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1. Se, dopo quasi mezzo secolo di tentativi diretti ad una graduale “unificazione” europea si volesse trarre una conclusione, essa dovrebbe essere la seguente: l’integrazione economica può avvenire solo parallelamente a una unificazione politica. Però, al cospetto delle gravi conseguenze che derivano oggi, per la democrazia, dall’azione di un tessuto non abbastanza trasparente di istanze tecnocratiche, bisogna anche dire che non ci può essere una integrazione del mercato senza l’abolizione dei confini politici e la garanzia di un controllo democratico. La situazione attuale dell’Unione europea ne è una chiara riprova, se essa ha portato un filosofo come Etienne Balibar alla esclamazione provocatrice: “non c’è nessuno Stato in Europa”. Con ciò viene posto il problema dei portatori, dei limiti e delle forme di una sovranità europea. A questo proposito si possono identificare quattro ordini di questioni, dall’esame delle quali ci si può attendere delle risposte per il futuro della democrazia in Europa. In primo luogo si pone la questione della cittadinanza: nel quadro della Unione viene oggi introdotta una “cittadinanza europea”, i cui portatori coincidono con i cittadini degli Stati membri. Ma chi desidera uno sviluppo democratico in Europa non può accettare né il modello di una formale cittadinanza con la pretesa di esclusività, né la diminutio capitis degli extracomunitari che abitano in Europa. Questa duplice esclusione, che si trova in rapporto di reciprocità con la violenza del nazionalismo e del razzismo, deve essere superata attraverso il modello di una cittadinanza plurale e aperta . La seconda questione riguarda le comunità locali nel quadro di un’Europa unificata; nel dibattito ufficiale sull’Unione l’”Europa delle regioni” ed il principio di sussidiarietà sono spesso intesi come sinonimi di una politica neoliberale, che mira ad una valorizzazione del capitale “flessibile” e priva di scrupoli. Al contrario, le comunità locali devono essere intese come membri di una comunità mondiale dotati degli stessi diritti, e cioè come cellule di una iniziativa democratica dal basso, che mira al superamento della attuale centralizzazione delle competenze e dei modelli repressivi di azione .Ci sono già esempi di riappropriazione degli “spazi pubblici”, come negli attuali tentativi di costruire, come iniziatitive delle città, forme pacifiche e dialogiche di prevenzione dei delitti. Modelli come questi meritano di essere studiati e ampliati. La terza questione si riferisce alla formazione giuridica dell’Europa; in questo caso sarebbe necessario ricominciare a studiare le diverse tradizioni della storia giuridica dell’Europa, alla ricerca dei principi giuridici che sono essenziali per la costituzione di quello Stato che, più avanti, definirò come “Stato meticcio”. La definizione e lo sviluppo ulteriore della cultura giuridica europea e l’unificazione del diritto non devono discendere dall’alto, da decisioni politiche e giudiziarie, ma devono essere soprattutto il frutto di una ampia ed aperta “comunicazione politica di base” . L’ultima e forse la più importante questione riguarda la relazione dell’Europa con il resto del mondo: l’Europa unifica rischia di diventare, in quanto grande potenza, una fortezza del benessere, che cerca di difendere i suoi privilegi nei confronti del “nemico esterno” (i miliardi di esclusi nel terzo mondo) attraverso la repressione e la chiusura delle frontiere; però anche nei confronti del del “nemico” interno (i milioni do senza-tetto e di nuovi poveri che popolano le metropoli dello sviluppo). Uno sviluppo nella democrazia non può avvenire all’interno di cortine di ferro e a spese degli esclusi, né può accontentarsi di una “cooperazione per lo sviluppo” di stile paternalistico e nell’interesse, soprattutto, degli Stati “donanti”. Una alleanza tra i popoli del mondo in una prospettiva cosmopolitica è l’unico mezzo per rompere la logica catastrofale degli antagonismi tra gli stati nazionali. Si tratta di una linea di sviluppo pacifico, che deve essere mediata da esperienze di solidarietà e di collaborazione. Qui deve essere ancora una volta ribadito che l’idea dell’internazionalismo non ha perduto nualla della sua attualità. Studiare queste questioni centrali ed elaborare i principi di una politica emancipatoria è un progetto importante, ma anche ambizioso; vorrei limitarmi qui alla prima questione. Per contribuire alla ricerca di una risposta alla sua attuale crisi indicherò i presupposti filosofici e politici della costruzione della cittadinanza e un modello di cittadinanza plurale fondata sulla pratica della alleanza per la soddisfazione dei bisogni umani. 2. Nella filosofia moderna un nuovo principio di verità ed un nuovo principio del valore si incontrano nell’uomo, concepito come soggetto di conoscenza e di agire. La scienza moderna nasce, nel sedicesimo secolo, come una sfida al principio di autorità, che aveva dominato l’orizzonte del sapere nel Medio Evo. Nella rappresentazione moderna l’universo perde la qualità della finitezza. Nella visione del mondo di Giordano Bruno, come di un infinito universo di mondi, è già potenzialmente contenuta la concezione moderna dell’universo e della materia. Dall’altro canto, la sede del valore si sposta dal macrocosmo al microcosmo; ogni centro di esistenza reca in sé la pulsione dell’essere, cioè l’impulso a conservarsi e a svilupparsi. In questa pulsione dell’essere, che è insita in tutte le infinite monadi, che costituiscono il mondo fisico, biologico ed il mondo umano, risiede il nuovo criterio del valore, del bene e del male. Questa concezione dell’impulso ad essere inteso come radice del bene ha un campo di applicazione più ampio che l’antropologia. Essa si estende non solo agli entia moralia , ma anche agli entia physica . Tuttavia, nella sua applicazione ai microcosmi umani, la nuova concezione del valore acquista caratteristiche specifiche. In tal modo l’etica moderna si differenzia all’interno della moderna ontologia. Nella fondazione della nuova etica il concetto del buono e del giusto si riferisce solamente agli individui dotati di razionalità e agli entia moralia, che derivano dalla istitituzionalizzazione della relazioni tra di essi. Così, par esempio, ritiene Grozio che le regole del buono e del giusto sono regole specifiche che riguardano la maniera in cui gli esseri razionali organizzano la loro propria esistenza. In questi esseri la realizzazione delle funzioni proprie degli impulsi naturali è mediata e garantita dalla ragione e dal linguaggio, cioè dalla capacità di di agire secondo regole astratte. Negli esseri non razionali, come gli animali e i fanciulli, non ha luogo questa mediazione. L’affermazione dell’irrilevanza etica degli impulsi dei bambini non implica però anche che i loro impulsi siano irrilevanti da un punto di vista assiologico più più generale di quello etico, un punto di vista che abbraccia tutto l’universo degli enti. Grozio oppone ad Hobbes che l’uomo, così come tutti gli altri animali, non è spinto da un istinto egoistico e aggressivo, ma da un impulso sociale (appetitus societatis), che è funzionale con le esigenze della conservazione dell’individuo e della specie. Dunque la natura stessa, così come la ragione, è diretta alla realizzazione degli scopi che sono propri degli impulsi (sopravvivenza, appagamento dei bisogni, felicità), e in tal modo anche la natura ha una funzione mediatrice nella costruzione della comunità umana. Da questa funzione mediatrice deriva che in Grozio il contratto sociale, a differenza che in Hobbes, non è una correzione, un artificio modificatore del cattivo stato di natura e degli impulsi naturali degli uomini nei reciproci confronti, ma piuttosto il loro perfezionamento. Nella filosofia del secolo decimosesto, e in particolare in Spinoza, viene rappresentata una concezione positiva o religiosa della natura, il cui il valore coincide con l’impulso naturale degli enti a conservare la propria esistenza e in cui l’assiologia è immanente nell’ontologia. Il principio antropologico dell’etica moderna, entro questo più generale orizzonte assiologico, risponde alla duplice natura dell’uomo, così come essa trova espressione nella metafora del Macchiavelli: animale e razionale allo stesso tempo. Esso corrisponde, dunque, alle caratteristiche di un soggetto che è allo stesso tempo capace di agire razionalmente e portatore di istinti e di passioni, di ciò che in termini più moderni potremmo chiamare bisogni e pulsioni. Questa visione di una armonia funzionale tra passioni e ragione trova il suo punto culminante, nell’etica prekantiana, nella teoria di Hume, in cui la ragione, anziché essere in contrasto, è al servizio delle passioni, ossia serve a indicare la strada per la loro realizzazione restando esse, le passioni, la reale motivazione dell’agire umano. Solamente con gli sviluppi successivi della filosofia morale attraverso Kant, la ragione appare come una negazione degli impulsi naturali. La qualificazione morale dell’agire avviene indipendentemente o addirittura in opposizione alle inclinazioni. E in realtà, per Kant, la massima morale dell’azione coincide, formalisticamente, con la legge stessa, cioè è indipendente da ogni altra motivazione possibile. L’imperativo categorico è una legge della ragione corrispondente all’essenza universale della soggettività umana (homo noumenon ), che è immanente in ogni individuo (homo phanomenon). La critica e il superamento del formalismo morale kantiano da parte di Hegel possono essere interpretati come una ricostituzione dell’unità della sfera dei bisogni e della sfera della ragione, cioè dell’unità di individuale e universale, concreto e astratto, essere e dover essere. In Hegel, il fondamento di una etica dell’universale concreto, di una etica materiale e del risultato, in opposizione all’etica kantiana dell’intenzione, è trovato attraverso la reintroduzione della sfera dei bisogni come il materiale empirico del discorso etico. Hegel pone però i bisogni in una prospettiva storico-sociale. Egli analizza i bisogni non soltanto in relazione agli individui che ne sono i portatori, ma anche e soprattutto in rapporto alla totalità delle relazioni economico-giuridiche di proprietà, lavoro e consumo. Ed infatti, nella Filosofia del diritto, la società civile è analizzata come il “sistema dei bisogni”. Sviluppando ulteriormente la posizione hegeliana Marx elabora la dimensione storico-sociale della teoria dei bisogni senza ignorare la dimensione propria di una antropologia fondamentale. Nel concetto di lavoro si incontrano, in Marx, queste due dimensioni. Dal punto di vista dell’antropologia fondamentale, Marx concepisce il bisogno non nel senso negativo della “mancanza”, ma in un senso positivo, come l’esigenza dell’uomo di realizzare le proprie capacità e di oggettivarsi nella relazione con la natura e con gli altri uomini. Il lavoro, in quanto trasformazione della natura e oggettivizzazione, non è un mezzo per soddisfare i bisogni, ma un bisogno fondamentale dell’uomo. Con l’interazione produttiva la storia naturale entra nella storia della società. H. Lang ha sottolineato la tendenza di Freud a “risolvere la storia in storia della natura”. Questo tuttavia non impedisce di inserire l’opera freudiana in una direzione che rappresenta una linea principale dello sviluppo di una teoria materialistica della cultura e di cui il predecessore più importante era stato Marx. La chiave per la teoria psicoanalitica di Freud non è la biologia, ma l’antropologia culturale. La teoria psicoanalitica permette una ricostruzione della storia della cultura, dei miti e della religione attraverso la dialettica di es, ego e superego. La cultura, scrive Freud nel saggio sulla “analisi laica”, avanza ai costi degli impulsi repressi. Dall’altra parte, Freud distingue tra scopi e oggetti degli impulsi. Come egli scrive nel suo saggio su “impulsi e destini di impulsi”, mentre lo scopo dell’impulso ha una base biologica, l’oggetto attraverso il quale l’impulso può essere realizzato è fungibile: l’individualizzazione dell’impulso non fa parte solamente della storia dell’anima individuale, ma anche della storia della cultura. Ed infatti, in un luogo della “Nuova serie di lezioni di introduzione alla psicoanalisi”, troviamo scritto che nella sublimazione, la quale rappresenta una forma assai significativa di rimozione dell’impulso, “entra in gioco la nostra evoluzione sociale”. Ancora più importante è però notare che Freud, alla stessa maniera di Marx ma con implicazioni diverse, ha realizzato una grandiosa interpretazione storica della soggettività umana, che si basa sulla dialettica della totalità ed ha, allo stesso tempo, un fondamento empirico e materialistico. Tanto Marx che Freud sono rappresentanti delle due grandi tradizioni del pensiero occidentale moderno: l’empirismo materialistico e il razionalismo. In entrambi gli autori ritroviamo non già un’etica dei principi o delle intenzioni, ma la costruzione di un progetto emancipatorio, nel quale l’uomo è considerato come portatore di bisogni e impulsi storicamente determinati. Si potrebbe dire, metaforicamente, che Marx ha sviluppato un metodo per la psicoanalisi e la terapia della società, mentre Freud ha sviluppato un metodo per la critica dell’economia della psiche e il superamento delle inibizioni. Marx e Freud trasmettono alla nostra generazione il classico atteggiamento degli intellettuali, che venne sviluppato, in occidente, a partire dai secoli decimosesto e decimosettimo, e che potremmo denominare come ottimismo della ragione. Questo ottimismo si basa sul superamento della contrapposizione tra l’io e il mondo, tra il soggetto e l’oggetto, lo spirito e la materia, la ragione e la passione. L’ottimismo della ragione in Marx e Freud rappresenta forse il punto più alto nello sviluppo del pensiero moderno, se concepiamo tale sviluppo come il lento processo di secolarizzazione che trasformò il principio di verità e la concezione del soggetto. Realizzandosi questo processo la verità non dipende più dalla rivelazione e dalla tradizione, ma dall’autonoma interpretazione del mondo da parte dell’uomo attraverso l’osservazione, l’analisi sperimentale e attraverso la sintesi, in un sistema razionale, degli elementi così ottenuti. Il principio di verità sta nella ragione umana; nei bisogni e negli impulsi dell’uomo, riconosciuti dalla ragione e mediati dalla società, sta il principio del valore, il fondamento dell’etica e del diritto. Il progresso dell’umanità, l’emancipazione dal dolore e dall’oppressione, fanno parte di quelle che sono state chiamate “le promesse della modernità”. 3. L’intellettualità del nostro tempo è caratterizzata da un atteggiamento postmoderno, che può essere considerato come il risultato di una crisi del pensiero della modernità. E’ possibile parlare di una attualità dell’eredità di Marx e di Freud nel nostro tempo, se assegnamo la loro opera al nucleo centrale del pensiero classico moderno? Ricordiamo alcuni aspetti di ciò che può essere definito come l’atteggiamento postmoderno: una buona parte degli intellettuali contemporanei professa una rinuncia al cosiddetto “pensiero forte”, cioè al modello fondamentalistico del sapere, a vantaggio di un “pensiero debole”. Si tratta di una maniera di pensare aliena alle grandi sistemazioni teoriche, alle “grandi narrazioni”, alla luce abbagliante della verità, e che invece si accontenta di verità dal raggio limitato, di “piccole narrazioni”, di sistemazioni parziali e provvisorie, in altre parole: della penombra, della lueur , per usare la suggestiva espressione francese con la quale si può ben tradurre la Lichtung di Heidegger. “Lichtung” significa la poca luce di cui possiamo disporre, ma di cui tuttavia dobbiamo fare uso: una posizione, come si vede, radicalmente relativistica. Nell’opera dei rappresentanti del pensiero postmoderno troviamo spesso indicato l’interesse per una laboriosa e incondizionata autoriflessione sul nostro “essere-gettato-nel mondo”, in un mondo sul quale non abbiamo alcuna reale possibilità di controllo. Mancano quasi sempre però, nella loro opera, l’interesse e la capacità per la ricerca di valori e per la costruzione di un progetto etico-politico, volto a delineare una società più giusta epiù felice. Ora, se vogliamo difendere la tesi che l’eredità di Marx e di Freud significa una sfida positiva nella odierna fase di crisi della storia della modernità, ci troviamo davanti a un duplice compito. In primo luogo, dobbiamo stabilire un criterio per la lettura di questa crisi della Modernità, cercare la sua origine (che forse è assai remota nel tempo, già immanente nella stessa fondazione della filosofia della Modernità) e infine proporre una ipotesi di soluzione per uscire dalla crisi. In secondo luogo, dobbiamo indicare attraverso quali riformulazioni, interpretazioni e -se siano necessari- quali metodi di selezione nei confronti della loro opera, possiamo definire una eredità di Marx e di Freud per il nostro tempo, sulla quale sia possibile alimentare un progetto di emancipazione della soggettività umana. Per quanto riguarda il primo compito: in una linea di pensiero che va da Nietzsche, attraverso Benjamin e Sartre, fino a Girard, Darrida ed Eligio Resta, è stata definita una contraddizione centrale della Modernità, in relazione a violenza e diritto. Nella filosofia della Modernità al diritto e allo Stato era stato assegnata la funzione di controllare e superare la violenza, ma nel diritto e nello Stato la violenza è immanente e si riproduce. E’ proprio questo nascondimento della violenza che produce, come afferma Girard, l’errore, l’ambivalenza fondamentale della Modernità. Nei suoi ultimi lavori Resta ha sviluppato questa tesi, utilizzando la metafora platonica del pharmakon. Nel greco antico “pharmakon” significa tanto medicina quanto veleno . Lo Stato moderno e il suo diritto hanno trovato la loro legittimazione in quanto medicina contro la violenza; questa medicina però ha prodotto una perpetuazione del veleno, cioè ha mantenuto la violenza come il vero tessuto connettivo della società. La violenza viene riprodotta come la sostanza stessa dei rapporti giuridici. In rapporto a questa teoria vorrei aggiungere due osservazioni e lo schizzo di una ipotesi su come la teoria può essere ulteriormente sviluppata. Una prima osservazione: l’elemento centrale comune alle diverse forme di violenza può essere indicato nella repressione di bisogni reali. Definisco come “reali” i bisogni la cui soddisfazione è possibile, in linea di principio, alla stregua del grado di sviluppo della capacità di produzione di beni materiali e immateriali raggiunto in una società. I bisogni reali, tuttavia, possono restare insoddisfatti a causa di contraddizioni, ingiustizie, della distruzione di ricchezza reale o potenziale. In questo senso possiamo dire, raccogliendo un costrutto di Galtung, che la repressione di bisogni reali è violenza strutturale . Una seconda osservazione: quando affermiano che la violenza è immanente alla societa e al diritto, ciò significa che noi stessi, e non gli altri, siamo il soggetto di cui si tratta, come ha sottolineato Resta. E cioè, noi stessi, gli intellettuali della Modernità (o della postmodernità), abbiamo preso e continuiamo a prendere parte -anche contro le nostre intenzioni- all’operazione culturale di occultamento della violenza. Perciò il processo di autoriflessione e di demistificazione di questo occultamento ci interessa non solo come vittime, ma anche e soprattutto come corresponsabili dell’occultamento e della mistificazione. L’ipotesi, che può contribuire a portare avanti il processo di autoriflessione, è la seguente. La teoria e il progetto che servirono per fondare lo Stato e il diritto moderni rinviavano ad una base universale di legitimazione: si tratta dei bisogni umani, le pulsioni rivolte alla conservazione, lo sviluppo e la riproduzione dell’esistenza. Lo strumento per questa fondazione dello Stato e del diritto moderni fu il modello del contratto sociale. Esso fu inteso come un esperimento della ragione, ed in questo senso rappresenta un modello razionale per garantire la soddisfazione di quelle pulsioni, la quale non sarebbe possibile in un immaginario stato di natura, senza potere sovrano e senza diritto positivo. Ora, dovremmo riconoscere che il patto sociale, nella sua realizzazione storica, fu qualcosa di assai diverso da un patto universale, che abbraccia davvero tutti i soggetti umani, considerati uguali nella loro potenziale cittadinanza. Si trattò soprattutto di un pactum ad escludendum , di un patto tra una minoranza di uguali, che escluse dalla cittadinanza effettiva tutti i diversi. Fu un patto tra bianchi maschi adulti e possidenti che esclude stranieri donne bambini e poveri. Forse fu proprio questa contraddizione tra l’universalità potenziale e la reale selettività della cittadinanza, questa ininterrotta ambivalenza del diritto come pharmakon , che hanno contribuito a inaridire le radici della filosofia della Modernità. La insoddisfacibilità delle promesse della Modernità ha danneggiato la fiducia illuministica nella verità, nella soggettività umana, nel progresso. Se la crisi è così profonda, perché la sua origine era immanente nell’atto di nascita stesso della Modernità, allora dovremmo, per uscirne, correggere innanzi tutto il linguaggio stesso ed i concetti con i quali è sono stati fondati lo Stato e il diritto moderni: Alleanza : credo che sia importante ricostruire, in una dimensione mondana, questo concetto fondamentale della tradizione giudaico-cristiana. Si tratta di definire il progetto, da una parte, di una alleanza tra tutte le vittime, tutti gli esclusi dal patto sociale; dall’altra , di una alleanza degli uomini con la natura. Nel corso delle lotte per lo Stato di diritto sono entrati sempre più nel centro dell’attenzione i diritti delle vittime e degli esclusi, delle etnie non bianche, delle donne, dei bambini, e dei non possidenti. In tal modo però lo Stato di diritto si è limitato a riconoscere l’esistenza di cittadinanze diverse da quella che è uguale formalmente ed astrattamente per tutti: la cittadinanza statuale. Lo Stato di diritto ha concesso una limitata garanzia a quelle patrie diverse dalla cittadinanza statuale, alle quali gli individui partecipano nella loro concreta esistenza. Però queste patrie , alle quali sono stati garantiti diritti, non sono costitutive dello Stato, non fanno parte della sua fondazione. Il progetto dell’alleanza richiede che si faccia un passo ulteriore, che si fondi uno Stato che si alimenti di tutte le diverse cittadinanze alle quali gli individui possono contemporaneamente far parte; che si arricchisca attraverso le esperienze, gli scopi, le visioni del mondo, i linguaggi e i bisogni in cui trovano espressione le diverse patrie delle quali ciascuno può far parte, in quanto partecipe di un genere, di una fascia di età, di una etnia, di un ruolo sociale. In questo modello noi non stiamo più dinnanzi ad uno Stato di bianchi adulti maschi e possidenti, che, nella migliore delle ipotesi, “lascia vivere” gli altri all’interno dei confini delle loro patrie, ma ad uno Stato meticcio , uno Stato della cittadinanza plurale, nel quale non ci sono stranieri, vittime ed esclusi. Questo Stato delle differenze viene costruito anche attraverso processi culturali che vanno al di là dell’orizzonte dei diritti delle diverse cittadinanze e possono anche permettere la valorizzazione di nuovi codici, specifici di esse, per la lettura e la gestione dei conflitti. Forse, da un progetto come questo, potrebbe sorgere una civiltà in cui il potenziale immanente di violenza viene svelato, in modo da rendere possibile la realizzazione di forme non violente di controllo della violenza . L’alleanza delle vittime e degli esclusi,e degli uomini con la natura, è un grande gesto pacifico con il quale la soggettività umana cerca di allontanare da sé le catastrofi finora originate dall’alleanza del diritto con la violenza. Il nostro secondo compito concerne il significato che l’eredità di Marx e Freud riceve nel contesto del progetto che è stato tratteggiato. Per poter dare una indicazione in questo senso è necessario fare una premessa. Ho parlato all’inizio di un modello “fondamentalistico” di discorso filosofico, al quale quello della filosofia postmoderna si oppone radicalmente. Ma per il progetto dell’alleanza non è necessario raggiungere verità assolute e valori universali, come pretende il discorso fondamentalistico. Più adeguato è, invece, un discorso che riconosce la validità relativa dei risultati cognitivi di una autoriflessione, che si sviluppa all’interno del contesto di una determinata situazione storico-sociale. L’alleanza delle vittime e degli esclusi richiede solo valori relativi, basati sul consenso e la ricerca comune. Il modello contestuale di discorso, illustrato recentemente da Claudius Mesner, è alla base del progetto dell’alleanza: un modello diverso, allo stesso tempo, da quello fondamentalistico e da quello della filosofia postmoderna. La filosofia postmoderna, infatti, rappresenta un antidoto efficace rispetto al dogmatismo delle grandi narrazioni e ha contribuito in modo importante al superamento del mito della soggettività umana come centro del mondo; ma essa ha un limite fondamentale per la fondazione di progetti pratici. La filosofia postmoderna si pone in un livello di autoriflessività, che resta sempre al di sopra della ricerca di alternative per l’agire. Ciò rende possibile riflettere su tale ricerca, ma non fondarla e parteciparvi. D’altro canto, forse, il pensiero “debole” della filosofia postmoderna è un privilegio, un lusso riservato ai gruppi sociali e alle nazioni forti, agli intellettuali che, senza manco averne l’intenzione, rappresentano i loro interessi. E in questo senso essa riflette i rapporti sociali nel mondo. Le “narrazioni” alle quali sono interessati i poveri, le vittime e gli esclusi, che essi conoscono fin troppo bene e sulle quali possono appoggiare i propri processi di emancipazione, sono sempre state e rimarranno le “grandi narrazioni”, la storia delle relazioni tra le due “nazioni” dalle quali mondo è composto, come scriveva Disraeli: i ricchi e i poveri. Riprendiamo la domanda sull’eredità di Marx e di Freud per il nostro tempo. E’ soprattutto una domanda circa la scelta di determinati aspetti della loro opera e del significato di essa, che noi possiamo sottolineare per sostenere il progetto dell’alleanza. A prima vista questo compito può sembrare più facile, nei confronti dell’opera di Freud che nei confronti di quella di Marx. Per Freud la ragione è un principio di progresso: ma essa non è, così come nel materialismo dialettico, un principio logico, necessario per il progresso, e che non dipende dalle intenzioni e dai progetti degli attori, ma agisce “ dietro le loro spalle”. In relazione all’opera di Marx si tratta dunque di portare a termine una lettura di essa in una direzione simile a quella fatta da Walter Benjamin ed Ernst Bloch. Questi autori hanno liberato il momento centrale dello storicismo e dell’umanismo marxiano dalla concezione meccanicistica e teleologica di uno sviluppo necessario del capitalismo verso una società migliore, concezione che si consolidò nel marxismo ortodosso e nel dogmatismo del “Diamat”. In una lettura come quella qui proposta, invece, il progetto emancipatorio è basato su una analisi radicale della situazione umana, ma il cambiamento sociale è concepito come possibilità, e non come necessità, e viene lasciato uno spazio importante alle alternative e all’agire responsabile della soggettività umana. Radicale, scriveva Marx, significa prendere le cose alla radice. Ma la radice, per l’ uomo, è l’uomo stesso”. Il metodo della analisi radicale della situazione umana e il progetto emancipatorio nello spazio della speranza e della possibilità: sono questi gli elementi comuni dell’eredità di Marx e di Freud. Il punto di riferimento delle operazioni analitiche e terapeutiche che essi ci indicano non è la storia in generale, intesa come continuità di sviluppo della natura e della cultura, o almeno non è solamente la storia in generale. Marx e Freud hanno elaborato un criterio di interpretazione per la totalità dei rapporti complessi che uniscono l’io con il mondo e con l’altro io, il sistema dei bisogni con la sfera simbolica della morale, del diritto, della cultura, nello specifico contesto degli sviluppi e delle contraddizioni della formazione storico-sociale in cui ancora viviamo. In relazione a ciascuno dei diversi punti della proposta di riformulazione lessicale e concettuale che ho presentato, questa interpretazione dell’opera di Marx e di Freud potrebbe essere fatta in modo sistematico e differenziato, ma qui dovrò limitarmi solamente a due aspetti. Un primo aspetto: ho proposto di sostituire il concetto di “altro” nel senso di “straniero”, con il concetto di “stranieri a noi stessi” riprendendo una linea di ricerca di J. Kristeva. Il progetto emancipatorio, nel senso di Marx e di Freud, è un progetto di di riconciliazione della soggettività umana con se stessa; un progetto di liberazione e di sviluppo dei bisogni reali attraverso una conoscenza autoriflessiva di noi stessi, della situazione dell’uomo, del mondo in cui siamo gettati, e attraverso un cambiamento di noi stessi e del mondo. Per questa liberazione dovremo anche continuare, in relazione agli altri, la “rivoluzione copernicana” che Freud ha messo in moto e che gli ha permesso di riconoscere che “l’altro è il mio proprio inconscio”; e ricostituire la visione cosmopolitica dell’umanità, che era stata continua nella nostra cultura, dall’antichità, attraverso Kant e Herder, fino a Marx. Il reciproco riconoscimento delle diverse cittadinanze all’interno dello Stato meticcio è anche il risultato del superamento del nostro “essere-estranei-a noi-stessi”. Nello Stato meticcio i cittadini possono riconoscere e realizzare la propria soggettività, perché lo Stato meticcio si fonda sul superamento dell’immagine dell’altro come straniero. Non meno importante è un secondo aspetto: il processo della liberazione reciproca dalla relazione tra stranieri passa per un processo autoriflessivo, che potremmo chiamare “relazionale”. Freud affermava che ciò che è straniero è sempre il nemico. Il progetto dell’alleanza richiede che ogni cittadino abbia la capacità di guardare se stesso, nella propria patria , con gli occhi dell’altro, di percepire se stesso attraverso la percezione degli altri. Si tratta di un’altra maniera di intendere e di gestire i conflitti reali o potenziali , adottando per se stesso la prospettiva dell’altro e rinunciando a voler imporre all’altro la propria prospettiva. Questo impegno è fondamentale, per poter sviluppare tecniche non violente di soluzione dei conflitti. Lo Stato della cittadinanza plurale non è una utopia pacifista che disconosce le differenze e i conflitti potenziali. Tutte le cittadinanze dovrebbero poter convivere tra di loro: è certo, però questa non è la premessa, bensì il risultato del progetto. Se ogni cittadinanza facesse valere solo i propri diritti, il risultato potrebbe essere una convivenza di stranieri, non lo Stato meticcio. La pace e l’amicizia non sono situazioni naturali, ma conquiste sociali. Nell’eredità di Marx e di Freud possiamo trovare non solamente un metodo per l’analisi delle radici economiche e psicologiche della soluzione bellica dei conflitti, ma anche gli elementi per costruire tecniche pacifiche di soluzione. Sono tecniche che interrompono il circolo diabolico di diritto e guerra. Uscire da questo circolo significa rinunciare alla guerra, ma non ai diritti. La strategia dell’alleanza non è la strategia del pacifismo. E’ la strategia delle grandi lotte pacifiche. 4. Con questo modello teorico, con questa utopia concreta ho voluto cercare di contribuire al lavoro pratico di tutti coloro che lottano oggi, invece che per una Europa del capitale, per una Europa delle donne, dei bambini, dei cittadini extracomunitari e dei lavoratori; invece che per una Europa tecnocratica imposta dall’alto, per una Europa democratica che viene costruita dal basso; invece che per la retorica del dialogo sociale tra le cosiddette “forze sociali” e le cosiddette “forze economiche” (e non possono che essere dette così, una volta separate), per una economia sociale in Europa e nel mondo, una economia che mette la produzione al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio della valorizzazione del capitale; invece che per una Europa-fortezza nella guerra degli interessi e degli Stati all’interno e all’esterno della regione europea, per una Europa della pace e della solidarietà dentro e fuori dei suoi confini.
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