale con l'ausilio di mezzi didattici (lavagna a fogli mobili e lavagna luminosa) e di dibattito.

Conoscere le leggi sulla discriminazione e sul razzismo ed applicarle.

Esempi di strategie e azioni di lotta contro il razzismo da parte di altre polizie.

Dopo un breve riferimento teorico al D.Lgs.25/7/98 e alla L 25/6/93, si passa ad un'esercitazione in gruppi dove, alla luce delle definizioni di discriminazione e razzismo e delle leggi, si analizzano alcuni casi presi dalle segnalazioni pervenute al Monitoraggio degli incidenti di razzismo di Bologna. Questo esercizio permette ai partecipanti di calarsi nella realtà della discriminazione e di cercare di capire in quale modo la recente legge sull'immigrazione possa tutelare le vittime di razzismo e quale può essere il ruolo degli operatori di polizia.

Gioco di ruolo: la coppia che denuncia di essere stata vittima di un attacco di stampo razzista. Si sperimenta come dovrebbe essere l'accoglienza delle vittime (o supposte tali), come esse vanno incoraggiate a segnalare questi episodi, come vanno edotte di ciò che la polizia può e non può fare, di come sia importante attribuire credibilità al loro racconto.

Esposizione del codice di condotta e della strategia operativa della Polizia di Northumbria come un esempio di polizia che ha intrapreso una via di impegno nella rilevazione dei casi di razzismo e di lotta al razzismo interno della polizia stessa (istituzionale e non). Lezione frontale con ausilio di lucidi.

Piano di lavoro

Ai partecipanti è distribuita una traccia per delineare un piano di lavoro al loro rientro nelle normali attività dopo il corso. L'esercizio vuole richiamare l'attenzione sul fatto che il corso vorrebbe produrre qualche cambiamento (sia pure, nel più limitato dei casi) nell'agire personale dei partecipanti. La traccia mette in evidenza i problemi che i partecipanti potrebbero incontrare volendo introdurre dei cambiamenti nella propria attività e li induce a riflettere su una via d'uscita. I diversi piani  d'azione vengono poi elaborati statisticamente e i risultati restituiti nel corso dell'incontro di follow-up a distanza di un mese.

Follow-up

Esercizio del ponte levatoio: la metafora della regina che, infrangendo le regole dettate dal marito despota, viene uccisa per mano delle sue guardie, induce il gruppo ad una riflessione sulle responsabilità dei vari attori sociali (istituzionali e non, della società d'accoglienza e immigrati) nel creare una società multiculturale nel rispetto dei diritti di ognuno. Esso permette anche di ripercorrere le tappe formative precedenti.

L'analisi dei piani dazione (nella loro elaborazione statistica) riporta ogni partecipante a riflettere sull'efficacia (o non efficacia del corso) anche rispetto ai propri proponimenti.


Gruppi di contatto

 

Inizialmente il gruppo di contatto era pensato come un complemento alla formazione, un'attività che gli operatori di polizia avrebbero potuto intraprendere autonomamente, una volta rientrati al proprio posto di lavoro. Nel corso della realizzazione del progetto sono apparse chiaramente la rilevanza e la stretta connessione di questi due momenti, tanto da indurci a considerare il gruppo di contatto come una componente del percorso formativo, accanto alla formazione in aula, e a presentarlo così in questo documento. Consideriamo dunque il gruppo di contatto come il momento del programma di formazione dove si comincia a concretizzare la ricaduta sull'operatività delle riflessioni condotte in aula e riprese nell'incontro di follow-up. Sebbene nel corso di questo progetto il gruppo di contatto abbia seguito la parte in aula a distanza di quasi un anno, pensiamo che esso possa anche essere contemporaneo alle ultime fasi della formazione in aula.  

E stata una scelta del progetto italiano di rigettare la presenza del formatore di etnia minoritaria o dei community contributors in aula come unico momento durante il progetto nel quale avviene il contatto tra i cittadini stranieri e i partecipanti ai corsi. Il gruppo di contatto ha invece lo scopo di iniziare ad avviare il dialogo fra i cittadini immigrati e le Polizie di Stato e Municipali fuori dalla formazione in aula e su un periodo di tempo più lungo. Ciò significa sviluppare una reciproca conoscenza delle attività, delle esigenze e bisogni, degli atteggiamenti, credenze, modi di vita e  ruoli professionali degli operatori di polizia e dei cittadini di etnia minoritaria, e di concetti quali sicurezza, ordine pubblico, legalità, discriminazione, diritti, ecc. Le due parti coinvolte si devono impegnare a sostenere un dialogo continuo in modo che il gruppo di contatto possa continuare anche dopo il termine del progetto, come luogo fisso di dialogo e consultazione. Le persone di etnia minoritaria sono scelte dal Forum dei cittadini non comunitari mentre gli operatori di polizia si sono offerti volontari durante il corso per partecipare a questa esperienza. 

Vogliamo ancora sottolineare che il concetto di gruppo di contatto usato in questo progetto non si riduce al semplice conoscersi. Si prende per inevitabile che, se ridotto al semplice contatto sociale, il gruppo non avrebbe molte speranze di superare i soliti rapporti stereotipati frequenti nei contatti sociali in altri contesti ed è prevista una preparazione al contatto (nel caso della Polizia è d'obbligo avere frequentato il corso in aula). Il gruppo di contatto, almeno nei primi incontri, è gestito dai formatori del corso e responsabili del progetto, e deve stabilire un accordo fra i componenti del gruppo sugli obiettivi e le modalità di lavoro del gruppo in modo da garantire un'autogestione molto più proficua di quella che ci si potrebbe attendere da un gruppo sociale qualsiasi. 

Al momento in cui questo documento è redatto, un solo gruppo di contatto è stato avviato ed ha avuto tre incontri, non è dunque possibile farne alcuna valutazione. S'impongono però tre riflessioni:

è questo il momento esteso del corso (e del progetto) in cui avviene il contatto tra i cittadini stranieri e gli operatori di polizia, contatto che, anche se in forme diverse, è atteso e richiesto da molti partecipanti. D'altra parte è un fatto che l'assoluta maggioranza dei poliziotti ha contatti diretti soprattutto con immigrati che delinquono o che essi suppongono abbiano adottato comportamenti devianti (anche se questa posizione non è unanimemente condivisa all'interno del progetto) e sarebbe eticamente grave se la formazione ignorasse questo fatto. Tale squilibrio di conoscenze che, a differenza del contatto con i gruppi sociali di etnia maggioritaria, non viene compensato da altre e più approfondite conoscenze, sia nella vita professionale che sociale, con colleghi, parenti, appartenenti ad associazioni, ecc., contribuisce ad una visione parziale e deforme della società e particolarmente dei cittadini immigrati e/o di etnia minoritaria, spesso visti come categoria e non come individui. Poiché per la polizia è essenziale avere un quadro il più veritiero possibile dei reali bisogni dei cittadini e promuovere relazioni positive e costruttive con i vari gruppi che costituiscono una società, è indispensabile che essa abbia un feedback dai diversi settori della comunità sull'efficacia e la rilevanza delle proprie politiche e dei propri programmi (come di fatto già avviene per alcune categorie di cittadini). Si potrebbe piuttosto obiettare che a questi incontri il corso ha timidamente dato poco spazio e rilievo, limitandone la partecipazione ai soli volontari. Dobbiamo segnalare che la posizione assunta dal progetto non è unanimemente condivisa e le ragioni che, secondo alcuni, motivano la creazione di gruppi di contatto sono contestate. Si pensa infatti che, se i poliziotti non ritengono di conoscere solo gli italiani che delinquono, ciò non è certo perché essi hanno contatti diretti con la totalità degli italiani. Se per natura del proprio lavoro gli operatori di polizia conoscono più delinquenti che onesti cittadini, ciò dovrebbe essere vero sia per l'un gruppo che per l'altro. Sembra così di potere affermare che con gli italiani funzioni la presunzione di onestà mentre con gli immigrati ci si avvicina molto alla situazione del tipo non sei onesto fino a quando non dimostri di esserlo e ciò proverebbe ancor di più che il conoscersi per rispettarsi, in tema di rapporti interculturali, genera una grossa e inaccettabile confusione. In ogni caso, qualunque sia la posizione adottata dai singoli consulenti del progetto a questo riguardo, è opinione condivisa che una conoscenza distorta da parte della polizia sui cittadini immigrati e di etnia minoritaria, unita a presunzioni di onestà o disonestà applicate a categorie di cittadini, producano un rapporto malsano da combattere;

la prima esperienza avviata, anche se con i limiti sopra indicati, sembra suggerire che i gruppi di contatto necessitano della presenza di un facilitatore ben oltre i primi incontri, come si sperava invece che potesse avvenire. Tuttavia, l'esperienza del primo gruppo induce anche a pensare che il facilitatore dovrebbe venire da uno dei due gruppi presenti o, meglio, da entrambi. La presenza dei docenti del corso tende ad ostacolare la comunicazione diretta dei partecipanti (che è l'obiettivo dell'incontro stesso), ponendoli come mediatori tra le due parti. Se in futuro i gruppi di contatto rimarranno la modalità prescelta per fare incontrare e dialogare direttamente i cittadini di origine straniera e le forze dell'ordine, si dovrà pensare ad una modalità di attuazione che superi questo limite;

sembra di potere affermare che nei gruppi di contatto anche i cittadini di etnia minoritaria possano vedere un interesse diretto nel sentirsi considerati cittadini, con il diritto di esprimersi e di essere ascoltati e di potere parlare alla pari con rappresentanti delle istituzioni con i quali, di norma, il rapporto è forse particolarmente conflittuale per le ragioni già più volte espresse.

 

3.I.3 Limiti ed elementi di forza dell'esperienza di formazione del progetto italiano NAPAP

 

I limiti e le carenze della nostra esperienza

Il primo e fondamentale limite di questa esperienza è costituito dal contesto di immutata organizzazione e struttura, prospettiva e valori nel servizio di Polizia. L'orientamento del corso verso il cambiamento degli atteggiamenti e il contesto altamente gerarchizzato e centralizzato nel quale gli operatori di polizia lavorano, non permettono un cambiamento significativo dell'agire di polizia come esito della formazione stessa. Sicché si può dire che, sebbene il corso abbia cercato, in questo secondo anno, di uscire dalla sfera della conoscenza e degli atteggiamenti per introdurre elementi di comportamento (che indicano cioè cambiamenti visibili), l'operazione viene in gran parte, inevitabilmente, vanificata da un contesto dell'agire di polizia sostanzialmente invariato, dove i nuovi comportamenti appresi non trovano spazio di applicazione, ricacciando così anche il corso nell'ambito di un approccio di presa di coscienza del tema. Se è vero infatti che nella crescente complessità e diversità delle società, i pubblici ufficiali hanno sempre più bisogno di competenze nelle relazioni umane, oltre alle competenze professionali tipiche del loro lavoro, e, di conseguenza, la formazione è divenuta una parte indispensabile della vita lavorativa di ognuno, è altrettanto vero che anche l'organizzazione nel suo insieme, la cultura stessa dell'organizzazione devono cambiare affinché l'organizzazione/istituzione possa beneficiare della diversità  e per prevenire i problemi che si possono creare quando la diversità è malamente gestita. Alcune dimensioni del cambiamento richiesto alla cultura di un'organizzazione sono il reclutamento, la selezione e la promozione del personale, le procedure e le pratiche di supervisione e gestione, le comunicazioni interne e verso l'esterno, i codici di comportamento e molti altri.

Oggi, nel contesto internazionale, la formazione della polizia, e di qualunque altra organizzazione, tende a non focalizzarsi più sulle relazioni etniche ed interculturali, come avveniva ancora nei primi anni '90. Essa ha di molto ampliato ed approfondito i temi diventando formazione alla diversità e al pluralismo, dove diversità è intesa come tutti i modi in cui le persone, i gruppi, le organizzazioni differiscono (per età, genere, cultura, religione, orientamento sessuale, abilità/disabilità, ecc.) e pluralismo si riferisce a quella cultura dell'organizzazione che vede le diversità come un opportunità e le usa come una risorsa che può offrire anche ampi benefici, oltre alle indubbie sfide. Questa scelta è già operativa da alcuni anni in alcune Polizie Europee (Gran Bretagna, Olanda e Germania, ad esempio) e pensiamo che potrebbe essere presa in considerazione anche dalle forze dell'ordine italiane.

Un tema non ancora sufficientemente svolto dalla nostra esperienza è quello della fragilizzazione che una formazione rivolta principalmente agli atteggiamenti e ai pregiudizi può indurre (e se non lo facesse avrebbe fallito). Lo spazio di riflessione che si apre con la formazione lascia un vuoto di certezze: credevo di non essere razzista e invece… Ma allora ho delle competenze per agire correttamente? Cosa posso fare per agire correttamente? Il nostro corso lascia gran parte di queste domande aperte, domande che probabilmente non riceverebbero una risposta esaustiva nemmeno se il corso fosse veramente inserito in un contesto di cambiamento strutturale, strategico e organizzativo della Polizia. Probabilmente bisognerà ripensare ad un allargamento della sfera delle abilità e della conoscenza nel curriculum, senza ampliare ulteriormente lambito degli atteggiamenti già sufficientemente svolto.

Le forze di polizia sono rimaste molto esterne alla formazione, tanto che nessun operatore di polizia faceva parte dell'équipe di formazione, cosicché a volte è sembrato che i problemi che la polizia sperimenta venissero solo parzialmente presi in considerazione nel corso. Esiste un ampio dibattito su chi debba essere il formatore (o chi debba fare parte della squadra di formatori) nel caso di una formazione alla diversità (o alla multiculturalità). Le opinioni variano da chi sostiene che i formatori dovrebbero essere solo membri interni all'organizzazione stessa, a chi sostiene invece che il lavoro dovrebbe essere fatto solo da professionisti esperti nel settore ma rigorosamente esterni all'organizzazione. Una terza posizione dice che, data la particolare sensibilità di questi argomenti, i formatori devono certamente possedere le caratteristiche personali, la conoscenza e le competenze necessarie e, siccome questa esperienza non è ancora oggi disponibile nella maggior parte delle organizzazioni ed istituzioni e perché ciò avvenga è ancora necessario tempo, quelle competenze ed esperienze dovranno essere cercate dove esse sono, nel privato, tra gli esperti freelance, ecc., tenendo però sempre presente che personale interno ed esterno dovranno lavorare insieme a tutte le fasi della formazione (dalla programmazione alla valutazione). Resta inteso, per chi sostiene questa posizione, che l'obiettivo a lungo termine dei consulenti esterni dovrebbe essere quello di rendere capace l'organizzazione di sviluppare essa stessa, al proprio interno, le competenze necessarie, rimanendo i consulenti esterni a disposizione solo per una supervisione periodica e per l'aggiornamento del personale interno sulle novità in campo educativo nel settore.

I poliziotti vivono in un campo sociale che rinvia loro un'immagine svalorizzata di se stessi (come illustra molto bene il brainstorming sullo stereotipo del poliziotto). Ora il problema di questa formazione é che traspare l'idea che si mira al bene degli immigrati e che si prende il poliziotto un po' come uno strumento necessario a migliorare la situazione di altre persone e questo suscita, e ha suscitato a volte, qualche espresso disagio e malcontento. Il corso - anche se in modo totalmente non deliberato in qualche occasione non ha saputo reggere l'atteggiamento di distanza e di non colpevolizzazione degli operatori di polizia e perciò ha a volte indotto un atteggiamento difensivo e, dunque, di irrigidimento su posizioni ancora più radicate che all'inizio del corso.  Bisognerà sempre più mirare alla costruzione di una formazione nella quale l'atteggiamento rispettoso delle intenzioni è mantenuto con rigore durante tutta la formazione. Compito difficile, ma proprio del formatore, di instaurare il corretto rapporto con i partecipanti al corso.

Essendo questa un'esperienza che ha visto coinvolto un limitato numero di operatori di polizia, il meccanismo di selezione dei partecipanti è di particolare significato. Non era stata fornita dagli organizzatori alcuna indicazione circa i criteri di selezione, se non per quanto attiene alla necessità di avere la presenza anche di operatori di polizia al massimo grado possibile. Va tuttavia segnalato che gli operatori della Polizia di Stato partecipanti al corso del secondo anno a Modena ritenevano di essere stati scelti perché noti come persone già sensibili, aperte ed interessate a questi temi. Sebbene questo quasi-volontariato della partecipazione al corso, di per sé, non abbia un valore negativo, si dovrà di ciò tenere conto al momento dell'analisi della valutazione del corso richiesta agli stessi partecipanti. 

 Per la trattazione dell'efficacia della formazione si rimanda alle relazioni del valutatore e della coordinatrice didattica. Interessa tuttavia proporre un'ultima, breve, considerazione sulla valutazione dell'apprendimento. In questa fase sperimentale si è voluto sondare soprattutto il gradimento del corso da parte degli operatori di polizia, limitando la valutazione dell'efficacia  alla somministrazione di due domande analoghe all'inizio e alla fine del corso, per rilevare un eventuale cambiamento di atteggiamento nei confronti delle etnie minoritarie. D'altra parte, il contesto di isolamento nel quale è avvenuto il corso avrebbe difficilmente permesso la valutazione della sua efficacia nel cambiare atteggiamenti e comportamenti dei partecipanti, soprattutto in considerazione della difficile misurabilità degli atteggiamenti cui si è accennato precedentemente. Gli strumenti per valutare i cambiamenti (e anche gli atteggiamenti) sono l'osservazione in condizioni reali e tutti i possibili sostituti, dalle domande su come si agirebbe in una data circostanza, alla valutazione dei comportamenti in situazioni simulate. Di questo si dovrà tenere conto nella riproposizione dell'esperienza in un ambito allargato e in un contesto di reale mutamento del servizio erogato.

 

I punti forti dell'esperienza di formazione

 

La formazione sperimentata in questo progetto è la prima del suo tipo in Italia e ha il merito di avere portato sulla scena italiana anche l'esperienza di altri Paesi europei in materia. Siamo convinti che essa costituisca una base valida, e non trascurabile, per chiunque volesse introdurre in Italia la formazione di base e l'aggiornamento per gli operatori di polizia ad offrire un servizio equo e professionalmente valido per tutti i gruppi sociali.

L'introduzione di una valutazione in corso d'opera ha fornito un supporto alla formazione e all'intero progetto che permette uno sguardo riflessivo nel corso della realizzazione dell'azione e non soltanto a lavori ultimati.

I gruppi di contatto, intesi come parte integrante della formazione e complemento della formazione in aula, costituiscono un'esperienza che, per quanto non appieno sviluppata nel corso del progetto per problemi indipendenti da chi lo ha gestito, merita una valutazione attenta per comprenderne l'efficacia e l'eventuale opportunità di estensione nell'ambito della formazione di base e dell'aggiornamento del personale di Polizia.

La metodologia del corso ha tenuto conto dei principi della formazione degli adulti. Le metodologie di apprendimento attivo hanno dimostrato tutta la loro appropriatezza, più volte sottolineata dai partecipanti che hanno sommamente apprezzato il clima di valorizzazione del contributo di tutti e la sensazione, sempre sollecitata dai docenti, di essere essi stessi protagonisti dell'apprendimento. La metodologia e le tecniche didattiche adottate hanno avuto un impatto tanto più forte quanto meno i partecipanti avevano familiarità con queste tecniche, e sono stati quindi particolarmente apprezzati dagli operatori della Polizia di Stato, mentre per buona parte degli operatori della Polizia Municipale essi non costituivano novità.

L'esperienza della formazione congiunta di Polizia Municipale e Polizia di Stato è stata valutata positivamente, senza alcuna eccezione, da tutti i partecipanti.

Nel corso della formazione abbiamo potuto verificare la sostanziale adeguatezza degli esercizi, dei giochi e delle simulazioni proposte, con l'identificazione chiara delle tecniche e delle situazioni che hanno funzionato in modo limitato e necessitano pertanto di una revisione.

3.2 Negli altri Paesi

 

Ognuno dei 10 progetti NAPAP partner del progetto italiano, pur uniti dal comune obiettivo di  coinvolgere i cittadini di etnia minoritaria nella formazione della polizia, hanno seguito percorsi originali, partendo da condizioni e contesti tra loro molto diversi. Purtroppo, le informazioni a nostra disposizione circa i progetti e le loro realizzazioni differiscono enormemente, per alcuni di essi trattandosi di notizie veramente scarne. Tuttavia, abbiamo ritenuto opportuno per questo lavoro riportare gli elementi a nostro avviso più significativi tra quelli a nostra disposizione, sperando che essi contribuiscano ad una migliore comprensione di quanto sta avvenendo in Europa su questi temi e possano essere ulteriore spunto per riflessioni utili anche all'esperienza italiana. Rimandiamo alla lettura dell'ESOAR (European State of the Art Report), che sarà redatto dal coordinatore e valutatore transnazionali del progetto NAPAP, per una trattazione completa dell'argomento, scusandoci per la frammentarietà e la disomogeneità dei paragrafi che seguono.

 

Olanda

Il progetto in Olanda avviene in un quadro, quello di Rotterdam e Rijmond, la sua regione, dove da tempo esiste una collaborazione istituzionale tra la polizia, una ONG che si occupa di antirazzismo, la municipalità e la magistratura. Da questa esperienza è nata la Carta di Rotterdam Policing for a multi-ethnic society. La stretta collaborazione tra la Ong (RADAR) e la polizia è dimostrata dal fatto che il coordinatore del progetto è un funzionario di polizia distaccato presso la sede della ONG che ha maturato una vasta esperienza nella formazione della polizia negli ultimi anni. Nel quadro del progetto NAPAP in Olanda sono stati realizzati dei coalition training (formazione per le alleanze): seminari ai quali partecipavano tutte le parti in gioco (associazioni attive contro le discriminazioni, magistratura, polizia, municipalità, associazioni di minoranze etnica impegnate nella lotta alla discriminazione), in 10 dei 25 distretti di polizia dell'Olanda. I seminari terminavano con la produzione e la sottoscrizione di una lettera d'intenti che coinvolgeva tutte le parti nella lotta contro le discriminazioni su base razziale e le impegnava alla collaborazione. Nonostante il quadro, per certi versi, idilliaco della situazione olandese, il coordinatore del progetto denuncia di avere incontrato difficoltà nel mettere in moto i coalition training in alcuni distretti, o per causa della polizia (non abbiamo minoranze etniche nell'area, non c'è razzismo nell'area, sono le ragioni più spesso addotte) o per causa delle ONG e delle associazioni che vedevano il progetto come una minaccia per la propria identità e la propria posizione sociale. Particolarmente difficile è stato coinvolgere la magistratura che denuncia mancanza di tempo e di risorse.

 

Danimarca

Il sistema di formazione della polizia danese ha subito una profonda revisione alcuni anni fa e da allora il tema dell'immigrazione, della multiculturalità e dell'agire della polizia in una società multiculturale è stabilmente e ampiamente inserito nella formazione di base sotto il profilo socio-antropologico e psicologico della lotta allo stereotipo e al pregiudizio. Il progetto NAPAP ha potuto dunque concentrarsi sull'inserimento sperimentale di persone appartenenti a comunità di etnia minoritaria nella formazione della polizia, in particolare di due giovani community contributors (persone risorsa della comunità) di sesso maschile. Secondo i protagonisti, l'esperienza ha mostrato che è bene affiancare anche una figura femminile, perché la presenza di una donna porta in genere a smorzare i toni e a rendere il dibattito più morbido e serve anche a non ignorare la preoccupazione sempre espressa dai poliziotti di non sapersi rapportare a donne mussulmane. Inoltre, le conclusioni del progetto insistono sulla necessità di avere sempre affiancati due formatori: un operatore di polizia e un rappresentante di ONG, preferibilmente di etnia minoritaria. I docenti del corso giudicano molto positivamente l'avere introdotto l'analisi dei mass media come responsabili dell'immagine negativa delle etnie minoritarie, argomento sul quale è facile trovare un intesa comune poiché anche l'immagine della polizia, come quella degli immigrati, è distorta dai media.

 

Catalogna

Partner istituzionale del progetto é la Scuola di Polizia di Catalogna. Prima dell'avvio del progetto NAPAP, la Scuola di Polizia di Catalogna aveva già tenuto seminari su diversi temi legati alla multiculturalità nell'ambito della formazione di base. Inoltre, nella materia Codice di Condotta e Diritti Umani è trattato il tema della multiculturalità da quando è stato introdotto nel nuovo codice penale, nel maggio 1996, il riconoscimento di crimini correlati al razzismo. La formazione di base include 1800 ore, 10% delle quali sono collegate in qualche modo al tema dei diritti umani (deontologia, mission della polizia, costituzione e relazioni umane).  Inoltre, vengono realizzati numerosi seminari specifici sul multiculturalismo e diversità e persone di etnia minoritaria sono invitate a questi seminari. Anche nelle ore di aggiornamento (ne sono previste 120 l'anno) il 10% è dedicato ai diritti umani. Il progetto NAPAP ha permesso di mettere a punto alcuni esercizi, in particolare simulazioni con la presenza di community contributors, che andranno ad arricchire il corso di base, e di realizzare seminari speciali di approfondimento per i poliziotti che lavorano in aree con una comunità mussulmana importante. I contenuti e le metodologie didattiche dei seminari sono decisi congiuntamente con i rappresentanti della Federazione Catalana degli immigrati.

 

Francoforte

L'Ufficio per gli Affari Multiculturali della Municipalità di Francoforte conduce seminari di mediazione e prevenzione con la polizia di quartiere sin dal 1992.  Il progetto NAPAP ha consistito nell'organizzare seminari di preparazione separatamente per gli operatori di polizia e per i cittadini di etnia minoritaria sui temi della comunicazione e dei più comuni elementi di fraintendimento.

 

Berlino

La città di Berlino vive attualmente molte tensioni e molti conflitti interetnici e ciò rende difficile da parte della polizia accettare interventi di formazione esterni, in particolare che coinvolgano le etnie minoritarie. Esiste comunque nella Polizia del Länder un coordinatore che si occupa dei cittadini stranieri ed un ufficio competente della polizia dove vengono inviati i casi segnalati come discriminazione dal Gruppo di Lavoro contro la Discriminazione e la Violenza  (Ufficio del Länder). Avvengono anche soggiorni di poliziotti tedeschi presso famiglie di immigrati. La strategia adottata dalla Polizia del Länder punta molto sul reclutamento di cittadini stranieri come operatori di polizia ma il grande problema da affrontare è l'alto tasso di abbandono, insieme con una difficoltà dei candidati stranieri a superare le prove di conoscenza della lingua tedesca.

 

Belgio francofono

Il progetto è promosso e gestito da CECLR, istituzione parastatale che sin dal 1995 lavora con la polizia nella lotta contro razzismo e xenofobia: esso si occupa di formazione alla polizia e di formazione ai cittadini di etnia minoritaria per prepararli ai concorsi pubblici per entrare in polizia. NAPAP ha offerto l'opportunità di fare in modo più esteso ciò che già si stava facendo.

 

Austria

E questo l'unico Paese dove il progetto NAPAP sia stato richiesto e promosso dalla polizia stessa. Il progetto è consistito in due giorni di formazione che sono stati realizzati in 50 incontri su tutto il territorio nazionale. I formatori erano sempre due, un operatore di polizia e un rappresentante di ONG o associazione, sia che le due giornate facessero parte della formazione di base, sia dell'aggiornamento del personale già operativo. Le due giornate di formazione prevedevano una breve componente informativa (le leggi, i diritti umani), aspetti della comunicazione interculturale e il contatto diretto con migranti.

 

Belgio fiammingo

Nel 1995 la polizia di Anversa condusse un'indagine in vista della riorganizzazione e ristrutturazione della Polizia verso un modello più orientato alla comunità (community policing). Ne emersero 19 progetti tra i quali Reclutamento di donne e di belgi di origine straniera e fu nominato un funzionario che si occupasse precisamente del tema della discriminazione.  Da allora, la Polizia belga di lingua fiamminga ha lavorato molto con la Polizia di Rijmond (Olanda), in particolare sul tema della comunicazione interculturale.  NAPAP è intervenuto con l'inserimento di due giornate di follow-up della formazione su questi temi, follow-up al quale partecipano anche  cittadini di etnia minoritaria.  Gli incontri avvengono in un luogo neutro e nel secondo pomeriggio i partecipanti visitano una moschea.  Il progetto ha sviluppato tre programmi diversi nelle 3 città partner: come sviluppare una pratica multiculturale nella polizia, la gestione dei conflitti, l'accoglimento del pubblico.

 

Francia

Il progetto mira nel suo insieme a mettere a punto un documento di raccomandazioni sulla formazione per migliorare le relazioni tra i dipartimenti della sicurezza e le persone di origine straniera. Esso ha diversi obiettivi nelle 4 città dove si è realizzato: dall'accordo tra i vari partner per un contratto locale per la sicurezza, alla formazione di gruppi di adolescenti alla cittadinanza, compresa la capacità di entrare in contatto con le istituzioni e rispettarle, alla formazione di un gruppo di cittadini di etnia minoritaria a intraprendere la carriera nelle forze di polizia. L'associazione CIRAP ne è promotrice e coordinatrice.

 

Gran Bretagna

Lo scopo del progetto inglese era di promuovere il coinvolgimento di persone di etnia minoritaria nella formazione della polizia. La formazione della polizia sulla relazione con le comunità e le diverse razze (community and race relations) è da tempo stabilita in Gran Bretagna ed esistono già esempi di coinvolgimento di etnie minoritarie. Infatti, il Reading Council for Racial Equality (uno dei promotori e coordinatori del progetto) ha da tempo avviato una partnership con la Scuola Nazionale di Polizia di Bramshill per fornire community contributors (persone risorsa nelle comunità) dalle comunità di minoranza etnica locale ai corsi nazionali di formazione per dirigenti di polizia.  L'obiettivo del progetto NAPAP era dunque quello di consolidare e stabilire una struttura di supporto per quest'iniziativa che rimane tuttavia abbastanza pionieristica anche in Gran Bretagna, sebbene il coinvolgimento di persone di etnia minoritaria non professioniste fosse già stato raccomandato da un rapporto del governo nel 1983. In realtà, molto spesso la formazione della polizia su questioni di comunicazione interetnica e di discriminazione razziale è portata avanti internamente dagli stessi operatori di polizia, senza concedere alcuna visibilità o responsabilità alle etnie minoritarie. L'esperienza NAPAP consisteva in due giorni di formazione tenutisi alla Scuola Nazionale di Polizia di Bramshill per preparare alcune persone di etnia minoritaria a  diventare community contributors. Per queste caratteristiche del contesto, l'esperienza inglese è dunque quella che più ha saputo contribuire a costruire una serie d'indicazioni e raccomandazioni. Ci sembra dunque interessante riportare alcune delle conclusioni raggiunte dal progetto:

la formazione della polizia è generalmente fatta da formatori interni. Tuttavia, quando si tratta propriamente delle relazioni con la comunità e le etnie minoritarie, è opportuno che la formazione sia fornita da una squadra mista di polizia e cittadini comuni, maschi e femmine;

i formatori e i facilitatori devono essere competenti e capaci. Le emozioni possono essere forti nella sessione e i gruppi devono essere condotti con efficacia perché un gruppo condotto male può avere effetti devastanti su una sessione di formazione;

va riaffermato che i community contributors non sono dei formatori ed è importante che essi portino in aula la loro esperienza nel modo più genuino. E però altrettanto importante che essi ricevano un'adeguata preparazione circa il proprio ruolo e la formazione alla quale prenderanno parte;

é importante scegliere le persone giuste come community contributors: coloro che vogliono essere coinvolti per ragioni positive e sono ben disposti al dialogo;

devono essere sempre chiari scopo e obiettivi dell'introduzione dei community contributors e questo deve essere chiaramente esplicitato in aula;

nonostante la consueta limitatezza delle risorse, i community contributors devono sempre ricevere un compenso economico poiché essi spesso rinunciano al proprio tempo libero, quando non ad un'attività lavorativa, per prendere parte a queste iniziative. Non solo ciò è giusto e apprezzato ma dà anche importanza al loro ruolo;

é necessaria una sessione di approfondimento con i community contributors dopo l'esperienza in aula, affinché questi possano apprezzare l'effetto del proprio intervento e valutare la propria esperienza;

in conclusione, i community contributors non sono né formatori né facilitatori. Il loro ruolo è di portare esperienza e conoscenza diretta nella formazione e offrire la visione e i consigli dalla prospettiva delle minoranze etniche. Questa è spesso l'unica opportunità per molti poliziotti di imparare direttamente dalle etnie minoritarie.

Nonostante le diversità, alcuni elementi comuni  a tutti i progetti sono emersi: 

la metodologia d'insegnamento adottata da tutti i progetti era non direttiva, con largo uso delle tecniche di formazione partecipativa e di apprendimento attivo, dai giochi alle simulazioni, ai giochi di ruolo, alle discussioni guidate. Nella maggioranza dei casi, l'approccio adottato era una combinazione dei diversi modelli possibili per la trattazione di questi temi (cap. 4.1), solo in due casi è sembrato si trattasse piuttosto di modelli quasi puri di presa di coscienza del razzismo (Berlino) e approccio educativo (Francia);

in più di un'occasione si è convenuto che, sebbene insegnare cosa avviene nelle diverse culture o religioni non sia importante, né garanzia di alcunché, quando non addirittura una via per il possibile rafforzamento di stereotipi, rimane vero che le domande degli operatori di polizia che vorrebbero essere preparati all'incontro con le culture altre devono trovare una risposta. Questa può giungere dall'incontro con community contributors o gruppi di contatto, oppure, come avviene in qualche Paese, attraverso una formazione specifica per quegli operatori di polizia che sono assegnati ad aree dove prevale una minoranza etnica;

molti concordano sulla valutazione positiva di un luogo esterno alle strutture della polizia per la realizzazione della formazione - ad esempio, centri sociali o centri interculturali, in modo che gli operatori di polizia si trovino subito immersi in un'atmosfera multiculturale - e  considerano importanti alcuni elementi del curriculum informale, come la cena presso un ristorante di cucina etnica ed un breve soggiorno presso famiglie di etnia minoritaria.

4. Il passaggio da una società monoculturale ad una multiculturale: implicazioni per l'erogazione del servizio di polizia

4.1 I diversi approcci alla formazione contro la discriminazione su base razziale

 

Sebbene, in particolare nel mondo anglosassone più che altrove, la formazione all'antirazzismo nelle organizzazioni sia praticata da ormai oltre un trentennio, non esiste una consistente, approfondita e sistematica valutazione dell'efficacia dei diversi approcci.  

Secondo Robin Oakley e Mohan Luthra però, si possono delineare 5 modelli di formazione nel campo delle discriminazioni su base razziale o etnica:

  1. formazione basata sull'informazione sulla questione razziale (race information training)

  2. formazione basata sulla presa di coscienza del razzismo (racism awareness training)

  3. formazione basata sulle pari opportunità delle razze (race equality training)

  4. formazione all'antirazzismo (anti racism trining)

  5. approccio educativo (educational approach)

Di ognuno si riprendono di seguito sinteticamente gli elementi fondanti, insieme con una breve analisi degli aspetti positivi e negativi.

 

Informazione sulla questione razziale

 

E' l'approccio usato per lo più negli anni '60 e '70. E' mirato unicamente agli aspetti cognitivi ma non tocca gli atteggiamenti e i comportamenti. Confida sul fatto che sarà il personale a fornire un migliore servizio perché meglio informato. L'aspetto delle leggi è toccato solo in quanto una delle componenti informative della formazione. Usa preferibilmente metodi didattici tradizionali, per lo più nella forma della conferenza o della lezione frontale. Gli effetti riconosciuti di questo approccio sono che, se l'informazione è effettivamente rilevante, essa informerà coloro che sono in cerca di informazione e di conseguenza sono alte le probabilità che migliorerà il loro lavoro ma non vi è alcuna prova che ciò induca alcun cambiamento negli atteggiamenti e tantomeno nei comportamenti in modo generalizzato. L'informazione, da sola, potrebbe ugualmente abbattere pregiudizi o sostenerli e il risultato sarà affidato unicamente alla recettività del partecipante alla formazione. Sembra dunque che la condizione affinché questa componente della formazione sia di qualche efficacia è che essa faccia parte di un programma più ampio che arrivi a toccare anche gli atteggiamenti ed i comportamenti: la componente di formazione basata sull'informazione diventa potenzialmente efficace nel combattere il razzismo solo quando esistono atteggiamenti favorevoli o sono state sollecitate la consapevolezza e la sensibilità alle questioni razziali. Come parte di un programma più vasto di formazione, o come specializzazione di alcuni dipendenti di un'organizzazione, il modello viene tutt'oggi applicato.

 

Formazione basata sulla presa di coscienza del razzismo

 

L'assunto su cui si basa questo modello è che il razzismo sia un attributo dei bianchi che devono di conseguenza divenire consapevoli del proprio razzismo come condizione fondamentale per affrontare il problema nella loro vita. E facile capire che l'accento è posto sugli atteggiamenti del singolo, specialmente nella dimensione affettiva valori, sentimenti che i bianchi hanno nei confronti dei neri26. La formazione deve avvenire dunque in un gruppo ridotto di persone, con largo uso di tecniche educative tipiche della sfera degli atteggiamenti (giochi di ruolo, critical incident technique, ecc.). Il limite, così come per il modello precedente, è legato al fatto che questo approccio è normalmente svincolato dalle altre componenti del programma di formazione e ancor più slegato da ogni strategia generale dell'organizzazione per combattere il razzismo. Le conseguenze (dimostrate da alcuni studi) sono che gli individui si sentono spesso impotenti (per senso di colpa o perdita di fiducia in se stessi), oppure iniziano una vera e propria crociata per la causa. Entrambe queste risposte possono essere inutili a livello organizzativo per avviare cambiamenti effettivi. Sembra dunque che questo approccio ottenga i suoi migliori risultati (soprattutto se preso come momento formativo isolato) in presenza di individui già predisposti positivamente e con persone che occupano posizioni gerarchicamente superiori nell'organizzazione. Questo modello è stato applicato in passato anche alla formazione della polizia, p.e. in USA e UK all'inizio degli anni 80.

 

Formazione basata sulle pari opportunità delle razze

 

Questo modello si basa sul fatto che la discriminazione razziale è illegale e che le istituzioni, le organizzazioni e i privati hanno l'obbligo di evitare che le discriminazioni si producano (siano esse intenzionali o no) e di praticare le pari opportunità. Si tratta spesso di una formazione unicamente mirata alle uguali opportunità di impiego e per questo è poco significativa se non inserita in un programma più ampio di formazione. Si tratta evidentemente di un approccio mirato a modificare i comportamenti, interessato agli aspetti cognitivi solo per quello che essi possono servire a influire sui comportamenti ma, nella maggior parte dei casi, ignora totalmente gli atteggiamenti, relegandoli alla sfera del privato perché irrilevanti per le performance professionali. E evidente che il contenuto, e anche il quadro concettuale attorno al quale è organizzato il corso, sono centrati sulle leggi e sulla loro applicazione. Questo modello può avere come prodotto delle dichiarazioni ufficiali di impegno politico e strategico verso la meta delle uguali opportunità; tuttavia, rimane da provare l'efficacia nel produrre cambiamenti nel comportamento. Il modello ha avuto un importante sviluppo e applicazione in UK con la creazione della Commissione per l'uguaglianza razziale (Commission for Racial Equality) e l'applicazione della Legge sulle Relazioni Razziali (Race Relations Act).

 

Formazione all'antirazzismo

 

Nasce da un approfondimento e una rivisitazione del modello presa di coscienza del razzismo. Si basa sul duplice assunto che il razzismo non può essere ridotto ad un problema degli individui (bianchi) e che esso non può essere affrontato solo nei termini di un comportamento discriminatorio, senza affrontare anche gli atteggiamenti soggiacenti e il riconoscimento di questi sentimenti. I cambiamenti nell'organizzazione avverranno conseguentemente alla presenza di corretti atteggiamenti negli individui che non possono essere ignorati senza incorrere nel rischio di suscitare resistenza e inadempienza dissimulata. I riferimenti legislativi e d'iniziativa politica sono parte del programma ma non ne costituiscono l'elemento fondamentale che rimane la lotta contro il razzismo ad ogni livello e non solo al livello dei servizi da fornire o delle pari opportunità d'impiego. Questo approccio in genere è usato in corsi ad hoc ma può essere anche introdotto nel normale programma di formazione e permearne tutti gli aspetti. La comparsa di questo approccio e la sua adozione è piuttosto recente e perciò, ancor meno che per gli altri modelli, esistono metodi di valutazione che possano convincentemente isolarne gli effetti ed indicarne la validità.

 

L'approccio educativo

 

La peculiarità di questo modello sta nel metodo piuttosto che nel contenuto. Il metodo è non direttivo e, si potrebbe dire, autenticamente maieutico, basato sull'assistenza allo sviluppo personale e sull'instaurarsi di una relazione personale di collaborazione tra il formatore e i partecipanti. L'obiettivo è raggiungere dei cambiamenti a livello degli atteggiamenti, lasciando il comportamento come una variabile al di fuori della portata del corso. L'assioma su cui si regge questo approccio educativo consiste nella convinzione che, qualunque sia l'origine e la natura del razzismo, un cambiamento durevole e certo può concretizzarsi unicamente attraverso lo sviluppo personale degli individui. In altri termini, quanto più agli individui  viene imposta la necessità e la direzione del cambiamento, tanto meno il risultato sarà un cambiamento durevole in quella direzione. Il paradosso che ne deriva è che la formazione tanto più avrà effetti positivi quanto meno sarà direttiva; esso diventa talmente patente da produrre un'insanabile contraddizione tra la non direttività assoluta e la scelta di combattere il razzismo come scopo del corso. I cambiamenti che un simile modello possono produrre non possono che essere raggiungibili nel lungo periodo.  

Come districarsi dunque nella scelta di un modello formativo per la polizia? Può essere osservazione ovvia che i diversi modelli possono essere adatti a diversi tipi di organizzazione, per esempio un'associazione di volontariato oppure un'istituzione. Sembra anche di potere asserire, sulla base degli studi che sono stati condotti, che l'uso di uno solo di questi modelli può limitarne grandemente lefficacia nel produrre cambiamenti significativi e durevoli in un'organizzazione. Probabilmente, la soluzione che oggi sembra disponibile è la scelta pragmatica di combinare alcuni di questi modelli tenendo presente che:

come ormai accertato anche in altri settori, l'aspetto cognitivo della formazione può essere elemento importante ma in nessun modo sufficiente;

benché il legame tra atteggiamenti e comportamenti non sia né diretto né tantomeno garantito, sembra di potere concludere che un programma formativo sarà difficilmente efficace nel combattere il razzismo se non introdurrà almeno qualche elemento di presa di coscienza

d'altro canto, nessuno degli elementi precedenti sarà efficace senza il supporto e la recettività dell'organizzazione nel delineare nuovi compiti e nuove modalità di erogare i servizi e fornire le proprie prestazioni

letica professionale e i codici di comportamento devono introdurre elementi che si riferiscono ai temi della lotta alla discriminazione su base razziale ed etnica

l'efficacia della formazione sarà tanto più evidente e certa quanto più essa sarà agganciata al curriculum e terrà in conto l'esperienza delle persone vittime di discriminazione.

4.2 Alcune riflessioni

 

Si dice spesso che gli operatori di polizia sono un campione rappresentativo della società e dunque, come i membri di qualunque altro gruppo professionale, essi portano con sé la loro conoscenza e gli atteggiamenti appresi per l'educazione ricevuta e per le esperienze avute nel corso della vita. Se in generale, nella società, quando c'è diversità etnica c'è ignoranza circa gli altri gruppi etnici e, in certa misura, un atteggiamento negativo nei loro confronti, c'è da aspettarsi che gli operatori di polizia mostrino questa stessa tendenza all'etnocentrismo.  

Questo tema è stato affrontato, come si è visto, in diversi Paesi e tutte le esperienze hanno messo in luce la necessità di non liquidare il tema come un caso da trattare meramente nel campo della formazione, cercando illusoriamente di offrire qualche strumento in più a qualche operatore di polizia. Alcuni elementi fondamentali possono invece essere individuati:

la formazione da sola non può raggiungere nessun cambiamento: essa richiede un supporto organizzativo, sia a livello politico, sia a livello dei funzionari e dei dirigenti;

la strategia di formazione dovrebbe essere chiara e disegnata per identificare i bisogni formativi sul tema dei migranti e delle relazioni etniche;

la polizia dovrebbe consultare le associazioni e le organizzazioni non governative circa i bisogni formativi e coinvolgere queste stesse associazioni e organizzazioni come partner nell'elaborazione di programmi di formazione;

i temi relativi ai migranti e alle relazioni interetniche dovrebbero essere inseriti sia nella formazione di base, sia nell'aggiornamento di tutti gli operatori di polizia;

la formazione dovrebbe cominciare dall'alto, con corsi sulle strategie per i dirigenti e via via procedere per tutti i gradi dell'organizzazione;

anche il reclutamento di operatori di polizia tra le comunità di etnia minoritaria può aiutare a migliorare le relazioni tra la polizia e questi gruppi.

Le linee guida tracciate dal Consiglio d'Europa indicano come scopo della formazione della polizia assicurare un trattamento giusto ed equo di tutti i gruppi etnici che sono parte della comunità, secondo i bisogni di ogni individuo, e combattere la discriminazione.

Esse identificano anche sei obiettivi di fondo per raggiungere questo scopo:

  1. aumentare la conoscenza e la comprensione degli operatori di polizia nel campo delle relazioni umane;

  2. sviluppare le competenze comunicative, specialmente nel contesto multiculturale;

  3. migliorare la capacità della polizia di erogare un servizio di qualità al pubblico;

  4. rispettare ogni individuo, indipendentemente dalle sue origini;

  5. rafforzare la fiducia della polizia nel compiere il proprio dovere in una società multiculturale;

  6. accrescere la conoscenza degli operatori di polizia circa le leggi ed i regolamenti rilevanti nel settore dell'immigrazione e della discriminazione su base razziale.

Va da sé la necessità d'individuare all'interno di questi obiettivi fondamentali degli obiettivi specifici per ogni grado e ruolo degli operatori di polizia, in modo che la formazione sia strettamente collegata con la pratica e con i compiti di ogni singolo agente o dirigente, e sia quindi non ripetitiva ma ciclica. Le linee guida individuano due aree per il contenuto della formazione di base: conoscenza-comprensione e comportamento e per questi tracciano una lista di temi da trattare. 

Conoscenza e comprensione:

storia e situazione attuale delle comunità di etnia minoritaria;

necessità di rispettare i sistemi di valori di diversi gruppi culturali;

consapevolezza delle presupposizioni della cultura dominante e dell'etnocentrismo;

ruolo della polizia nella società;

concetti di pregiudizio e discriminazione (individuale e istituzionale);

natura e manifestazioni di razzismo e xenofobia;

varietà delle risposte delle minoranze alla dominanza bianca.

 

Comportamento (competenze e abilità):

 

comunicazione efficace in situazione interculturale;

gestione della violenza e del conflitto;

fare fronte alla paura e allo stress nelle situazioni difficili;

competenze e capacità necessarie per affrontare un comportamento discriminatorio;

standard di professionalità richiesti nelle situazioni multietniche.

Come si vede, si tratta in gran parte di competenze che dovrebbero già essere presenti nel curriculum per il loro carattere generale (p.e., competenze comunicative, dominare stress e paura, la capacità di ricomporre i conflitti, ecc.) o che fanno già parte dell'agire quasi quotidiano degli operatori di polizia anche se non formalizzati in un percorso formativo. Queste competenze andrebbero semplicemente estese al nuovo contesto multiculturale e multietnico e/o incluse nel curriculum formativo. 

La formazione efficace deve raggiungere gli standard appropriati di conoscenze, atteggiamenti e comportamenti ma la formazione, da sola, non può garantire che il comportamento che il formando ora dovrebbe essere in grado di adottare sarà effettivamente applicato, perché intervengono diversi fattori. Molte ricerche, e l'esperienza della componente italiana del progetto NAPAP, hanno dimostrato, sia in generale che nel particolare caso della polizia, che gli effetti positivi della formazione tendono ad indebolirsi, o addirittura a scomparire, quando chi ha partecipato al corso torna all'ambiente di lavoro. Le esperienze negative sul lavoro, la pressione dei colleghi, l'assenza di impegno e supporto da parte dei superiori, tutti insieme questi elementi concorrono a rendere vani gli sforzi della formazione per produrre i cambiamenti auspicati.  

Come in ogni altro settore della formazione della polizia (e di qualunque altra organizzazione), anche la formazione su questi temi non sfugge alla regola: essa deve essere sostenuta dalla struttura e dalla gestione generale, inclusi i superiori, i supervisori, il sistema dei premi e delle sanzioni. Quindi lo scopo non dovrebbe mai essere solo quello di cambiare atteggiamenti, conoscenza e comportamenti degli operatori di polizia; lo scopo è piuttosto quello di raggiungere le modifiche necessarie a livello organizzativo, in modo che la deontologia della polizia, il personale, il modo di operare e il servizio che offre riflettano la società odierna che è  multiculturale.  

Indicazioni precise circa le strategie da mettere in atto per adattare il servizio di polizia alla società multiculturale vengono dalla Carta di Rotterdam28 che elenca 5 aree d'intervento per offrire un servizio professionalmente valido ed equo:

  1. il reclutamento e  degli operatori di polizia tra i cittadini di origine straniera.

  2. La formazione

  3. La corretta applicazione delle leggi

  4. La costruzione di ponti tra le etnie minoritarie e la polizia

  5. L'adozione dell'approccio la partecipazione dei migranti nelle azioni criminali opposto a la partecipazione della Polizia nella criminalizzazione dei migranti.

A livello europeo, le polizie dei diversi Paesi hanno intrapreso diverse strade. Un esempio: mentre la polizia olandese ha puntato in questi anni sulla fedele rappresentatività nella polizia della composizione demografica ed etnica della popolazione come una delle garanzie fondamentali per un positivo rapporto con le etnie minoritarie, la polizia in Gran Bretagna ha recentemente preso una posizione nettamente contraria, ritenendo questo elemento non determinante per il buon rapporto con le etnie minoritarie, a favore invece di un serio impegno a identificare i casi di razzismo, sia all'esterno nella società, sia all'interno dell'istituzione stessa. In ogni caso però, i pareri concordano unanimemente sull'inutilità di una formazione degli operatori di polizia che sia avulsa da un contesto di cambiamento della cultura, della strategia e della struttura e organizzazione della polizia e dove dirigenti e funzionari non siano chiamati in prima persona a sostenere i mutamenti richiesti.

4.3 Proposte per la formazione degli operatori della Polizia di Stato italiana all'agire nella società multiculturale

 

Gli studi e le riflessioni condotte a livello internazionale, le esperienze degli altri Paesi, il progetto NAPAP ed in particolare l'esperienza condotta in Italia, ci incoraggiano a suggerire di intraprendere la via delle innovazioni della Polizia in modo che essa possa fornire un servizio adeguato alla società italiana che ormai è, e sarà sempre più, multiculturale. E nostra opinione, più volte espressa in ognuno dei capitoli di questo lavoro, che la formazione da sola non basterà ma essa dovrà essere accompagnata da una serie di cambiamenti strutturali e strategici per l'applicazione dei quali gli operatori di polizia dovranno essere formati.  

Riteniamo dunque che il percorso da seguire per introdurre le opportune modifiche e gli sviluppi nel sistema attuale sia di rispondere alle domande che seguono.

 

4.3.1 Le domande alle quali rispondere

 

A quale modello di polizia deve servire questa formazione? La determinazione dei compiti degli operatori di polizia (e dunque la definizione dei bisogni formativi) non possono esistere nel vuoto ma devono trovare la propria ragione in una politica precisa. In sostanza, quali mutamenti strutturali, organizzativi e disciplinari introdurre affinché il cambiamento sia possibile e reale? La Carta di Rotterdam identifica in modo preciso principi e linee guida per l'erogazione del servizio di polizia nella società multiculturale. Precisamente:

reclutamento. La polizia è lo specchio della società, perciò essa deve riflettere la stessa diversità etnica della società in generale; per reclutare operatori tra le tenie minoritarie, la polizia deve promuovere un'immagine positiva del proprio lavoro tra le comunità, lanciare programmi speciali per invogliare le etnie minoritarie ad intraprendere questa carriera, modificare i criteri per la selezione senza in alcun modo abbassarne lo standard, precisare che questo tipo di reclutamento non è un favoritismo ma una necessità, assicurare che le opportunità di carriera siano effettivamente eque, stabilire procedimenti disciplinari per colpire la discriminazione e le molestie nei confronti dei colleghi di etnia minoritaria;

formazione: intesa come uno degli elementi che, assieme agli altri, portano all'erogazione di un servizio di polizia equo e professionalmente valido. Essa deve essere basata sull'esperienza quotidiana di lavoro degli operatori, deve rendere capaci gli operatori di polizia di identificare casi di razzismo e di rispondere in modo professionale, deve aiutare i poliziotti a prendere coscienza dei propri atteggiamenti e pregiudizi, promuovere un'immagine positiva delle comunità di etnia minoritaria e insistere sulla necessità professionale  per un operatore di polizia di rispettare sempre il principio di trattamento equo. Infine, i cittadini di etnia minoritaria e le loro associazioni devono essere coinvolti nella formazione stessa della polizia;

applicazione delle leggi contro la discriminazione. Esse sono spesso buone ma male applicate ed è compito delle polizie di produrre l'evidenza della discriminazione, conquistandosi così credibilità. Gli operatori di polizia devono quindi essere preparati a riconoscere le discriminazioni in diverse situazioni, a registrare i casi e a riportarli ai superiori; per questo è bene approntare un sistema di rilevazione e report dei casi di razzismo (monitoring) e l'attribuzione di una particolare responsabilità ad un operatore. Le procedure devono essere trasparenti e le vittime ascoltate. Per la migliore riuscita di un programma di monitoraggio, la polizia deve ascoltare e consultare le autorità locali, le Ong e le associazioni e le comunità di cittadini di etnia minoritaria, deve interrogarsi sulle ragioni di un numero di segnalazioni limitato rispetto alla realtà e deve adottare misure specifiche per incoraggiare le segnalazioni dei casi di razzismo. Infine, i casi segnalati devono essere seguiti e il loro esito valutato.

costruzione di ponti tra le tenie minoritarie e la Polizia, per promuovere la fiducia e la cooperazione reciproca. La Carta di Rotterdam suggerisce che per questo la polizia debba porre grande attenzione nella propria capacità di comunicare in modo professionale e competente, superare le posizioni di contrapposizione e promuovere la credibilità della propria azione nella lotta contro i casi di razzismo.

passaggio dall'atteggiamento  la partecipazione degli immigrati nella criminalità all'atteggiamento la partecipazione della polizia nella criminalizzazione degli immigrati. E di fondamentale importanza per questo che la polizia riconosca le modalità stereotipizzanti dei mass media e adotti un codice di comportamento per rilasciare comunicazioni alla stampa; riconosca il pericolo di porre l'accento sui tassi di criminalità tra la popolazione immigrata (in particolare in certi gruppi etnici) per evitare il rischio di stigmatizzare un'intera comunità; la necessità di non limitarsi ad un'analisi puramente statistica della criminalità perché è sempre necessario capire le ragioni; l'opportunità di procedere ad un'analisi seria e accurata di come la polizia stessa tratta certi gruppi etnici.

Quale impegno politico, chiaro e pubblico, la polizia adotta e di cui la formazione costituisce una parte? Come già detto, la dichiarazione di impegno non basta, serve una strategia complessiva. Poiché la polizia è un'istituzione altamente gerarchizzata (e certamente lo è in Italia più che altrove in Europa), il processo di cambiamento deve partire dall'alto. La formazione deve perciò cominciare proprio dai funzionari e dai dirigenti (essi stessi chiarificatori della strategia da scegliere) che hanno il ruolo chiave di fornire il supporto necessario alla nuova strategia all'interno dell'organizzazione: se i dirigenti comunicano, all'interno e all'esterno dell'organizzazione, in modo aperto e chiaro il proprio personale impegno, e quello dell'intera organizzazione, saranno maggiori le probabilità che i singoli operatori si sentano sostenuti nei propri sforzi per applicare le nuove regole e per adattarsi ai cambiamenti nella cultura stessa dell'organizzazione. Inoltre, non sarà mai ribadito abbastanza, la polizia deve conquistarsi credibilità presso le comunità di etnia minoritaria, e per questo è essenziale che il primo, fondamentale passo, sia che la polizia prenda sul serio i casi di discriminazione su base razziale ed etnica. E esperienza provata in tutti i Paesi che da più tempo dell'Italia ospitano migranti, che i problemi maggiori di tensione si hanno con i giovani della seconda e terza generazione quando si arriva a scontri frontali e violenti, come è accaduto in Gran Bretagna e in Olanda, anche in anni recenti. Il punto di partenza della collaborazione sembra essere stato il cominciare, insieme, tutti gli attori coinvolti, a prendere in considerazione seria le segnalazioni di casi di razzismo riportate sia alla polizia che ad  altri interlocutori, istituzionali e non.

Quale modello di riferimento teorico per la formazione? La scelta del modello teorico di riferimento (o meglio, della combinazione di modelli) implica necessariamente la risposta alla domanda: quale combinazione di obiettivi raggiungibili a breve termine e quali a lungo termine bisogna stabilire? In particolare, prendendo come riferimento l'esperienza NAPAP in Italia, sarà anche necessaria una riconsiderazione di temi da noi non introdotti - diritti umani e  legislazione relativa, informazioni sui cambiamenti demografici della nostra epoca  e sulla presenza di immigrati in Italia, tecniche per fare fronte allo stress e gestire i conflitti e fronteggiare la paura - e tutti gli altri temi, già citati, che dovrebbero comunque fare parte della formazione di un operatore di polizia. Sarà necessario chiarire se essi sono già parte della formazione di base, inseriti in diverse discipline o materie a sé, e in che modo possono essere parte di un programma di aggiornamento.

Quale il ruolo e lo spazio dei cittadini di etnia minoritaria nella formazione? Si sono già spiegate le ragioni della necessità della presenza di persone appartenenti alle minoranze nel corpo dei docenti (par. 3.1.1) e della scelta del progetto per i gruppi di contatto come ulteriore momento di comunicazione tra operatori di polizia e etnie minoritarie. Altri progetti NAPAP hanno optato per i community contributors, membri delle comunità di etnia minoritaria ai quali sono riservati momenti in aula e il cui ruolo è quello di descrivere la propria comunità e le sue speciali caratteristiche e di rispondere a domande circa i loro rispettivi gruppi di appartenenza. Lo scopo rimane quello di assicurare che le voci di diversi gruppi siano ascoltate. Tuttavia, è necessario rispettare alcuni criteri imprescindibili quando quest'ultima è la via scelta: le persone risorsa delle comunità devono essere persone centrate, a proprio agio con la propria diversa identità e capaci di rispondere in modo non difensivo; devono essere capaci di descrivere l'ampia gamma di convinzioni e comportamenti dei membri della propria comunità di appartenenza e come queste convinzioni e comportamenti sono simili/diversi da quelli di altri gruppi e della comunità autoctona; devono essere a conoscenza della cultura dell'istituzione Polizia e capire la natura e il tipo dei contatti che questa ha con i membri delle comunità immigrate. Alcune di queste caratteristiche devono già appartenere agli individui, altre dovranno essere oggetto di una breve formazione. Infine, ma non meno importante, le persone risorsa delle comunità, sia che si tratti di gruppi di contatto, sia che si tratti di persone risorsa nella formazione in aula, dovranno essere pagate per il servizio che offrono (fornire informazioni e competenze per la formazione), così come sono pagati i docenti e i partecipanti ai corsi.

Introdurre codici di condotta? La formazione può contribuire ad aiutare gli operatori di polizia a prendere coscienza ed essere dunque più attenti e più capaci nell'assolvere il proprio compito di fornire un servizio di polizia equo e giusto in una società diversificata. Ciononostante, possono persistere casi di operatori di polizia che, nonostante la formazione professionale, sono così carichi di pregiudizi, in particolare nei confronti di certi gruppi etnici, che risultano poi incapaci di portare a termine i loro compiti in modo professionale. In questi casi, nessuna formazione sarà in grado di rimediare al loro comportamento e alcune polizie europee (p.e., in Gran Bretagna) sono giunte alla conclusione che essi non sono adatti ad essere operatori di polizia. In questi casi l'istituzione prende provvedimenti disciplinari fino ad arrivare, se necessario, all'esclusione. Analogamente, l'introduzione di un sistema di ricompensa per gli atteggiamenti ed i comportamenti positivi che risulti dalle conoscenze e competenze acquisite nei momenti formativi, aumenta le motivazioni del personale.

Materia a sé oppure elementi da distribuire in ogni momento della formazione? Una scelta che ci si trova sempre ad operare in fase di definizione o revisione di un curriculum: esistono ragioni a favore e contro ognuna delle due soluzioni e non potrà essere che la disamina attenta dell'attuale programma di formazione di base degli operatori di polizia e degli effetti positivi e negativi che esso produce ad indicare la risposta al quesito. Ma altre domande dovranno trovare una risposta ponderata: se il curriculum dovrà, come si suppone, essere a spirale (con episodi formativi che si ripetono sugli stessi temi ma con un approfondimento ed un allargamento dei contenuti), dove dovranno essere collocati questi momenti formativi? quanto tempo vi sarà dedicato e dunque quanto peso nella formazione complessiva? In ogni caso, non si potrà non tenere conto del fatto che deve essere concesso il tempo adeguato per esplorare temi che possono essere controversi e urtare la suscettibilità di qualcuno.

Quali metodi didattici adottare? E presumibile che dovranno essere adottati diversi metodi formativi a seconda che i destinatari della formazione siano operatori di prima linea (p.e. squadra volante), ispettori responsabili di squadre, oppure dirigenti con responsabilità anche di carattere politico. Le tecniche di apprendimento in aula devono essere le più varie, cercando di ridurre al minimo le lezioni frontali, ma introducendo esercizi, giochi, simulazioni, discussioni di gruppo e, possibilmente, presentazioni video. Il video permette infatti di entrare nell'analisi della situazione senza necessariamente calarsi in essa e la riflessione, che sempre deve farvi seguito, permette di evidenziarne l'analogia ed il rapporto con l'attività professionale. La produzione di alcune simulazioni di situazioni reali in video ci sembra meriti una particolare attenzione quando si tratti di passare da un'esperienza a carattere limitato alla formazione estesa.

Quale materiale didattico preparare? La formazione dovrebbe sempre essere accompagnata da materiale scritto appropriato e tempestivamente distribuito. Pensiamo che il materiale prodotto per il corso NAPAP, sebbene migliorabile e certamente da rivedere in parallelo con le eventuali modifiche apportate al corso, possa costituire una valida base.

Chi farà la formazione? Chiunque saranno i docenti (si veda per questo il par. 3.1.2 Il curriculum), essi dovranno avere una formazione speciale e adeguata perché i temi da affrontare sono di estrema delicatezza e non possono essere affidati a formatori non preparati, per quanto esperti di altre discipline. Teniamo a precisare che la proposta di formazione di formatori che si trova in allegato, e che fu redatta prima della stesura di questo documento su richiesta della Direzione Centrale degli Istituti dIstruzione, non rappresenta in alcun modo la risposta ai quesiti esposti al paragrafo precedente che meritano invece la riflessione congiunta di un gruppo di lavoro ampio ed articolato come suggeriamo nel capitolo che segue. Essa è soltanto una risposta provvisoria ad una richiesta urgente che ci è pervenuta dalla Direzione Centrale degli Istituti dIstruzione alla quale abbiamo volentieri risposto.

4.3.2 Proposta di un gruppo di lavoro

 

 Al di là del successo, o dell'insuccesso del ciclo di formazione, pensiamo che il progetto NAPAP abbia avuto una funzione di apripista: esso acquisterà il suo senso pieno quando, e se, riuscirà ad innescare un processo ampio di riflessione e di cambiamenti strutturali. 

E opinione di chi scrive che il modo migliore di condurre l'analisi e proporre i mutamenti culturali, strutturali e organizzativi che la società multiculturale italiana richiede alle istituzioni preposte a garantire la sicurezza dei cittadini, sia la creazione di un gruppo di lavoro che veda la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni, dell'associazionismo impegnato nella lotta contro la discriminazione su base razziale ed etnica, dei cittadini di etnie minoritarie e di enti locali. 

I compiti che spettano al gruppo di lavoro sono, a nostro avviso, i seguenti:

rispondere alle domande che sono elencate al capitolo precedente (e individuarne altre che siano rilevanti per il tema)

decidere quali ulteriori studi, approfondimenti e indagini sono strumentali alle decisioni da prendere

formulare il nuovo curriculum per la formazione di base, differenziandolo per gradi

elaborare il programma per l'aggiornamento del personale già in servizio

elaborare il programma per la formazione dei formatori.

 

La formazione della Polizia per la società multiculturale

Progetto finanziato dalla Commissione Europea DG V

 

NAPAP: il senso di un esperimento

Conclusioni sulla formazione ad operatori di PS e PM a Bologna e Modena

 Marina Pirazzi

1999   


Pensavamo di trattare tutti i cittadini allo stesso modo, senza distinzione di razza o appartenenza etnica.

I cittadini di etnia minoritaria pensavano il contrario: erano convinti di essere trattati ingiustamente.

Dunque il problema esisteva.  

Inspector Larry Thain e Chief Constable Stephanie Yearnshire

Polizia di Northumbria

Gran Bretagna 
 
Nota sulla terminologia usata 

In questo testo si usa la terminologia che, non senza contestazioni, è stata adottata per la comunicazione tra i partner europei nei due anni di progetto.  
L'aggettivo etnico e il nome etnie fanno riferimento in senso generale alle minoranze che possono essere definite da un'identità razziale, culturale o nazionale e che possono essere residenti da tempo in un Paese e averne anche ottenuto la cittadinanza e la nazionalità, oppure possono essere di recente immigrazione o rifugiati. Il termine permette di comprendere dunque nella categoria (al contrario delle categorie stranieri e immigrati) tutte le persone non appartenenti alla maggioranza bianca autoctona e di includere cittadini non bianchi-non autoctoni ma appartenenti a minoranze visibili.   
I termini etnia e cultura sono spesso usati nel tentativo di identificare la base della discriminazione razziale, soprattutto nella forma di razzismo culturale o razzismo colto. Tuttavia, l'uso di questi termini è problematico ed essi possono risultare offensivi se rimane sottinteso e non espresso il fatto che, accanto ad etnie minoritarie, vivono etnie maggioritarie.  

Siamo ben consapevoli che non esistono termini privi di associazioni o significati di valori. Perfino la parola razza, anche se ormai inaccettabile come categorizzazione scientificamente fondata degli esseri umani, continua ad avere un significato sociale che si manifesta nel razzismo che resta da combattere. Dovendo però operare una scelta terminologica in un contesto nazionale ed europeo che non si è ancora chiarito, abbiamo optato per questa soluzione nella speranza che, un giorno, ogni gruppo avrà la possibilità e il potere sociale di autodefinirsi e che tali definizioni saranno precise, adatte ai contesti nei quali saranno usate ed accettabili e accettate da altri gruppi.

 

 

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