La formazione della Polizia
per la società multiculturale
di Marina
Pirazzi
Scopo ed organizzazione del
documento
A conclusione del
progetto NAPAP - La formazione della polizia per
l'agire nelle società multiculturali, si vuole presentare al Dipartimento di
Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno, in particolare alla Direzione
Generale degli Istituti d'Istruzione, e ai Comandi delle Polizie Municipali di
Bologna e Modena, un documento che, inquadrando l'esperienza nel contesto
europeo ed italiano nei quali essa si è realizzata, ha lo scopo di richiamare
l'attenzione su alcune considerazioni ed illustrare uno dei possibili percorsi
da mettere in atto per attrezzare la Polizia di Stato e le Polizie Municipali
ad offrire un servizio professionalmente valido ed equo, nel contesto della
società multiculturale italiana.
Il progetto europeo NAPAP (NGOs and Police Against Prejudice) nasce come
un progetto promosso e coordinato dalle ONG (Organizzazioni Non Governative) e
dalle associazioni di cittadini di etnia minoritaria, in partenariato con le
Polizie e le autorità locali e con un contributo della Commissione Europea,
affinché nella formazione delle forze dell'ordine siano introdotti i cittadini
di etnia minoritaria e le loro associazioni, in vista della preparazione degli
operatori di polizia ad offrire un servizio equo e professionalmente valido
nell'odierna società multiculturale. NAPAP
raccoglie 11 progetti partner in 9 Paesi; il progetto italiano è stato
realizzato in cooperazione con il Ministero dell'Interno Direzione Generale
degli Istituiti d'Istruzione, i Comuni di Bologna e Modena, il Forum dei
cittadini non comunitari della Provincia di Bologna, la Regione
Emilia-Romagna. Ha avuto una durata di due anni (novembre 1997 ottobre 1999),
nel corso dei quali sono stati formati 90 operatori della Polizia di Stato e
57 operatori delle Polizie Municipali di Bologna e Modena.
Il documento non intende
affrontare i numerosi e diversi aspetti che il passaggio dall'erogazione di un
servizio di polizia per una società monoculturale all'erogazione di un
servizio di polizia per una società multiculturale implica: esso si sofferma
sulla componente di formazione, includendovi anche i gruppi di contatto con
cittadini di etnie minoritarie, a partire dall'esperienza maturata nell'ambito
del progetto NAPAP.
I primi due capitoli
tracciano un breve profilo del contesto italiano ed europeo nel quale è
maturata l'esigenza di dare vita al progetto NAPAP. Il terzo capitolo entra nel merito del
progetto descrivendo il corso negli aspetti del contenuto e metodologici.
Infine, il quarto capitolo, dopo avere disegnato i possibili quadri di
riferimento teorico-concettuali, suggerisce alcuni quesiti ai quali sarà
necessario rispondere se si vorrà adeguare la formazione di base degli
operatori di polizia (e l'aggiornamento per coloro che già sono in servizio)
alla società multiculturale nella quale viviamo.
Quanto scritto nei
capitoli che seguono si completa necessariamente, per un esaustiva trattazione
dell'esperienza NAPAP, con il rapporto di fine
progetto del coordinatore italiano, le riflessioni del valutatore nazionale,
la relazione della coordinatrice delle attività didattiche. Inoltre, per
meglio comprendere l'esperienza complessiva nel suo contesto europeo, sono
utili la lettura dell'ESOAR (European State of the Art Report) redatto dal
coordinatore e dal valutatore transnazionali.
2. Il contesto europeo della lotta
alle discriminazioni su base razziale o etnica
Sono numerosi i richiami
e le iniziative che le varie istituzioni comunitarie hanno lanciato negli
ultimi 15 anni sul tema della discriminazione razziale e della xenofobia: a
partire dalle Risoluzioni del Consiglio d'Europa (1985), dalle Commissioni
d'Inchiesta su razzismo e xenofobia nominate dal Parlamento europeo (1985, 90,
93), dalle indagini dell'Eurobarometro (1988/89 e 1997) per arrivare
all'Anno europeo contro il razzismo (1997) e alla costituzione
dell'Osservatorio Europeo.
Il Trattato di Amsterdam,
sottoscritto dai Pesi membri nel 1997, con l'Art.131 fa della non
discriminazione uno dei principi fondamentali dell'UE e, seppure con alcune
limitazioni significative, apre la via allo sviluppo di un'azione comune per
prevenire e combattere il razzismo e la xenofobia su scala europea. In
particolare, l'Art.29 stimola i Paesi membri a sviluppare un'azione comune per
prevenire razzismo e xenofobia.
Nel 1998 è stato creato
l'Osservatorio Europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia, con sede a
Vienna. Gli scopi dell'Osservatorio sono di raccogliere ed analizzare dati e
informazioni per impostare un sistema di monitoraggio e di prevenzione,
aumentare la consapevolezza del pubblico e sviluppare strategie di lotta al
razzismo. E' creato come corpo indipendente dell'Unione, nel cui consiglio
d'amministrazione sono rappresentati gli stati membri, la Commissione Europea,
il Parlamento Europeo e il Consiglio d'Europa. Una delle prime attività
dell'Osservatorio è stata la creazione di RAXEN il network europeo
d'informazione su razzismo e xenofobia: servirà per raccogliere, elaborare e
valutare informazioni e dati provenienti da tutte le organizzazioni ed
istituzioni coinvolte ed interessate.
Una ricerca condotta per
conto della Commissione Europea nel 1997 ha messo in evidenza che il razzismo
in Europa è cresciuto, se si paragonano i dati di questa ricerca con quella
realizzata nel 1988. Oggi un europeo su tre si dichiara nettamente o molto
razzista. In questo quadro allarmante l'Italia, anche se non si colloca ai
primi posti nell'esternazione di sentimenti di razzismo, non fa
eccezione: 30% degli intervistati dichiara di essere molto o piuttosto
razzista , mentre 35% si definisce un poco razzista e l'assimilazione è vista
spesso come l'unica possibile via offerta agli immigrati per inserirsi nella
società di accoglienza (anche 25% delle risposte nell'intera Unione Europea
vanno in questa direzione). I risultati mettono in luce la complessità del
fenomeno: sono molte infatti le persone interrogate che credono fermamente
alla democrazia e al rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali e
sociali. Una vita insoddisfacente, la paura della disoccupazione, la mancanza
di fiducia negli uomini politici e nelle autorità pubbliche: l'indagine
dimostra che esiste un legame tra questi sentimenti e gli atteggiamenti
negativi verso gli immigrati e i gruppi etnici minoritari.
Eppure l'84% degli
intervistati ha chiesto un rafforzamento nelle azioni di lotta contro il
razzismo da parte delle istituzioni europee. Poiché la lotta al razzismo non
può limitarsi alla sua condanna morale o ad un dibattito tra razzisti ed
antirazzisti, l'Unione Europea, a partire dal 1997, ha sostenuto, soprattutto
attraverso la Direzione Generale V, svariate iniziative che, promosse e
gestite da ONG, associazioni o istituzioni, hanno collegato Paesi e città
della Comunità Europea, nel comune obiettivo di individuare efficaci pratiche
di lotta contro la discriminazione ed il razzismo.
2.1 LEuropa multietnica e le forze di
polizia
E vero che l'Europa è
sempre stata multietnica, esistono infatti in diversi Paesi delle stabili
minoranze etniche (come, per esempio, ebrei e zingari) alcune delle quali
spesso rivendicano una base territoriale. E però altrettanto vero che è stato
nel periodo postbellico che l'Europa ha conosciuto un'importante ondata
migratoria di lavoratori e delle loro famiglie, non solo dal Sud dell'Europa e
dal Mediterraneo ma anche dalle ex colonie. Più di recente, l'arrivo di
rifugiati da molti e diversi Paesi ha ulteriormente ampliato questa diversità.
In particolare, sin dagli anni '70, con la recessione economica, il razzismo e
la xenofobia contro queste minoranze sono diventati sempre più
evidenti.
In questa mutata
situazione le istituzioni, e in particolare la polizia, hanno importanti
responsabilità. In primo luogo, quando intervengono atti di natura razzista o
xenofoba che contravvengono la legge, é responsabilità della polizia trattare
questi casi per prevenirli e dare protezione alle vittime e alle loro
comunità. In secondo luogo, la polizia, come ogni altra istituzione pubblica,
deve garantire che il modo in cui tratta i membri delle comunità immigrate e
di etnia minoritaria sia equo e rispettoso dei diritti umani e si ponga allo
stesso livello del servizio fornito a tutti i segmenti della
società.
In tutti i Paesi, secondo
le loro leggi e costituzioni e in accordo con i numerosi trattati
internazionali, le forze di polizia sono tenute a trattare con equità le
persone di qualunque provenienza etnica, nel quadro dunque dell'osservanza
della legge. Eppure, in molti Paesi le comunità di etnia minoritaria sentono
di non essere sempre protette o trattate in modo giusto e con il rispetto
dovuto. Benché non sia a nostra conoscenza l'esistenza di ricerche
sistematiche su questi temi, è però vero che sono numerosissimi i racconti di
casi dove si lamenta il comportamento inappropriato della polizia (parolacce,
molestie, violenza, insensibilità a certi elementi culturali, sottovalutazione
della reale portata del fenomeno della discriminazione, ecc.) e ciò avviene
nei più diversi Paesi, anche di consolidata pratica democratica.
A ciò si deve aggiungere
che, anche quando come si diceva si tratta di Paesi democratici, la legge
stessa può discriminare ponendo le etnie minoritarie in una posizione di
non uguali rispetto alla polizia. Poiché queste comunità sono colpite dalle
restrizioni relative all'immigrazione, alla cittadinanza, alla residenza e
allo stile di vita, e poiché la polizia è responsabile dell'applicazione della
legge, allora è evidente che questa é percepita dalle comunità di etnia
minoritaria come un'agenzia che deve esercitare il controllo su di loro,
piuttosto che un'agenzia il cui compito è di proteggere e rispondere ai
bisogni di ogni diverso settore della società. Ciò diventa ancor più grave
perché la polizia è vista spesso come la manifestazione più vicina e immediata
dello Stato, ossia il volto che lo Stato decide di mostrare verso i cittadini:
un primo approccio negativo con la polizia può portare ad un pregiudizio verso
l'intero ruolo dello Stato.
Molte delle
preoccupazioni dei cittadini di etnia minoritaria nascono dalla percezione di
essere vittime di un eccesso di attenzione da parte della polizia che tende ad
occuparsi di un tipo di crimine commesso soprattutto da membri di quelle
comunità, che é più incline a considerarli colpevoli e può usare il proprio
potere in modo più duro contro di loro. D'altro canto, esistono anche le
preoccupazioni di non essere sufficientemente tutelati da parte delle forze di
polizia: la polizia sarebbe in questo caso meno propensa a tutelare i
cittadini di etnia minoritaria quando questi sono vittime di crimini, in
particolare di incidenti seri con uso di violenza che hanno un gravissimo
impatto sulla vita di queste persone e sulle loro possibilità di inserimento
nelle nostre società.
Dunque, le forze di
polizia in Europa si trovano a fare fronte ad una società che diventa sempre
più diversa nella sua composizione etnica e dove razzismo, nazionalismo e
xenofobia sono sempre più diffusi. La formazione, accompagnata da innovazioni
nella struttura e nell'organizzazione, è uno dei mezzi attraverso i quali le
organizzazioni di polizia possono essere assistite a riconoscere e a
rispondere in modo appropriato alla diversità etnica e ad apprezzare il loro
ruolo nel combattere gli ostacoli all'integrazione, nel rispetto della
democrazia e dei diritti umani.
Il Consiglio d'Europa
commissionò una ricerca nel 1991 i cui elementi fondamentali sono riportati in
Police training concerning migrants and ethnic relations. Scopo della
ricerca era di stabilire in quale misura i diversi stati membri
fornivano formazione su questi temi e di identificare esempi di pratiche
positive. L'indagine mise in luce notevoli differenze nelle pratiche adottate
dai vari stati: si andava dalla non trattazione del tema, a percorsi di
formazione stabilmente inseriti nei programmi educativi a livello nazionale.
In ogni caso, in numerosi Paesi, il tempo e la quantità di formazione
apparivano molto limitati e, spesso, la formazione era fornita solo nei
corsi di base o ad operatori specializzati. All'epoca della ricerca, otto
Paesi avevano programmi di formazione specificatamente legati al tema dei
migranti e delle etnie minoritarie ma solo due di questi, la Gran Bretagna e
l'Olanda, avevano sviluppato piani per assicurare che questi temi fossero
trattati nella formazione di tutti gli operatori di polizia ed erano inoltre
state create squadre speciali per fornire supporto e consigli specializzati.
Da allora molte cose sono cambiate e numerosi altri Paesi hanno aumentato e
migliorato il proprio impegno nella formazione su questi temi, come ad
esempio, Danimarca e Spagna.
2.2 La situazione in
Italia
L'Italia, benché abbia
conosciuto episodi dolorosi di razzismo anche violento, non ha dovuto
affrontare i grandi scontri che altri Paesi, anche europei, hanno vissuto
(basti pensare alla rivolta di Brixton, a Londra, nel 1981).
Tuttavia, la situazione
generale, come dimostrano alcune ricerche cui si accenna nei paragrafi
successivi e come provano le testimonianze di molte vittime di episodi di
discriminazione su base razziale, é tale da destare più di una
preoccupazione.
Inoltre, la Polizia è
ancora vista come una forza per intervenire sull'immigrazione illegale e per
la prevenzione e la repressione della delinquenza, piuttosto che una forza per
la protezione dei diritti dei cittadini e dei lavoratori immigrati. La Polizia
stessa non ha ancora fatto passi significativi e di sostanziale cambiamento,
in senso strategico, organizzativo e strutturale, per adeguarsi alla presenza
di cittadini appartenenti a minoranze visibili e, soprattutto, così come gran
parte delle altre istituzioni, stenta a riconoscere i cittadini di etnia
minoritaria come vittime di discriminazione, sia essa istituzionale o
individuale, intenzionale o no.
Anche da parte delle ONG
che lavorano nel campo della difesa degli immigrati e dei loro diritti, e
tanto più tra le associazioni dei cittadini di etnia minoritaria, persiste una
posizione di sfiducia, quando non di aperta sfida, nei confronti di
un'istituzione dalla quale sentono di doversi spesso difendere mentre
vorrebbero riceverne protezione. Se, dunque, si ritiene che per le forze di
polizia sia giunto il momento, improrogabile, di introdurre cambiamenti
nel proprio modo di operare nei confronti dei cittadini di etnia minoritaria,
é però altrettanto vero che deve esserci da parte delle ONG e delle
associazioni di difesa dei diritti umani un cambiamento importante, che porti
a considerare la polizia come autore di possibili azioni protettive e
preventive di conflitti interculturali e dunque come un alleato nella lotta
contro le discriminazioni, le violenze e i soprusi su base razziale ed etnica.
E questa la strada intrapresa da COSPE con il progetto NAPAP.
2.2.1 La sicurezza
La sicurezza nelle nostre
città e il senso d'insicurezza dei loro abitanti è attualmente una delle più
serie fonti di preoccupazione per le forze di polizia, oltre che per le
amministrazioni locali e i cittadini stessi.
Una ricerca del CENSIS
mostra che, nonostante la diminuzione dei reati del 2,4% fra il 1990 e il 1997
e una lieve inversione della tendenza nei due anni seguenti, il 34% degli
italiani è convinto che la propria zona di residenza sia diventata più
pericolosa negli ultimi anni e ben il 66,4% pensa che in Italia i reati siano
aumentati. Come recita il rapporto CENSIS:
Molti italiani scelgono
la via della difesa personale, adottando comportamenti spontanei di
prevenzione: il 72% di norma è guardingo con gli sconosciuti; il 68% evita di
uscire da solo la notte; il 40,6% evita di attraversare a piedi determinate
zone e quartieri; il 45,3% ha installato una porta blindata; il 38,3% un
antifurto sull'automobile. Ma gli italiani si spingono anche verso forme
esasperate di autotutela organizzata: ben il 31,7% si dice favorevole alla
costituzione di ronde da parte di privati cittadini, vista l'insufficiente
presenza delle forze dell'ordine.
Nell'aprile del 1998
erano solo 1 milione e 42 mila gli immigrati presenti in Italia provenienti da
Paesi in via di sviluppo e dal centro Europa, di questi il 22,6% era in
condizioni di irregolarità e i dati dimostrano non esservi alcuna relazione
significativa fra numerosità di immigrati in una certa zona e la percentuale
di irregolari presenti nella stessa. Continua il rapporto del
CENSIS:
Nella graduatoria
provinciale sono 15 le province, tutte del Centro-Nord, in cui ad elevati
livelli di benessere si associano migliori opportunità di lavoro, più alti
tassi di criminalità e una grande concentrazione di cittadini extracomunitari
(3,3% rispetto all1,8% della media paese), regolari e non, quindi le
condizioni ideali per delinquere: eppure la percentuale d'immigrati
denunciati, indagati o segnalati sul totale degli immigrati (4,5%) è
sostanzialmente identica a quella rilevata nelle altre province con diverse
caratteristiche (4,7%) e quella della media in Italia (4,3%). Ma resta
troppo facile vedere nel diverso un pericolo: nella percezione collettiva
quello dell'immigrazione è il quarto problema nazionale (26,6%), dopo la
disoccupazione (63,9%), la mafia (44,7%) e la droga (26,8%); e il 48,3% degli
italiani ritiene che una futura convivenza multietnica nel nostro Paese
sarebbe una fonte di conflitto sociale.
2.2.2 Atteggiamenti e comportamenti
razzisti
Un'altra interessante
ricerca è stata condotta dal progetto Città sicure della Regione
Emilia-Romagna nel 1998.
Essa ci avverte
dell'esistenza di alcune condizioni culturali di fondo predisposte (e perciò
fondate su pregiudizi) a declinare in senso razzista e xenofobo il rapporto
conflittuale con limmigrato.
Dalla ricerca emerge la
presenza di un diffuso sentimento di ostilità/paura degli emiliano-romagnoli
nei confronti degli immigrati. La ricerca scopre che quasi 20% del campione
esprime sentimenti dichiaratamente legati a pregiudizi xenofobi, quando non
proprio razzisti, a fronte di un'equivalente percentuale di chi invece
manifesta un atteggiamento culturale di apertura nei confronti degli
stranieri. Ma, riprendendo le parole di Pavarini,
quello che più inquieta è
che questo universo sociale ancora sospeso e poco strutturato (la maggioranza
grigia di cui non è ancora possibile determinare con sicurezza un profilo
ideologico coerente nei confronti degli stranieri) manifesta sentimenti per
nulla entusiastici, anzi per lo più seriamente preoccupati per la presenza
degli immigrati, cogliendo in questi più elementi di fastidio, disturbo e
paura che elementi di arricchimento, novità ed interesse. Sono già presenti
alcuni indici che lasciano sospettare un rischio temibile di un'evoluzione
verso una percezione sociale diffusa dello straniero come soggetto pericoloso
e criminale, cioè come nemico. Questa ricerca ci avverte dell'estrema
prossimità verso quel punto critico, sorpassato il quale il panico sociale
tende a mettere in moto un processo di crescita autoreferenziale, fino a
produrre progressivamente una realtà sociale sempre più corrispondente a
quella virtuale sempre più costruita sui pregiudizi. Lo straniero, temuto come
pericoloso e criminale, finirà effettivamente sempre più per diventare
pericoloso e criminale e ciò validerà sempre più la percezione sociale
allarmata, e tutto ciò in ossequio alla regola aurea che vuole che le profezie
prima o poi se effettivamente e diffusamente condivise finiscano per
avverarsi.
Continua
Melossi, autore
della ricerca:
quale che sia il
contributo effettivo degli stranieri alla massa dei comportamenti criminali e
devianti, ufficialmente registrati e non, sta di fatto che il loro contributo
alla popolazione carceraria anche nel nostro Paese è già assai
rilevante, superando il 15% e quindi di molte volte più ampio di qualsiasi
stima della percentuale della popolazione straniera in Italia, anche tenuto
conto del fatto che la composizione demografica di questa popolazione è assai
più vicina al profilo tipico dell'individuo criminalizzabile. Anche se
s'ipotizzasse che nella particolare congiuntura italiana gli stranieri
contribuiscano più che in altre situazioni al totale dell'attività criminale,
è tuttavia chiaro che vi sono elementi di discriminazione strutturale e
culturale che vanno ad aggiungersi a probabili comportamenti discriminatori da
parte dei rappresentanti delle principali agenzie di controllo penale. La
particolare debolezza degli stranieri, la loro più alta visibilità ed
esposizione al pericolo di criminalizzazione, sono ipotesi particolarmente
ovvie da proporre.
La ricerca conclude
riportando come proprio risultato originale quello di avere messo in luce il
fatto che il contatto con gli immigrati di qualsiasi tipo sembra essere
efficace nel ridurre il livello di pregiudizio di per sé, a prescindere da
qualsiasi altra caratteristica di chi risponde.
In Italia, come altrove
in Europa, la questione della discriminazione sulla base della razza, della
nazionalità, dell'origine etnica e religiosa è caratterizzata, da un
lato, da una condanna generale, dall'altro dall'impossibilità di
valutare realisticamente la dimensione quantitativa e qualitativa del
fenomeno. Stime non sistematiche, né basate su dati attendibili, sembrano
suggerire un livello significativo di casi di razzismo che rimangono
sconosciuti e ciò ovviamente rende difficile individuare le caratteristiche di
specifiche forme di discriminazione su base razziale. Attualmente non esistono
in Italia dei modelli per il monitoraggio degli episodi di razzismo o di
discriminazione su base razziale. Il primo tentativo, a nostra conoscenza, di
creare un attività di monitoraggio di questo tipo è stato fatto
dall'Istituzione dei Servizi per l'Immigrazione del Comune di Bologna, nel
quadro del progetto DGV Città Antirazziste. Nel 1997 il servizio di
monitoraggio riportava 87 segnalazioni; per 29 di queste erano indicate le
forze dell'ordine come autori. Anche se un successivo controllo da parte delle
stesse forze dell'ordine indicava che nessuno di questi casi vedeva una
responsabilità istituzionale o personale degli operatori (controllo di cui non
era comunque dato conoscere l'istruttoria la quale non ha mai coinvolto
le vittime o presunte tali), rimane l'incontrovertibile segnale di una
difficoltà di rapporto tra polizia e carabinieri e cittadini di etnia
minoritaria.
Ci preme segnalare che il
comportamento discriminatorio della polizia, così come di altre istituzioni, è
invece argomento assai dibattuto in Europa. Per tutti basti l'esempio della
Gran Bretagna dove nel 1997, con il Rapporto Macpherson, si concluse
l'Inchiesta Stephen Laurence. Il rapporto Macpherson critica in modo
indubitabile, e senza mezzi termini, il fallimento della Polizia Metropolitana
di Londra nell'investigare in modo adeguato l'assassinio di Stephen Lawrence,
il diciottenne nero assassinato nel 1993 ad una fermata d'autobus in un
quartiere di Londra. Si legge nel rapporto che il razzismo istituzionale ha
portato ad errori fondamentali nel corso dell'investigazione mentre i
colpevoli sono ancora liberi. Si riconosce che il fallimento nell'azione
cominciò proprio con gli operatori di polizia coinvolti ed il loro rifiuto di
riconoscere che l'assassinio era un delitto a matrice razzista. La polizia del
Regno Unito, in seguito alle raccomandazioni del rapporto, ha intrapreso una
profonda revisione delle proprie strategie e azioni, in collaborazione con le
altre istituzioni e con le istanze della società civile che combattono il
razzismo.
2.2.3 Le leggi
La L. 25 giugno 1993
(Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa)
riconosce come reati la diffusione di idee fondate sulla superiorità o
sull'odio razziale o etnico e la violenza per gli stessi motivi, arrivando a
vietare ogni forma organizzativa o associazione che abbia tra i propri scopi
l'incitamento alla discriminazione per i medesimi motivi.
Con l'approvazione del D.
Lgs. 25 luglio 1998 n.286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero),
l'Italia riconosce allArt.43 la discriminazione per motivi razziali, etnici,
nazionali o religiosi e ammette l'azione civile contro di essa. La definizione
di discriminazione adottata riprende quasi fedelmente quella della L.13
ottobre 1975, con la quale l'Italia ratificava la convenzione internazionale
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (Convenzione
di New York, 1966).
Una circolare
ministeriale del marzo 1998 precisa che gli stessi fatti (cioè quelli
attinenti alla definizione di atto discriminatorio, ndr) potrebbero anche
rilevare ai fini disciplinari e, nei casi più gravi, assumere valenza penale o
giustificare l'adozione di una misura di prevenzione.
La legge attribuisce
dunque alla polizia italiana, così come ad altre istituzioni, un importante
ruolo nel proteggere le minoranze contro la violazione della legge alla quale
esse sono particolarmente vulnerabili. D'altro canto, poiché anche i pubblici
ufficiali sono riconosciuti come possibili autori di atti di discriminazione
(Art.43, comma 2, punto a) appare chiaro che la polizia ha bisogno di avere
una buona comprensione della natura delle diverse forme di razzismo ed essere
competente ed efficace nell'applicazione della legge.
2.2.4 I mezzi di comunicazione di
massa
Se è vero che la radio,
la televisione e la stampa non creano il razzismo, è però vero che essi
possono scegliere di ignorarlo, combatterlo o farsene cassa di risonanza. Si
può ignorarlo tenendo le etnie minoritarie fuori dalla produzione delle
notizie, presentando dei servizi esotici sugli stranieri, usando una
terminologia offensiva, creando sempre dei collegamenti tra le minoranze e
certi problemi sociali.
Il potere di immagini
spettacolari e la vastissima audience raggiunta da radio e televisione
necessitano di una sensibilità particolarmente acuta nel riferire dei problemi
che coinvolgono le minoranze etniche - che spesso vivono ai margini della
società - e la maggioranza dei nativi. Invece, i mezzi di comunicazione di
massa spesso incoraggiano una domanda d'informazione semplicistica e che
polarizzi le presentazioni. I servizi sugli immigrati, ad esempio,
spesso presentano un solo aspetto della questione: da un lato abbiamo i
bambini immigrati problematici, i criminali e quelli che pretendono i benefici
del wellfare e, dall'altra parte, abbiamo le care persone della porta accanto
che non farebbero male a una mosca. I timori dell'altra parte del pubblico
quello che comprende anche le minoranze - non sono presi in considerazione, né
vengono approfondite le aree di possibile conflitto e, se ciò avviene,
l'approccio è moralizzatore, con il possibile effetto di esacerbare proprio
quei timori che si vorrebbe combattere.
E cosa condivisa e
risaputa che le forze di polizia agiscono in base a criteri di selettività,
non è infatti possibile reprimere tutti i reati che presumibilmente hanno
luogo. Certamente, sulle scelte che la polizia (come istituzione) ed i singoli
poliziotti operano, influiscono diversi fattori, come il sapere professionale
e l'esperienza personale ma anche le pressioni interne ed esterne. Le
pressioni arrivano dalle più diverse fonti ma certamente quelle più
convincenti sono quelle che provengono dai mezzi di comunicazione di massa. In
una situazione come quella italiana, dove l'immigrazione è ancora confinata a
ristretti ambiti sociali, poco integrata e poco evidente nel tessuto sociale
complessivo (non dimentichiamo che in Italia abbiamo una percentuale di
presenza di immigrati che si aggira attorno al 2,5%, comprese le stime degli
irregolari) le opinioni personali sono fortemente influenzate dai mass media.
I quali hanno una "tradizionale preferenza per le cattive notizie, l'abitudine
a utilizzare stereotipi, la necessità di attirare i lettori con notizie
allarmistiche, l'abitudine di ragionare per emergenze e tendono quindi a
fornire una rappresentazione dell'immigrazione in termini di problema, in
particolare di un problema di criminalità".
Al di là delle
rappresentazioni, i media sono in grado di veicolare pressioni all'azione (da
parte di comitati di cittadini, di politici, ecc.) costringendo la
polizia ad effettuare interventi che rispondono più alle richieste dei
giornali o delle televisioni locali che alle priorità che il sapere di polizia
individuerebbe autonomamente. Sotto la spinta di queste pressioni s'innesca un
processo circolare che coinvolge più attori: il comitato o il gruppo di cittadini o
commercianti portano le loro proposte al giornale purché
sufficientemente organizzati o potenti da farle pesare questo fa la sua
campagna reclamando l'intervento della polizia. Il politico locale, spesso
dopo avere letto il giornale, sollecita a sua volta interventi più energici,
la polizia a questo punto interviene (ma spesso interviene prima, proprio per
evitare queste accuse d'inerzia), il giornale a questo punto ha materiale
sufficiente per fare un articolo sulla dichiarazione del politico,
sull'intervento della polizia, sulla soddisfazione o meno dei comitati.
A questo punto la sua campagna e quelle seguenti risulta giustificata dalla
gravità del fenomeno, illustrata dagli arresti prodotti, dalla refurtiva
sequestrata, dall'abbondanza di reazioni e di interventi, tutti in realtà
sollecitati dalla stessa campagna.
Tutto ciò avviene a
dispetto della costanza dei fatti criminali come è successo negli USA, dove
dal 72 al 90 la spesa destinata all'assistenza diminuiva mentre quella
riservata alla giustizia penale quintuplicava e la criminalità, nello stesso
periodo, rimaneva costante. In gran Bretagna, a fronte di una caduta della
criminalità dell'8% (ma l'opinione pubblica per il 75% crede che sia
aumentata) la popolazione carceraria è aumentata del 35% in due anni. In
Italia, ad un telegiornale della sera, quello del grande ascolto, venivano
riservati 5 minuti per la presentazione (con grande dovizia di mezzi
informatici per una presentazione efficace ed accattivante) di una ricerca
commissionata da privati sulla percezione della criminalità come fenomeno
preoccupantemente in crescita, ma non si citava un solo dato del Dipartimento
di Pubblica Sicurezza mentre la Ministro Jervolino, nei 30 secondi che le
venivano concessi, cercava di comunicare che tutti i dati a disposizione del
Ministero dell'Interno dimostrano la diminuzione della grande
criminalità.
3. Lesperienza di formazione nel
progetto NAPAP
Il progetto NAPAP aveva lo scopo di consolidare o, secondo la
situazione dei diversi Paesi partner, introdurre, le ONG e le associazioni dei
cittadini di etnia minoritaria nella formazione della polizia all'agire nelle
società multiculturali. Ciò non poteva avvenire che in modi diversi nei
vari Paesi, tenendo conto della grande diversità delle situazioni di partenza
che variavano da Paesi, come l'Italia, dove nella formazione di base degli
operatori della Polizia di Stato ancora non è inserito alcun elemento relativo
alla presenza di immigrati e etnie minoritarie (se non per i riferimenti
giuridici relativi all'ingresso di immigrati irregolari o clandestini e, negli
incontri di aggiornamento, aspetti della cultura islamica come fonte di
terrorismo), a Paesi, come La Gran Bretagna, dove cittadini di etnia
minoritaria sono già da qualche tempo associati alla formazione della polizia.
Va precisato che il
termine ONG ha diverse accezioni nei Paesi che hanno partecipato al progetto.
Forzando un po' la schematizzazione, possiamo dire che nei Paesi del Sud
Europa l'acronimo indica organizzazioni a dominanza bianca (mutuando
l'espressione dall'inglese white lead), a volte anche legalmente molto
connotate rispetto ad altre associazioni private di volontariato o di
assistenza, come è il caso dell'Italia dove ONG sono comunemente intese le
organizzazione di cooperazione internazionale riconosciute dalla legge
n.49/87, oggi ricomprese sotto l'ampio ombrello delle ONLUS Organizzazioni non
lucrative di utilità sociale . Nel Nord dell'Europa si tende invece ad
attribuire l'appellativo di ONG a tutte le forme associative miste o
caratterizzate per appartenenza etnica. Di fatto, nell'esperienza del
NAPAP, sono state usate diverse terminologie che hanno non poco confuso
la comunicazione transnazionale nel primo anno di progetto (accanto a ONG, si
è parlato anche di comunità e di associazioni di cittadini di etnia
minoritaria) e che rispecchiavano le realtà, non solo dei Paesi, ma anche dei
singoli progetti, dove partner della polizia potevano essere di volta in volta
ONG, in ognuna delle accezioni prima descritte, oppure istituzioni (come a
Francoforte) o le cosiddette QuaNGOs16 (come a Berlino).
Le vicende del progetto,
in questi due anni, ci sembrano paradigmatiche di quello che potrebbe essere
il percorso del progressivo e crescente coinvolgimento delle etnie minoritarie
nella formazione della polizia. Il progetto ha infatti subito un evoluzione
che lo ha portato dai primi incontri transnazionali dove erano presenti solo i
coordinatori, i rappresentanti delle polizie e i consulenti incaricati della
valutazione, agli ultimi seminari transnazionali dove i cittadini di etnia
minoritaria erano ampiamente rappresentati e hanno guadagnato uno spazio e un
tempo per ragionare insieme transnazionalmente circa la propria posizione nel
progetto e nella formazione della polizia. Alcune delle conclusioni raggiunte
nel corso di questi incontri ci sono sembrate rilevanti anche per gli scopi di
questo documento e le riportiamo perciò di seguito.
Nel seminario tenutosi a
Bologna nel giugno 1999, i rappresentanti dei cittadini di etnia minoritaria
coinvolti nei diversi progetti, hanno chiesto e ottenuto di incontrarsi
separatamente una giornata prima dell'inizio dei lavori in plenaria e ciò ha
permesso loro di rafforzarsi nel proprio ruolo e nella propria capacità di
negoziare la presenza nei progetti. Dalle conclusioni raggiunte nel gruppo di
lavoro, abbiamo estrapolato sei punti che ci sembrano particolarmente
significativi:
-
non si possono
escludere dalla formazione, e perciò dai luoghi e dai momenti decisionali
del progetto, coloro che sono vittime del pregiudizio; nemmeno ONG e
associazioni impegnate nella lotta contro il razzismo possono parlare per
loro;
-
ciò non significa
necessariamente che, in qualunque contesto e in qualunque Paese, cittadini
di etnia minoritaria debbano essere formatori, ma certo devono avere
un ruolo a pari merito delle ONG e della polizia nella programmazione della
formazione stessa;
-
la presenza in aula di
persone di etnia minoritaria potrebbe avere l'effetto paradossale di
perpetuare (o introdurre nuovi) stereotipi, così come potrebbe essere il
risultato di un approccio unicamente basato sulla consapevolezza delle
differenze culturali. E perciò necessario che il ruolo e i compiti di
cittadini di etnia minoritaria impiegati direttamente nella formazione sia
chiarito a tutti - non rappresentanti di una certa cultura ma individui - e
che essi ricevano una preparazione adeguata prima di entrare in aula;
-
la formazione da sola
non è la risposta adeguata, essa deve essere accompagnata dalla disciplina
interna della polizia perché, mentre gli atteggiamenti sono difficili da
cambiare, i comportamenti possono essere controllati e sanzionati;
-
la partnership tra
etnie minoritarie e polizia può essere molto difficile da sostenere e i
disaccordi possono essere anche profondi; in ogni caso, tali disaccordi
vanno presi in considerazione e affrontati in modo che la partnership non
sia solo di facciata con l'unico scopo di fornire una buona immagine della
polizia;
-
deve essere sempre
fatta un'accurata e precisa valutazione dell'efficacia della formazione
realizzata.
3.1 In Italia
Il progetto italiano è
nato dall'impegno che COSPE ha assunto da anni nella lotta contro il razzismo
e per lo sviluppo armonico di una società multiculturale in Italia. Le
esperienze di COSPE nel settore della lotta al razzismo risalgono alla fine
degli anni 80, quando furono avviati i primi corsi di antirazzismo
genericamente rivolti ad un'audience spontaneamente interessata al tema,
passando in seguito alla formazione di personale di istituzioni ed enti
locali. L'approccio adottato è sempre stato, fino a quest'esperienza
NAPAP, di sollecitare i partecipanti ad una presa di coscienza dei
propri pregiudizi e degli stereotipi per un loro superamento a livello
individuale.
Una tappa importante
nell'evoluzione delle attività in questo settore fu la partecipazione al
progetto Monitoraggio degli incidenti di razzismo promosso dall'Istituzione
dei Servizi per l'Immigrazione del Comune di Bologna (1996-97) che vedeva
associate istituzioni e gruppi dell'area bolognese per offrire un servizio
dove le vittime o i testimoni di episodi di razzismo, o presunto tale,
potessero trovare un luogo di ascolto e di sostegno anche legale, se opportuno
e possibile. Si può affermare che risalga a quell'epoca il primo contatto in
chiave collaborativa tra COSPE e la Polizia di Stato, quando questa fu
invitata a prendere parte al gruppo di coordinamento che gestiva il progetto,
esperienza culminata con la realizzazione di un seminario che aveva lo scopo
di fare incontrare la Polizia di Stato italiana, rappresentata dalla Questura
di Bologna e da alcuni sindacati di polizia, e la Polizia inglese,
rappresentata dal capo della Polizia di Northumbria (Contea all'estremo Nord
dell'Inghilterra) per uno scambio sul tema dell'impegno delle forze
dell'ordine nella lotta alla discriminazione razziale.
L'incontro con il
progetto Città sicure della Regione Emilia-Romagna ed il decisivo sostegno
istituzionale da esso apportato, ha reso possibile la realizzazione del
progetto NAPAP in Italia, promosso e gestito da
COSPE, in partenariato con il Comune di Bologna, il Comune di Modena, il Forum
Metropolitano dei cittadini non comunitari della Provincia di Bologna, la
Regione Emilia-Romagna, il Ministero dell'Interno- Direzione Generale degli
Istituti d'Istruzione, con il contributo della Commissione Europea.
Dato lo scopo di questo
documento, tralasciamo ogni altro riferimento alla vita del progetto per il
quale rimandiamo alla relazione del coordinatore, concentrandoci qui
sull'aspetto strettamente legato alla formazione.
3.1.1 Tratti salienti e lezioni
apprese nell'esperienza formativa
Il corso di formazione
del progetto NAPAP si poneva come esperimento le
cui ipotesi fondanti, i contenuti e le modalità di attuazione dovevano
essere verificati, anche in vista di una loro possibile utilizzazione futura
nella formazione delle forze di polizia in Italia.
Purtroppo, la definizione
del programma dei corsi ha sofferto profondamente della totale mancanza
d'informazione da parte del Ministero circa il normale contesto formativo dei
partecipanti, informazione imprescindibile per la buona programmazione di un
corso di formazione. La definizione del curriculum è stata così
necessariamente basata su una serie di presupposizioni, semplicemente intuite
o desunte dall'esperienza condotta nel primo anno, per fornire risposte
provvisorie a domande fondamentali, la cui verifica, speriamo, possa avvenire
in futuro. Le presupposizioni sulle quali è stata basata la programmazione del
corso possono essere così brevemente riassunte:
|
gli operatori di
polizia normalmente non ricevono alcuna formazione relativa alle capacità
comunicative in generale, tantomeno a riguardo delle competenze
relative alla comunicazione interculturale;
| |
gli operatori di
polizia non hanno alcuna familiarità con i metodi d'insegnamento
partecipativi e di apprendimento attivo, non direttivi;
| |
gli operatori di
polizia non conoscono il D.Lgs. 25 luglio 1998, n.286 Testo Unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero, relativamente agli articoli che riguardano la
discriminazione;
| |
gli operatori,
soprattutto ai gradi più bassi, non hanno opportunità di riflettere sulle
possibili e diverse mission della polizia che possono emergere anche
nel confronto con altri modi di fare polizia nel mondo e soprattutto in
Europa. |
Al termine del primo anno
di progetto si è proceduto ad una revisione profonda del corso ritenuto da più
parti troppo lungo e troppo univocamente orientato alla presa di coscienza, e
cioè alla sollecitazione di un cambiamento di atteggiamenti nei riguardi del
razzismo. La revisione è stata operata adottando la tecnica della task
analysis (analisi dei compiti): si è proceduto alla definizione dei
compiti per poi passare alle conoscenze, agli atteggiamenti e alle
abilità/capacità che i partecipanti devono possedere per assolvere in modo
soddisfacente a tali compiti. Tracciato così un profilo ideale del corso, si è
passati ad una progressiva riduzione delle varie componenti, fino a
raggiungere un programma che fosse, oltre che stimato idoneo ed efficace,
anche realistico rispetto al tempo e alle risorse a disposizione. Benché la
programmazione secondo task analysis ne tenesse conto (nella misura
minima in cui era possibile prevederlo senza avere alcun contatto e alcuna
conferma da parte della polizia), il corso del secondo anno non ha potuto
differenziare il contenuto della formazione tra i diversi gradi - e dunque tra
i differenti compiti e le differenti responsabilità - dei formandi. La
scelta del Comitato Scientifico del progetto fu di procedere alla formazione
congiunta di tutti gli operatori dagli agenti agli ispettori superiori
(massimo grado dei partecipanti della Polizia di Stato nel secondo anno di
progetto) nell'intento di favorirne la comunicazione e la capacità
collaborativa.
Il quadro di riferimento
teorico della nostra formazione nel secondo anno è riconducibile ad un modello
di formazione all'antirazzismo (si veda la trattazione sui diversi modelli
possibili nel par. 4.1), dove sono presi in considerazione sia i comportamenti
che gli atteggiamenti soggiacenti, nel tentativo di assicurare che gli
atteggiamenti e i pregiudizi degli operatori di polizia non interferiscano con
lo standard professionale del loro lavoro. Il corso proposto e sperimentato
rifiuta il multiculturalismo nel senso di fornire informazione sulle culture
e, almeno nelle intenzioni, cerca di evitare il lavoro frontale,
argomentativo, di confronto, quello insomma che dà lezioni, perché ciò,
sappiamo, rafforza i pregiudizi.
I docenti erano persone
di provata esperienza e competenza nel settore. Merita una particolare
riflessione la composizione etnica, nazionale e di genere dei formatori. E
necessario che in un corso circa la discriminazione su base razziale, etnica e
religiosa, la composizione del corpo docente affronti questi aspetti: si pensa
che un corso sui temi dello svantaggio sistematico di una parte della società
(contrapposta al vantaggio sistematico dell'altra) non possa avere credibilità
se esso è concepito ed erogato unicamente da chi gode dei vantaggi. Si
potrebbe pensare forse ad un corso sullo svantaggio delle donne tenuto
soltanto da uomini? Proprio per rappresentare la ricchezza delle diversità, il
gruppo dei docenti era costituito da un formatore maschio nigeriano
nero, un formatore maschio inglese bianco, un formatore maschio olandese
bianco, un formatore maschio italiano bianco e una formatrice bianca italiana
femmina.
La scelta di assicurare
la partecipazione di un formatore appartenente ad una etnia minoritaria,
accanto a formatori appartenenti all'etnia maggioritaria (italiani e non,
maschi o femmine, ma comunque bianchi) va ulteriormente commentata. Essa non
si risolve in un tentativo di soddisfare la richiesta di conoscere l'altro, né
di trasmettere conoscenze di tipo antropologico ma, al contrario, essa sfida
l'interpretazione dei problemi di discriminazione come prodotto d'ignoranza,
proponendo piuttosto la teoria della falsa conoscenza che va senz'altro
contrastata, soprattutto nella sua forma più comune dello stereotipo. La
presenza di formatori di etnia minoritaria, stranieri o donne, propone ai
partecipanti situazioni individuali vere che possono corrispondere oppure no
alle loro aspettative, mettendo i partecipanti direttamente a confronto con
persone che appartengono alle categorie in questione. I formatori, però,
devono essere persone professionalmente esperte, preparate a questo confronto
e non essere presenti solo perché appartenenti ad una certa categoria. La
presenza di formatori stranieri e/o appartenenti a etnie minoritarie mette a
nudo l'insufficienza dell'idea che il problema soggiacente al razzismo sia
l'ignoranza (non conoscenza) e che basterebbe conoscersi meglio per superarlo,
tanto che, nonostante la presenza di formatori neri, di sesso femminile, ecc.,
inevitabilmente si scatenano le stesse dinamiche dei rapporti stereotipizzati
nei confronti di quelle categorie di individui, invalidando così, oltre alla
credenza che il problema vero sia l'ignoranza, anche la presunta neutralità
nella professionalità dei formatori e l'idea della normalità della società
italiana. In questo modo, la richiesta da parte dei partecipanti di ricevere
informazioni su altri gruppi etnici, di conoscere l'altro, può
cominciare a trovare una risposta evitando il rischio di includere
l'altro nello stereotipo, allo stesso modo come si spera che avvenga nei
gruppi di contatto (si veda oltre, lo stesso paragrafo).
E' compito dei formatori
gestire questo confronto, resistendo al tentativo dei partecipanti di
considerarli casi eccezionali rispetto allo stereotipo (che ne riceverebbe
così una conferma) o di creare nuovi stereotipi usando il singolo caso come
giustificazione. Non sempre si riesce a dominare queste dinamiche: i
fatti indicano che i partecipanti ai corsi tendono a non considerare il
formatore, benché nero, un cittadino di etnia minoritaria, gli extracomunitari
essendo altri. Un'eventuale riprogrammazione e riproposizione del corso dovrà
inevitabilmente continuare a fare i conti con questa, per certi versi, non
troppo sorprendente percezione da parte degli operatori di polizia, forse
potenziando altre forme di contatto diretto con i cittadini di origine
straniera (gruppi di contatto, community contributors, o altro: esistono
diverse esperienze da studiare), senza dimenticare che in ognuna di queste
possibili vie è sempre in agguato il pericolo d'inquinamento delle dinamiche
che abbiamo descritto. Probabilmente, la presenza di individui di gruppi
minoritari o svantaggiati in aula (siano essi docenti, o persone risorsa della
comunità o altro) e le percezioni e le dinamiche di comunicazione che si
stabiliscono andrebbero tematizzati nell'ambito della formazione stessa.
Un'ulteriore riflessione
merita il concetto di atteggiamento e le difficoltà e implicazioni di un corso
che miri al loro cambiamento, ma soprattutto merita attenzione l'ipotesi che
sia necessario produrne un cambiamento. Il termine si riferisce a certe
regolarità nei sentimenti, nei pensieri e nella predisposizione di un
individuo ad agire in risposta ad un aspetto e/o stimolo del suo ambiente.
Essi non sono direttamente disponibili per l'osservazione ma si possono
dedurre dalle espressioni verbali e non o, a volte, dal comportamento. Non è
certamente immaginabile di potere veramente cambiare gli atteggiamenti di
partecipanti ad un corso così breve e, inoltre, è incredibilmente difficile
misurarne l'entità del cambiamento, proprio per la loro natura di difficile
definizione, per la loro contraddittorietà e scarsa visibilità. Sorgono quindi
due domande: come valutare gli atteggiamenti? E qual è l'etica di
cambiare gli atteggiamenti? Ci sembra che la risposta possa risiedere in
un'altra domanda: come formatori dobbiamo piuttosto chiederci qual è l'etica
di non tentare di cambiarle. Come formatori non possiamo infatti ignorare gli
atteggiamenti e d'altra parte non possiamo nemmeno ignorare che chi insegna
influisce sugli atteggiamenti di chi impara, che lo voglia o no, che ciò sia
intenzionale e programmato o no; questo processo, peraltro, avviene
costantemente nella vita perché i nostri atteggiamenti vengono sfidati
dall'ambiente e dalle persone con le quali interagiamo. Altri pensano che (e
certamente questa è la conclusione raggiunta dagli esperti il cui parere è
stato raccolto in Police training concerning migrants and ethnic
relations), nel breve periodo, la formazione dovrebbe avere come focus
l'acquisizione dei comportamenti corretti secondo lo standard dei
comportamenti attesi dagli operatori di polizia, senza preoccuparsi degli
atteggiamenti. Gli atteggiamenti personali sugli immigrati e sulle
questioni di rilevanza etnica, dicono questi autori, non attengono alla sfera
della formazione e i formatori non dovrebbero cercare di giudicare o cambiare
direttamente queste opinioni, ma piuttosto assistere gli operatori a
diventarne consapevoli e a riflettere sulle loro implicazioni. Sul lungo
termine, secondo la teoria comportamentista, saranno proprio le occasioni di
apprendimento positive, create da una formazione orientata al comportamento,
che svilupperanno atteggiamenti personali positivi su questi temi. In
sostanza, per questa visione delle cose, il cambiamento degli atteggiamenti
farà seguito al cambiamento dei comportamenti, ovviamente solo nel quadro di
una strategia formativa chiara dove nulla è lasciato al caso. Nel concreto,
ciò significa introdurre nella formazione l'acquisizione delle competenze
necessarie per avviare e gestire un programma di monitoraggio dei casi di
razzismo, la conseguente catalogazione dei casi segnalati, l'elaborazione di
statistiche, la loro comunicazione alle istanze superiori e al pubblico, le
azioni da intraprendere per prevenire queste forme di discriminazione e per
reprimerle.
In conclusione, se
conclusione può esservi su questo argomento, nel corso sperimentato si è
ritenuto di agire sugli atteggiamenti dei partecipanti come elemento che
portasse gradualmente a mettere in discussione i comportamenti nell'ambito del
corso stesso, senza pretesa di arrivare ad un vero e, soprattutto, profondo
cambiamento di atteggiamenti ma semplicemente sperando di innescare una miccia
di cambiamento che dovrà avere ben altri elementi di supporto per portare al
cambiamento vero, quello dell'agire. E importante ricordare che il progetto,
promosso e gestito da una ONG, non potrebbe in ogni caso assumersi la
responsabilità di modificare l'agire degli operatori di polizia,
responsabilità che rimane nell'ambito delle politiche delle forze dell'ordine.
D'altra parte, l'assenza di questo contesto generale di sostegno nella polizia
non incoraggiava ad una fuga in avanti che non avrebbe poi avuto alcun
riscontro nell'operare quotidiano dei poliziotti. Siamo del parere che un
corso che fosse inserito stabilmente nel curriculum formativo degli operatori
di polizia e in un contesto dell'agire di polizia che tenesse conto della
società multiculturale, meriterebbe una revisione del peso di questa
componente nel complesso del corso.
3.1.2 Il curriculum
Le presupposizioni e le
considerazioni prima ricordate, insieme con la valutazione del primo anno di
sperimentazione del corso, ci hanno dunque portati all'elaborazione di un
programma che andiamo brevemente ad illustrare.
La formazione si divide
in due fasi: la formazione in aula e i gruppi di contatto. La parte che
avviene in aula dura 30 ore più 3 ore di follow-up a distanza di circa un
mese.
Formazione
in aula
Contenuto
Commento
Presentazione del
corso
Obiettivi
Presentazione dei
partecipanti
Familiarizzarsi con la
metodologia
Poiché i temi da
trattare nel corso toccano spesso punti di alta sensibilità e poiché la
possibilità di ognuno di esprimere i sentimenti e le emozioni suscitati
dagli esercizi e dai giochi proposti è elemento fondamentale per la
buona riuscita del corso, le ore iniziali vengono trascorse cercando di
rompere il ghiaccio (interviste a coppie e presentazione successiva a
tutto il gruppo), a riflettere sulle aspettative di ognuno e a
confrontarle con gli obiettivi stabiliti da chi ha programmato il corso
(discussioni in gruppi), a decidere insieme quali sono i comportamenti
di ognuno che possono favorire il buon clima di rispetto e fiducia
reciproca (discussioni in gruppo).
Parlare liberamente
di altro (cosa mi piace, cosa non mi piace) dà la possibilità di
prendere in conto sia il poliziotto che l'uomo, mettendo subito in
chiaro che, in questa formazione, c'è spazio per il poliziotto e per
l'uomo civile che lo
accompagna.
Contenuto
Commento
Concetti di identità, cultura,
etnia, pregiudizi e stereotipi, discriminazione e le sue varie forme,
razzismo (tipi e forme)
E il momento del
corso dove più direttamente si affronta l'area degli atteggiamenti, dove
la formazione non è mai informativa e prescrittiva e non intervengono
elementi di conoscenza e abilità in alcuna forma, con l'unica eccezione
di tipi e forme del razzismo che viene effettivamente presentato con
lezione frontale. Anch'essa, tuttavia, se il dibattito e l'analisi che
lo hanno preceduto è stato ricco e positivo, risulta essere piuttosto
una sistematizzazione dei contenuti espressi dai
partecipanti.
Tutti questi temi
sono affrontati attraverso lavori di gruppo (ricerca delle definizioni)
poi ricondotti a momento unitario nell'aula - dove vengono confrontati
(senza necessità di operare una scelta) con le definizioni
elaborate dai docenti - e giochi.
Il gioco
dell'Italianometro, che apre questa sessione, ha lo scopo di
approfondire l'analisi dei concetti di identità e cultura dati per
scontati e di mettere in discussione per ciascun individuo (anche
profondamente) il posizionamento di ognuno nella scala di valori,
caratteristiche ed elementi fondamentali o supposti tali che definiscono
la categoria di italiano, e per riflesso, le categorie usate rispetto
agli altri straniero, extracomunitario, nero, nigeriano, donna, ecc.).
Il gioco ha dimostrato in tutti i corsi di produrre l'effetto desiderato
e, a distanza di tempo, è questo uno degli esercizi, se non l'esercizio,
che più ha lasciato traccia nella consapevolezza dei
partecipanti.
Comunicazione:
processo complesso,
le dimensioni della
comunicazione,
l'importanza dell'ascolto
attivo,
il pregiudizio
comunicativo,
nei panni degli altri,
la comunicazione
interculturale
E uno dei due
momenti dedicati all'apprendimento di alcune capacità/abilità ritenute
necessarie all'agire della polizia. I partecipanti sono gradualmente
condotti, attraverso esercitazioni, giochi, simulazioni e giochi di
ruolo, a percorrere il processo di comunicazione dalle sue forme
apparentemente più semplici alla complessità di una comunicazione
interculturale. Ogni tappa è poi ricondotta ad un quadro di riferimento
teorico con l'ausilio di lucidi.
Esercizio della
lettera: serve ad evidenziare ciò che non è ovvio ma sempre presente
l'uso di codici e l'incrinatura che essi introducono nella comunicazione
perfetta alla quale tendiamo.
Esercizio
sull'ascolto attivo: è un classico esercizio di provocazione, di breve
durata, occasione per evidenziare ciò che spesso non si considera e cioè
che il 50% di una comunicazione riuscita lo si deve alle capacità di
ascolto attive.
Gioco dei tre
gruppi di oggetti: descrivere le tre persone alle quali appartengono
questi oggetti. Evidenzia quanto il pregiudizio comunicativo, che è
d'altronde inevitabile, sia determinante nell'indirizzare la
comunicazione in un senso piuttosto che in un altro e quanto c'è di
interpretazione piuttosto che di fatti oggettivi nel nostro pre-giudizio
sugli altri.
Gioco di ruolo
dell'infrazione stradale: applicazione delle riflessioni già
condotte sul pregiudizio comunicativo. Gli operatori di polizia sono
portati ad osservare come ci si può, senza necessariamente volerlo,
comportare in modo diverso di fronte ad un contravventore
nero.
Gioco di ruolo
dell'USL: permette di uscire completamente dalle situazioni che
quotidianamente vivono gli operatori di polizia e di mettere i
partecipanti nel ruolo di coloro che, senza potere, fruiscono di un
servizio. Il gioco si è mostrato sempre efficace nel fare riflettere (e
sentire) i partecipanti circa la disparità della comunicazione
quando una delle parti ha potere e l'altra no.
Gioco del
personaggio famoso: due squadre, in base a due regole (a loro insaputa)
diverse, si sfidano ad indovinare un personaggio famoso. Il gioco rivela
la difficoltà di comunicare quando le regole della comunicazione sono
differenti, come nel caso della comunicazione interculturale ma
soprattutto fa sperimentare le emozioni di chi sente di non avere potuto
partecipare ad armi pari perché ignorante delle
regole.
Contenuto
Commento
Le possibili missioni della
polizia: fare osservare professionalmente le leggi, la strategia per la
soluzione dei problemi, la polizia di comunità.
La missione della polizia
italiana in un contesto multiculturale.
E il momento più
precisamente deputato alla trasmissione di conoscenze. L'intervento è
introdotto per offrire ai partecipanti, anche ai gradi più bassi, la
possibilità di inquadrare il proprio agire quotidiano in una visione
ampia del senso della propria azione. L'idea sottesa è che la
consapevolezza dei limiti e dei vantaggi dei diversi modelli possa
meglio motivare gli operatori di polizia nel proprio agire quotidiano,
soprattutto in relazione ai cittadini di etnia minoritaria, inducendo ad
un analisi della costruzione sociale della criminalità e della
selettività e discrezionalità che ne sono alla base. La lezione è
condotta con il metodo tradizionale della lezione frontale con l'ausilio
di mezzi didattici (lavagna a fogli mobili e lavagna luminosa) e di
dibattito.
Conoscere le leggi sulla
discriminazione e sul razzismo ed applicarle.
Esempi di strategie e azioni di
lotta contro il razzismo da parte di altre polizie.
Dopo un breve
riferimento teorico al D.Lgs.25/7/98 e alla L 25/6/93, si passa ad
un'esercitazione in gruppi dove, alla luce delle definizioni di
discriminazione e razzismo e delle leggi, si analizzano alcuni casi
presi dalle segnalazioni pervenute al Monitoraggio degli incidenti di
razzismo di Bologna. Questo esercizio permette ai partecipanti di
calarsi nella realtà della discriminazione e di cercare di capire in
quale modo la recente legge sull'immigrazione possa tutelare le vittime
di razzismo e quale può essere il ruolo degli operatori di
polizia.
Gioco di ruolo: la
coppia che denuncia di essere stata vittima di un attacco di stampo
razzista. Si sperimenta come dovrebbe essere l'accoglienza delle vittime
(o supposte tali), come esse vanno incoraggiate a segnalare questi
episodi, come vanno edotte di ciò che la polizia può e non può fare, di
come sia importante attribuire credibilità al loro racconto.
Esposizione del
codice di condotta e della strategia operativa della Polizia di
Northumbria come un esempio di polizia che ha intrapreso una via di
impegno nella rilevazione dei casi di razzismo e di lotta al razzismo
interno della polizia stessa (istituzionale e non). Lezione frontale con
ausilio di lucidi.
Piano di lavoro
Ai partecipanti è
distribuita una traccia per delineare un piano di lavoro al loro rientro
nelle normali attività dopo il corso. L'esercizio vuole richiamare
l'attenzione sul fatto che il corso vorrebbe produrre qualche
cambiamento (sia pure, nel più limitato dei casi) nell'agire personale
dei partecipanti. La traccia mette in evidenza i problemi che i
partecipanti potrebbero incontrare volendo introdurre dei cambiamenti
nella propria attività e li induce a riflettere su una via d'uscita. I
diversi piani d'azione vengono poi elaborati statisticamente e i
risultati restituiti nel corso dell'incontro di follow-up a distanza di
un mese.
Follow-up
Esercizio del ponte
levatoio: la metafora della regina che, infrangendo le regole dettate
dal marito despota, viene uccisa per mano delle sue guardie, induce il
gruppo ad una riflessione sulle responsabilità dei vari attori sociali
(istituzionali e non, della società d'accoglienza e immigrati) nel
creare una società multiculturale nel rispetto dei diritti di ognuno.
Esso permette anche di ripercorrere le tappe formative
precedenti.
L'analisi dei piani
dazione (nella loro elaborazione statistica) riporta ogni partecipante a
riflettere sull'efficacia (o non efficacia del corso) anche rispetto ai
propri proponimenti.
Gruppi di
contatto
Inizialmente il gruppo di
contatto era pensato come un complemento alla formazione, un'attività che gli
operatori di polizia avrebbero potuto intraprendere autonomamente, una volta
rientrati al proprio posto di lavoro. Nel corso della realizzazione del
progetto sono apparse chiaramente la rilevanza e la stretta connessione di
questi due momenti, tanto da indurci a considerare il gruppo di contatto come
una componente del percorso formativo, accanto alla formazione in aula, e a
presentarlo così in questo documento. Consideriamo dunque il gruppo di
contatto come il momento del programma di formazione dove si comincia a
concretizzare la ricaduta sull'operatività delle riflessioni condotte in aula
e riprese nell'incontro di follow-up. Sebbene nel corso di questo progetto il
gruppo di contatto abbia seguito la parte in aula a distanza di quasi un anno,
pensiamo che esso possa anche essere contemporaneo alle ultime fasi della
formazione in aula.
E stata una scelta del
progetto italiano di rigettare la presenza del formatore di etnia minoritaria
o dei community contributors in aula come unico momento durante il
progetto nel quale avviene il contatto tra i cittadini stranieri e i
partecipanti ai corsi. Il gruppo di contatto ha invece lo scopo di iniziare ad
avviare il dialogo fra i cittadini immigrati e le Polizie di Stato e
Municipali fuori dalla formazione in aula e su un periodo di tempo più lungo.
Ciò significa sviluppare una reciproca conoscenza delle attività, delle
esigenze e bisogni, degli atteggiamenti, credenze, modi di vita e ruoli
professionali degli operatori di polizia e dei cittadini di etnia minoritaria,
e di concetti quali sicurezza, ordine pubblico, legalità, discriminazione,
diritti, ecc. Le due parti coinvolte si devono impegnare a sostenere un
dialogo continuo in modo che il gruppo di contatto possa continuare anche dopo
il termine del progetto, come luogo fisso di dialogo e consultazione. Le
persone di etnia minoritaria sono scelte dal Forum dei cittadini non
comunitari mentre gli operatori di polizia si sono offerti volontari durante
il corso per partecipare a questa esperienza.
Vogliamo ancora
sottolineare che il concetto di gruppo di contatto usato in questo progetto
non si riduce al semplice conoscersi. Si prende per inevitabile che, se
ridotto al semplice contatto sociale, il gruppo non avrebbe molte speranze di
superare i soliti rapporti stereotipati frequenti nei contatti sociali in
altri contesti ed è prevista una preparazione al contatto (nel caso della
Polizia è d'obbligo avere frequentato il corso in aula). Il gruppo di
contatto, almeno nei primi incontri, è gestito dai formatori del corso e
responsabili del progetto, e deve stabilire un accordo fra i componenti del
gruppo sugli obiettivi e le modalità di lavoro del gruppo in modo da garantire
un'autogestione molto più proficua di quella che ci si potrebbe attendere da
un gruppo sociale qualsiasi.
Al momento in cui questo
documento è redatto, un solo gruppo di contatto è stato avviato ed ha avuto
tre incontri, non è dunque possibile farne alcuna valutazione. S'impongono
però tre riflessioni:
è questo il momento
esteso del corso (e del progetto) in cui avviene il contatto tra i cittadini
stranieri e gli operatori di polizia, contatto che, anche se in forme
diverse, è atteso e richiesto da molti partecipanti. D'altra parte è un
fatto che l'assoluta maggioranza dei poliziotti ha contatti diretti
soprattutto con immigrati che delinquono o che essi suppongono abbiano
adottato comportamenti devianti (anche se questa posizione non è
unanimemente condivisa all'interno del progetto) e sarebbe eticamente grave
se la formazione ignorasse questo fatto. Tale squilibrio di conoscenze che,
a differenza del contatto con i gruppi sociali di etnia maggioritaria, non
viene compensato da altre e più approfondite conoscenze, sia nella vita
professionale che sociale, con colleghi, parenti, appartenenti ad
associazioni, ecc., contribuisce ad una visione parziale e deforme della
società e particolarmente dei cittadini immigrati e/o di etnia minoritaria,
spesso visti come categoria e non come individui. Poiché per la polizia è
essenziale avere un quadro il più veritiero possibile dei reali bisogni dei
cittadini e promuovere relazioni positive e costruttive con i vari gruppi
che costituiscono una società, è indispensabile che essa abbia un feedback
dai diversi settori della comunità sull'efficacia e la rilevanza delle
proprie politiche e dei propri programmi (come di fatto già avviene per
alcune categorie di cittadini). Si potrebbe piuttosto obiettare che a questi
incontri il corso ha timidamente dato poco spazio e rilievo, limitandone la
partecipazione ai soli volontari. Dobbiamo segnalare che la posizione
assunta dal progetto non è unanimemente condivisa e le ragioni che, secondo
alcuni, motivano la creazione di gruppi di contatto sono contestate. Si
pensa infatti che, se i poliziotti non ritengono di conoscere solo gli
italiani che delinquono, ciò non è certo perché essi hanno contatti diretti
con la totalità degli italiani. Se per natura del proprio lavoro gli
operatori di polizia conoscono più delinquenti che onesti cittadini, ciò
dovrebbe essere vero sia per l'un gruppo che per l'altro. Sembra così di
potere affermare che con gli italiani funzioni la presunzione di onestà
mentre con gli immigrati ci si avvicina molto alla situazione del tipo non
sei onesto fino a quando non dimostri di esserlo e ciò proverebbe ancor di
più che il conoscersi per rispettarsi, in tema di rapporti interculturali,
genera una grossa e inaccettabile confusione. In ogni caso, qualunque sia la
posizione adottata dai singoli consulenti del progetto a questo riguardo, è
opinione condivisa che una conoscenza distorta da parte della polizia sui
cittadini immigrati e di etnia minoritaria, unita a presunzioni di onestà o
disonestà applicate a categorie di cittadini, producano un rapporto malsano
da combattere;
la prima esperienza
avviata, anche se con i limiti sopra indicati, sembra suggerire che i gruppi
di contatto necessitano della presenza di un facilitatore ben oltre i primi
incontri, come si sperava invece che potesse avvenire. Tuttavia,
l'esperienza del primo gruppo induce anche a pensare che il facilitatore
dovrebbe venire da uno dei due gruppi presenti o, meglio, da entrambi. La
presenza dei docenti del corso tende ad ostacolare la comunicazione diretta
dei partecipanti (che è l'obiettivo dell'incontro stesso), ponendoli come
mediatori tra le due parti. Se in futuro i gruppi di contatto rimarranno la
modalità prescelta per fare incontrare e dialogare direttamente i cittadini
di origine straniera e le forze dell'ordine, si dovrà pensare ad una
modalità di attuazione che superi questo limite;
sembra di potere
affermare che nei gruppi di contatto anche i cittadini di etnia minoritaria
possano vedere un interesse diretto nel sentirsi considerati cittadini, con
il diritto di esprimersi e di essere ascoltati e di potere parlare alla pari
con rappresentanti delle istituzioni con i quali, di norma, il rapporto è
forse particolarmente conflittuale per le ragioni già più volte
espresse.
3.I.3 Limiti ed elementi di forza
dell'esperienza di formazione del progetto italiano NAPAP
I limiti e le carenze della
nostra esperienza
Il primo e fondamentale
limite di questa esperienza è costituito dal contesto di immutata
organizzazione e struttura, prospettiva e valori nel servizio di Polizia.
L'orientamento del corso verso il cambiamento degli atteggiamenti e il
contesto altamente gerarchizzato e centralizzato nel quale gli operatori di
polizia lavorano, non permettono un cambiamento significativo dell'agire di
polizia come esito della formazione stessa. Sicché si può dire che, sebbene
il corso abbia cercato, in questo secondo anno, di uscire dalla sfera della
conoscenza e degli atteggiamenti per introdurre elementi di comportamento
(che indicano cioè cambiamenti visibili), l'operazione viene in gran parte,
inevitabilmente, vanificata da un contesto dell'agire di polizia
sostanzialmente invariato, dove i nuovi comportamenti appresi non trovano
spazio di applicazione, ricacciando così anche il corso nell'ambito di un
approccio di presa di coscienza del tema. Se è vero infatti che nella
crescente complessità e diversità delle società, i pubblici ufficiali hanno
sempre più bisogno di competenze nelle relazioni umane, oltre alle
competenze professionali tipiche del loro lavoro, e, di conseguenza, la
formazione è divenuta una parte indispensabile della vita lavorativa di
ognuno, è altrettanto vero che anche l'organizzazione nel suo insieme, la
cultura stessa dell'organizzazione devono cambiare affinché
l'organizzazione/istituzione possa beneficiare della diversità e per
prevenire i problemi che si possono creare quando la diversità è malamente
gestita. Alcune dimensioni del cambiamento richiesto alla cultura di
un'organizzazione sono il reclutamento, la selezione e la promozione del
personale, le procedure e le pratiche di supervisione e gestione, le
comunicazioni interne e verso l'esterno, i codici di comportamento e molti
altri.
Oggi, nel contesto
internazionale, la formazione della polizia, e di qualunque altra
organizzazione, tende a non focalizzarsi più sulle relazioni etniche ed
interculturali, come avveniva ancora nei primi anni '90. Essa ha di molto
ampliato ed approfondito i temi diventando formazione alla diversità e al
pluralismo, dove diversità è intesa come tutti i modi in cui le persone, i
gruppi, le organizzazioni differiscono (per età, genere, cultura, religione,
orientamento sessuale, abilità/disabilità, ecc.) e pluralismo si riferisce a
quella cultura dell'organizzazione che vede le diversità come un opportunità
e le usa come una risorsa che può offrire anche ampi benefici, oltre alle
indubbie sfide. Questa scelta è già operativa da alcuni anni in alcune
Polizie Europee (Gran Bretagna, Olanda e Germania, ad esempio) e pensiamo
che potrebbe essere presa in considerazione anche dalle forze dell'ordine
italiane.
Un tema non ancora
sufficientemente svolto dalla nostra esperienza è quello della
fragilizzazione che una formazione rivolta principalmente agli atteggiamenti
e ai pregiudizi può indurre (e se non lo facesse avrebbe fallito). Lo spazio
di riflessione che si apre con la formazione lascia un vuoto di certezze:
credevo di non essere razzista e invece… Ma allora ho delle competenze per
agire correttamente? Cosa posso fare per agire correttamente? Il nostro
corso lascia gran parte di queste domande aperte, domande che probabilmente
non riceverebbero una risposta esaustiva nemmeno se il corso fosse veramente
inserito in un contesto di cambiamento strutturale, strategico e
organizzativo della Polizia. Probabilmente bisognerà ripensare ad un
allargamento della sfera delle abilità e della conoscenza nel curriculum,
senza ampliare ulteriormente lambito degli atteggiamenti già
sufficientemente svolto.
Le forze di polizia
sono rimaste molto esterne alla formazione, tanto che nessun operatore di
polizia faceva parte dell'équipe di formazione, cosicché a volte è sembrato
che i problemi che la polizia sperimenta venissero solo parzialmente presi
in considerazione nel corso. Esiste un ampio dibattito su chi debba essere
il formatore (o chi debba fare parte della squadra di formatori) nel caso di
una formazione alla diversità (o alla multiculturalità). Le opinioni variano
da chi sostiene che i formatori dovrebbero essere solo membri interni
all'organizzazione stessa, a chi sostiene invece che il lavoro dovrebbe
essere fatto solo da professionisti esperti nel settore ma rigorosamente
esterni all'organizzazione. Una terza posizione dice che, data la
particolare sensibilità di questi argomenti, i formatori devono certamente
possedere le caratteristiche personali, la conoscenza e le competenze
necessarie e, siccome questa esperienza non è ancora oggi disponibile nella
maggior parte delle organizzazioni ed istituzioni e perché ciò avvenga è
ancora necessario tempo, quelle competenze ed esperienze dovranno essere
cercate dove esse sono, nel privato, tra gli esperti freelance, ecc.,
tenendo però sempre presente che personale interno ed esterno dovranno
lavorare insieme a tutte le fasi della formazione (dalla programmazione alla
valutazione). Resta inteso, per chi sostiene questa posizione, che
l'obiettivo a lungo termine dei consulenti esterni dovrebbe essere quello di
rendere capace l'organizzazione di sviluppare essa stessa, al proprio
interno, le competenze necessarie, rimanendo i consulenti esterni a
disposizione solo per una supervisione periodica e per l'aggiornamento del
personale interno sulle novità in campo educativo nel settore.
I poliziotti vivono in
un campo sociale che rinvia loro un'immagine svalorizzata di se stessi (come
illustra molto bene il brainstorming sullo stereotipo del poliziotto). Ora
il problema di questa formazione é che traspare l'idea che si mira al bene
degli immigrati e che si prende il poliziotto un po' come uno strumento
necessario a migliorare la situazione di altre persone e questo suscita, e
ha suscitato a volte, qualche espresso disagio e malcontento. Il corso -
anche se in modo totalmente non deliberato in qualche occasione non ha
saputo reggere l'atteggiamento di distanza e di non colpevolizzazione degli
operatori di polizia e perciò ha a volte indotto un atteggiamento difensivo
e, dunque, di irrigidimento su posizioni ancora più radicate che all'inizio
del corso. Bisognerà sempre più mirare alla costruzione di una
formazione nella quale l'atteggiamento rispettoso delle intenzioni è
mantenuto con rigore durante tutta la formazione. Compito difficile, ma
proprio del formatore, di instaurare il corretto rapporto con i partecipanti
al corso.
Essendo questa
un'esperienza che ha visto coinvolto un limitato numero di operatori di
polizia, il meccanismo di selezione dei partecipanti è di particolare
significato. Non era stata fornita dagli organizzatori alcuna indicazione
circa i criteri di selezione, se non per quanto attiene alla necessità di
avere la presenza anche di operatori di polizia al massimo grado possibile.
Va tuttavia segnalato che gli operatori della Polizia di Stato partecipanti
al corso del secondo anno a Modena ritenevano di essere stati scelti perché
noti come persone già sensibili, aperte ed interessate a questi temi.
Sebbene questo quasi-volontariato della partecipazione al corso, di per sé,
non abbia un valore negativo, si dovrà di ciò tenere conto al momento
dell'analisi della valutazione del corso richiesta agli stessi
partecipanti.
Per la
trattazione dell'efficacia della formazione si rimanda alle relazioni del
valutatore e della coordinatrice didattica. Interessa tuttavia proporre
un'ultima, breve, considerazione sulla valutazione dell'apprendimento. In
questa fase sperimentale si è voluto sondare soprattutto il gradimento del
corso da parte degli operatori di polizia, limitando la valutazione
dell'efficacia alla somministrazione di due domande analoghe
all'inizio e alla fine del corso, per rilevare un eventuale cambiamento di
atteggiamento nei confronti delle etnie minoritarie. D'altra parte, il
contesto di isolamento nel quale è avvenuto il corso avrebbe difficilmente
permesso la valutazione della sua efficacia nel cambiare atteggiamenti e
comportamenti dei partecipanti, soprattutto in considerazione della
difficile misurabilità degli atteggiamenti cui si è accennato
precedentemente. Gli strumenti per valutare i cambiamenti (e anche gli
atteggiamenti) sono l'osservazione in condizioni reali e tutti i possibili
sostituti, dalle domande su come si agirebbe in una data circostanza, alla
valutazione dei comportamenti in situazioni simulate. Di questo si dovrà
tenere conto nella riproposizione dell'esperienza in un ambito allargato e
in un contesto di reale mutamento del servizio erogato.
I punti forti
dell'esperienza di formazione
La formazione
sperimentata in questo progetto è la prima del suo tipo in Italia e ha il
merito di avere portato sulla scena italiana anche l'esperienza di altri
Paesi europei in materia. Siamo convinti che essa costituisca una base
valida, e non trascurabile, per chiunque volesse introdurre in Italia la
formazione di base e l'aggiornamento per gli operatori di polizia ad offrire
un servizio equo e professionalmente valido per tutti i gruppi
sociali.
L'introduzione di una
valutazione in corso d'opera ha fornito un supporto alla formazione e
all'intero progetto che permette uno sguardo riflessivo nel corso della
realizzazione dell'azione e non soltanto a lavori ultimati.
I gruppi di contatto,
intesi come parte integrante della formazione e complemento della formazione
in aula, costituiscono un'esperienza che, per quanto non appieno sviluppata
nel corso del progetto per problemi indipendenti da chi lo ha gestito,
merita una valutazione attenta per comprenderne l'efficacia e l'eventuale
opportunità di estensione nell'ambito della formazione di base e
dell'aggiornamento del personale di Polizia.
La metodologia del
corso ha tenuto conto dei principi della formazione degli adulti. Le
metodologie di apprendimento attivo hanno dimostrato tutta la loro
appropriatezza, più volte sottolineata dai partecipanti che hanno sommamente
apprezzato il clima di valorizzazione del contributo di tutti e la
sensazione, sempre sollecitata dai docenti, di essere essi stessi
protagonisti dell'apprendimento. La metodologia e le tecniche didattiche
adottate hanno avuto un impatto tanto più forte quanto meno i partecipanti
avevano familiarità con queste tecniche, e sono stati quindi particolarmente
apprezzati dagli operatori della Polizia di Stato, mentre per buona parte
degli operatori della Polizia Municipale essi non costituivano
novità.
L'esperienza della
formazione congiunta di Polizia Municipale e Polizia di Stato è stata
valutata positivamente, senza alcuna eccezione, da tutti i
partecipanti.
Nel corso della
formazione abbiamo potuto verificare la sostanziale adeguatezza degli
esercizi, dei giochi e delle simulazioni proposte, con l'identificazione
chiara delle tecniche e delle situazioni che hanno funzionato in modo
limitato e necessitano pertanto di una revisione.
3.2 Negli altri Paesi
Ognuno dei 10 progetti NAPAP partner del progetto italiano, pur uniti dal
comune obiettivo di coinvolgere i cittadini di etnia minoritaria nella
formazione della polizia, hanno seguito percorsi originali, partendo da
condizioni e contesti tra loro molto diversi. Purtroppo, le informazioni a
nostra disposizione circa i progetti e le loro realizzazioni differiscono
enormemente, per alcuni di essi trattandosi di notizie veramente scarne.
Tuttavia, abbiamo ritenuto opportuno per questo lavoro riportare gli elementi
a nostro avviso più significativi tra quelli a nostra disposizione, sperando
che essi contribuiscano ad una migliore comprensione di quanto sta avvenendo
in Europa su questi temi e possano essere ulteriore spunto per riflessioni
utili anche all'esperienza italiana. Rimandiamo alla lettura dell'ESOAR
(European State of the Art Report), che sarà redatto dal coordinatore e
valutatore transnazionali del progetto NAPAP, per
una trattazione completa dell'argomento, scusandoci per la frammentarietà e la
disomogeneità dei paragrafi che seguono.
Olanda
Il progetto in Olanda
avviene in un quadro, quello di Rotterdam e Rijmond, la sua regione, dove da
tempo esiste una collaborazione istituzionale tra la polizia, una ONG che si
occupa di antirazzismo, la municipalità e la magistratura. Da questa
esperienza è nata la Carta di Rotterdam Policing for a multi-ethnic society.
La stretta collaborazione tra la Ong (RADAR) e la polizia è dimostrata dal
fatto che il coordinatore del progetto è un funzionario di polizia distaccato
presso la sede della ONG che ha maturato una vasta esperienza nella formazione
della polizia negli ultimi anni. Nel quadro del progetto NAPAP in Olanda sono stati realizzati dei coalition
training (formazione per le alleanze): seminari ai quali partecipavano tutte
le parti in gioco (associazioni attive contro le discriminazioni,
magistratura, polizia, municipalità, associazioni di minoranze etnica
impegnate nella lotta alla discriminazione), in 10 dei 25 distretti di polizia
dell'Olanda. I seminari terminavano con la produzione e la sottoscrizione di
una lettera d'intenti che coinvolgeva tutte le parti nella lotta contro le
discriminazioni su base razziale e le impegnava alla collaborazione.
Nonostante il quadro, per certi versi, idilliaco della situazione olandese, il
coordinatore del progetto denuncia di avere incontrato difficoltà nel mettere
in moto i coalition training in alcuni distretti, o per causa della polizia
(non abbiamo minoranze etniche nell'area, non c'è razzismo nell'area, sono le
ragioni più spesso addotte) o per causa delle ONG e delle associazioni che
vedevano il progetto come una minaccia per la propria identità e la propria
posizione sociale. Particolarmente difficile è stato coinvolgere la
magistratura che denuncia mancanza di tempo e di risorse.
Danimarca
Il sistema di formazione
della polizia danese ha subito una profonda revisione alcuni anni fa e da
allora il tema dell'immigrazione, della multiculturalità e dell'agire della
polizia in una società multiculturale è stabilmente e ampiamente inserito
nella formazione di base sotto il profilo socio-antropologico e psicologico
della lotta allo stereotipo e al pregiudizio. Il progetto NAPAP ha potuto dunque concentrarsi sull'inserimento
sperimentale di persone appartenenti a comunità di etnia minoritaria nella
formazione della polizia, in particolare di due giovani community contributors
(persone risorsa della comunità) di sesso maschile. Secondo i protagonisti,
l'esperienza ha mostrato che è bene affiancare anche una figura femminile,
perché la presenza di una donna porta in genere a smorzare i toni e a rendere
il dibattito più morbido e serve anche a non ignorare la preoccupazione sempre
espressa dai poliziotti di non sapersi rapportare a donne mussulmane. Inoltre,
le conclusioni del progetto insistono sulla necessità di avere sempre
affiancati due formatori: un operatore di polizia e un rappresentante di ONG,
preferibilmente di etnia minoritaria. I docenti del corso giudicano molto
positivamente l'avere introdotto l'analisi dei mass media come responsabili
dell'immagine negativa delle etnie minoritarie, argomento sul quale è facile
trovare un intesa comune poiché anche l'immagine della polizia, come quella
degli immigrati, è distorta dai media.
Catalogna
Partner istituzionale del
progetto é la Scuola di Polizia di Catalogna. Prima dell'avvio del progetto NAPAP, la Scuola di Polizia di Catalogna aveva già
tenuto seminari su diversi temi legati alla multiculturalità nell'ambito della
formazione di base. Inoltre, nella materia Codice di Condotta e Diritti Umani
è trattato il tema della multiculturalità da quando è stato introdotto nel
nuovo codice penale, nel maggio 1996, il riconoscimento di crimini correlati
al razzismo. La formazione di base include 1800 ore, 10% delle quali sono
collegate in qualche modo al tema dei diritti umani (deontologia, mission della polizia, costituzione e relazioni umane). Inoltre,
vengono realizzati numerosi seminari specifici sul multiculturalismo e
diversità e persone di etnia minoritaria sono invitate a questi seminari.
Anche nelle ore di aggiornamento (ne sono previste 120 l'anno) il 10% è
dedicato ai diritti umani. Il progetto NAPAP ha
permesso di mettere a punto alcuni esercizi, in particolare simulazioni con la
presenza di community contributors, che andranno ad arricchire il corso di
base, e di realizzare seminari speciali di approfondimento per i poliziotti
che lavorano in aree con una comunità mussulmana importante. I contenuti e le
metodologie didattiche dei seminari sono decisi congiuntamente con i
rappresentanti della Federazione Catalana degli immigrati.
Francoforte
L'Ufficio per gli Affari
Multiculturali della Municipalità di Francoforte conduce seminari di
mediazione e prevenzione con la polizia di quartiere sin dal 1992. Il
progetto NAPAP ha consistito nell'organizzare
seminari di preparazione separatamente per gli operatori di polizia e per i
cittadini di etnia minoritaria sui temi della comunicazione e dei più comuni
elementi di fraintendimento.
Berlino
La città di Berlino vive
attualmente molte tensioni e molti conflitti interetnici e ciò rende difficile
da parte della polizia accettare interventi di formazione esterni, in
particolare che coinvolgano le etnie minoritarie. Esiste comunque nella
Polizia del Länder un coordinatore che si occupa dei cittadini stranieri ed un
ufficio competente della polizia dove vengono inviati i casi segnalati come
discriminazione dal Gruppo di Lavoro contro la Discriminazione e la
Violenza (Ufficio del Länder). Avvengono anche soggiorni di poliziotti
tedeschi presso famiglie di immigrati. La strategia adottata dalla Polizia del
Länder punta molto sul reclutamento di cittadini stranieri come operatori di
polizia ma il grande problema da affrontare è l'alto tasso di abbandono,
insieme con una difficoltà dei candidati stranieri a superare le prove di
conoscenza della lingua tedesca.
Belgio
francofono
Il progetto è promosso e
gestito da CECLR, istituzione parastatale che sin dal 1995 lavora con la
polizia nella lotta contro razzismo e xenofobia: esso si occupa di formazione
alla polizia e di formazione ai cittadini di etnia minoritaria per prepararli
ai concorsi pubblici per entrare in polizia. NAPAP
ha offerto l'opportunità di fare in modo più esteso ciò che già si stava
facendo.
Austria
E questo l'unico Paese
dove il progetto NAPAP sia stato richiesto e
promosso dalla polizia stessa. Il progetto è consistito in due giorni di
formazione che sono stati realizzati in 50 incontri su tutto il territorio
nazionale. I formatori erano sempre due, un operatore di polizia e un
rappresentante di ONG o associazione, sia che le due giornate facessero parte
della formazione di base, sia dell'aggiornamento del personale già operativo.
Le due giornate di formazione prevedevano una breve componente informativa (le
leggi, i diritti umani), aspetti della comunicazione interculturale e il
contatto diretto con migranti.
Belgio
fiammingo
Nel 1995 la polizia di
Anversa condusse un'indagine in vista della riorganizzazione e
ristrutturazione della Polizia verso un modello più orientato alla comunità
(community policing). Ne emersero 19 progetti tra i quali Reclutamento di
donne e di belgi di origine straniera e fu nominato un funzionario che si
occupasse precisamente del tema della discriminazione. Da allora, la
Polizia belga di lingua fiamminga ha lavorato molto con la Polizia di Rijmond
(Olanda), in particolare sul tema della comunicazione interculturale. NAPAP è intervenuto con l'inserimento di due giornate
di follow-up della formazione su questi temi, follow-up al quale partecipano
anche cittadini di etnia minoritaria. Gli incontri avvengono in un
luogo neutro e nel secondo pomeriggio i partecipanti visitano una
moschea. Il progetto ha sviluppato tre programmi diversi nelle 3 città
partner: come sviluppare una pratica multiculturale nella polizia, la gestione
dei conflitti, l'accoglimento del pubblico.
Francia
Il progetto mira nel suo
insieme a mettere a punto un documento di raccomandazioni sulla formazione per
migliorare le relazioni tra i dipartimenti della sicurezza e le persone di
origine straniera. Esso ha diversi obiettivi nelle 4 città dove si è
realizzato: dall'accordo tra i vari partner per un contratto locale per la
sicurezza, alla formazione di gruppi di adolescenti alla cittadinanza,
compresa la capacità di entrare in contatto con le istituzioni e rispettarle,
alla formazione di un gruppo di cittadini di etnia minoritaria a intraprendere
la carriera nelle forze di polizia. L'associazione CIRAP ne è promotrice e
coordinatrice.
Gran
Bretagna
Lo scopo del progetto
inglese era di promuovere il coinvolgimento di persone di etnia minoritaria
nella formazione della polizia. La formazione della polizia sulla relazione
con le comunità e le diverse razze (community and race relations) è da tempo
stabilita in Gran Bretagna ed esistono già esempi di coinvolgimento di etnie
minoritarie. Infatti, il Reading Council for Racial Equality (uno dei
promotori e coordinatori del progetto) ha da tempo avviato una partnership con
la Scuola Nazionale di Polizia di Bramshill per fornire community contributors
(persone risorsa nelle comunità) dalle comunità di minoranza etnica locale ai
corsi nazionali di formazione per dirigenti di polizia. L'obiettivo del
progetto NAPAP era dunque quello di consolidare e
stabilire una struttura di supporto per quest'iniziativa che rimane tuttavia
abbastanza pionieristica anche in Gran Bretagna, sebbene il coinvolgimento di
persone di etnia minoritaria non professioniste fosse già stato raccomandato
da un rapporto del governo nel 1983. In realtà, molto spesso la formazione
della polizia su questioni di comunicazione interetnica e di discriminazione
razziale è portata avanti internamente dagli stessi operatori di polizia,
senza concedere alcuna visibilità o responsabilità alle etnie minoritarie.
L'esperienza NAPAP consisteva in due giorni di
formazione tenutisi alla Scuola Nazionale di Polizia di Bramshill per
preparare alcune persone di etnia minoritaria a diventare community
contributors. Per queste caratteristiche del contesto, l'esperienza inglese è
dunque quella che più ha saputo contribuire a costruire una serie
d'indicazioni e raccomandazioni. Ci sembra dunque interessante riportare
alcune delle conclusioni raggiunte dal progetto:
la formazione della
polizia è generalmente fatta da formatori interni. Tuttavia, quando si tratta
propriamente delle relazioni con la comunità e le etnie minoritarie, è
opportuno che la formazione sia fornita da una squadra mista di polizia e
cittadini comuni, maschi e femmine;
i formatori e i
facilitatori devono essere competenti e capaci. Le emozioni possono essere
forti nella sessione e i gruppi devono essere condotti con efficacia perché un
gruppo condotto male può avere effetti devastanti su una sessione di
formazione;
va riaffermato che i
community contributors non sono dei formatori ed è importante che essi portino
in aula la loro esperienza nel modo più genuino. E però altrettanto importante
che essi ricevano un'adeguata preparazione circa il proprio ruolo e la
formazione alla quale prenderanno parte;
é importante scegliere le
persone giuste come community contributors: coloro che vogliono essere
coinvolti per ragioni positive e sono ben disposti al dialogo;
devono essere sempre
chiari scopo e obiettivi dell'introduzione dei community contributors e questo
deve essere chiaramente esplicitato in aula;
nonostante la consueta
limitatezza delle risorse, i community contributors devono sempre ricevere un
compenso economico poiché essi spesso rinunciano al proprio tempo libero,
quando non ad un'attività lavorativa, per prendere parte a queste iniziative.
Non solo ciò è giusto e apprezzato ma dà anche importanza al loro
ruolo;
é necessaria una sessione
di approfondimento con i community contributors dopo l'esperienza in aula,
affinché questi possano apprezzare l'effetto del proprio intervento e valutare
la propria esperienza;
in conclusione, i
community contributors non sono né formatori né facilitatori. Il loro ruolo è
di portare esperienza e conoscenza diretta nella formazione e offrire la
visione e i consigli dalla prospettiva delle minoranze etniche. Questa è
spesso l'unica opportunità per molti poliziotti di imparare direttamente dalle
etnie minoritarie.
Nonostante le diversità,
alcuni elementi comuni a tutti i progetti sono emersi:
la metodologia
d'insegnamento adottata da tutti i progetti era non direttiva, con largo uso
delle tecniche di formazione partecipativa e di apprendimento attivo, dai
giochi alle simulazioni, ai giochi di ruolo, alle discussioni guidate. Nella
maggioranza dei casi, l'approccio adottato era una combinazione dei diversi
modelli possibili per la trattazione di questi temi (cap. 4.1), solo in due
casi è sembrato si trattasse piuttosto di modelli quasi puri di presa di
coscienza del razzismo (Berlino) e approccio educativo (Francia);
in più di un'occasione si
è convenuto che, sebbene insegnare cosa avviene nelle diverse culture o
religioni non sia importante, né garanzia di alcunché, quando non addirittura
una via per il possibile rafforzamento di stereotipi, rimane vero che le
domande degli operatori di polizia che vorrebbero essere preparati
all'incontro con le culture altre devono trovare una risposta. Questa può
giungere dall'incontro con community contributors o gruppi di contatto,
oppure, come avviene in qualche Paese, attraverso una formazione specifica per
quegli operatori di polizia che sono assegnati ad aree dove prevale una
minoranza etnica;
molti concordano sulla
valutazione positiva di un luogo esterno alle strutture della polizia per la
realizzazione della formazione - ad esempio, centri sociali o centri
interculturali, in modo che gli operatori di polizia si trovino subito immersi
in un'atmosfera multiculturale - e considerano importanti alcuni
elementi del curriculum informale, come la cena presso un ristorante di cucina
etnica ed un breve soggiorno presso famiglie di etnia minoritaria.
4. Il passaggio da una società
monoculturale ad una multiculturale: implicazioni per l'erogazione del
servizio di polizia
4.1 I diversi approcci alla formazione
contro la discriminazione su base razziale
Sebbene, in particolare
nel mondo anglosassone più che altrove, la formazione all'antirazzismo nelle
organizzazioni sia praticata da ormai oltre un trentennio, non esiste una
consistente, approfondita e sistematica valutazione dell'efficacia dei diversi
approcci.
Secondo Robin Oakley e
Mohan Luthra però, si possono delineare 5 modelli di formazione nel campo
delle discriminazioni su base razziale o etnica:
-
formazione basata sull'informazione
sulla questione razziale (race information training)
-
formazione basata sulla presa di
coscienza del razzismo (racism awareness training)
-
formazione basata sulle pari
opportunità delle razze (race equality training)
-
formazione all'antirazzismo (anti
racism trining)
-
approccio educativo (educational
approach)
Di ognuno si riprendono
di seguito sinteticamente gli elementi fondanti, insieme con una breve analisi
degli aspetti positivi e negativi.
Informazione sulla
questione razziale
E' l'approccio usato per
lo più negli anni '60 e '70. E' mirato unicamente agli aspetti cognitivi ma
non tocca gli atteggiamenti e i comportamenti. Confida sul fatto che sarà il
personale a fornire un migliore servizio perché meglio informato. L'aspetto
delle leggi è toccato solo in quanto una delle componenti informative della
formazione. Usa preferibilmente metodi didattici tradizionali, per lo più
nella forma della conferenza o della lezione frontale. Gli effetti
riconosciuti di questo approccio sono che, se l'informazione è effettivamente
rilevante, essa informerà coloro che sono in cerca di informazione e di
conseguenza sono alte le probabilità che migliorerà il loro lavoro ma non vi è
alcuna prova che ciò induca alcun cambiamento negli atteggiamenti e tantomeno
nei comportamenti in modo generalizzato. L'informazione, da sola, potrebbe
ugualmente abbattere pregiudizi o sostenerli e il risultato sarà affidato
unicamente alla recettività del partecipante alla formazione. Sembra dunque
che la condizione affinché questa componente della formazione sia di qualche
efficacia è che essa faccia parte di un programma più ampio che arrivi a
toccare anche gli atteggiamenti ed i comportamenti: la componente di
formazione basata sull'informazione diventa potenzialmente efficace nel
combattere il razzismo solo quando esistono atteggiamenti favorevoli o sono
state sollecitate la consapevolezza e la sensibilità alle questioni razziali.
Come parte di un programma più vasto di formazione, o come specializzazione di
alcuni dipendenti di un'organizzazione, il modello viene tutt'oggi
applicato.
Formazione basata
sulla presa di coscienza del razzismo
L'assunto su cui si basa questo modello è che il razzismo
sia un attributo dei bianchi che devono di conseguenza divenire consapevoli
del proprio razzismo come condizione fondamentale per affrontare il problema
nella loro vita. E facile capire che l'accento è posto sugli atteggiamenti del
singolo, specialmente nella dimensione affettiva valori, sentimenti che i
bianchi hanno nei confronti dei neri26. La formazione deve avvenire dunque in
un gruppo ridotto di persone, con largo uso di tecniche educative tipiche
della sfera degli atteggiamenti (giochi di ruolo, critical incident technique,
ecc.). Il limite, così come per il modello precedente, è legato al fatto che
questo approccio è normalmente svincolato dalle altre componenti del programma
di formazione e ancor più slegato da ogni strategia generale
dell'organizzazione per combattere il razzismo. Le conseguenze (dimostrate da
alcuni studi) sono che gli individui si sentono spesso impotenti (per senso di
colpa o perdita di fiducia in se stessi), oppure iniziano una vera e propria
crociata per la causa. Entrambe queste risposte possono essere inutili a
livello organizzativo per avviare cambiamenti effettivi. Sembra dunque che
questo approccio ottenga i suoi migliori risultati (soprattutto se preso come
momento formativo isolato) in presenza di individui già predisposti
positivamente e con persone che occupano posizioni gerarchicamente superiori
nell'organizzazione. Questo modello è stato applicato in passato anche alla
formazione della polizia, p.e. in USA e UK all'inizio degli anni
80.
Formazione basata
sulle pari opportunità delle razze
Questo modello si basa
sul fatto che la discriminazione razziale è illegale e che le istituzioni, le
organizzazioni e i privati hanno l'obbligo di evitare che le discriminazioni
si producano (siano esse intenzionali o no) e di praticare le pari
opportunità. Si tratta spesso di una formazione unicamente mirata alle uguali
opportunità di impiego e per questo è poco significativa se non inserita in un
programma più ampio di formazione. Si tratta evidentemente di un approccio
mirato a modificare i comportamenti, interessato agli aspetti cognitivi solo
per quello che essi possono servire a influire sui comportamenti ma, nella
maggior parte dei casi, ignora totalmente gli atteggiamenti, relegandoli alla
sfera del privato perché irrilevanti per le performance professionali. E
evidente che il contenuto, e anche il quadro concettuale attorno al quale è
organizzato il corso, sono centrati sulle leggi e sulla loro applicazione.
Questo modello può avere come prodotto delle dichiarazioni ufficiali di
impegno politico e strategico verso la meta delle uguali opportunità;
tuttavia, rimane da provare l'efficacia nel produrre cambiamenti nel
comportamento. Il modello ha avuto un importante sviluppo e applicazione in UK
con la creazione della Commissione per l'uguaglianza razziale (Commission for
Racial Equality) e l'applicazione della Legge sulle Relazioni Razziali (Race
Relations Act).
Formazione
all'antirazzismo
Nasce da un
approfondimento e una rivisitazione del modello presa di coscienza del
razzismo. Si basa sul duplice assunto che il razzismo non può essere ridotto
ad un problema degli individui (bianchi) e che esso non può essere affrontato
solo nei termini di un comportamento discriminatorio, senza affrontare anche
gli atteggiamenti soggiacenti e il riconoscimento di questi sentimenti. I
cambiamenti nell'organizzazione avverranno conseguentemente alla presenza di
corretti atteggiamenti negli individui che non possono essere ignorati senza
incorrere nel rischio di suscitare resistenza e inadempienza dissimulata. I
riferimenti legislativi e d'iniziativa politica sono parte del programma ma
non ne costituiscono l'elemento fondamentale che rimane la lotta contro il
razzismo ad ogni livello e non solo al livello dei servizi da fornire o delle
pari opportunità d'impiego. Questo approccio in genere è usato in corsi ad hoc
ma può essere anche introdotto nel normale programma di formazione e permearne
tutti gli aspetti. La comparsa di questo approccio e la sua adozione è
piuttosto recente e perciò, ancor meno che per gli altri modelli, esistono
metodi di valutazione che possano convincentemente isolarne gli effetti ed
indicarne la validità.
L'approccio
educativo
La peculiarità di questo
modello sta nel metodo piuttosto che nel contenuto. Il metodo è non direttivo
e, si potrebbe dire, autenticamente maieutico, basato sull'assistenza allo
sviluppo personale e sull'instaurarsi di una relazione personale di
collaborazione tra il formatore e i partecipanti. L'obiettivo è raggiungere
dei cambiamenti a livello degli atteggiamenti, lasciando il comportamento come
una variabile al di fuori della portata del corso. L'assioma su cui si regge
questo approccio educativo consiste nella convinzione che, qualunque sia
l'origine e la natura del razzismo, un cambiamento durevole e certo può
concretizzarsi unicamente attraverso lo sviluppo personale degli individui. In
altri termini, quanto più agli individui viene imposta la necessità e la
direzione del cambiamento, tanto meno il risultato sarà un cambiamento
durevole in quella direzione. Il paradosso che ne deriva è che la formazione
tanto più avrà effetti positivi quanto meno sarà direttiva; esso diventa
talmente patente da produrre un'insanabile contraddizione tra la non
direttività assoluta e la scelta di combattere il razzismo come scopo del
corso. I cambiamenti che un simile modello possono produrre non possono che
essere raggiungibili nel lungo periodo.
Come districarsi dunque
nella scelta di un modello formativo per la polizia? Può essere osservazione
ovvia che i diversi modelli possono essere adatti a diversi tipi di
organizzazione, per esempio un'associazione di volontariato oppure
un'istituzione. Sembra anche di potere asserire, sulla base degli studi che
sono stati condotti, che l'uso di uno solo di questi modelli può limitarne
grandemente lefficacia nel produrre cambiamenti significativi e durevoli in
un'organizzazione. Probabilmente, la soluzione che oggi sembra disponibile è
la scelta pragmatica di combinare alcuni di questi modelli tenendo presente
che:
|
come ormai accertato
anche in altri settori, l'aspetto cognitivo della formazione può essere
elemento importante ma in nessun modo sufficiente;
|
|
benché il legame tra
atteggiamenti e comportamenti non sia né diretto né tantomeno garantito,
sembra di potere concludere che un programma formativo sarà difficilmente
efficace nel combattere il razzismo se non introdurrà almeno qualche
elemento di presa di coscienza
|
|
d'altro canto,
nessuno degli elementi precedenti sarà efficace senza il supporto e la
recettività dell'organizzazione nel delineare nuovi compiti e nuove
modalità di erogare i servizi e fornire le proprie prestazioni
| |
letica professionale e
i codici di comportamento devono introdurre elementi che si riferiscono ai
temi della lotta alla discriminazione su base razziale ed etnica
| |
l'efficacia
della formazione sarà tanto più evidente e certa quanto più essa sarà agganciata
al curriculum e terrà in conto l'esperienza delle persone vittime di
discriminazione. |
4.2 Alcune riflessioni
Si dice spesso che gli
operatori di polizia sono un campione rappresentativo della società e dunque,
come i membri di qualunque altro gruppo professionale, essi portano con sé la
loro conoscenza e gli atteggiamenti appresi per l'educazione ricevuta e per le
esperienze avute nel corso della vita. Se in generale, nella società, quando
c'è diversità etnica c'è ignoranza circa gli altri gruppi etnici e, in certa
misura, un atteggiamento negativo nei loro confronti, c'è da aspettarsi che
gli operatori di polizia mostrino questa stessa tendenza all'etnocentrismo.
Questo tema è stato
affrontato, come si è visto, in diversi Paesi e tutte le esperienze hanno
messo in luce la necessità di non liquidare il tema come un caso da trattare
meramente nel campo della formazione, cercando illusoriamente di offrire
qualche strumento in più a qualche operatore di polizia. Alcuni elementi
fondamentali possono invece essere individuati:
|
la formazione da sola
non può raggiungere nessun cambiamento: essa richiede un supporto
organizzativo, sia a livello politico, sia a livello dei funzionari e dei
dirigenti;
| |
la strategia di
formazione dovrebbe essere chiara e disegnata per identificare i bisogni
formativi sul tema dei migranti e delle relazioni etniche;
| |
la polizia dovrebbe
consultare le associazioni e le organizzazioni non governative circa i
bisogni formativi e coinvolgere queste stesse associazioni e organizzazioni
come partner nell'elaborazione di programmi di formazione;
| |
i temi relativi ai
migranti e alle relazioni interetniche dovrebbero essere inseriti sia nella
formazione di base, sia nell'aggiornamento di tutti gli operatori di
polizia;
| |
la formazione dovrebbe
cominciare dall'alto, con corsi sulle strategie per i dirigenti e via via
procedere per tutti i gradi dell'organizzazione;
| |
anche il reclutamento
di operatori di polizia tra le comunità di etnia minoritaria può aiutare a
migliorare le relazioni tra la polizia e questi gruppi.
|
Le linee guida tracciate
dal Consiglio d'Europa indicano come scopo della formazione della polizia
assicurare un trattamento giusto ed equo di tutti i gruppi etnici che sono
parte della comunità, secondo i bisogni di ogni individuo, e combattere la
discriminazione.
Esse identificano anche
sei obiettivi di fondo per raggiungere questo scopo:
-
aumentare la conoscenza e la
comprensione degli operatori di polizia nel campo delle relazioni
umane;
-
sviluppare le competenze comunicative,
specialmente nel contesto multiculturale;
-
migliorare la capacità della polizia
di erogare un servizio di qualità al pubblico;
-
rispettare ogni individuo,
indipendentemente dalle sue origini;
-
rafforzare la fiducia della polizia
nel compiere il proprio dovere in una società multiculturale;
-
accrescere la conoscenza degli
operatori di polizia circa le leggi ed i regolamenti rilevanti nel settore
dell'immigrazione e della discriminazione su base razziale.
Va da sé la necessità
d'individuare all'interno di questi obiettivi fondamentali degli obiettivi
specifici per ogni grado e ruolo degli operatori di polizia, in modo che la
formazione sia strettamente collegata con la pratica e con i compiti di ogni
singolo agente o dirigente, e sia quindi non ripetitiva ma ciclica. Le linee
guida individuano due aree per il contenuto della formazione di base:
conoscenza-comprensione e comportamento e per questi tracciano una lista di
temi da trattare.
Conoscenza e
comprensione:
|
storia e situazione attuale
delle comunità di etnia minoritaria;
|
necessità di rispettare i
sistemi di valori di diversi gruppi culturali;
|
consapevolezza delle
presupposizioni della cultura dominante e dell'etnocentrismo;
|
ruolo della polizia nella
società;
|
concetti di pregiudizio e
discriminazione (individuale e istituzionale);
|
natura e manifestazioni di
razzismo e xenofobia;
|
varietà delle risposte delle
minoranze alla dominanza bianca. |
| | | | | |
Comportamento (competenze
e abilità):
|
comunicazione efficace in
situazione interculturale;
|
gestione della violenza e del
conflitto;
|
fare fronte alla paura e allo
stress nelle situazioni difficili;
|
competenze e capacità
necessarie per affrontare un comportamento discriminatorio;
|
standard di professionalità
richiesti nelle situazioni multietniche. |
| | | |
Come si vede, si tratta
in gran parte di competenze che dovrebbero già essere presenti nel curriculum
per il loro carattere generale (p.e., competenze comunicative, dominare stress
e paura, la capacità di ricomporre i conflitti, ecc.) o che fanno già parte
dell'agire quasi quotidiano degli operatori di polizia anche se non
formalizzati in un percorso formativo. Queste competenze andrebbero
semplicemente estese al nuovo contesto multiculturale e multietnico e/o
incluse nel curriculum formativo.
La formazione efficace
deve raggiungere gli standard appropriati di conoscenze, atteggiamenti e
comportamenti ma la formazione, da sola, non può garantire che il
comportamento che il formando ora dovrebbe essere in grado di adottare sarà
effettivamente applicato, perché intervengono diversi fattori. Molte ricerche,
e l'esperienza della componente italiana del progetto NAPAP, hanno dimostrato, sia in generale che nel
particolare caso della polizia, che gli effetti positivi della formazione
tendono ad indebolirsi, o addirittura a scomparire, quando chi ha partecipato
al corso torna all'ambiente di lavoro. Le esperienze negative sul lavoro, la
pressione dei colleghi, l'assenza di impegno e supporto da parte dei
superiori, tutti insieme questi elementi concorrono a rendere vani gli sforzi
della formazione per produrre i cambiamenti auspicati.
Come in ogni altro
settore della formazione della polizia (e di qualunque altra organizzazione),
anche la formazione su questi temi non sfugge alla regola: essa deve essere
sostenuta dalla struttura e dalla gestione generale, inclusi i superiori, i
supervisori, il sistema dei premi e delle sanzioni. Quindi lo scopo non
dovrebbe mai essere solo quello di cambiare atteggiamenti, conoscenza e
comportamenti degli operatori di polizia; lo scopo è piuttosto quello di
raggiungere le modifiche necessarie a livello organizzativo, in modo che la
deontologia della polizia, il personale, il modo di operare e il servizio che
offre riflettano la società odierna che è multiculturale.
Indicazioni precise circa
le strategie da mettere in atto per adattare il servizio di polizia alla
società multiculturale vengono dalla Carta di Rotterdam28 che elenca 5 aree
d'intervento per offrire un servizio professionalmente valido ed equo:
-
il reclutamento e degli
operatori di polizia tra i cittadini di origine straniera.
-
La formazione
-
La corretta applicazione delle
leggi
-
La costruzione di ponti tra le etnie
minoritarie e la polizia
-
L'adozione dell'approccio la
partecipazione dei migranti nelle azioni criminali opposto a la partecipazione
della Polizia nella criminalizzazione dei migranti.
A livello europeo, le
polizie dei diversi Paesi hanno intrapreso diverse strade. Un esempio: mentre
la polizia olandese ha puntato in questi anni sulla fedele rappresentatività
nella polizia della composizione demografica ed etnica della popolazione come
una delle garanzie fondamentali per un positivo rapporto con le etnie
minoritarie, la polizia in Gran Bretagna ha recentemente preso una posizione
nettamente contraria, ritenendo questo elemento non determinante per il buon
rapporto con le etnie minoritarie, a favore invece di un serio impegno a
identificare i casi di razzismo, sia all'esterno nella società, sia
all'interno dell'istituzione stessa. In ogni caso però, i pareri concordano
unanimemente sull'inutilità di una formazione degli operatori di polizia che
sia avulsa da un contesto di cambiamento della cultura, della strategia e
della struttura e organizzazione della polizia e dove dirigenti e funzionari
non siano chiamati in prima persona a sostenere i mutamenti
richiesti.
4.3 Proposte per la formazione degli
operatori della Polizia di Stato italiana all'agire nella società
multiculturale
Gli studi e le
riflessioni condotte a livello internazionale, le esperienze degli altri
Paesi, il progetto NAPAP ed in particolare
l'esperienza condotta in Italia, ci incoraggiano a suggerire di intraprendere
la via delle innovazioni della Polizia in modo che essa possa fornire un
servizio adeguato alla società italiana che ormai è, e sarà sempre più,
multiculturale. E nostra opinione, più volte espressa in ognuno dei capitoli
di questo lavoro, che la formazione da sola non basterà ma essa dovrà essere
accompagnata da una serie di cambiamenti strutturali e strategici per
l'applicazione dei quali gli operatori di polizia dovranno essere formati.
Riteniamo dunque che il
percorso da seguire per introdurre le opportune modifiche e gli sviluppi nel
sistema attuale sia di rispondere alle domande che seguono.
4.3.1 Le domande alle quali
rispondere
|
A quale modello di
polizia deve servire questa formazione? La determinazione dei compiti degli
operatori di polizia (e dunque la definizione dei bisogni formativi) non
possono esistere nel vuoto ma devono trovare la propria ragione in una
politica precisa. In sostanza, quali mutamenti strutturali, organizzativi e
disciplinari introdurre affinché il cambiamento sia possibile e reale? La
Carta di Rotterdam identifica in modo preciso principi e linee guida per
l'erogazione del servizio di polizia nella società multiculturale.
Precisamente:
|
|
reclutamento. La
polizia è lo specchio della società, perciò essa deve riflettere la stessa
diversità etnica della società in generale; per reclutare operatori tra le
tenie minoritarie, la polizia deve promuovere un'immagine positiva del
proprio lavoro tra le comunità, lanciare programmi speciali per invogliare
le etnie minoritarie ad intraprendere questa carriera, modificare i criteri
per la selezione senza in alcun modo abbassarne lo standard, precisare che
questo tipo di reclutamento non è un favoritismo ma una necessità,
assicurare che le opportunità di carriera siano effettivamente eque,
stabilire procedimenti disciplinari per colpire la discriminazione e le
molestie nei confronti dei colleghi di etnia minoritaria;
|
|
formazione: intesa come
uno degli elementi che, assieme agli altri, portano all'erogazione di un
servizio di polizia equo e professionalmente valido. Essa deve essere basata
sull'esperienza quotidiana di lavoro degli operatori, deve rendere capaci
gli operatori di polizia di identificare casi di razzismo e di rispondere in
modo professionale, deve aiutare i poliziotti a prendere coscienza dei
propri atteggiamenti e pregiudizi, promuovere un'immagine positiva delle
comunità di etnia minoritaria e insistere sulla necessità
professionale per un operatore di polizia di rispettare sempre il
principio di trattamento equo. Infine, i cittadini di etnia minoritaria e le
loro associazioni devono essere coinvolti nella formazione stessa della
polizia;
|
|
applicazione delle
leggi contro la discriminazione. Esse sono spesso buone ma male applicate ed
è compito delle polizie di produrre l'evidenza della discriminazione,
conquistandosi così credibilità. Gli operatori di polizia devono quindi
essere preparati a riconoscere le discriminazioni in diverse situazioni, a
registrare i casi e a riportarli ai superiori; per questo è bene approntare
un sistema di rilevazione e report dei casi di razzismo (monitoring) e
l'attribuzione di una particolare responsabilità ad un operatore. Le
procedure devono essere trasparenti e le vittime ascoltate. Per la migliore
riuscita di un programma di monitoraggio, la polizia deve ascoltare e
consultare le autorità locali, le Ong e le associazioni e le comunità di
cittadini di etnia minoritaria, deve interrogarsi sulle ragioni di un numero
di segnalazioni limitato rispetto alla realtà e deve adottare misure
specifiche per incoraggiare le segnalazioni dei casi di razzismo. Infine, i
casi segnalati devono essere seguiti e il loro esito valutato.
|
|
costruzione di ponti
tra le tenie minoritarie e la Polizia, per promuovere la fiducia e la
cooperazione reciproca. La Carta di Rotterdam suggerisce che per questo la
polizia debba porre grande attenzione nella propria capacità di comunicare
in modo professionale e competente, superare le posizioni di
contrapposizione e promuovere la credibilità della propria azione nella
lotta contro i casi di razzismo.
|
|
passaggio
dall'atteggiamento la partecipazione degli immigrati nella criminalità
all'atteggiamento la partecipazione della polizia nella criminalizzazione
degli immigrati. E di fondamentale importanza per questo che la polizia
riconosca le modalità stereotipizzanti dei mass media e adotti un codice di
comportamento per rilasciare comunicazioni alla stampa; riconosca il
pericolo di porre l'accento sui tassi di criminalità tra la popolazione
immigrata (in particolare in certi gruppi etnici) per evitare il rischio di
stigmatizzare un'intera comunità; la necessità di non limitarsi ad
un'analisi puramente statistica della criminalità perché è sempre necessario
capire le ragioni; l'opportunità di procedere ad un'analisi seria e accurata
di come la polizia stessa tratta certi gruppi etnici.
|
|
Quale impegno politico,
chiaro e pubblico, la polizia adotta e di cui la formazione costituisce una
parte? Come già detto, la dichiarazione di impegno non basta, serve una
strategia complessiva. Poiché la polizia è un'istituzione altamente
gerarchizzata (e certamente lo è in Italia più che altrove in Europa), il
processo di cambiamento deve partire dall'alto. La formazione deve perciò
cominciare proprio dai funzionari e dai dirigenti (essi stessi
chiarificatori della strategia da scegliere) che hanno il ruolo chiave di
fornire il supporto necessario alla nuova strategia all'interno
dell'organizzazione: se i dirigenti comunicano, all'interno e all'esterno
dell'organizzazione, in modo aperto e chiaro il proprio personale impegno, e
quello dell'intera organizzazione, saranno maggiori le probabilità che i
singoli operatori si sentano sostenuti nei propri sforzi per applicare le
nuove regole e per adattarsi ai cambiamenti nella cultura stessa
dell'organizzazione. Inoltre, non sarà mai ribadito abbastanza, la polizia
deve conquistarsi credibilità presso le comunità di etnia minoritaria, e per
questo è essenziale che il primo, fondamentale passo, sia che la polizia
prenda sul serio i casi di discriminazione su base razziale ed etnica. E
esperienza provata in tutti i Paesi che da più tempo dell'Italia ospitano
migranti, che i problemi maggiori di tensione si hanno con i giovani della
seconda e terza generazione quando si arriva a scontri frontali e violenti,
come è accaduto in Gran Bretagna e in Olanda, anche in anni recenti. Il
punto di partenza della collaborazione sembra essere stato il cominciare,
insieme, tutti gli attori coinvolti, a prendere in considerazione seria le
segnalazioni di casi di razzismo riportate sia alla polizia che ad
altri interlocutori, istituzionali e non.
|
|
Quale modello di
riferimento teorico per la formazione? La scelta del modello teorico di
riferimento (o meglio, della combinazione di modelli) implica
necessariamente la risposta alla domanda: quale combinazione di obiettivi
raggiungibili a breve termine e quali a lungo termine bisogna stabilire? In
particolare, prendendo come riferimento l'esperienza NAPAP in Italia, sarà anche necessaria una
riconsiderazione di temi da noi non introdotti - diritti umani e
legislazione relativa, informazioni sui cambiamenti demografici della nostra
epoca e sulla presenza di immigrati in Italia, tecniche per fare
fronte allo stress e gestire i conflitti e fronteggiare la paura - e tutti
gli altri temi, già citati, che dovrebbero comunque fare parte della
formazione di un operatore di polizia. Sarà necessario chiarire se essi sono
già parte della formazione di base, inseriti in diverse discipline o materie
a sé, e in che modo possono essere parte di un programma di
aggiornamento.
|
|
Quale il ruolo e lo
spazio dei cittadini di etnia minoritaria nella formazione? Si sono già
spiegate le ragioni della necessità della presenza di persone appartenenti
alle minoranze nel corpo dei docenti (par. 3.1.1) e della scelta del
progetto per i gruppi di contatto come ulteriore momento di comunicazione
tra operatori di polizia e etnie minoritarie. Altri progetti NAPAP hanno optato per i community contributors,
membri delle comunità di etnia minoritaria ai quali sono riservati momenti
in aula e il cui ruolo è quello di descrivere la propria comunità e le sue
speciali caratteristiche e di rispondere a domande circa i loro rispettivi
gruppi di appartenenza. Lo scopo rimane quello di assicurare che le voci di
diversi gruppi siano ascoltate. Tuttavia, è necessario rispettare alcuni
criteri imprescindibili quando quest'ultima è la via scelta: le persone
risorsa delle comunità devono essere persone centrate, a proprio agio con la
propria diversa identità e capaci di rispondere in modo non difensivo;
devono essere capaci di descrivere l'ampia gamma di convinzioni e
comportamenti dei membri della propria comunità di appartenenza e come
queste convinzioni e comportamenti sono simili/diversi da quelli di altri
gruppi e della comunità autoctona; devono essere a conoscenza della cultura
dell'istituzione Polizia e capire la natura e il tipo dei contatti che
questa ha con i membri delle comunità immigrate. Alcune di queste
caratteristiche devono già appartenere agli individui, altre dovranno essere
oggetto di una breve formazione. Infine, ma non meno importante, le persone
risorsa delle comunità, sia che si tratti di gruppi di contatto, sia che si
tratti di persone risorsa nella formazione in aula, dovranno essere pagate
per il servizio che offrono (fornire informazioni e competenze per la
formazione), così come sono pagati i docenti e i partecipanti ai
corsi.
|
|
Introdurre codici di
condotta? La formazione può contribuire ad aiutare gli operatori di polizia
a prendere coscienza ed essere dunque più attenti e più capaci
nell'assolvere il proprio compito di fornire un servizio di polizia equo e
giusto in una società diversificata. Ciononostante, possono persistere casi
di operatori di polizia che, nonostante la formazione professionale, sono
così carichi di pregiudizi, in particolare nei confronti di certi gruppi
etnici, che risultano poi incapaci di portare a termine i loro compiti in
modo professionale. In questi casi, nessuna formazione sarà in grado di
rimediare al loro comportamento e alcune polizie europee (p.e., in Gran
Bretagna) sono giunte alla conclusione che essi non sono adatti ad essere
operatori di polizia. In questi casi l'istituzione prende provvedimenti
disciplinari fino ad arrivare, se necessario, all'esclusione. Analogamente,
l'introduzione di un sistema di ricompensa per gli atteggiamenti ed i
comportamenti positivi che risulti dalle conoscenze e competenze acquisite
nei momenti formativi, aumenta le motivazioni del personale.
|
|
Materia a sé oppure
elementi da distribuire in ogni momento della formazione? Una scelta che ci
si trova sempre ad operare in fase di definizione o revisione di un
curriculum: esistono ragioni a favore e contro ognuna delle due soluzioni e
non potrà essere che la disamina attenta dell'attuale programma di
formazione di base degli operatori di polizia e degli effetti positivi e
negativi che esso produce ad indicare la risposta al quesito. Ma altre
domande dovranno trovare una risposta ponderata: se il curriculum dovrà,
come si suppone, essere a spirale (con episodi formativi che si ripetono
sugli stessi temi ma con un approfondimento ed un allargamento dei
contenuti), dove dovranno essere collocati questi momenti formativi? quanto
tempo vi sarà dedicato e dunque quanto peso nella formazione complessiva? In
ogni caso, non si potrà non tenere conto del fatto che deve essere concesso
il tempo adeguato per esplorare temi che possono essere controversi e urtare
la suscettibilità di qualcuno.
|
|
Quali metodi didattici
adottare? E presumibile che dovranno essere adottati diversi metodi
formativi a seconda che i destinatari della formazione siano operatori di
prima linea (p.e. squadra volante), ispettori responsabili di squadre,
oppure dirigenti con responsabilità anche di carattere politico. Le tecniche
di apprendimento in aula devono essere le più varie, cercando di ridurre al
minimo le lezioni frontali, ma introducendo esercizi, giochi, simulazioni,
discussioni di gruppo e, possibilmente, presentazioni video. Il video
permette infatti di entrare nell'analisi della situazione senza
necessariamente calarsi in essa e la riflessione, che sempre deve farvi
seguito, permette di evidenziarne l'analogia ed il rapporto con l'attività
professionale. La produzione di alcune simulazioni di situazioni reali in
video ci sembra meriti una particolare attenzione quando si tratti di
passare da un'esperienza a carattere limitato alla formazione estesa.
|
|
Quale materiale
didattico preparare? La formazione dovrebbe sempre essere accompagnata da
materiale scritto appropriato e tempestivamente distribuito. Pensiamo che il
materiale prodotto per il corso NAPAP, sebbene
migliorabile e certamente da rivedere in parallelo con le eventuali
modifiche apportate al corso, possa costituire una valida base.
|
|
Chi farà la formazione?
Chiunque saranno i docenti (si veda per questo il par. 3.1.2 Il curriculum),
essi dovranno avere una formazione speciale e adeguata perché i temi da
affrontare sono di estrema delicatezza e non possono essere affidati a
formatori non preparati, per quanto esperti di altre discipline. Teniamo a
precisare che la proposta di formazione di formatori che si trova in
allegato, e che fu redatta prima della stesura di questo documento su
richiesta della Direzione Centrale degli Istituti dIstruzione, non
rappresenta in alcun modo la risposta ai quesiti esposti al paragrafo
precedente che meritano invece la riflessione congiunta di un gruppo di
lavoro ampio ed articolato come suggeriamo nel capitolo che segue. Essa è
soltanto una risposta provvisoria ad una richiesta urgente che ci è
pervenuta dalla Direzione Centrale degli Istituti dIstruzione alla quale
abbiamo volentieri risposto.
|
4.3.2 Proposta di un gruppo di
lavoro
Al di là del
successo, o dell'insuccesso del ciclo di formazione, pensiamo che il progetto
NAPAP abbia avuto una funzione di apripista: esso
acquisterà il suo senso pieno quando, e se, riuscirà ad innescare un processo
ampio di riflessione e di cambiamenti strutturali.
E opinione di chi scrive che il modo
migliore di condurre l'analisi e proporre i mutamenti culturali, strutturali e
organizzativi che la società multiculturale italiana richiede alle istituzioni
preposte a garantire la sicurezza dei cittadini, sia la creazione di un gruppo
di lavoro che veda la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni,
dell'associazionismo impegnato nella lotta contro la discriminazione su base
razziale ed etnica, dei cittadini di etnie minoritarie e di enti
locali.
I compiti che spettano al
gruppo di lavoro sono, a nostro avviso, i seguenti:
|
rispondere alle domande che
sono elencate al capitolo precedente (e individuarne altre che siano rilevanti
per il tema)
|
|
decidere quali ulteriori studi,
approfondimenti e indagini sono strumentali alle decisioni da
prendere
|
|
formulare il nuovo curriculum
per la formazione di base, differenziandolo per gradi
|
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elaborare il programma per
l'aggiornamento del personale già in servizio
|
|
elaborare il programma per la
formazione dei formatori. |
La formazione
della Polizia per la società multiculturale
Progetto
finanziato dalla Commissione Europea DG V
NAPAP: il senso di
un esperimento
Conclusioni
sulla formazione ad operatori di PS e PM a Bologna e Modena
Marina Pirazzi
1999
Pensavamo di trattare
tutti i cittadini allo stesso modo, senza distinzione di razza o
appartenenza etnica.
I cittadini di etnia minoritaria
pensavano il contrario: erano convinti di essere trattati
ingiustamente.
Dunque il problema
esisteva.
Inspector Larry Thain e Chief Constable
Stephanie Yearnshire
Polizia di Northumbria
Gran
Bretagna Nota sulla
terminologia usata
In questo testo si usa la
terminologia che, non senza contestazioni, è stata adottata per la
comunicazione tra i partner europei nei due anni di progetto.
L'aggettivo etnico e il nome etnie fanno riferimento in senso
generale alle minoranze che possono essere definite da un'identità razziale,
culturale o nazionale e che possono essere residenti da tempo in un Paese e
averne anche ottenuto la cittadinanza e la nazionalità, oppure possono essere
di recente immigrazione o rifugiati. Il termine permette di comprendere dunque
nella categoria (al contrario delle categorie stranieri e immigrati) tutte le
persone non appartenenti alla maggioranza bianca autoctona e di includere
cittadini non bianchi-non autoctoni ma appartenenti a minoranze
visibili. I termini etnia e cultura sono spesso usati nel
tentativo di identificare la base della discriminazione razziale, soprattutto
nella forma di razzismo culturale o razzismo colto. Tuttavia, l'uso di questi
termini è problematico ed essi possono risultare offensivi se rimane
sottinteso e non espresso il fatto che, accanto ad etnie minoritarie, vivono
etnie maggioritarie.
Siamo ben consapevoli che
non esistono termini privi di associazioni o significati di valori. Perfino la
parola razza, anche se ormai inaccettabile come categorizzazione
scientificamente fondata degli esseri umani, continua ad avere un significato
sociale che si manifesta nel razzismo che resta da combattere. Dovendo però
operare una scelta terminologica in un contesto nazionale ed europeo che non
si è ancora chiarito, abbiamo optato per questa soluzione nella speranza che,
un giorno, ogni gruppo avrà la possibilità e il potere sociale di
autodefinirsi e che tali definizioni saranno precise, adatte ai contesti nei
quali saranno usate ed accettabili e accettate da altri gruppi.
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