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"Giubileo degli oppressi" Intervento di Giancarlo Caselli
Il fenomeno dell’emigrazione nel nostro tempo ha assunto dimensioni bibliche, una parte non piccola di questo flusso finisce in carcere, è il livello estremo dello sconfitta di un sogno di emancipazione. Spesso l’emigrazione non è frutto di una scelta libera, ma è costretta dalla miseria, dalla paura, dalla persecuzione, dalla guerra, dalla negazione della cultura, della razza d’origine. Chi lascia il proprio paese non lo fa senza una ragione grave e questo dovrebbe essere chiaro soprattutto ad un popolo come il nostro che ha dato all’emigrazione un contributo enorme. Il sogno ad un certo punto si infrange ed così che si arriva alla criminalità. Ci sono però altre forme di criminalità internazionale, nuove mafie difficili da combattere, perché sono ancora poco conosciute e difficili da penetrare. La presenza degli stranieri nelle carceri è costituita in gran maggioranza da individui che hanno violato la legge penale, ma sono anelli ultimi di una catena. Non ci sono in carcere extracomunitari clandestini o irregolari per il fatto di essere clandestini o irregolari. La violazione delle norme che regolano l’immigrazione non dà luogo a reato e ad incarcerazione. Gli irregolari in base alla normativa vigente vengono espulsi, se si ignora la loro identità e sin quando l’espulsione non è realizzabile sono trattenuti nei cosiddetti centri di accoglienza i quali al di là del nome accattivante purtroppo sono di fatto molto simili a carceri, quando addirittura peggio. E’ giusto allora dire che gli stranieri detenuti lo sono perché hanno commesso dei reati e che per loro non possono valere regole diverse da quelle che nelle circostanze condurrebbero in carcere un italiano. Il problema è se poi all’interno del carcere valgono o no le stesse regole che dovrebbero valere per i cittadini. C’è un altro fatto: il rapporto tra popolazione di extracomunitari e percentuale di detenuti extracomunitari, questo rapporto è decisamente superiore a quello tra popolazione nazionale e percentuale di detenuti italiani. Ecco le cifre: il rapporto tra popolazione generale e numero dei detenuti italiani è di circa 90 a 100000, meno dello 0,1%. Invece il rapporto tra popolazione di extracomunitari presente sul territorio italiano e percentuale di stranieri detenuti sfiora il livello di 1005 a 100000, ossia l’1,5% della popolazione straniera; 15 volte il rapporto che corre tra popolazione italiana e popolazione detenuta. E’ allora evidente che a parità di popolazione la presenza di extracomunitari è molto maggiore rispetto alla presenza degli italiani. Anche senza ricorrere a spiegazioni che facciano leva sulla maggiore facilità di colpire persone scarsamente difese, e quindi su una naturale selettività dell’apparato repressivo, sono spiegazioni che certamente hanno un fondo di verità, ma sono difficili da dimostrare, perché è noto che le condizioni di difficoltà economica sono dei fattori correlati alla commissione di reati per la mancanza di alternative lecite. Comunque i dati confermano un’intuizione comune: spesso la strada dell’immigrazione clandestina si conclude nel reato e nel carcere. Un fenomeno complesso anche per le sue dimensioni. Allora ci si chiede cosa fare. La mia risposta è abbastanza scontata ed è stata già anticipata nell’introduzione: bisogna operare là dove questi flussi hanno origine per provare ad attenuare le difficoltà che spingono milioni di persone ad abbandonare la propria terra e con essa gli affetti, le famiglie, le tradizioni. Si tratta di porre la sfida a livello delle cause per affrontarle in una prospettiva rispettosa dei valori umani. Siamo all’inizio di un nuovo millennio e dovrebbe coincidere con un modo nuovo di porre il problema che trascenda la dimensione assistenzialista, che privilegi la dimensione dei diritti. Chi è il titolare dei diritti? Tutti. Coloro che si vedono negati questi diritti fino al punto di essere costretti a un’emigrazione drammatica. La pietà non deve essere il surrogato della dignità umana, la carità non deve impedire l’affermazione della giustizia, ma deve intervenire dopo che si è fatto ogni sforzo perché la giustizia si realizzi. Avrete sentito parlare di Luciano Tavazza , presidente della Fondazione italiana per il volontariato scomparso recentemente. Tavazza disse che chi ama vuole la giustizia per l’altro e non soltanto per sé medesimo. Nel volere la giustizia per tutti si manifesta una delle forme dell’amore che io credo sia la più adatta alle esigenze del tempo. Volere la giustizia significa porre e poi difendere regole di vita che consentano di trattare tutta l’umanità come una famiglia unita. Per quanto riguarda il fenomeno dell’immigrazione forzata ciò significa operare perché le condizioni che ostacolano la realizzazione umana nei paesi di provenienza possano essere ridotte e magari superate. Il carcere ha subito una profonda trasformazione: più che argine alla delinquenza più pericolosa, secondo un progetto di riforma del Codice Penale elaborato dalla Commissione presieduta dal professor Grosso, dovrà essere un’estrema ratio anche se ultimamente si fanno pressanti le richieste di carcere sempre e comunque. Oggi il carcere invece di essere argine a fronte delle manifestazioni delinquenziali più pericolose è diventato un contenitore di soggetti che hanno violato la legge penale. Soggetti che sono anche protagonisti dei problemi sociali, il 30% sono tossicodipendenti, il 25% sono extracomunitari, per cui bisogna domandarsi se il carcere sia davvero l’unica risposta possibile e giusta o se invece sia più utile combinare con esso altre sanzioni. Il carcere è considerato il tappeto sotto il quale nascondere cose che non si sanno gestire altrimenti. In questa discarica sociale circa 14000 sono stranieri. Per tutti i detenuti il carcere è anche luogo di privazione della libertà, di sofferenza dovuta per legge, ma dovrebbe essere anche luogo di diritti. Può essere luogo di contatto a volte per prima volta con la tutela a chi ha avuto soltanto esperienze della prevalenza della forza. Vi sono spazi perché vi sia anche questa sperimentazione e si tratta di dilatare questi spazi. Il detenuto dovrebbe sperimentare che le regole giuridiche non funzionano solo contro di lui, ma anche per lui; che egli non ha soltanto doveri, ma anche diritti e interessi tutelati; che l’apparato non è concepito per essergli ostile, ma per riconoscerlo come soggetto di diritto; che lo stato è tenuto ad osservare quelle regole che si impongono come comuni e non come strumenti ingannatori unilaterali e infine che esiste il Giudice di sorveglianza, il quale persino d’ufficio deve intervenire a vigilare sul rispetto dei diritti. Questa figura ha un’importanza fondamentale, ha una presenza educativa soprattutto considerando che essa si colloca in un mondo ove il diritto è vissuto in partenza come qualcosa di ostile. Avrete sentito dire che la legge Gozzini ha il merito di aver salvato le carceri dalla violenza, in parte è vero, ma se ci si limita a questo, si dà un’interpretazione della legge in termini utilitaristi, evitiamo il confronto con i giudizi di valore, mentre dovrebbe essere chiaro che l’introduzione della legalità nella gestione della pena detentiva possiede un grande significato in termini educativi. E’ appunto il Magistrato di sorveglianza che fa entrare la giurisdizione all’interno dell’esecuzione della pena detentiva. Questo è il quadro teorico in cui il nostro paese è all’avanguardia, altro è il conto se ci spostiamo sul versante dell’effettività. I diritti sono riconosciuti, ma subiscono pesantissime limitazioni, in modo particolare per gli stranieri. La Magistratura di sorveglianza è in crisi per carenza di organici e si riesce a rispondere quando è ormai tardi. Nel pacchetto giustizia è previsto il reclutamento straordinario di mille magistrati, molti da destinare agli Uffici di sorveglianza. Altra pesante limitazione deriva dal sovraffollamento di 14000 unità. Molto spesso i detenuti devono fare a turno per rimanere in piedi in cella. L’amministrazione penitenziaria è l’unica che non ha in mano la leva per regolare l’entità della presenza carceraria, questa leva è altrove: il Governo insieme al Parlamento con leggi che prevedono le pene per determinati reati, poi c’è la Magistratura giudicante e quella di sorveglianza. Altro fattore di limitazione dei diritti è che un diritto fondamentale del detenuto scritto nella nostra Carta Costituzionale, nelle nostre coscienze, nei doveri di una stato civile è che la pena deve tendere anche alla sua rieducazione. Oggi non c’è spazio per il recupero, perché il sovraffollamento significa eliminazione degli spazi fisici. Qui è all’orizzonte un fondo speciale di 300 miliardi stanziato per la prima volta in questa direzione. Un altro aspetto è quello della formazione professionale per impedire che il detenuto cada nella spirale della recidiva. Oggi per il lavoro dei detenuti si fa poco e proprio il messaggio pontificio per il Giubileo è che si deve fare di più. Le prospettive non sono nere, il Parlamento ha approvato la cosiddetta legge Smuraglia che offre per la prima volta effettive possibilità. Poi c’è il problema della salute, il carcere è specchio di una realtà extracarceraria: la sanità nel nostro paese funziona ora bene ora meno bene, così è nel carcere con le complicazioni derivanti dal passaggio di competenze ancora in atto dal penitenziario alla sanità nazionale, ma anche qui vi sono limitazioni dei diritti per circostanze di fatto. Esistono misure alternative al carcere, ma per gli stranieri vengono prese solo occasionalmente, perché mancano obbiettivamente i requisiti previsti dalla legge. E’ difficile applicare al detenuto extracomunitario le misure alternative, perché questi soggetti non hanno punti di riferimento esterni, se li hanno sono in nero o contigui alle aree criminali. Né durante il processo, né durante l’esecuzione della pena riescono a ottenere misure diverse dalla detenzione. Questo significa che il detenuto straniero finisce per scontare una maggiore permanenza media rispetto agli altri a parità di reato. Si tengono in carcere persone non particolarmente pericolose anche perché mancano di lavoro, di famiglia, di case, il che significa che lo stato di precarietà in cui sono costretti rappresenta il discrimine per la permanenza in carcere laddove aveva già rappresentato la causa originaria dell’emigrazione e quindi l’inserimento in un circuito che a volte si conclude con la detenzione. Il sovraffollamento delle carceri significa mobilità intensa quasi quotidiana e per quanti detenuti entrano ci dev’essere un flusso in uscita, considerando la precarietà sociale dello straniero, questi purtroppo viene più facilmente trasferito. Così l’ostilità che lo caratterizza quando è libero lo insegue anche quando è detenuto. Molti amministratori locali non vogliono la presenza di molti extracomunitari nelle carceri del loro territorio, perché quando temono che ottenuta la libertà insediandosi sul quel territorio possano espandersi fenomeni che essi cercano di limitare. Questa è una situazione di non facile soluzione e oggi sempre di più mi chiedo cos’è la legalità. Io ho un timore: la legge dovrebbe essere uguale per tutti? Il controllo della legalità dovrebbe svolgersi ricorrendo a dei presupposti nei confronti di tutti allo stesso modo? La legalità sempre più temo rischi di diventare protezione per gli inclusi e nuova forma di discriminazione per chi è già in partenza escluso. Non è tanto un problema di titolarità della legalità quanto piuttosto di contenuti della legalità, di significato di questa parola che non può non essere di speranza. Cosa si sta cercando di fare per il problema dei detenuti stranieri? C’è un problema di formazione del personale, dobbiamo moltiplicare la presenza di mediatori culturali stipulando convenzioni con organismi specializzati, c’è un nuovo regolamento di vita penitenziaria appena entrato in vigore e ci vorranno cinque anni perché sia a pieno regime. Ci sono, a Torino in particolare, sperimentazioni di attività di formazione professionale proiettate per chi voglia rientrare nelle esigenze di mercato del paese d’origine cercando di dare un contributo alla soluzione dei problemi a monte. C’è l’attività insostituibile delle mille forme di volontariato laico e cattolico. Non si può essere ottimisti, sarebbe un ottimismo di maniera, ma neanche si deve essere pessimisti. Realisti, attenti alla complessità del problema senza superficialità. Il nostro paese ha tanti problemi, ma molti di questi, come il terrorismo, lo stragismo, è riuscito a superarli. E’ un paese che ha dimostrato insieme a tanti difetti, di avere anche gli antidoti dentro di sé per superare queste difficoltà. Nonostante gli ostacoli posti a volte dalle istituzioni le mille manifestazioni di volontariato a volte ci hanno consentito di sopravvivere e di crescere. Non sono pessimista, perché queste esperienze mi consentono di dire che possiamo provare e riuscire a farcela anche stavolta.
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