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Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita Sul rapporto fra Cristianesimo e pena
Eugen Wiesnet S. I. (1941-1983),
tr. it. Luciano Eusebi, Giuffrè Editore, Milano
1987. [ Il Primo Testamento e il Nuovo Testamento propongono una
concezione della pena non riducibile a strumento di retribuzione - base della
giustizia penale - ma manifestazione
della giustizia-risanatrice di Dio. L’idea biblica di tsedaqa ( termine reso in greco - da parte dei Settanta - con
dikaiosýne,
in latino - nella Vulgata - con iustitia, in tedesco - da Lutero in
poi - con Gerechtigkeit) esprime la premura e l’aiuto di Dio nei
confronti del colpevole, malgrado la colpa. Dio non è di fronte a Caino il Dio che tace, abbandonando l’omicida a se stesso: Caino non è ripudiato ed escluso dalla premura di Dio. Il giudizio di Dio non è di tipo retributivo, ma si manifesta attraverso il duplice momento della tsedaqa: giustizia e insieme salvezza. Dio nel suo giudizio non annienta il colpevole, ma lo risolleva, assumendo per primo, gratuitamente, l’iniziativa. La tsedaqa di Dio, la sua giustizia che libera e risana, è apertura alla riconciliazione dell’uomo in colpa, con un Padre che sempre porge ascolto e salvezza ]. [...] «Quando punisci qualcuno, fallo tuo fratello!» (Moisé
Maimonide). Paolo cerca di far capire lo stesso concetto alla comunità di
Corinto: chi punisce assume una responsabilità personale, che non può essere
rimossa o disconosciuta, verso chi è punito. L'Apostolo ha vissuto sulla
propria pelle i sentimenti e le dolorose esperienze della punizione e della
stessa carcerazione. Egli parla come chi ha provato in prima persona, come
«pregiudicato»... Sa quanto
profondamente incidano tutte le forme di pena nella vita e nella psiche del
condannato. Conosce le conseguenze dei cosiddetti «effetti secondari» della
pena - problemi questi dei quali coloro che condannano (senza esser mai stati
oggetto della punizione) non hanno idea
alcuna. Perciò Paolo dice che la pena subita fino a quel
momento dal reo risulta sufficiente (2 Cor 2, 6). Se dunque già la comunità ha
punito, deve ora adempiere anche il «compito umano che spetta a colui che
punisce» nei confronti del colpevole: «... dovreste piuttosto usargli
benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo
forte» (2, 7). Misfatti della
retribuzione La pena può significare per Paolo, senza che chi
punisca se ne avveda, la «fine» del condannato. Ma in tal caso diviene
retribuzione vendicativa. Il detenuto non dev'essere schiacciato da
un'afflizione (di tipo morale o sociale) che lo distrugga! Perciò la comunità
deve restare in contatto con lui, facendo «prevalere nei suoi riguardi la
carità» (2, 8). Gli effetti della pena non possono essere indifferenti a chi
punisce. Altrimenti egli commette una violazione ulteriore del diritto, con la
copertura della «giustizia» e della punizione. E tale trasgressione è forse
più grande di quella che vuole eliminare.
[...] Delitto contro chi ha commesso un
delitto Se fra i credenti la pena non è espressione di un
amore che perdona (ad imitazione del modello di Dio) ciò significa che chi
punisce è caduto «in balia di satana» (2 Cor 2, 11). [...] Se la pena non
ha come scopo il ricostituirsi della comunione col condannato, se questi non
percepisce di restare pur sempre «fratello» anche nella pena, se la sua
condizione ne fa un proscritto, un emarginato, un declassato (secondo lo
spirito del capro espiatorio) non può più parlarsi per Paolo di «ministero di
riconciliazione» in senso cristiano. Poiché «Dio non ci ha destinati alla
sua collera ma all'acquisto della salvezza» (1 Ts 5, 9). [pp.
111-112] Giustizia nella direzione del
fratello Nel Nuovo Testamento la giustizia (e la visione della
pena che ne deriva) si manifesta nel contesto dell'accettazione del colpevole
nella comunione nuova con il Dio vicino, ricevendo con ciò una funzione di
accoglienza orientata alla persona (cfr. la discussione sulla prescrizione del
sabato: la legge è per l’uomo, non viceversa: Mt 12, 9 ss.). La giustizia si
inserisce così nell'intento di Gesù di assumere su di sé lo schierarsi di Dio
dalla parte dell'umanità minacciata e calpestata, a favore di tutte le
esistenze prive di aiuto, povere, «sciupate». La riconquista del fratello
perduto diviene fine centrale del diritto e della pena. Perdono,
riconciliazione e nuova comunione divengono pilastri portanti della nuova
giustizia secondo Gesù. Anche nel Nuovo Testamento, quindi, la giustizia
si colloca entro I'ambito della promessa della «nuova Alleanza quale formula
sintetica del rinnovato legame fra Dio e l'uomo. «Nuova Alleanza» significa
guida, premura, shalôm ed incondizionata comunione. Su queste premesse,
la rinuncia al fine retributivo della giustizia e della pena viene
ripetutamente espressa. Il fondamentale valore della «giustizia» sta quindi
sotto l'insegna di quel principio cardine dell’etica neotestamentaria che è il
«principio dell'amore» [...]: «giustizia solo nell'amore»!
[...] Secondo il Nuovo Testamento, perciò, anche la
cosiddetta sfera giuridica non può mai costituire un ambito della vita
autonomo dal principio dell'amore. Quest'ultimo, piuttosto, deve contribuire a
plasmarla in modo essenziale! Il «principio della riconciliazione» è il motore
di un diritto codeterminato in senso cristiano e di una pena cristianamente
giustificabile. [114-115]. [...] Se dunque secondo la Bibbia tutte le sanzioni
nei confronti delle condotte umane sbagliate devono avere carattere di
«riconciliazione», in futuro anche il concetto di «espiazione» non potrà più
esser distrattamente espresso con un semplice «pagare sopportando
l’imposizione di un male penale»! Simile modalità tradizionale di comprendere
l’«espiazione» non è altro che una variante mimetica del termine
«retribuzione», rispetto alla quale dall'intelligenza complessiva della Bibbia
non è possibile trarre legittimazione alcuna. Come «espiazione in senso biblico» può intendersi
solo lo sforzo reciproco della società e dell'agente di ricostruire fra loro
la comunione turbata e ferita dal reato. Dal punto di vista cristiano,
l’espiazione dev'essere vista come processo dialogico di
riconciliazione, non come offerta unilaterale e passiva di soddisfazione
in rapporto all'inflizione di un male penale. Fra gli impulsi biblici
rilevanti per il nostro tema emerge in particolare l’importanza della legge di
assoluta priorità dell'offerta di riconciliazione rivolta al colpevole. Con
tale regola ci si riferisce ad una vera e propria «svolta copernicana»
dell'espiazione, svolta che la nostra prassi penalistica non ha quasi
percepito, né tanto meno realizzato. Con essa si opera un'affermazione (che è
ad un tempo un imperativo) sulla fondamentale struttura antropologica
dell'espiazione, che contrasta in senso assoluto con il nostro modo
tradizionale di sentire e di agire: I'Antico ed il Nuovo Testamento
considerano concordemente l’uomo come un essere che dipende fin nel profondo
del suo esistere dal rivolgersi a lui della comunità e da quanto essa gli
offre. Necessità di un aiuto
esterno Questo bisogno della comunità risulta particolarmente
pressante nell'esperienza limite della colpa. Perché gli sia possibile
liberarsi dal rischio di restare irretito - incatenato - nel vincolo esistente
fra la colpa e le conseguenze causate, proprio il reo necessita in modo
particolarmente intenso dell'iniziativa assunta verso di lui dalla comunità
(che egli ha ferito), ovvero da chi la rappresenta. Colui che è irretito nella
colpa, prigioniero delle conseguenze della sua azione, non è in grado, secondo
la Bibbia, di porre per primo le premesse necessarie e necessariamente
dialogiche della riconciliazione. Non può liberarsi da solo della sua
sventurata situazione. Necessita di un aiuto esterno: dell'offerta di
riconciliazione da parte di quella stessa comunità contro la quale si dirigono
gli effetti della sua azione. Secondo la costante testimonianza di tutti gli
scritti della Bibbia, è Dio che, rendendosi esempio, compie questo primo passo
di riconciliazione verso l'uomo peccatore. Tale duplice fase della
riconciliazione cristiana: - offerta di
riconciliazione (perdono, aiuto risocializzante) da parte della comunità colpita (quale
suo contributo all'espiazione!) e, resa
in tal modo possibile, - conversione e disponibilità alla riparazione da parte del reo (quale
suo contributo all'espiazione!) è preliminarmente vissuta, come modello, nella chiamata liberante di Jahvé: «Adamo, dove sei?», la quale si riflette sin nell'affermazione paolina (Rm 3, 24) secondo cui la nostra stessa personale giustificazione dinnanzi a Dio è sempre dono, non ricompensa meritata dalle opere. Solo quando venga osata questa chiamata liberatrice nei confronti della persona, solo in una simile atmosfera di riconciliazione liberante e salvifica, può veramente compiersi I'«espiazione». Espiazione possibile solo nel dialogo Questo fondamentale punto di vista antropologico
della Bibbia, secondo cui l’imperativo della conversione esige l’indicativo di
una previa offerta di riconciliazione, esprime il rifiuto dei molteplici
modelli di autoliberazione ed autorisanamento della nostra prassi giudiziaria,
abituata ad esigere un miglioramento senza preoccuparsi delle opportunità che
lo rendano possibile. Secondo l’eredità biblica, perciò, l’«espiazione» non
può considerarsi compito del solo agente di reato (e la comunità mero
destinatario). Non esiste una «strada a senso unico o dell'espiazione». Questa
può essere intesa soltanto come volenteroso dialogo fra le parti, cioè fra le
vittime del reato (tale è anche
l’agente!). Con l'imperativo di un'«espiazione nel dialogo» il
modo con cui la Bibbia considera il «peccatore» e le sue prospettive di
conversione si rivela a priori ben più acuto e realistico delle
rappresentazioni tradizionali del reo e dei suoi «obblighi espiatòri». La
«nuova giustizia» secondo la Bibbia considera, rispetto al peccatore, ciò che
questi effettivamente può dare nel dialogo di riconciliazione.
[122-124] Due equivoci Un'interpretazione penalistica orientata al fondamentale
concetto biblico della riconciliazione deve essere attenta, nella prassi, a
due opposti pericoli: a) La iustitia cieca Sussiste da un lato la concezione classica - più
volte criticata - secondo cui - nella sfera giuridica si agirebbe in un ambito
con regole proprie, che potrebbero essere isolate dal Vangelo e dai suoi
effetti [...]. Si tratta di una separazione incompatibile con le affermazioni
bibliche sul significato della pena e della
giustizia.
b) Il «viaggio del Buon Samaritano» Dall'altro lato, un diritto della riconciliazione non
implica nemmeno che «I'amore debba o possa prendere il posto del diritto. Né
comporta, per il diritto, l'obbligo di rinunciare alla coercizione,
indispensabile per il suo realizzarsi» (Schweitzer). Costituirebbe un
fraintendimento fondamentale dell'idea biblica di riconciliazione e delle sue
conseguenze pratiche abbandonarsi ad un sentimentalismo lontano dalla realtà e
falsamente «caritativo» verso le «povere vittime della società», minimizzando
utopisticamente i fatti ed i rapporti duri e disilludenti tipici del fenomeno
criminale. Anche forme di aiuto cristianamente motivate hanno i loro rischi
specifici! Un'assistenza per sola «compassione», cieca di fronte alla citata
realtà criminologica e criminalpsicologica, risulta costantemente soggetta,
com'è dimostrabile, al pericolo di aggravare o perpetuare quegli stessi
problemi che vorrebbe allontanare e sopprimere (fenomeno di «controefficacia»
dell'intervento sociale ... ).
«Quarantena sociale» invece di
«galera»
Una prassi coerente di riconciliazione, sulla base
dell'esperienza dei rischi che caratterizzano lo stesso impegno assistenziale,
deve «affrontare» l'uomo (secondo la già delineata immagine biblica) in
termini realistici ed imparziali, considerandolo con serietà ed evitando un
nuovo «letto di Procuste» fatto di finzioni ed utopie
sociali. Compito di un atteggiamento cristiano di
riconciliazione, orientato in senso biblico, è il riscatto di un sistema
dell'esecuzione penale il cui principale effetto - stando all'esperienza
ininterrotta degli ultimi centocinquant'anni (cfr. Foucault) - è stato di
promuovere fra i condannati l'odio verso la società e le sue regole, I'apatia,
l'inettitudine. Si tratta di sostituire un male penale di tipo retributivo con
una «quarantena sociale», significativa sul piano socio-pedagogico, cioè di
una (pur tardiva) «de-carcerizzazione» della pena detentiva (in quanto
tipologia centrale dell'esecuzione). L'appello per un rinnovamento fondato sul principio
di riconciliazione del nostro modo di intendere la pena e la prassi
giudiziaria che ne deriva non è dunque espressione di un nuovo romanticismo
sociale, di un'«etica della condiscendenza» lontana dalla realtà, di
un'«indulgenza» mal compresa. Riconciliazione come fine della pena non
significa illusoria rinuncia alle sanzioni, né voler risolvere il problema con
un atteggiamento clemenziale a senso unico e disconoscendo la gravità
complessiva della questione criminale! E’ un antico equivoco della tradizione
cristiana il fatto che, utilizzando il termine «misericordia» in ambito
penale, si pensi subito a «rilassamento, debolezza,
indulgenza».
Idealismo senza
illusioni!
L'offerta cristiana di riconciliazione esprime
certamente uno slancio ideale riferibile alla prassi sanzionatoria. Ma deve
esclusivamente trattarsi di un «idealismo senza illusioni», che si ponga in
termini oggettivi l'interrogativo fondamentale sui metodi che consentano di
tradurre concretamente l'idea riconciliativa nell'esecuzione penale. Il
consolidarsi di una simile idea deve servirsi delle moderne acquisizioni della
pedagogia in ambito sociale e criminale, rispetto ai modi che consentano di
impedire o ridurre le condotte socialmente dannose, ma anche rispetto ai
criteri secondo cui possa realizzarsi l'incoraggiamento pedagogico verso le
condotte socialmente desiderabili (si tratta di chiedersi come promuovere le
seconde riducendo le prime). Proprio in questo necessario e razionale
consolidamento del concetto di riconciliazione, infatti, un ruolo cardine
dovrà essere svolto dall'utilizzazione consapevole e mirata dei principi
fondamentali della teoria dell'apprendimento riguardanti I'affermarsi di nuove
mentalità sociali e delle condotte corrispondenti (specie mediante la
definizione di atteggiamenti non violenti nei conflitti e nei rapporti
sociali, nelle lotte sindacali, nel tempo
libero. La fiducia finora ciecamente risposta nella capacità
della pena retributiva di incidere positivamente sui comportamenti dev'essere
rimossa alla luce della constatazione da tempo disponibile del fatto che
durezza e retribuzione (come senza limite attestano più di due secoli di pena
detentiva) restano di per sé sole inefficaci sul piano pedagogico («la durezza
non può che indurire»). L'abbandono di un tale retroterra richiede un
fondamentale atteggiamento di benevolenza verso il condannato,
un'indispensabile sintesi fra adeguatezza ed umanità del nostro aiuto ed una
consequenziale disponibilità alla
riconciliazione! Peraltro, l’elaborazione di un simile progetto sanzionatorio (e, se necessario, di «trattamento»), orientato in senso problematico ed individuale, deve altresì farsi carico di quelle questioni criminalpedagogiche estreme relative ai casi in cui - per la personalità e la «pericolosità sociale» dell'agente - non sia più conseguibile, in pratica, un'«educazione alla libertà». In questi casi, è chiaro, resta preminente il diritto fondamentale della collettività di difendersi da ulteriori delitti. Costanza e disponibilità L'idea di riconciliazione come base di un modo nuovo
di concepire la pena e la sua esecuzione rivendica razionalmente di poter per
la prima volta realizzare, mediante la sua verificabile efficacia pedagogica,
ciò che fino ad ora al condannato è stato semplicemente «richiesto»: riesame
del passato, mutamento personale, nuova condotta sociale. Sotto questo profilo
la critica teologica qui sostenuta rispetto al pensiero retributivo coincide
fino nei dettagli con la moderna critica criminologica: da chi mostri carenze
di socializzazione l’osservanza delle norme può ottenersi solo in un clima di
disponibilità nei suoi confronti e nell'ambito di un'esecuzione aperta
all'aiuto di tipo sociale, non certo con una tradizionale «esecuzione
desocializzante» (cfr. in proposito le considerazioni di fondo della pedagogia
sulla necessità assoluta di un «positivo clima di apertura» come presupposto di qualsiasi
processo educativo... ).
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