|
Linee guida sulla mediazione penale di Filomena Terenzi
Filomena Terenzi nata a Roma il 29.09.40, laureata in giurisprudenza, diploma in servizio sociale, ha svolto l'attività professionale in più settori. Nell'amministrazione penitenziaria dal 1.10.79, dal novembre 96 opera come vice responsabile nel servizio rapporti con le Regioni e gli EE.LL, servizio che cura anche la segreteria della Commissione nazionale consultiva per i rapporti con le regioni, gli enti locali, il volontariato. Nell'ambito di questa commissione, fa parte del gruppo di lavoro per lo studio di un’ipotesi di mediazione nel sistema penale per adulti. Nell’esaminare la possibilità di attuare l’attività di mediazione nell’ambito del nostro sistema penale penitenziario si è anzitutto partiti da una condivisione del concetto di mediazione.
Per attività di mediazione, come definito anche nella Raccomandazione R. (99) 19 adottata dal Comitato del Consiglio d'Europa, in un'accezione generale, cioè non riferita ad un contesto particolare, si è considerata un'attività finalizzata alla risoluzione di conflitti, realizzata da un terzo neutrale che favorisce un accordo tra le parti interessate, le quali volontariamente e consensualmente accedono a questa modalità.
Partendo da questa accezione, riferita al contesto penale penitenziario, si è condivisa, anche, la definizione che la mediazione è un’attività da realizzare al di fuori del processo penale, anche se attuata nell’ambito dell’attività giurisdizionale, in quanto interviene comunque in presenza di un comportamento antigiuridico. È una strategia alternativa di gestione del conflitto-reato, non sostitutiva del procedimento penale, ma come risorsa operativa per dare ai conflitti-reati una risposta diversa nell’ottica di una giustizia riparativa -riconciliativa.
Nell'ordinamento giuridico italiano, nel quale l'azione penale è obbligatoria, i conflitti hanno una modalità di gestione definita con legge; la mediazione, come strategia alternativa al processo di regolazione del conflitto - reato, diventa attuabile in quanto:
Nel nostro sistema penale la possibilità di rinunciare alla obbligatorietà dell'azione penale si realizza nei reati a querela della persona offesa, mentre il riconoscimento, anche ai fini processuali, degli esiti della attività di mediazione è stato introdotto dal D.Lgs. 274/2000 sulle competenza penale del giudice di pace.
L'art. 29 della legge citata prevede infatti che "nei reati a querela della persona offesa, il giudice promuova la conciliazione, per favorirla sospenda l'istruttoria per due mesi e, ove occorre, si avvalga anche dell'attività di mediazione di centri e strutture pubbliche e private presenti sul territorio. In caso di conciliazione è redatto processo verbale attestante da parte del querelante, la remissione della querela o la rinuncia al ricorso al giudice di pace e, relativa accettazione, da parte del querelato".
In questo caso è la stessa legge che prevede l'applicazione del principio di discrezionalità dell'azione penale; la promozione dell'azione penale infatti è lasciata alla valutazione di una parte, reati a querela della persona offesa, come pure, è a discrezione del giudice, ove ritenga sussistano le condizioni per attivare il servizio di mediazione, emettere il decreto di archiviazione se le parti raggiungono l'accordo.
Qui la mediazione realizza l’obiettivo di comporre il conflitto attraverso la ricostruzione della relazione tra i due soggetti separati dal conflitto, facendo assumere ad entrambi i configgenti un ruolo attivo portandoli a ricercare una soluzione mutuamente vantaggiosa.
In questa previsione di legge, la mediazione esprime tutte le sue potenzialità, assume una valenza processuale nel senso che intervenendo nella primissima fase dell’iter processuale ne consente l’archiviazione, ma anche sostanziale perché compone il conflitto.
Il procedimento di mediazione diventa una modalità, alternativa al processo, di risoluzione del conflitto, una diversion, un percorso extra giudiziale nel quale il reo e la vittima tornano a gestire il proprio conflitto, possono trovare una composizione e l’accordo raggiunto influisce sull’iter processuale.
Con l'approvazione della L. 274/28-8-00 sulla competenza penale del giudice di pace, anche l'ordinamento giuridico italiano, ha recepito l'attività di mediazione come modalità alternativa al processo, e al di fuori del processo di composizione del conflitto, individuando appunto nei reati a querela della persona offesa i conflitti che possono essere oggetto di mediazione.
La norma in questione riveste notevole importanza, perché introduce l'attività di mediazione come metodologia per realizzare la conciliazione di un conflitto, e all'accordo raggiunto dalle parti, venendo meno le ragioni del contendere e quindi della prosecuzione dell'attività processuale, riconosce il valore di definire il procedimento penale; ma è pure importante, perché il legislatore, ponendo l'attività di mediazione nel territorio, svolta da servizi pubblici o privati posti al di fuori del sistema penale, ha voluto dare all'evoluzione della politica penale italiana, non solo perché inserita in quella europea, una precisa indicazione, che è quella di riportare nel territorio, nella comunità civile, dove maturano i comportamenti anti giuridici, la composizione di molte microconflittualità, recependo la cultura che considera l'intera comunità civile corresponsabile nella formazione di comportamenti anti giuridici individuali e collettivi.
Ora se consideriamo la mediazione penale solo come modalità alternativa al procedimento giudiziario di soluzione dei conflitti, sembra dedursi che nel nostro ordinamento giuridico, l'unica situazione nella quale può essere applicata l'attività di mediazione sia quella indicata dall'art. 29 del D.lgs. 274/00.
Diversa è la prospettiva se consideriamo il comportamento antigiuridico non solo come violazione di una norma, ma anche come causa di sofferenza, di tensione, di disturbo nel tessuto sociale; l'attività di mediazione, può essere promossa come strumento attraverso il quale i due soggetti interessati, reo e vittima, in modo consensuale, hanno la possibilità di incontrarsi, di rielaborare con l'aiuto di un terzo neutrale, il mediatore, il conflitto reato e le sue conseguenze, acquisendo il reo responsabilità e consapevolezza del danno arrecato e la vittima un sentimento più equilibrato della sofferenza materiale e/o morale subita.
In questa accezione l'attività di mediazione può essere attuata ponendosi come obiettivo non la soluzione del conflitto sotto il profilo giuridico, ma come rilettura del conflitto reato, visto non solo come astratta violazione di una norma, ma da un punto di vista umano, individuale e sociale, nella misura in cui ogni comportamento dell'individuo si ripercuote sul contesto sociale in cui viene attuato. Quando il conflitto reato ha avuto già una sua definizione attraverso il procedimento giudiziario e la sentenza di condanna, promuovere un'attività di mediazione nel corso dell'esecuzione della pena, significa porsi come obiettivo la ricomposizione del conflitto inteso come lacerazione dei rapporti interpersonali e sociali. Significa aiutare le parti ad acquisire una visione del fatto – reato, nuova, in quanto integrata dalla dimensione cognitiva ed emotiva dell'altro. Significa porsi come obiettivo il miglioramento della qualità dei rapporti umani e sociali anche come prevenzione di altri contrasti. Questi aspetti non vengono presi in considerazione nel procedimento giudiziario, soprattutto in riferimento alla vittima, la quale, anche quando viene riconosciuta la lesione dei suoi diritti, "valutata" l'offesa ricevuta, non viene considerata come persona, né le viene data la possibilità di esprimere la sofferenza provocata dal reato.
Lo stesso ordinamento penitenziario regola l'esecuzione della pena nella prospettiva esclusivamente della riabilitazione del reo, la vittima non viene considerata.
Anche quando nel corso degli interventi trattamentali gli operatori riescono a condurre con il condannato una riflessione sulle motivazioni che lo hanno condotto al reato, sulle conseguenze non soltanto materiali ma anche umane e sociali prodotte, rimane pur sempre una elaborazione più o meno astratta o quanto meno unilaterale.
Altra cosa è mettere il reo nella condizione di confrontarsi direttamente con la propria vittima, laddove è possibile, verificare anche i danni emotivi provocati nella persona offesa, o la lacerazione determinata nel contesto sociale di appartenenza.
Ipotizzare l’attivazione dell’attività di mediazione nel corso dell’esecuzione penale non significa certo mettere in discussione l’impronta trattamentale di tutto l’ordinamento penitenziario, ma eventualmente offrire, uno strumento in più per portare il condannato verso una consapevolezza e una responsabilizzazione più reale e concreta. Significa dare alla vittima un rilievo e un riconoscimento come persona, aiutarla a rielaborare i sentimenti di disagio, di rabbia, di impotenza, se non di abbandono suscitati dal reato, farla partecipe di una eventuale azione di riparazione a suo favore.
Nell’ordinamento penitenziario, invece, come è noto la vittima del reato viene citata solo in due situazioni:
Sia nell’art. 27 del nuovo regolamento d’esecuzione, che nel comma 7 dell’art. 47 L. 354/75, la riflessione sulle conseguenze negative provocate e l’adoperarsi per ripararle, per quanto possibile, è vista in relazione al reo, alla sua riabilitazione attraverso anche la riparazione. La vittima viene presa in considerazione come destinataria di possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, nel primo caso prevedendo anche un risarcimento, nella seconda situazione con l’indicazione generica di "adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato".
Ma in un ambito nel quale, rispetto alla motivazione al consenso, il reo è molto condizionato e della vittima nulla si dice, è realizzabile un’attività di mediazione nel rispetto di quei requisiti che sono stati individuati come essenziali? Cioè, la consensualità delle parti ad accedere alla mediazione e quindi la disponibilità del reo e della vittima ad incontrarsi; la presenza di un mediatore, terzo tra le parti posto al di fuori del sistema giudiziario, che attui con rigore metodologico il processo di mediazione, l’obiettivo della mediazione che qui non è più quello di comporre il conflitto da un punto di vista giuridico, ma di riparare il danno arrecato?
Ora, riflettendo sulla previsione dell’art. 27 D.P.R. 230, se è realizzabile attuare con il condannato la riflessione sulle conseguenze negative del reato ed eventualmente accompagnarlo nel maturare un consenso a riparare, per quanto possibile, il danno arrecato, chi promuove il contatto con la vittima? Gli operatori penitenziari, comprendendo tra questi anche il volontariato attivo nell’ambito penitenziario, gli operatori della mediazione, o altri al di fuori di quelli indicati?
Un ruolo importante e significativo potrebbe essere svolto dal volontariato non attivo nel sistema giustizia come espressione della comunità civile che, quando la vittima è nota, può eventualmente avvicinarla, prepararla ad acconsentire all’incontro con il suo offensore, informandolo sui contenuti, le modalità e gli obiettivi della mediazione; oppure se la vittima non è una persona fisica ma l’intera collettività, come può accadere per certi reati (ambientali, di danneggiamento di opere pubbliche ecc.) il volontariato può contribuire nel ricercare il consenso da parte degli organi rappresentativi della collettività. Si ritiene, comunque, che chiunque svolga questo compito, pur non potendo essere considerato tra gli operatori del processo di mediazione, perché dalla parte della vittima, debba essere preparato a svolgerlo. Lo stesso dicasi per quanto riguarda il reo: si ritiene infatti che gli operatori penitenziari possano individuare la possibilità di attuare, da parte dei servizi esterni, un’attività di mediazione, in relazione alla personalità del condannato e al tipo di reato, fornendo tutte quelle informazioni necessarie a far maturare un consenso consapevole, ma non oltre.
Riflettendo sull’altra situazione individuata per l’attuazione dell’attività di mediazione, il comma 7 dell’art. 47, vediamo che, rispetto all’elemento della consensualità delle parti, reo e vittima, ad acconsentire alla mediazione, per il condannato, si può pensare che il consenso sia espresso, anche se in modo implicito, nel momento in cui richiede la concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova, di cui conosce le prescrizioni perché già indicate dalla legge. Ma anche nella fase istruttoria alla concessione della misura alternativa, come qualche Tribunale di Sorveglianza sta sperimentando, quando gli viene richiesto di predisporre un progetto di riparazione che, se valutato idoneo e accettato viene inserito tra le prescrizioni. Il comportamento attivo del reo, nel ricercare modalità per riparare e/o attenuare le conseguenze del proprio comportamento antigiuridico, può considerarsi un modo concreto, alternativo al consenso espresso in modo formale, per esprimere la volontà di incontrare la vittima. Per quanto riguarda la vittima, pur non essendo prevista dalla norma in questione l’acquisizione del suo consenso ad accettare una riparazione a suo favore, da un punto di vista anche giuridico, non vi è alcun impedimento nel ricercarlo. Ma anche qui la ricerca di un rapporto con la vittima è tutto da costruire. L’assistente sociale penitenziario svolge un ruolo istituzionale rivolto al condannato, un suo intervento potrebbe essere percepito strumentalmente a vantaggio del reo.
Deve inoltre tenersi presente che la riparazione, che viene prescritta all’affidando "adoperarsi nei confronti della vittima del proprio reato" può essere accettata dalla persona offesa, a prescindere dall’accettazione della mediazione.
Qui si sta riflettendo sulla possibilità di attuare l’attività di mediazione, nel rispetto dei suoi elementi essenziali, nel corso dell’esecuzione della pena in detenzione e in misura alternativa, nell’affidamento in prova, in assenza di una previsione legislativa esplicita.
Ma che cosa può spingere le parti ad incontrarsi, una volta definito il conflitto da un punto di vista giuridico? Chi può motivarle?
È utopia pensare che le due persone coinvolte nel conflitto, offensore ed offeso, possano essere interessate ad incontrarsi per comunicare, spiegarsi, ascoltarsi e rielaborare il fatto-reato con tutti quegli aspetti emotivi, personali espressi liberamente in un ambiente non giudicante, inevitabilmente a distanza di tempo rispetto all’evento – reato?
Le premesse perché si abbia un’attività di mediazione da un punto di vista tecnico scientifico sono molto deboli.
Una motivazione più concreta può riguardare il reo perché l’accettazione della riparazione può comportare una modalità di esecuzione della pena diversa, la misura alternativa rispetto al carcere e/o alla durata della pena; per l’affidando, infatti, la non accettazione dell’adoperarsi nei confronti della vittima, laddove è possibile, può compromettere la concessione della misura alternativa e di conseguenza espiare la pena in carcere. Per la persona in esecuzione di pena in carcere il non acconsentire a riparare il danno, può influenzare la concessione dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Ma per la vittima il discorso è diverso, promuovere il suo consenso, portarla ad incontrarsi con il suo offensore, quando il conflitto è stato già definito e si è consumato in un tempo più o meno lontano, si ritiene sia l’aspetto più delicato, complesso e difficile da attuare.
L’obiettivo della riparazione morale e/o materiale, fino a che punto può convincere la vittima ad incontrarsi con chi l’ha danneggiata?
Finora si è parlato della possibilità di attuare l’attività di mediazione nell’ambito del sistema penale italiano, che solo di recente con il decreto legislativo 274/00 la prevede, indicandola come attività posta all’esterno del sistema giustizia, cui il giudice di pace può ricorrere per aiutare la conciliazione tra le parti.
L’esperienza sin qui maturata negli ordinamenti giuridici stranieri e in Italia nell’ambito del sistema penale minorile, vede questa attività realizzata all’esterno del sistema giustizia ma necessariamente contigua, in quanto promossa e realizzata in presenza di un comportamento antigiuridico che attiva l’attività giurisdizionale, d’ufficio o su richiesta delle parti. Abbiamo visto gli spazi giuridici in cui l’attività di mediazione è prevista e può promuoversi.
In riferimento alla sua promozione nei reati a querela della persona offesa, la mediazione viene attivata dal giudice di pace, mentre nel corso dell’esecuzione penale, pur con tutte le perplessità rappresentate, il percorso attraverso il quale promuovere l’attività di mediazione va costruito.
Ma comunque sia nella previsione dell’art. 27 DPR 230/00 che in quella del comma 7 art. 47 L. 354/75, il Servizio di mediazione dovrà essere attivato dal Magistrato di Sorveglianza e dal Tribunale di Sorveglianza.
Tutta la fase propedeutica all’attività di mediazione, le modalità di raccordo tra chi opera a contatto con il reo, con chi promuove e ricerca il contatto con la vittima e il servizio che attua la mediazione in senso tecnico metodologico, va definito almeno a grandi linee, anche come guida per la sperimentazione.
|