Carcere e società

 

Le ombre della società: il carcere

gian carlo caselli

 

 

Il Grillo, 30 gennaio 2001

 

Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Classico Aristofane di Roma

 

Studentessa: Benvenuti al Liceo Aristofane di Roma. Oggi parleremo del carcere e della pena col professor Gian Carlo Caselli, che ringraziamo per essere qui.
Cominciamo con l'introdurre l'argomento tramite una scheda filmata.

 

Detenuto: "Ho visto parecchio sangue in terra e attaccato ai muri, ho udito delle voci che gridavano: "Aiutateci".
Sembrava un inferno".

Commentatore: "Inferno".
È questa l'immagine che i mass media hanno utilizzato per descrivere le rivolte in carcere avvenute qualche mese fa. Cerchiamo di gettare lo sguardo oltre quelle sbarre per rimuovere il silenzio - o l'imbarazzo - che spesso esse innalzano, come se volessero celare le ombre della società che sono da rinchiudere e da dimenticare. Amnesty International e la Commissione Europea per la prevenzione della tortura hanno messo sotto accusa il nostro sistema carcerario.
Alcune cifre. I detenuti sono 54.000 su una capienza di 41.000 posti: 13.000 in più del dovuto. Gli extracomunitari sono 13.500 - il 35% del totale - e i tossicodipendenti 14.000; nel 1999 vi sono stati 59 casi di suicidio; innumerevoli i pestaggi, le vessazioni, l'omessa assistenza sanitaria. A fine pena molti detenuti risultano incattiviti dagli orrori della prigione, incapaci di lavorare e, dunque, predisposti a delinquere di nuovo.
Che fare di fronte a questa emergenza?
Alcune proposte sono pervenute dal mondo della politica e delle associazioni volontarie: istituire la figura di un Difensore Civico che tuteli i diritti dei detenuti; introdurre forme di custodia attenuata per i reati minori o per la tossicodipendenza al fine di evitare la promiscuità, che diventa una vera scuola di criminalità; introdurre maggiori opportunità di lavoro in carcere, prevedendo agevolazioni fiscali e incentivi per imprese e cooperative; costruire nuove carceri che non siano solo luoghi di angoscia, punizione ed oblio. Per tamponare il sovraffollamento carcerario e il ritardo dei processi è stata ipotizzata, com'è noto, anche l'amnistia. Ma è il senso stesso della punizione carceraria - soprattutto di quella a vita - a porre oggi dei difficili interrogativi, in special modo se - come prescrive l'Articolo 27 della Costituzione - le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

 

Studentessa: Nel trattare questo argomento ci siamo trovati divisi tra quelli di noi che vedevano nella pena carceraria una forma di punizione, quelli che la intendevano come un'autodifesa della società nei confronti degli individui più pericolosi e quelli che la concepivano ai fini esclusivamente rieducativi.
Qual è, in ultima analisi, il significato della pena e perché la società ha bisogno del carcere?

Caselli: Tra le diverse concezioni della pena da Lei riportate non sussiste un reale contrasto. A queste, però, aggiungerei la funzione di deterrenza: se sto pensando di commettere un reato, la paura della punizione - specie se pesante - potrebbe farmi cambiare idea. Tra le funzioni da Lei elencate, una in particolare viene indicata da un termine orribile: neutralizzazione. Definisco questa parola "orribile" perché non dobbiamo dimenticarci che si tratta di esseri umani, di individui che hanno sicuramente sbagliato ma che mantengono pur sempre una propria dignità e certi diritti: se non la pensassimo in questi termini non potremmo definirci uno Stato di diritto, quanto piuttosto un qualcosa di vago e di arretrato, diverso da ciò che vogliamo e dobbiamo essere. La neutralizzazione sta nell'impedire a chi ha commesso reati particolarmente gravi - e che in sentenza è stato considerato pericoloso - di tornare a delinquere: per un certo periodo di tempo l'individuo in questione deve essere "neutralizzato". Accanto a questa c'è la funzione rieducativa, che mira al recupero del condannato e al suo reinserimento nella società. Tali concezioni non sono antitetiche o incompatibili tra di loro. Se qualcuno commette un reato, l'espiazione della pena - nei termini previsti dalla legge - è la risposta della società al fine di soddisfare diverse esigenze. Il pericolo cui si va incontro è che la pena possa diventare un semplice sinonimo di segregazione, umiliazione, abbrutimento, scuola di insicurezza, disagio ed addirittura nuova delinquenza. Al contrario, tramite essa si deve anche tentare di recuperare una persona. Perché? Perché è scritto nella Costituzione; la rieducazione del condannato risulta combinata con tutte le altre ed è di speciale importanza per la sua difficoltà di realizzazione, anche se, statisticamente parlando, sembrerebbe meno rilevante. L'Articolo 27 recita proprio così: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Non bisogna dimenticare che per noi cittadini italiani la Costituzione è fondamentale, è la legge delle leggi cui tutti dobbiamo obbedire: abbiamo il dovere di crederci e di realizzarla, per lo meno finché non verrà mutata. Ma se pure l'Articolo 27 non suonasse così, uno Stato moderno entrato nel Terzo Millennio non potrebbe comunque concepire le carceri come delle segrete, delle galere, come una mera privazione della libertà nell'ambito stabilito dalla legge, ma dovrebbe intenderle anche come luogo di recupero. Ragionando in termini di utilità e convenienza, un carcere che sia soltanto umiliazione si trasformerà ben presto in scuola di delinquenza e di sempre nuova insicurezza; al contrario, tramite il recupero - quando ci si riesce - c'è l'opportunità di diminuire la recidiva, ossia il ritorno inesorabile a commettere sempre nuovi reati per l'impossibilità di uscire da questa spirale: riducendo la recidiva diminuiscono i reati e diminuendo i reati aumenta la sicurezza pubblica. Un carcere siffatto farebbe del bene non solo ai singoli detenuti, ma alla società nel suo complesso, grazie ad una maggiore tranquillità e una maggiore sicurezza. Com'è ovvio, tutto questo avverrebbe nel medio periodo e non immediatamente. Quello della sicurezza è il problema numero uno per gli italiani, una questione angosciante: un carcere che funzioni in un certo modo potrebbe soddisfare questa esigenza molto meglio di un carcere che venga inteso esclusivamente come luogo di segregazione e umiliazione. Il problema sta proprio nel creare un equilibrio tra le sue diverse funzioni.

 

Studentessa: L'Articolo 27 della Costituzione Italiana, riprendendo la lezione di Cesare Beccaria, afferma che la pena deve tendere sostanzialmente alla rieducazione e alla riabilitazione del condannato. Se la pena viene intesa in tal senso allora l'ergastolo - ovvero il carcere a vita - risulta essere anticostituzionale. Qual è il Suo parere in proposito?

Caselli: L'Articolo 27 dice che la pena deve tendere alla rieducazione e non dà per scontato che quest'ultima sia sempre possibile. Coloro che hanno scritto la Costituzione erano dei saggi e avevano ben presente i limiti delle possibilità umane: con il verbo "tendere" si vuol dire che il recupero è un obiettivo che deve sempre essere perseguito ma che non in tutti i casi verrà conseguito. Attualmente è uno scopo molto difficile da raggiungere in concreto perché, come abbiamo visto dalla scheda, nelle carceri italiane c'è un sovraffollamento di circa 15.000 presenze rispetto ai posti disponibili. Il Ministro Fassino parla di "posti branda" per dare un'idea delle esatte dimensioni del problema: con 15.000 posti in meno tutto diventa estremamente più difficile, perché insieme alla privazione della libertà emerge una pena accessoria non prescritta da alcuna legge, ossia quella di vivere in condizioni disagiate. Non bisogna inoltre dimenticare che in tali condizioni peggiora anche il lavoro della Polizia Penitenziaria. Nella scheda si è parlato di "innumerevoli casi di pestaggio" e in proposito vorrei fare delle precisazioni: vi sono stati casi di pestaggio, è vero, ma non così numerosi, e inoltre sono stati regolarmente denunciati all'autorità giudiziaria che sta indagando su di essi. Eventi del genere sono quindi oggetto di accertamenti e non si rivelano così sistematici. La questione delle 15.000 presenze in più, invece, ha conseguenze pesantissime: non permette la creazione di spazi per i laboratori di formazione professionale e di avviamento al lavoro, non permette l'istituzione di scuole e di tutte quelle attività che in gergo vengono chiamate di "trattamento", ossia di riabilitazione. Per tornare alla Sua domanda, non nego che l'ergastolo risulti apparentemente incompatibile con la rieducazione del condannato e, dunque, con il dettato costituzionale. Non bisogna però dimenticare che, nel relativo referendum, la maggioranza dei cittadini italiani si è espressa a favore dell'ergastolo, considerandolo ancora conveniente e utile. La questione si rivela molto minore rispetto alla sua portata concettuale - che Lei ha giustamente sottolineato - perché di fatto in Italia l'ergastolo è una pena "teorica": l'ergastolano che risponda a certi requisiti previsti dalla legge, infatti, non resterà in carcere fino alla fine dei suoi giorni.

 

Studentessa: Sembra però che l’ergastolo precluda a priori ogni tentativo di reinserimento e di riabilitazione del condannato, contravvenendo così al dettato costituzionale. A questo punto non converrebbe cambiare l’Articolo 27 e concepire la pena in maniera differente?

Caselli: Dalla Sua domanda emerge un’opinione autorevolissima e fortemente sostenuta. Al suo esatto opposto si situa un’altra opinione, la quale propone la possibilità anche per l’ergastolano di godere dei benefici previsti dalla legge: in questo caso la rieducazione starebbe proprio nella volontà del condannato di fare in modo di godere tali benefici e, in ultima analisi, di commutare l’ergastolo in una pena più breve.

 

Studentessa: Se le cose stessero così che senso avrebbe chiamarlo ancora "ergastolo"? A me pare che questo termine ci allontani parecchio da quelli che dovrebbero essere gli scopi del carcere italiano.

Caselli: Attualmente il mio mestiere è quello di Direttore dell'Amministrazione Penitenziaria: non sono un politico, né un sociologo, né un filosofo. Lei mi scuserà, quindi, se tutto quello che riesco a fare è semplicemente riportare le tesi contrapposte sull’argomento: non posso prendere delle posizioni precise – sebbene abbia delle mie idee – perché il ruolo non me lo consente. Posso solo dire che vi è una corrente assolutamente contraria all’ergastolo, ed un’altra che lo considera un deterrente efficace per quei comportamenti particolarmente pericolosi, sempre tenendo conto dei benefici per gli ergastolani previsti dalla legge e della funzione rieducativi che questi possono avere.

 

Studentessa: La scheda parlava della situazione allarmante delle carceri italiane. Ci troviamo sul serio di fronte ad un’emergenza?

Caselli: Si tratta sicuramente di un’emergenza, sebbene non riguardi solo il nostro paese ma anche l’Europa, se non addirittura il mondo intero. Restando in Italia, essa è data essenzialmente dal sovraffollamento dei nostri istituti di pena. Su una popolazione carceraria complessiva di 54.000 detenuti, 15.000 persone in più sono veramente molte: si rischia di far saltare l’intero sistema o, se non altro, di complicare le cose in maniera gravissima. Tale emergenza è aggravata dal fatto che molti penitenziari risalgono a qualche secolo fa. In proposito il ministro Fassino ha spesso parlato di "strutture fatiscenti": si tratta di costruzioni che cadono letteralmente a pezzi cui deve aggiungersi un sovraffollamento di 15.000 persone. C’è da aggiungere che il carcere andrebbe considerato una extrema ratio contro quelle forme specialmente gravi di violazione del Codice Penale, poste in essere da soggetti particolarmente pericolosi; negli altri casi la cultura penale moderna - nonché l'esperienza di molti paesi europei – tende a combinare il carcere con altre sanzioni, ossia le cosiddette "misure alternative" di cui così tanto si parla anche nel nostro paese. Sarebbe auspicabile – ma questa è la mia personale opinione - che tali misure si estendessero di molto, fino ad arrivare ai lavori cosiddetti "socialmente utili", capaci di responsabilizzare il soggetto e di recuperarlo inserendolo in maniera irreversibile in un percorso di ri-socializzazione, senza che resti abbandonato a se stesso. In proposito incombe un’altra emergenza: come si è già detto nella scheda, le carceri sono piene di tossicodipendenti - circa il 25% del totale - e di extracomunitari - quasi il 30% su scala nazionale, con punte del 60-70% nelle grandi città -. Si tratta di individui che hanno commesso dei reati in base alle leggi vigenti nel nostro Paese e che, essendo in attesa di giudizio o essendo stati riconosciuti colpevoli da una sentenza, devono legittimamente essere rinchiusi in carcere fino alla fine della condanna. Tenendo conto dell’altissima percentuale di questi particolari detenuti, però, è difficile non porsi la seguente domanda: il carcere è realmente la risposta giusta per quei soggetti che hanno sicuramente violato la legge ma che sono anche al centro di gravissimi problemi sociali? La tossicodipendenza e le migrazioni epocali che caratterizzano tutto il mondo in questa fase storica sono delle questioni che, non avendo delle soluzioni repentine e definitive, vengono puntualmente scaricate sul carcere. Quello dell'Amministrazione Penitenziaria è un compito estremamente difficile; non faccio questa affermazione solo perché ci lavoro - insieme a tante altre persone -, ma perché sono convinto di ciò che dico e credo che non sia difficile rendersene conto: si deve tentare di rieducare dei soggetti che hanno alle loro spalle un’intera storia di fallimenti. Si tratta di fallimenti della famiglia, della scuola, della società, a volte della chiesa, delle misure di prevenzione e di assistenza: sono persone che hanno fallito tante di quelle volte da finire in carcere. E a questo punto si chiede all'Amministrazione Penitenziaria di non fallire più, di riuscire a recuperarli. È facile capire che si rivela un compito estremamente complesso. Tuttavia questo è ciò che si deve fare e che è possibile fare, anche se nella situazione attuale – estremamente problematica – bisogna innanzitutto fronteggiare l’emergenza di cui sopra. C’è da aggiungere che la situazione non è del tutto negativa: ci sono degli elementi positivi molto forti e robusti che non si riducono a semplici speranze, ma che hanno una loro concretezza. Alcune decisioni già prese – ed uscite sulla Gazzetta Ufficiale – forniscono quegli strumenti che bisogna mettere in atto per far funzionare le cose: esse prevedono, ad esempio, che l'Amministrazione Penitenziaria potrà contare su circa 50.000 lavoratori tra uomini e donne; alcuni di essi – 45.000 – sono destinati alla polizia penitenziaria, i restanti 5.000 diverranno funzionari civili e amministrativi. In quest’ultima categoria vanno annoverati gli educatori e gli assistenti sociali, ossia coloro che istituzionalmente devono sforzarsi di più nei confronti del recupero dei detenuti, sebbene sia un compito spettante all’Amministrazione nel suo complesso. In questi ultimi giorni da 5.000 il loro numero si è innalzato a 7.000: è un aumento straordinario e non c'è altra amministrazione pubblica che possa affermare di averlo registrato con la stessa intensità. Con 2.000 persone in più rispetto al previsto si potranno operare degli sforzi maggiori sul versante del recupero, cercando quanto meno di governare quella che rimane un'emergenza. Altro gravissimo problema è dato dal fatto che sono pochissimi i detenuti a lavorare in carcere, mentre invece il lavoro – l’ha detto anche il papa, ma è cosa di tutta evidenza – risulta indispensabile per avviare percorsi concreti, effettivi e non illusori di recupero. Di recente in Parlamento è stata approvata all’unanimità – cosa quasi impossibile in questi tempi di fine legislatura - una legge che consente, grazie a sgravi fiscali per le cooperative e per i datori di lavoro, di avviare attività lavorative con i detenuti: tali attività non proseguiranno una volta recuperata la libertà, ma sono comunque modellate sulle esigenze di mercato, e mirano al reinserimento del detenuto nel luogo in cui tornerà quando uscirà dal carcere. Sono anche stati stanziati circa 1.000 miliardi per la costruzione di nuove carceri affinché quelle fatiscenti possano finalmente essere chiuse, e stiamo sperimentando circuiti differenziati un po’ ovunque al fine di evitare la convivenza tra i delinquenti cosiddetti "primari" – che finiscono in carcere per la prima volta - e i delinquenti incalliti o i mafiosi particolarmente pericolosi. In proposito a Bollate – alle porte di Milano – è stato costruito un carcere nuovissimo dove da pochi giorni è partita una sperimentazione di custodia attenuata - o a "trattamento intensificato" - che sono sicuro funzionerà e che potrà presto essere applicata ovunque possibile: in questo istituto di pena sono stati "concentrati" moltissimi psicologi, assistenti sociali, maestri d'arte e mestiere e maestri di scuola proprio per realizzare al massimo un percorso di recupero. Vorrei sottolineare che quando si parla di recupero non lo si fa solo per "riempirsi la bocca" come se si trattasse di qualcosa di utopico, utile a salvare la faccia - almeno in parte - ad un mestiere che infligge sofferenza attraverso la privazione della libertà: il carcere è ciò che viene chiesto dalla società ed è sicuramente un male, ma è un male "necessario", perché finora non è stata trovata una soluzione diversa da questa nell'evoluzione dei rapporti umani. Ciò non toglie che si possano cercare delle soluzioni in modo da temperare la sofferenza che deve essere inflitta, evitando di farla debordare in trattamenti disumani, contrari alla dignità della persona e ai suoi diritti. In carcere la legalità deve funzionare a doppio senso: il detenuto deve percepire la pena come qualcosa che va contro di lui in conseguenza del suo aver violato la legge, ma anche come qualcosa che mira a recuperarlo e reinserirlo. Nel suddetto carcere di Bollate sono già arrivati i primi detenuti e parte del personale specializzato per la sperimentazione di trattamento avanzato di cui ho parlato poc’anzi: la costruzione di questo carcere non ha costituto solo un primo passo per iniziare a decongestionare il sovraffollamento degli istituti di pena italiani, ma anche per prefigurare una detenzione che si risolva al contempo in uno sforzo concreto di recupero. Non si tratta di semplice utopia, ma di qualcosa di realizzabile. Alcuni esempi: a Torino c’è una sezione carceraria che si chiama "Arcobaleno", a Pisa "Prometeo", a Firenze il Solliccianino - un intero Istituto Penitenziario che in realtà è dedicato a Mario Gozzini, grande esperto di problemi carcerari che ha trasformato la legislazione del nostro regime penitenziale -, c'è una casa femminile ad Empoli, la "Terza Casa" a Rebibbia ed altre esperienze di questo tipo. Esse riguardano soprattutto i tossicodipendenti, e danno una dimostrazione concreta della possibilità di recupero. Al Solliccianino, ad esempio, c’è un’altissima percentuale di ragazzi – circa il 70% - che, dopo aver subito un trattamento modellato sulle esigenze specifiche della loro persona, sono riusciti ad uscire definitivamente dall'eroina e dalla spirale della recidiva e, avendo appreso quanto necessario in carcere, a trovare una sistemazione lavorativa in grado di portarli verso un irreversibile recupero.
Si può fare. È sicuramente un problema di uomini, di mezzi, di volontà, di fortuna e di tutta una serie di altre variabili, ma non è impossibile, non è un’utopia.

 

Studentessa: La situazione nelle carceri minorili presenta gli stessi problemi?

Caselli: In realtà ne so poco, perché le carceri minorili appartengono ad un'altra amministrazione; credo che sostanzialmente soffrano degli stessi problemi di sovraffollamento, anche se in misura minore perché il nostro sistema penale è congegnato in maniera tale da rinchiudere il minorenne in carcere solo quando non se ne può fare a meno.

 

Studentessa: Come si dovrebbe affrontare il problema della violenza nelle carceri? Come evitare che questa violenza incattivisca il condannato inducendolo a commettere ulteriori reati una volta uscito di prigione?

Caselli: La Sua è una domanda che tocca una questione importante e di difficile soluzione. Il carcere, ragazzi, è un'istituzione chiusa, e come tale genera problemi, tensioni e contrasti; è uno di quei luoghi in cui per legge – ma entro certi limiti – è previsto il cosiddetto "uso legittimo della forza". Questo non toglie che ogni volta che si ricorre alla forza ciò generi un trauma sia in chi deve farne uso – gli agenti della polizia penitenziaria -, sia, ovviamente, in chi la subisce. Anche di questo si deve parlare, perché omettere una cosa del genere significherebbe dimenticare la realtà del carcere e renderebbe difficile la repressione e la prevenzione dei casi di violenza gratuita, quegli abusi che sono da condannare in ogni caso e che non sono assolutamente tollerabili da alcun paese civile nei confronti di nessuno, tanto meno verso quei soggetti che risultano più deboli perché privati della libertà e perché completamente in mano dello Stato. In proposito si sono verificati degli episodi che sono anche divenuti oggetto di cronaca, come il caso di Sassari del maggio scorso e altre denunce successivamente presentate. Torno a ripetere che si tratta di casi oggetto di accertamento, gravi ed assolutamente non scusabili. Ritengo anche, però, che si tratti di eventi isolati e che la grandissima maggioranza dei lavoratori della polizia penitenziaria sia composta da uomini e donne che quotidianamente compiono dei grandissimi sforzi, andando addirittura oltre i loro compiti istituzionali: si improvvisano infermieri ed assistenti, cercano di lavorare davvero bene e stando all'interno di questi meccanismi lo si può avvertire ma, come in tutte le grandi famiglie, ci sono delle cose che non vanno. Quando ci si accorge di questi episodi si cerca di intervenire proprio per evitare che accadano degli abusi - gli abusi di cui Lei parlava nella domanda - che possono essere controproducenti nei confronti di coloro che sono rinchiusi in carcere e che devono "assaggiare" la legge sulla propria pelle. Se si diventa vittime di soprusi il recupero diventa ancora più difficile perché si è doppiamente condannati: condannati ad espiare la pena e condannati a subire una recrudescenza sempre maggiore.

 

Studentessa: In precedenza ha parlato del problema della tossicodipendenza in carcere e del fatto che da questa spirale si può effettivamente uscire. Lei crede che la depenalizzazione sia possibile?

Caselli: Ci sono tossicodipendenti che hanno commesso dei reati particolarmente gravi e per questa categoria è proprio la gravità del reato la prima considerazione da fare. La maggior parte dei restanti, però, ha commesso reati decisamente di minore entità. Per questi soggetti la linea che l'Amministrazione sostiene - insieme al Ministro - è quella della decarcerizzazione, ovvero si tende a far scontare loro una pena che non coincida con il carcere ma con delle misure alternative quali, ad esempio, l'affidamento ai SERTE - strutture della Sanità Pubblica che si occupano di tossicodipendenti -, ai servizi Sociali o alle Comunità, in modo che possano essere seguiti nel loro percorso di recupero. È una strada praticabile che ridurrebbe in maniera incisiva il danno e che agirebbe produttivamente nell'interesse dei singoli e della collettività. Per ciò che concerne la depenalizzazione, c'è da dire che la questione presenta tre alternative: c'è chi sostiene la via della "legalizzazione", chi propende per la "depenalizzazione" vera e propria e chi è favorevole alla "decarcerizzazione". Su questi diversi modi di intendere la depenalizzazione si sono create delle scuole contrapposte che a volte sfociano in gravi rotture ideologiche: alcuni non ne vogliono neanche sentire parlare, altri la indicano invece come la strada più adatta e al riguardo presentano come "prove" le esperienze positive di differenti paesi, esperienze che dai primi non vengono considerate tali. Personalmente confesso di non avere idee molto precise al riguardo, se non la seguente: nessuno può pretendere di avere delle soluzioni valide per tutti. Bisogna cercare di intrecciare i diversi saperi e le diverse esperienze nazionali e internazionali e, dopo averne discusso, tentare una qualche sperimentazione nuova, perché obiettivamente oggi come oggi le cose non funzionano. Se le carceri sono piene di 14.000 tossicodipendenti, infatti, ciò vuol dire che le risposte fin qui praticate non hanno prodotto i migliori risultati. Può anche darsi che non si riesca ad escogitare nulla di meglio, ma guai ad escludere aprioristicamente questa possibilità, soprattutto sulla base di concezioni ideologiche. Bisogna ragionarne insieme "laicamente" - come si suol dire - tenendo conto di tutto ciò che può essere acquisito a livello di esperienza e di sapere.

 

Studentessa: Amnesty International ha condannato le carceri italiane per il sovraffollamento, il degrado, la promiscuità e gli abusi che le caratterizzano. In base alla Sua esperienza diretta crede che queste accuse siano fondate?

Caselli: Del sovraffollamento abbiamo già parlato abbastanza: si tratta di una situazione che a ragione deve essere denunciata. Amnesty International è un'organizzazione benemerita perché l'attenzione verso il rispetto dei diritti umani e civili, in qualunque parte del mondo, è un dovere fondamentale. Ciò significa che tutte le sue dichiarazioni risultano utili al fine di migliorare e rettificare - per quanto possibile - lo stato delle cose. La questione del sovraffollamento, però, non dipende dall'Amministrazione Penitenziaria quanto piuttosto del Parlamento e dalle leggi qui promulgate; punire o non punire un determinato comportamento, concedere o non concedere l'amnistia o l'indulto, condannare o assolvere sono questioni che dipendono invece dai magistrati che giudicano; infine è la Magistratura di Sorveglianza che decide se applicare o non applicare i benefici della Legge Gozzini, ossia quelli concernenti i permessi, la libertà anticipata, l'affidamento in prova al Servizio Sociale e così via. L'Amministrazione Penitenziaria si ritrova ad essere un oggetto passivo del sovraffollamento: non può far altro che registrare come vera la denuncia di Amnesty International e fare quanto possibile per tentare un decongestionamento, sebbene i suoi strumenti siano ridotti. A ciò si deve aggiungere che le statistiche dicono ben poco, perché basta un semplice particolare che non funziona a pregiudicare il complesso. Stabilito che i numeri non sono tutto, bisogna riconoscere che la situazione nelle nostre carceri è una situazione di emergenza, sebbene non sia la peggiore in assoluto: in Europa c'è di meglio ma c'è anche di molto peggio. Nella scheda si è parlato dei casi di suicidio: sono parecchi, anche se ne basterebbe uno solo per registrare il fallimento. Fermo restante quest'ultima affermazione, c'è comunque da riconoscere che l'Italia non è al primo posto per i casi di suicidio in carcere: eventi del genere sono leggermente diminuiti nonostante la popolazione carceraria abbia subito un'impennata negli ultimi anni. Ripeto: mi vergogno di parlare in termini numeri verso drammi come questi, ma bisogna comprendere bene la situazione.

 

Studentessa: Ritengo che nella nostra società ci si preoccupi più del problema dei carcerati che non della sicurezza dei cittadini. Il carcere è nato come un'istituzione atta proteggere la società dai soggetti ritenuti pericolosi: come è possibile che alcuni detenuti riescano ad ottenere la libertà prima di aver scontato tutta la pena?

Caselli: E' molto diffusa l'opinione secondo cui il sistema carcerario si preoccupa dei carcerati e non della sicurezza. Al riguardo credo sia opportuno ripetere delle cose dette in precedenza: un carcere che si riduca a mera segregazione umiliante e annullamento dei diritti è un carcere che fabbrica ulteriore delinquenza e ulteriore insicurezza. Al contrario, un sistema carcerario che cerchi di recuperare i detenuti può diminuire i reati ed aumentare la sicurezza. Non esiste incompatibilità fra il reinserimento dei condannati e la difesa dei cittadini: se si rispettano i diritti dei carcerati e si tenta di recuperare questi soggetti per reinserirli nella società, allora si fa del bene alla stessa. E' molto difficile riuscirci, ma è nell'interesse di tutti: occuparsi della sicurezza collettiva significa anche far funzionare il sistema penale e combinare il carcere con le misure alternative in una particolare maniera. Queste affermazioni potrebbero sembrare poco convincenti, specialmente quando si viene a conoscenza del fatto che un detenuto ha commesso reato non appena ottenuta la libertà anticipata: basta un solo caso del genere per demotivare, preoccupare, indignare e scandalizzare l'opinione pubblica. Però dobbiamo anche sforzarci di vedere le cose da un altro punto di vista. I detenuti affidati in prova al Servizio Sociale - ossia quelli che scontano tutta o parte della pena al di fuori del carcere - sono circa 30.000: di questi solo il 4% si vede revocato tale beneficio, e di questo 4% solo l'1% perché ha commesso nuovi reati. Non bisogna certamente dimenticare che esiste anche il sommerso, ossia tutti i casi di cui non si viene a conoscenza, ma anche tenendo conto di ciò che non si scopre la percentuale di coloro che tornano a delinquere dopo aver ottenuto permessi o libertà anticipata risulta comunque bassa. Il carcere è a tutt'oggi l'unica risposta conosciuta per arginare la delinquenza peggiore e difendere la sicurezza, ma il carcere deve anche essere combinato con una serie di sanzioni alternative che aiutino a recuperare molti soggetti in modo conveniente per la società, ad esempio attraverso il lavoro.

 

Studentessa: Nelle carceri italiane sono presenti degli spazi in cui carcerati possono vedere le loro famiglie e continuare ad avere dei rapporti con i propri cari?

Caselli: In tutte le carceri italiane esistono dei luoghi destinati ai colloqui; tali colloqui seguono una cadenza periodica stabilita dalla legge, prevedono delle differenziazioni tra i detenuti in attesa di giudizio e quelli che hanno subito una condanna definitiva e possono avvenire non solo con i familiari, ma con chiunque voglia far visita ai carcerati. In proposito è stato redatto un nuovo regolamento che prevede delle modifiche favorevoli per i detenuti: mentre prima i colloqui si svolgevano con dei divisori che rendevano molto difficile anche una carezza o una stretta di mano, il nuovo regolamento di vita penitenziaria vuole che in regime di sicurezza i colloqui avvengano in una maniera più libera da tali sbarramenti fisici. Questo è uno dei risultati che la Riforma del cosiddetto Ordinamento Penitenziario ha conseguito e che col passare del tempo andrà sempre più a regime.

 

Studente: In precedenza ha affermato che lo Stato sta stanziando dei fondi per la costruzione di nuove carceri. In quale direzione si sta muovendo il Governo, tenendo conto anche di quanto è successo a Sassari? Sta provvedendo a costruire delle carceri totalmente isolate - in modo da rendere difficoltoso il contatto con l'esterno - oppure le sta progettando nelle vicinanze di centri urbani?

Caselli: Il problema si può riassumere nella domanda: che tipo di carcere costruire? Vi è una corrente assolutamente contraria alla costruzione di ulteriori penitenziari perché del parere che non si possa carcerizzare tutto il territorio per tentare di risolvere ogni problema di carattere sociale; si tratta di una "scuola di pensiero" molto forte, ma io non sono della stessa idea: se attualmente registriamo un sovraffollamento di 15.000 presenze e se questo sovraffollamento è destinato a restare tale per un po' di tempo, allora sarebbe bene costruire nuove carceri e chiudere quelle vecchie affinché si possa lavorare meglio e con spazi migliori. Le carceri nuove - l'ha detto anche la scheda - dovrebbero essere concepite in riferimento alle esigenze di un paese moderno - ossia sicurezza e recupero - e sarebbe meglio se venissero collegate ai centri urbani, sempre che questo sia logisticamente possibile. Il carcere è per definizione un luogo separato, non solo per via delle sbarre, dei muri e dei cancelli, ma anche a causa di una sorta di "rimozione culturale". La stragrande maggioranza di noi cittadini non vuole neppure sentirne parlare, e se ce ne occupiamo è prevalentemente in termini accusatori: le persone stanno in carcere perché hanno sbagliato, se volevano evitare la reclusione potevano anche pensarci prima, sarebbe meglio buttare la chiave delle loro celle e così via. A volte pare si seguano delle logiche di carattere vendicativo. In realtà un carcere che non coincida con la totale separazione dal resto della società, un carcere che grazie agli Enti Locali e ai moltissimi volontari sia laici che religiosi si preoccupi di inserire i detenuti in un contesto lavorativo - grazie al rapporto con l'imprenditoria e i sindacati - affinché possano recuperare la libertà, è in grado di creare le migliori condizioni per un reinserimento dei carcerati, per un miglioramento delle carceri e per una ricaduta in positivo sulla società. Al contrario, i penitenziari rifiutati aprioristicamente dai cittadini e costruiti in posti isolati - in luoghi lontani da qualsiasi rapporto fisico e non fisico con la società - sono destinati a fabbricare nuova delinquenza. Com'è ovvio bisognerebbe integrare le cose, nei limiti del possibile. Da pochissimo tempo è uscito il primo numero di una rivista dell'Amministrazione Penitenziaria dal titolo "Le due città": non è stato facile realizzarla ma alla fine ci siamo riusciti. L'abbiamo chiamata in questo modo perché il carcere può essere visto come una città diversa dalla città al di fuori delle sue mura: ciò non significa che questa diversità si debba risolvere in una contrapposizione, quanto piuttosto in una sovrapposizione e in un'integrazione.

 

Studentessa: Alcuni politici e alcune associazioni di volontariato hanno avviato delle proposte concrete per potenziare le misure alternative alla detenzione. Quali sono queste misure e in quali casi vengono previste?

Caselli: Il sistema penale si regge sul Codice Penale e sul Codice di Procedura Penale. Il primo stabilisce quali comportamenti che costituiscono reato devono essere puniti se posti in essere, mentre il secondo disciplina il processo e le procedure da attuare per accertare la responsabilità di un soggetto e condannarlo. Il nostro attuale sistema penale è vecchio più di cinquant'anni e si rivela davvero superato. Oltretutto la nostra è un'epoca in cui le cose cambiano così vorticosamente da trasformare questi 50 anni in 150. In proposito è stata istituita una Commissione di Riforma del Codice Penale - presieduta dal professor Carlo Federico Grosso - che ha delineato una trasformazione approvata e condivisa da tutti i gruppi politici. In essa il carcere è visto come l'extrema ratio di cui ho parlato in precedenza e viene riservato ai comportamenti più gravi e ai soggetti più pericolosi; per tutti gli altri possono essere attuate delle misure alternative quali, ad esempio, pulire i parchi, raccogliere le siringhe, distribuire volantini davanti ad una discoteca il sabato sera o fare lavori socialmente utili di raccolta differenziata dei rifiuti urbani: sono già in molti i detenuti a portare avanti delle attività di questo tipo esternamente al carcere. In tal modo possono essere definitivamente reintegrati, e la società - vedendoli lavorare quotidianamente sulle strade - può cominciare ad accettarli. Molto spesso si ragiona in questi termini: il carcere è brutto e il "non-carcere" è meno brutto, quindi si deve allargare il "non-carcere" quanto più possibile. Tale modo di pensare è scorretto, perché il "non-carcere" si risolve in un totale abbandono del detenuto a se stesso se non risulta accompagnato da un qualche tipo di sostegno. Il detenuto che si ritrovi senza lavoro, senza casa e - nel caso sia extracomunitario - senza famiglia, finisce per essere travolto dalla spirale della recidiva e torna quasi sempre a fare scelte di devianza o di criminalità, aumentano in tal modo l'insicurezza. Se, al contrario, il carcere viene accompagnato da meccanismi di controllo, di responsabilizzazione, di avvicinamento alle vittime, di risarcimento del danno e di lavoro socialmente utile, allora il percorso non sarà più effimero e provvisorio, ma si trasformerà in qualcosa di solido e profondo.

 

Studentessa: Quali sono i Suoi poteri effettivi all'interno dell'Amministrazione Penitenziaria e come può intervenire sui problemi concreti inerenti al carcere?

Caselli: I miei poteri effettivi sono tanti e pochi allo stesso tempo. Per quanto riguarda il sovraffollamento non possiamo fare granché, tranne governarlo con forme di custodia differenziate in modo da decongestionare le carceri e sperimentare nuovi modelli di penitenziario; possiamo inoltre far conoscere le nostre esigenze al potere politico affinché questo intervenga tramite nuovi stanziamenti, aumento di personale e così via - come già si sta facendo -; possiamo infine organizzare una formazione del personale che risulti al passo con i tempi. Il carcere, infatti, è assai cambiato: 15.000 tossicodipendenti e 14.000 extracomunitari hanno dato vita ad un carcere geneticamente diverso rispetto al passato, e il nostro personale deve essere preparato ai nuovi compiti. Spesso si creano dei problemi di comunicazione con gli stranieri: quel che a noi può sembrare un gesto normalissimo, come il darsi la mano, al detenuto di un'altra cultura può risultare contrario alla propria religione. Un altro compito a cui dobbiamo assolvere è convincere l'opinione pubblica che il carcere non è una spesa passiva, che non si tratta semplicemente di rinchiudere i detenuti senza avere in cambio nessun prodotto misurabile in termini di convenienza. Torno a ripetere che un sistema penale che funzioni recuperando i carcerati realizza un prodotto di primaria importanza: quella sicurezza che tanto ci angoscia e che, secondo certi studiosi, ci preoccupa addirittura più del dovuto.

 

Studentessa: Per concludere vorrei porLe una domanda un po' personale, se permette. Per molti anni ha fatto il magistrato: preferisce la sua attuale professione o Le piacerebbe tornare in magistratura?

Caselli: Ho fatto il magistrato per trent'anni, di cui dieci da giudice istruttore: a Torino mi sono occupato quasi sempre di terrorismo e a Palermo mi sono occupato di mafia in qualità di Procuratore della Repubblica. Il mio mestiere è quello di magistrato e a questa professione sono molto legato, anche perché per parecchio tempo ha costituito la mia vita, nel bene e nel male. Alcune persone hanno giudicato le mie scelte più sbagliate che giuste e per loro sono stato un magistrato "famigerato". Contesto questa opinione perché sono una persona presuntuosa: credo d'aver fatto sempre il mio dovere, rischiando non poco insieme a tanti altri colleghi. Adesso faccio un mestiere che mi interessa molto, ma se in futuro mi si dovessero fare delle offerte più significative non è escluso che le accetterei. Nel mio attuale mestiere ci sono molte cose da fare, progetti che abbiamo cercato di realizzare costituendo una squadra, ed è assai importante che questa squadra continui ad andare avanti.

 

 

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