Etica, diritto e politica

 

Legalità tra etica, diritto e politica  

di Francesco Saverio Borrelli

 

"Ci sarebbe forse possibile vivere, se fosse corrotta quella parte di noi che viene tur­bata dall'ingiustizia, mentre dalle cose giuste riceve giovamento? È giusto o ingiusto che si cerchi di evadere pagando e ringraziando coloro che ci aiuteranno a farlo? Se ci sembra giusto, proviamoci; altrimenti, se ci apparirà chiaro che di un'azione ingiusta si tratta, non preoccupiamoci di dover morire o di subire qualsiasi altra pena, restiamo con tranquillità al nostro posto e diamoci pensiero, piuttosto, di non commettere ingiustizia. E se commettere ingiustizia è, per chi lo fa, cosa né buona né bella, noi non dobbiamo nemmeno ricambiare le ingiustizie, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi. A condividere queste opinioni sono e sempre saranno in pochi, e fra chi la pensa così e chi no, non è possibile comunità d'intenti. Ma può so­pravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui si fa quanto è possibile per distruggere le leggi, una città in cui le sentenze non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?».

    Nel celeberrimo dialogo di Platone, il Critone, da cui sono estratti i passi appena citati, Socrate respinge l'insistente proposta del discepolo Critone, che vorrebbe farlo fuggire dalla prigione e da Atene con l'aiuto di amici fedeli e generosi che hanno raccolto il denaro necessario per corrompere il carceriere. In quelle proposizioni, in quegli interrogativi, e in generale negli scenari dialettici dell'intero dialogo - la cui rilettura, in tempi di pensiero debole, ma soprattutto di morale debole, non si raccomanderà mai abbastanza - è possibile cogliere il riferimento, diretto o indiretto, a tutti gli aspetti del tema enunciato nel titolo: la legalità intesa come osservanza delle leggi della città; l'etica, come norma dell'agire individuale posta dalla ragione e dalla coscienza; la giustizia, come riverbero dell'etica ma anche come applicazione della legge da parte dei giudici; la politica, intesa come governo della città in base a un patto - folgorante anticipazione illuministica - che i cittadini non possono disconoscere a proprio piacimento senza minare il fondamento stesso della loro vita associata.

    Mi accingo a proporre un modesto contributo di riflessione sulle tematiche alte della giustizia, in un momento caratterizzato da polemiche non sempre disinteressate, da disinformazione, da disorientamento dell'opinione pubblica, e chiarezza vorrebbe che anzitutto si tentassero definizioni almeno provvisorie di ciascuno dei termini enunciati. Senonché ci accorgeremo ben presto come essi facciano parte di una sorta di struttura a geometria variabile, non tanto per la multifunzione lessicale di alcuni, quanto per la diversità delle prospettive culturali, storicamente e/o ideologicamente condizionate, da cui possono trarre luce, e per i nessi di rimando reciproco dall'uno all'altro.

1. Il senso della legalità

    Di legalità si parla in senso oggettivo, per indicare il principio di organizzazione dei moderni ordinamenti giuridici, basato su un corpo precostituito di norme generali e astratte destinate a vincolare più o meno strettamente le stesse istituzioni, oltre che i cittadini e i rapporti tra loro. In accezione più specifica, nel diritto penale il principio di legalità, accolto nell'art. 25 della Costituzione italiana e negli artt. 1 e 2 del Codice penale, vieta che qualcuno possa esser punito per un fatto che non sia previsto come punibile in virtù di norma anteriormente entrata in vigore (irretroattività della legge penale). Suo corollario è il principio di tassatività, che impone la formulazione delle fattispecie legali, o figure di reato, mediante descrizioni analizzabili con un numero finito di operazioni mentali, e che, correlativamente, inibisce la creazione di nuove fattispecie criminose da parte della giurisprudenza. Sempre sul piano dell'oggettività, la connotazione positiva o negativa di legalità sta a indicare, come predicato, la relazione di compatibilità o contrasto di determinati atti o fatti o persino iniziative istituzionali con i modelli normativi vigenti ai vari livelli dell'ordinamento.

    Se ci poniamo dal lato dei soggetti dell'ordinamento, la legalità indica il momento anche psicologico del sottostare spontaneamente alla legge: una sottomissione che può scaturire da abitudine contratta passivamente, da disciplina di servizio, da inclinazione al quieto vivere, da timore delle sanzioni giuridiche o sociali, da autocompiacimento nel contemplarsi come cittadino esemplare, da adesione cosciente al dettato normativo per calcolo di convenienza individuale, da credenza nella legalità come valore imprescindibile in una collettività organizzata, da condivisione sul piano morale della regola di comportamento dettata dal legislatore, da convinzione - infine - eticamente radicata circa il dovere di rispettare i precetti provenienti dall'autorità costituita.

    Dal punto di vista del valore, non v'è dubbio che il rispetto della legalità sia fattore, indice e conseguenza ad un tempo del coefficiente di coesione nelle formazioni sociali. La morale di sostegno dell'ordinamento, di ogni ordinamento, ne rappresenta un collante indispensabile alla sopravvivenza, perché, se è vero che esistono istituzioni preposte al controllo della legalità e all'attuazione anche coattiva della legge, la possibilità di coercizione incontra dei limiti, nel senso che decresce in misura proporzionale, forse più che proporzionale, all'incremento statistico di diffusione delle violazioni, fino a scendere in prossimità del livello zero quando lo scostamento dalle norme sia generalizzato. In altri termini, ogni punto percentuale d'incremento nella diffusione della devianza dovrebbe fronteggiarsi in ipotesi con un aumento proporzionale, o più che proporzionale, delle risorse destinate al ripristino della legalità. Ma è evidente che proprio il tasso di diffusione dell'illegalità costituisce un limite nella reperibilità delle risorse umane - e culturali - da destinare alla lotta contro la devianza. Per dirla brutalmente: in una collettività di banditi sarà pressoché impossibile trovare poliziotti e magistrati che affidabilmente gestiscano la legalità ufficiale, piuttosto che la controlegalità banditesca.

    La legalità è dunque un valore al quale il cittadino deve essere educato perché il suo rispetto è fattore di conservazione dell'ordine sociale, baluardo delle libertà democratiche, difesa contro l'arbitrarietà, scudo dell'eguaglianza di tutti, ricchi e poveri, forti e deboli, nei confronti dei poteri reali, o, com'è stato detto, «potere dei senza potere»; è garanzia della prevedibilità dei comportamenti nostri e altrui, dunque elemento di sicurezza e affidabilità reciproca nelle relazioni intersoggettive; e, nelle democrazie aperte al rinnovamento, anche fattore di emersione delle obsolescenze, delle irrazionalità, delle contraddizioni o inadeguatezze dell'assetto esistente e dunque stimolo indiretto al progresso istituzionale, normativo, economico. Ma la legalità è un valore, per così dire, climatico al quale lo stesso comportamento delle istituzioni e dei pubblici uffici deve ispirarsi nella quotidianità. Francesco Bacone (+1626), nel saggio Della Grandezza (Of Great Place), individuò i quattro difetti dell'autorità come «lentezza, villania, debolezza, corruzione». Sono passati quasi quattro secoli, e in tutti i Paesi occidentali, negli ultimi anni anche da noi, leggi e provvedimenti amministrativi si sono succeduti per portare nelle prassi delle pubbliche amministrazioni una maggior trasparenza e un atteggiamento di più attenta considerazione degli interessi del cittadino. Si pensi alle leggi sulla semplificazione delle procedure amministrative, sul diritto di accesso, sulla tutela della riservatezza, sui diritti fondamentali del contribuente. Molti passi avanti, dunque, ma solo un inguaribile ottimista potrebbe dire che, di quei difetti, il nostro Paese si sia emendato.

2. Rapporto tra diritto ed etica: giusnaturalismo o giuspositivismo?

    Se la legalità, come rispetto dell'ordine esistente, è un valore, si può accettare senza incertezze e senza residui una sorta di equazione tra legalità e giustizia, o addirittura, su un terreno più avanzato, tra legalità ed etica? Qui il discorso si complica. Da un punto di vista piattamente operativo e realistico, giustizia significa né più né meno che attuazione del diritto vigente, spontanea, ovvero ottenuta attraverso i meccanismi dichiarativi e coercitivi della giurisdizione: ma il diritto vigente e la sua applicazione puntuale conseguono sempre risultati rispondenti al senso profondo di giustizia che ciascuno di noi porta in sé come proiezione di un ideale interiore di dignità umana, di equilibrata distribuzione dei beni materiali e spirituali della vita, di saggia e razionale composizione dei conflitti, di tutela efficace delle persone e delle cose? E se così non è, possiamo contestare la validità del diritto vigente e rifiutare di conformarci ad esso?

    Sul problema del rapporto tra legalità e giustizia astratta, tra nomos (legge) e dike (giustizia), le posizioni teoriche sono fondamentalmente due: 1) il giusnaturalismo, che movendo dal presupposto dell'esistenza di norme razionali, universalmente valide, anteriori a ogni norma giuridica positiva, condiziona l'obbligatorietà e quindi l'intrinseca validità della legge alla sua conformità a tali norme, sicché in altri termini la legge è tale solo se eticamente giusta (Verbindungsthese, nella terminologia tedesca, cioè tesi del collegamento diritto/morale); 2) il giuspositivismo, che contestando che la giustizia sia un reperto di natura, ossia un criterio desumibile dalla mera osservazione dell'umanità e del mondo, sostiene che legge e morale si pongono su piani distinti (Trennungsthese, tesi della separatezza), e che il diritto è tale ed è vincolante a prescindere dalla sua eticità.

    La contrapposizione tra i due orientamenti non è puramente teorica e può avere rilevanti ricadute pragmatiche. Mi riferisco alle questioni dibattute sia al processo di Norimberga sia, successivamente, davanti ai tribunali ordinari della Repubblica Federale Tedesca, per stabilire se appartenenti alla Wehrmacht fossero giuridicamente tenuti, o meno, a obbedire agli ordini dei superiori contrastanti con i diritti umani. Mi riferisco, più in generale, alla teorizzazione del diritto di resistenza, come opposizione contro le lesioni o le minacce ai di­ritti fondamentali arrecate con atti, con provvedimenti, con leggi formalmente in vigore: e alludo non tanto alla resistenza predicata nel medioevo da ecclesiastici come Manegoldo di Lautenbach (+ 1119) o Giovanni di Salisbury (+ 1180), che si dirigeva contro il sovrano, quanto a quella singolare formulazione del diritto di resistenza che si rinviene nell'art. 35 della Costituzione francese del giugno 1793 («di fronte alle ingiustizie e all'oppressione l'insurrezione è per il popolo, e per ogni parte del popolo, il più sacrosanto dei diritti e il più inderogabile dei doveri»), che si ritrova in alcune Costituzioni di Laender tedeschi, ma anche a certi atteggiamenti di disobbedienza civile o di ostruzionismo che qua e là emergono nella vita contemporanea come manifestazioni di obiezione di coscienza. Accenno di passaggio all'opinione di chi ha intravisto nella menzione dei «diritti inviolabili dell'uomo», contenuta nell'art. 2 della nostra Costituzione, un embrionale riconoscimento del diritto di resistenza. Sono decisamente scettico, forse perché condizionato dal mio passato di operatore della legge, circa la possibilità logica di configurare la resistenza contro l'ordine costituito come diritto soggettivo riconoscibile da norme giuridiche, giacché l'ordine costituito rappresenta un sistema chiuso che può prevedere, e normalmente prevede, meccanismi di correzione dall'interno, ma non può, per la contraddizione che non lo consente, conferire patente di legittimità alla ribellione attuata da un proprio appartenente che voglia dargli scacco matto.

    Ma, al di là della constatazione che ogni ordinamento, democratico o autocratico che sia, si autoqualifica «giusto», ritengo che concettualmente non sia corretto condizionare il riconoscimento di validità, sul piano giuridico, del diritto positivo al parametro della conformità a un modello pretesamente naturale di giustizia o di eticità anziché al realistico parametro dell'effettività. La natura, ahimé, nel mondo dei viventi non ci mostra modelli di giustizia o di eticità, ma solo di forza, e quelli che noi adottiamo come espressivi di valore sono proiezioni, talvolta nobilissime, della nostra cultura, dunque modelli storicamente e ideologicamente condizionati, dunque relativi a punti di vista più o meno condivisi, mai categorici e definitivi. So bene che questo discorso solleva serie obiezioni da parte di chi aderisce alla filosofia del diritto naturale. Ma, laicamente, non posso ignorare il disordine sociale che si creerebbe lasciando penetrare nell'ordinamento criteri assiologici ad esso estranei o con esso contrastanti, come convinzioni religiose sulla cui valenza uno Stato, appunto, laico non può esprimere disponibilità differenziate, o filosofiche, costumanze di clan o di etnia, finalismi politici di vario genere, privilegi di casta o di consacrazione popolare, criteri pragmatici di particolari subculture, magari tradizioni gentilizie, e così via, soprattutto in presenza di realtà geopolitiche di convivenza multietnica e multiculturale, entro le quali legittimare l'esenzione dal rispetto di questa o quella norma giuridica creerebbe un contesto di confusione e incertezza.

    L'ordinamento giuridico ha dunque carattere eminentemente autoreferenziale, nel senso che esso, e soltanto esso, può dettare i criteri per riconoscere giuridicità ai rapporti interpersonali, ai diritti, ai doveri. Ma attenzione: questo non significa che la concezione legalistica del positivismo giuridico e la credenza nel primato della legge debbano tradursi eticamente sempre e comunque in un atteggiamento di passiva rassegnazione alla gabbia di ferro della parola del legislatore. Non credo, ho detto, alla resistenza come diritto soggettivo riconosciuto dall'ordinamento (perché allora dovrebbe esistere anche il diritto soggettivo di opporsi alla resistenza e l'enunciato sarebbe intrinsecamente contraddittorio, per l'affermazione simultanea di due diritti uguali e contrari, come abbiamo visto); ma credo che esista talvolta - non sembri paradossale - un dovere morale nascente da un'esigenza categorica che può dar luogo alla resistenza contro l'autorità come fatto di rottura, come atto di ribellione o addirittura di rivoluzione, che nel tempo si legittimerà retroattivamente, se e quando avrà aperto una falla nel sistema o magari l'avrà travolto instaurando un nuove ordine settoriale o generale. Si tratta ovviamente di ipotesi-limite, di situazioni nelle quali non per spunti episodici e occasionali, ma per profondo, insanabile essenziale contrasto tra l'ordinamento e la coscienza morale non vi sia e non possa più esservi compatibilità tra ciò che la legge pretende e ciò che la voce perentoria del foro interiore reclama come giusto; situazioni nelle quali non l'opinione del singolo o del gruppo, non la predicazione di un'ideologia o di un programma politico, bensì la somma dei valori forti, riassuntivi delle acquisizioni secolari e millenarie faticosamente assicurate dal procedere della civiliz­zazione, renda assolutamente intollerabile e non altrimenti rimediabile il conflitto tra l'ordine esistente e la dignità della persona umana.

    Non è difficile trovare nella storia del «secolo breve» da poco conclusosi esempi concreti di tale situazione. La resistenza antifascista, sebbene nell'ultima fase supportata, quanto a legalità, dalla presenza del Regno del Sud, è certamente stata di questo tipo, come ribellione contro un regime che, soppiantando il vecchio Stato liberale proprio nel momento in cui la pressione dal basso avrebbe potuto farlo evolvere verso forme più modernamente democratiche, gradualmente aveva conculcato tutte le libertà del passato, aveva costretto il Paese e le istituzioni in schemi centralistici e autoritari, aveva tentato e in parte realizzato l'assoggettamento della giustizia, si era lanciato nell'avventura etiopica per mera vanità colonialista, aveva inseguito le follie di Hitler prima con le leggi razziali e poi con l'intervento nella seconda guerra mondiale. Un insieme di circostanze che, incidendo negativamente con un'inversione di tendenza storica nel patrimonio ideale di libertà e giustizia che le rivoluzioni americana e francese avevano consacrato e la civiltà occidentale aveva saldamente acquisito, ben giustificavano sul piano morale il rifiuto d'obbedienza e la ribellione contro l'esistente non riformabile per altra via. Ripeto: non riformabile per altra via, come si verifica nei regimi autocratici, in cui la concentrazione del potere blocca il circuito interattivo tra istituzione e sudditi.

    Riassumendo: il rispetto della legge vigente costituisce un valore sociale che deve essere affermato, coltivato e diffuso come esigenza morale; dal punto di vista dell'ordinamento la giustizia e le sue applicazioni s'identificano con la conformità alla legge; la non coincidenza tra la giustizia legale (dike) e il senso della giustizia (dikaiosyne) che ogni persona reca in sé come sintesi etico-culturale del dover essere ideale, per quanto diffusa ne sia la percezione, non toglie validità e vigore alla singola norma né esime dall'obbligo giuridico e morale di rispettarla; solo in situazioni-limite di radicale, intollerabile e insanabile contrasto tra il sistema vigente e le più profonde e radicate convinzioni morali, la coscienza - non il diritto - potrà consentire e dettare comportamenti di disobbedienza, di resistenza, di rivolta come strumenti fattuali di rottura in vista della creazione di un nuovo ordine. Mi rendo perfettamente conto della sensazione di grettezza che può provocare un'impostazione per cui alle categorie della legalità e della giustizia venga tendenzialmente impedita ogni connessione con parametri esterni al diritto storicamente posto, sebbene nel parlar comune - e non soltanto in quello - sia il primo sia, soprattutto, il secondo concetto vengano spesso invocati, e talvolta connotati con espliciti riferimenti verbali, in un senso che trascende il piano legalistico. Tuttavia, da un punto di vista logico e, perché no, pedagogico, sono del parere che l'apparente restrizione dia maggior chiarezza alla vista, giacché permette di rendersi meglio conto che istanze etiche, istanze di equità distributiva e attributiva, valori spirituali e culturali trovano una loro collocazione e una loro operatività a monte del diritto positivo, nella fase genetica di questo, oltre che nei suoi interstizi e negli spazi vuoti.

3. Il giudice tra legge, giustizia ideale e politica

    Ed ecco che il discorso è naturalmente giunto all'approdo della politica, vista nel suo aspetto di attività di produzione normativa. Una produzione che non è destinata solo a regolare le relazioni intersoggettive tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, ma, anzitutto, le funzioni, l'organizzazione, le competenze, le modalità di svolgimento per quanto riguarda la stessa attività delle istituzioni a cominciare dalla legislazione. La politica, nei Paesi che ispirano il proprio assetto a modelli di democrazia più o meno avanzata, fa capo a gestori con poteri di rappresentanza - o solo di temporanea fiducia, secondo i pensatori illuministi - conferiti dal popolo, negli Stati autocratici a dittatori che di tali poteri si autoinvestono attribuendosi il compito, per grazia del destino, d'interpretare i bisogni della collettività. Nell'uno e nell'altro caso si.dà luogo alla formulazione di princìpi e all'articolazione di regole che dovrebbero costituire proiezione formalizzata dell'autentica volontà, dello spirito e dell'identità del popolo, e dunque anche e soprattutto degli ideali di giustizia e delle istanze etiche corrispondenti alla cultura e al costume della collettività. Ma poi, a valle e nell'ambito di tale formulazione, la politica presiede nei vari livelli istituzionali alla quotidiana amministrazione degli interessi della collettività, individuando i fini concreti da perseguire e scegliendo i mezzi più opportuni per la loro realizzazione. Sia nel primo sia nel secondo di tali momenti l'autorità politica, quand'anche la si possa considerare machiavellicamente svincolata da un rapporto immediato con il valore assoluto dell'eticità, non può eludere il rapporto con la legalità, quindi con la giustizia positivamente intesa, quindi con quelle istanze di eticità che nella legislazione abbiano trovato accoglimento. Tale è il modello del moderno Stato di diritto, in cui i vertici sovrani sono essi stessi soggetti alla legge: prospettiva che ancora nel 1620, in quell'Inghilterra che, pure, aveva conosciuto più di quattro secoli prima la Magna Charta Libertatum, scandalizzava il re Giacomo I. Al giurista Edward Coke, infatti, che gli ricordava come i giudici dovessero obbedire non al volere del sovrano, ma alle leggi del Paese, Giacomo I, che aveva dalla sua il sostegno di Thomas Hobbes, rispondeva irato: «I shall be under the law? which is treason to affirm» («Dovrei dunque sottostare alla legge? È un atto di lesa maestà affermarlo»).

    Ma la legalità non vincola soltanto i vertici esecutivi: anche i Parlamenti, finché essi stessi non le modifichino secondo procedure prestabilite, sono tenuti a rispettare le leggi vigenti, e ciò vale in particolare per le Costituzioni rigide e le leggi costituzionali che fissano con prospettive di ampio periodo i principi supremi e le regole fondamentali dello Stato. Tra i princìpi sommi si annovera quello dell'indipendenza della magistratura, corollario della separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu e poiché alla magistratura nel suo complesso - comprensiva da noi, sperabilmente per lungo tempo ancora, di giudici e pubblici ministeri - spetta il compito di tutelare la legalità, riaffermando la volontà della legge violata o incerta, e di infliggere le eventuali sanzioni, ecco che viene alla ribalta il problema dei rapporti, delle consonanze o dissonanze, delle frizioni, dei possibili conflitti tra potere politico e potere giudiziario e più in generale delle relazioni tra la politica e l'amministrazione della giustizia.

    Con qualche malinconia, e senza temere d'incorrere in vilipendio della nazione, possiamo francamente riconoscere che nel nostro Paese la cultura della legalità non ha radici né profonde né estese, probabilmente in conseguenza di secolari vicende storiche, e che è piuttosto diffusa una sorta di disaffezione verso le regole, se scomode, e verso il potere costituito, se non è possibile servirsene. La presenza di sottosistemi reticolari di appartenenza, con forme di fiducia localizzata nel loro ambito (la famiglia, il parentado, il clan, il gruppo, la fazione), tende a fare aggio sulla fedeltà allo Stato, sul rispetto dell'ordinamento, sulla coscienza del dovere verso la società; il fine cui si mira, nobile o egoistico che sia, è addotto a giustificazione dei mezzi adoperati; donde la propensione al clientelismo, che talvolta è l'anticamera dell'illegalità, la disponibilità alla compravendita dell'invendibile ovvero corruzione attiva e passiva; di qui anche la scaturigine dell'economia violenta secondo il paradigma dell'impresa mafiosa.

    In uno scenario così caratterizzato sarebbe stato ben difficile che le istituzioni rimanessero del tutto incontaminate da inclinazioni non esattamente ortodosse. Vi è stata la stagione di «tangentopoli», con il suo intreccio inestricabile di politica e affarismo, con il suo sistema occulto - ma non tanto - di drenaggio di ricchezza a favore di partiti, correnti politiche e personaggi corrotti. Vi è poi stato il tentativo, con «mani pulite», di ripristinare la legalità nella politica e nell'amministrazione. Le cronache recenti inducono al più nero pessimismo circa l'utilità di quel tentativo, che sembra circoscritta alla mera dimostrazione che, se si vuole, qualcosa si può fare contro la corruzione. Appunto: se lo si vuole. Ma da tempo è in atto il riflusso, sotto forma di reazione punitiva da parte della classe politica verso la magistratura, e di sfiduciata stanchezza e rassegnazione nell'opinione pubblica, pervasa da quell'indifferenza di fondo verso tutto ciò che non tocca gli interessi personali, da quella sorta di relativismo morale, che secondo alcuni studiosi sarebbero tipici dell'io cosiddetto postmoderno o postindustriale. Non mi dilungo in questo inciso sulla realtà nazionale né su alcuni aspetti di essa, anche a livello elevato, che mostrano segni di squallore senza l'eguale nei Paesi di democrazia liberale. L'ho aperto per esemplificare un momento particolare del rapporto in casa nostra tra politica e giustizia, a proposito del controllo di legalità che la magistratura non può non esercitare in presenza di notizie di reato, o comunque se debitamente sollecitata, sulle attività dei pubblici amministratori come in qualsiasi altro campo; un controllo che i politici insofferenti tendono a respingere, in qualche modo facendosi scudo del consenso dei loro elettori come di una sorta di assoluzione popolare, e accusando la magistratura di perseguire a sua volta obiettivi di lotta politica secondo il falso sillogismo: «si vuole incriminare Tizio, Tizio appartiene al partito X, dunque si vuol recare danno al suo partito»; oppure: «non è stato incriminato Caio, Caio appartiene al partito Y, dunque si è voluto favorire quel partito». Poco importa, poi, di fronte a un'opinione pubblica il cui livello di attenzione e di competenza non può pretendersi particolarmente elevato, che nel primo caso magari ci siano le prove provate della disonestà, e nel secondo invece le prove manchino o addirittura non ci sia nemmeno la «notizia di reato».

    D'altra parte il tema del rapporto tra politica e giustizia, più esattamente tra politica e giurisdizione, non s'identifica con il problema locale e forse transeunte dei politici inquisiti dalla magistratura, ma ha un respiro ben più ampio e di più elevato interesse storico e concettuale. Non senza fondamento i politici percepiscono con qualche allarme una tendenza della giurisdizione a portarsi a ridosso, talvolta pericolosamente a ridosso, della loro area operativa. La tendenza è nelle cose e non può essere banalizzata come prava velleità di supplenza o, peggio, di usurpazione di potere da parte di singoli magistrati eversori, a prescindere dal rilievo che per almeno nove decimi l'attività della magistratura è di supplenza, in quanto per definizione deve rimediare a strappi, buchi, smagliature, tensioni, opacità nella trama vivente del tessuto sociale.

    Può riuscire utile a questo punto ricordare l'ascendente storico meno remoto del fenomeno. Sebbene comunemente la separazione dei poteri venga fatta risalire al pensiero illuministico, e io stesso poco fa abbia richiamato Montesquieu, a cui bisognerebbero aggiungersi Locke, Rousseau, Constant e la concezione del «regno della legge» passata intatta dalla Rivoluzione francese alla Restaurazione, in realtà l'attuale posizione del potere giudiziario in Italia, più che ai modelli francese e inglese, va ricollegata al modello americano conseguente alla Costituzione varata nel 1787 dalla Convenzione di Filadelfia. In Francia, infatti, la rigida legalizzazione del potere giudiziario, la visione del giudice come «bocca della legge», come severo applicatore della legge, la diffidenza per ogni operazione di interpretazione o addirittura il suo divieto (filosoficamente insensato, ma tant'è), la centralità del governo e dunque del potere esecutivo (Napoleone: «Il Governo è al centro della società come il sole, tutte le altre istituzioni devono percorrere la loro orbita attorno a lui, senza mai allontanarsene»), hanno mantenuto la magistratura in una condizione di sostanziale sottoposizione all'Esecutivo, che non è venuta meno neppure con la Costituzione gollista del 1958. In Gran Bretagna la situazione è diversa, ma solo nel senso che il baricentro del sistema è il Parlamento, che controlla sia il potere giudiziario sia quello esecutivo, senza alcuna possibilità per il giudice di mettere in discussione il contenuto della statute law (legge scritta), neanche se contraria alla common law (legge non scritta di diritto consuetudinario). Negli Stati Uniti, invece, la giurisprudenza della Corte Suprema Federale, presieduta dal Chief Justice John Marshall, fin dai primi dell'800 affermò la possibilità di una judicial review (controllo di costituzionalità) davanti alla Corte, avente per oggetto leggi emanate dal Parlamento; la possibilità, cioè, di sollecitare dal giudice un sindacato sulla legge ordinaria, cui consegue il dovere della Corte di negare validità a questa - dopo averla interpretata - se contraria alla Costituzione. Scrittori dell'epoca ponevano in evidenza la necessità di proteggere e garantire un potere intrinsecamente debole come il giudiziario, che poteva con­tare solo sull'autorità del proprio giudizio, se realmente si voleva the rule of law, cioè la supremazia del diritto, contro il rischio immanente e costante di sopraffazione o di condizionamento politico.

    Il modello americano, nel secondo dopoguerra del XX secolo, è stato recepito negli ordinamenti di vari Stati europei, tra cui la Repubblica Italiana, con la creazione di Costituzioni rigide che, incorporando, è stato detto, la dimensione secolarizzata della moralità, o la «positivizzazione del diritto naturale», formano uno strato normativo soprastante alla legislazione ordinaria, con il quale il giudice è chiamato a confrontarsi direttamente, sia traendone criteri di giudizio d'immediata applicazione, sia rimettendo alle Corti costituzionali questioni di legittimità di leggi ordinarie. Già questa possibilità di dialogo diretto tra il giudice e la Costituzione passa, per così dire, sopra la testa del legislatore ordinario, alla ricerca di un risultato di giustizia che la legge non garantirebbe. Ma anche altri fattori di mutazione concorrono ad abbassare gli steccati tradizionali tra la giurisdizione e il terreno delle decisioni politiche, ad arricchire sia l'attesa di giustizia sia il significato della legalità, a svelare più chiaramente la nota di creatività che non può non celarsi - checché ne pensassero gli illuministi e con buona pace dei politici gelosi - nell'operazione mentale della ricerca e dell'interpretazione del diritto da applicare al caso singolo. È noto che secondo un insegnamento di tradizione scolastica, ma alquanto semplicistico per non dire asfittico, l'applicazione della legge da parte del giudice riprodurrebbe lo schema del sillogismo categorico illustrato da Aristotele negli Analitici Primi della sua Logica: premessa maggiore la norma («chi cagiona la morte di un uomo mediante veneficio è punito con l'ergastolo»), premessa minore il fatto («Tizio ha avvelenato e ucciso Caio»), conclusione l'applicazione della norma al fatto («dunque a Tizio deve infliggersi la pena dell'ergastolo»). Ma nella realtà le cose sono molto più complicate per ragioni logico-linguistiche prima ancora che fenomenologiche, né quell'insegnamento gode più di alcun credito salvo forse presso qualche personaggio politico di modesta levatura culturale che se ne ser­ve per ammonire i magistrati a compitare la legge senza interpretarla.

    La Costituzione italiana, al pari di altre Costituzioni, contiene un insieme di princìpi fondamentali in tema di libertà, di eguaglianza, d'istruzione, di la­voro, di sanità, di famiglia, di ambiente e così via, che, com'è proprio dei «princìpi» (per contrapposto alle norme contenenti semplici «regole»), hanno il carattere di segnali obbligati della direzione verso cui la vita della collettività deve orientarsi. Hanno il carattere di valori in espansione a sfondo prospettico illimitato, aperti a un'interpretazione progressiva, a un'attuazione dinamica che tende a trasformare aspettative e speranze in diritti riconosciuti dall'ordinamento, ed è inevitabile che riflettendosi nella giurisdizione essi abbiano l'effetto di far esplodere l'angusto schema della sentenza come sillogismo meccanicamente applicativo della regola. Da ultimo dobbiamo tener presente che negli Stati moderni alle codificazioni tradizionali si è aggiunta una proliferazione amplissima, spesso frammentaria, mutevole, ingarbugliata, perfino contraddittoria, di leggi speciali in correlazione con la complessità crescente e palpitante della vita economica, dei bisogni dei cittadini, dei rapporti transnazionali, per non parlare delle direttive promananti dalle organizzazioni soprannazionali. Di fronte al quadro così complicatosi dei riferimenti normativi, e talvolta anche al fenomeno di formulazioni deliberatamente compromissorie adottate dai Parlamenti, che scaricano sul momento applicativo la responsabilità di scelte necessarie per adeguare la decisione alla giustizia del caso concreto, il ruolo del giudice si è elevato di necessità a un livello sempre più intimamente integrativo dell'indirizzo politico - nel senso più largo, più alto, più apartitico della parola - impresso alla vita e allo sviluppo della società. Di tale complessità della funzione giurisdizionale e dei rischi a cui è perciò esposta deve prendere coscienza anzitutto il giudice, da un lato per uscire dal mitico isolamento della «torre d'avorio» e aprire gli occhi sulla realtà circostante, dall'altro per imparare sia a filtrare e padroneggiare criticamente gli stimoli che la pressione osmotica dell'ambiente gli trasmette, sia a trascendere autocriticamente gli stessi ingredienti della propria personale cultura.

    In uno scenario cosiffatto, pur nel pelago dei dubbi e delle cautele che devono costituire il sale e il freno della riflessione filosofica, credo si possa aderire al punto di vista di quegli studiosi che, nella contesa storica tra giusnaturalismo e giuspositivismo, scorgono l'affacciarsi di una terza ipotesi: l'ipotesi secondo cui la riaffermazione del primato della legge si tempera con l'affermazione di un dovere d'interpretazione del diritto che sia sensibile alle istanze di giustizia ideale appartenenti alla morale sociale storicizzata, che trovano il loro luogo tipico, ma forse non esclusivo, di emersione nelle moderne Carte costituzionali. Legalità, politica, giustizia, etica, senza che le rispettive matrici concettuali abbiano a confondersi l'una con l'altra, possono forse in questa prospettiva equilibrarsi in una dialettica di distinti che le sottragga a ogni cristallizzazione lasciando aperta la strada verso il futuro: verso un futuro senza punti di arrivo, ma nutrito della speranza nelle sorti progressive della società umana. Un futuro illuminato dal lampeggiare del vivido frammento di di­vinità che ogni uomo custodisce dentro di sé.

 

 

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