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Legalità tra etica, diritto e politica di Francesco Saverio Borrelli
"Ci
sarebbe forse possibile vivere, se fosse corrotta quella parte di noi che
viene turbata dall'ingiustizia, mentre dalle cose giuste riceve
giovamento? È giusto o ingiusto che si cerchi di evadere pagando e
ringraziando coloro che ci aiuteranno a farlo? Se ci sembra giusto,
proviamoci; altrimenti, se ci apparirà chiaro che di un'azione ingiusta si
tratta, non preoccupiamoci di dover morire o di subire qualsiasi altra pena,
restiamo con tranquillità al nostro posto e diamoci pensiero, piuttosto, di
non commettere ingiustizia. E se commettere ingiustizia è, per chi lo
fa, cosa né buona né bella, noi non dobbiamo nemmeno ricambiare le
ingiustizie, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi. A condividere queste
opinioni sono e sempre saranno in pochi, e fra chi la pensa così e chi no,
non è possibile comunità d'intenti. Ma può sopravvivere, e non essere
sovvertita, una città in cui si fa quanto è possibile per distruggere le
leggi, una città in cui le sentenze non hanno efficacia, e possono essere
invalidate e annullate da privati cittadini?».
Nel celeberrimo dialogo di Platone, il Critone, da cui sono estratti
i passi appena citati, Socrate respinge l'insistente proposta del discepolo
Critone, che vorrebbe farlo fuggire dalla prigione e da Atene con l'aiuto di
amici fedeli e generosi che hanno raccolto il denaro necessario per
corrompere il carceriere. In quelle proposizioni, in quegli interrogativi, e
in generale negli scenari dialettici dell'intero dialogo - la cui rilettura,
in tempi di pensiero debole, ma soprattutto di morale debole, non si
raccomanderà mai abbastanza - è possibile cogliere il riferimento, diretto o
indiretto, a tutti gli aspetti del tema enunciato nel titolo: la legalità
intesa come osservanza delle leggi della città; l'etica, come norma
dell'agire individuale posta dalla ragione e dalla coscienza; la giustizia,
come riverbero dell'etica ma anche come applicazione della legge da parte
dei
Mi accingo a proporre un modesto contributo di riflessione sulle
tematiche alte della giustizia, in un momento caratterizzato da
polemiche non sempre disinteressate, da disinformazione, da disorientamento
dell'opinione pubblica, e chiarezza vorrebbe che anzitutto si tentassero
definizioni almeno provvisorie di ciascuno dei termini enunciati. Senonché
ci accorgeremo ben presto come essi facciano parte di una sorta di struttura
a geometria variabile, non tanto per la multifunzione lessicale di alcuni,
quanto per la diversità delle prospettive culturali, storicamente e/o
ideologicamente condizionate, da cui possono trarre luce, e per i nessi di
rimando reciproco dall'uno all'altro. 1.
Il senso della legalità
Di legalità si parla in senso oggettivo, per indicare il principio di
organizzazione dei moderni ordinamenti giuridici, basato su un corpo
precostituito di norme generali e astratte destinate a vincolare più o meno
strettamente le stesse istituzioni, oltre che i cittadini e i rapporti tra
loro. In accezione più specifica, nel diritto penale il principio di
legalità, accolto nell'art. 25 della Costituzione italiana e negli artt. 1 e
2 del Codice penale, vieta che qualcuno possa esser punito per un fatto che
non sia previsto come punibile in virtù di norma anteriormente entrata in
vigore (irretroattività della legge penale). Suo corollario è il principio
di tassatività, che impone la formulazione delle fattispecie legali, o
figure di reato, mediante descrizioni analizzabili con un numero finito di
operazioni mentali, e che, correlativamente, inibisce la creazione di nuove
fattispecie criminose da parte della giurisprudenza. Sempre sul piano
dell'oggettività, la connotazione positiva o negativa di legalità sta a
indicare, come predicato, la relazione di compatibilità o contrasto di
determinati atti o fatti o persino iniziative istituzionali con i modelli
normativi vigenti ai vari livelli dell'ordinamento.
Se ci poniamo dal lato dei soggetti dell'ordinamento, la legalità
indica il momento anche psicologico del sottostare spontaneamente alla
legge: una sottomissione che può scaturire da abitudine contratta
passivamente, da disciplina
Dal punto di vista del valore, non v'è dubbio che il rispetto della legalità
sia fattore, indice e conseguenza ad un tempo del coefficiente di
coesione nelle formazioni sociali. La morale di sostegno
dell'ordinamento, di ogni ordinamento, ne rappresenta un collante
indispensabile alla sopravvivenza, perché, se è vero che esistono
istituzioni preposte al controllo della legalità e all'attuazione anche
coattiva della legge, la possibilità di coercizione incontra dei limiti, nel
senso che decresce in misura proporzionale, forse più che proporzionale,
all'incremento statistico di diffusione delle violazioni, fino a scendere in
prossimità del livello zero quando lo scostamento dalle norme sia
generalizzato. In altri termini, ogni punto percentuale d'incremento nella
diffusione della devianza dovrebbe fronteggiarsi in ipotesi con un aumento
proporzionale, o più che proporzionale, delle risorse destinate al
ripristino della legalità. Ma è evidente che proprio il tasso di diffusione
dell'illegalità costituisce un limite nella reperibilità delle risorse umane
- e culturali - da destinare alla lotta contro la devianza. Per dirla
brutalmente: in una collettività di banditi sarà pressoché impossibile
trovare poliziotti e magistrati che affidabilmente gestiscano la legalità
ufficiale, piuttosto che la controlegalità banditesca.
La legalità è dunque un valore al quale il cittadino deve essere
educato perché il suo rispetto è fattore di conservazione dell'ordine
sociale, baluardo delle libertà democratiche, difesa contro l'arbitrarietà,
scudo dell'eguaglianza di tutti, ricchi e poveri, forti e deboli, nei
confronti dei poteri reali, o, com'è stato detto, «potere dei senza potere»;
è garanzia della prevedibilità dei comportamenti nostri e altrui, dunque
elemento di sicurezza e affidabilità reciproca nelle relazioni
intersoggettive; e, nelle democrazie aperte al rinnovamento, anche fattore
di emersione delle obsolescenze, delle irrazionalità, delle contraddizioni o
inadeguatezze dell'assetto esistente e dunque stimolo indiretto al progresso
istituzionale, normativo, economico. Ma la legalità è un valore, per così
dire, climatico al quale lo stesso comportamento delle istituzioni e dei
pubblici uffici deve ispirarsi nella quotidianità. Francesco Bacone
(+1626), nel saggio Della Grandezza (Of Great Place),
individuò i quattro difetti dell'autorità come «lentezza, villania,
debolezza, corruzione». Sono passati quasi quattro secoli, e in tutti i
Paesi occidentali, negli ultimi anni anche da noi, leggi e provvedimenti
amministrativi si sono succeduti per portare nelle prassi delle pubbliche
amministrazioni una maggior trasparenza e un atteggiamento di più attenta
considerazione degli interessi del cittadino. Si pensi alle leggi sulla
semplificazione delle procedure amministrative, sul diritto di accesso,
sulla tutela della riservatezza, sui diritti fondamentali del contribuente.
Molti passi avanti, dunque, ma solo un inguaribile ottimista potrebbe dire
che, di quei difetti, il nostro Paese si sia emendato. 2.
Rapporto tra diritto ed etica: giusnaturalismo o giuspositivismo?
Se la legalità, come rispetto dell'ordine esistente, è un valore, si può
accettare senza incertezze e senza residui una sorta di equazione tra
legalità e giustizia, o addirittura, su un terreno più avanzato, tra
legalità ed etica? Qui il discorso si complica. Da un punto di vista
piattamente operativo e realistico, giustizia significa né più né meno che
attuazione del diritto vigente, spontanea, ovvero ottenuta attraverso i
meccanismi dichiarativi e coercitivi della giurisdizione: ma il diritto
vigente e la sua applicazione puntuale conseguono sempre risultati
rispondenti al senso profondo di giustizia che ciascuno di noi porta in sé
come proiezione di un ideale interiore di dignità umana, di
equilibrata distribuzione dei beni materiali e spirituali della vita, di
saggia e razionale composizione dei conflitti, di tutela efficace delle
persone e delle cose? E se così non è, possiamo contestare la validità del
diritto vigente e rifiutare di conformarci ad esso?
Sul problema del rapporto tra legalità e giustizia astratta, tra nomos (legge) e
dike (giustizia), le posizioni teoriche sono
fondamentalmente due: 1) il giusnaturalismo, che movendo dal
presupposto dell'esistenza di norme razionali, universalmente valide,
anteriori a ogni norma giuridica positiva, condiziona l'obbligatorietà e
quindi l'intrinseca validità della legge alla sua conformità a tali norme,
sicché in altri termini la legge è tale solo se eticamente giusta
(Verbindungsthese, nella terminologia tedesca, cioè tesi del
collegamento diritto/morale); 2) il giuspositivismo, che contestando
che la giustizia sia un reperto di natura, ossia un criterio desumibile
dalla mera osservazione dell'umanità e del mondo, sostiene che legge e
morale si pongono su piani distinti (Trennungsthese, tesi della
separatezza), e che il diritto è tale ed è vincolante a prescindere dalla
sua eticità.
La contrapposizione tra i due orientamenti non è puramente teorica e può
avere rilevanti ricadute pragmatiche. Mi riferisco alle questioni
dibattute sia al processo di Norimberga sia, successivamente, davanti ai
tribunali ordinari della Repubblica Federale Tedesca, per stabilire se
appartenenti alla Wehrmacht fossero giuridicamente tenuti, o meno, a
obbedire agli ordini dei superiori contrastanti con i diritti umani. Mi
riferisco, più in generale, alla teorizzazione del diritto di resistenza,
come opposizione contro le lesioni o le minacce ai diritti fondamentali
arrecate con atti, con provvedimenti, con leggi formalmente in vigore: e
alludo non tanto alla resistenza predicata nel medioevo da ecclesiastici
come Manegoldo di Lautenbach (+ 1119) o Giovanni di Salisbury (+ 1180), che
si dirigeva contro il sovrano, quanto a quella singolare formulazione del
diritto di resistenza che si rinviene nell'art. 35 della Costituzione
francese del giugno 1793 («di fronte alle ingiustizie e all'oppressione
l'insurrezione è per il popolo, e per ogni parte del popolo, il più
sacrosanto dei diritti e il più inderogabile dei doveri»), che si ritrova in
alcune Costituzioni di Laender tedeschi, ma anche a certi
atteggiamenti di disobbedienza civile o di ostruzionismo che qua e là
emergono nella vita contemporanea come manifestazioni di obiezione di
coscienza. Accenno di passaggio all'opinione di chi ha intravisto nella
menzione dei «diritti inviolabili dell'uomo», contenuta nell'art. 2 della
nostra Costituzione, un embrionale riconoscimento del diritto di resistenza.
Sono decisamente scettico, forse perché condizionato dal mio passato di
operatore della legge, circa la possibilità logica di configurare la
resistenza contro l'ordine costituito come diritto soggettivo riconoscibile
da norme giuridiche, giacché l'ordine costituito rappresenta un sistema
chiuso che può prevedere, e normalmente prevede, meccanismi di correzione
dall'interno, ma non può, per la contraddizione che non lo consente,
conferire patente di legittimità alla ribellione attuata da un proprio
appartenente che voglia dargli scacco matto.
Ma, al di là della constatazione che ogni ordinamento, democratico o
autocratico che sia, si autoqualifica «giusto», ritengo che concettualmente
non sia corretto condizionare il riconoscimento di validità, sul piano
giuridico, del diritto positivo al parametro della conformità a un modello
pretesamente naturale di giustizia o di eticità anziché al realistico
parametro dell'effettività. La natura, ahimé, nel mondo dei viventi non ci
mostra modelli di giustizia o di eticità, ma solo di forza, e quelli che noi
adottiamo come espressivi di valore sono proiezioni, talvolta nobilissime,
della nostra cultura, dunque modelli storicamente e ideologicamente
condizionati, dunque relativi a punti di vista più o meno condivisi, mai
categorici e definitivi. So bene che questo discorso solleva serie obiezioni
da parte di chi aderisce alla filosofia del diritto naturale. Ma,
laicamente, non posso ignorare il disordine sociale che si creerebbe
lasciando penetrare nell'ordinamento criteri assiologici ad esso estranei o
con esso contrastanti, come convinzioni religiose sulla cui valenza uno
Stato, appunto, laico non può esprimere disponibilità differenziate, o
filosofiche, costumanze di clan o di etnia, finalismi politici di
vario genere, privilegi di casta o di consacrazione popolare, criteri
pragmatici di particolari subculture, magari tradizioni gentilizie, e così
via, soprattutto in presenza di realtà geopolitiche di convivenza
multietnica e multiculturale, entro le quali legittimare l'esenzione dal
rispetto di questa o quella norma giuridica creerebbe un contesto di
confusione e incertezza.
L'ordinamento giuridico ha dunque carattere eminentemente autoreferenziale,
nel senso che esso, e soltanto esso, può dettare i criteri per riconoscere
giuridicità ai rapporti interpersonali, ai diritti, ai doveri. Ma
attenzione: questo non significa che la concezione legalistica del
positivismo giuridico e la credenza nel primato della legge debbano tradursi
eticamente sempre e comunque in un atteggiamento di passiva rassegnazione
alla gabbia di ferro della parola del legislatore. Non credo, ho detto, alla
resistenza come diritto soggettivo riconosciuto dall'ordinamento (perché
allora dovrebbe esistere anche il diritto soggettivo di opporsi alla
resistenza e l'enunciato sarebbe intrinsecamente contraddittorio, per
l'affermazione simultanea di due diritti uguali e contrari, come abbiamo
visto); ma credo che esista talvolta - non sembri paradossale - un dovere
morale nascente da un'esigenza categorica che può dar luogo alla resistenza
contro l'autorità come fatto di rottura, come atto di ribellione o
addirittura di rivoluzione, che nel tempo si legittimerà retroattivamente,
se e quando avrà aperto una falla nel sistema o magari l'avrà travolto
instaurando un nuove ordine settoriale o generale. Si tratta ovviamente di
ipotesi-limite, di situazioni nelle quali non per spunti episodici e
occasionali, ma per profondo, insanabile essenziale contrasto tra
l'ordinamento e la coscienza morale non vi sia e non possa più
esservi compatibilità tra ciò che la legge pretende e ciò che la voce perentoria
del foro interiore reclama come giusto; situazioni nelle quali non
l'opinione del singolo o del gruppo, non la predicazione di un'ideologia o
di un programma politico, bensì la somma dei valori forti, riassuntivi delle
acquisizioni secolari e millenarie faticosamente assicurate dal procedere
della civilizzazione, renda assolutamente intollerabile e non
altrimenti rimediabile il conflitto tra l'ordine esistente e la dignità
della persona umana.
Non è difficile trovare nella storia del «secolo breve» da poco conclusosi
esempi concreti di tale situazione. La resistenza antifascista,
sebbene nell'ultima fase supportata, quanto a legalità, dalla presenza del
Regno del Sud, è certamente stata di questo tipo, come ribellione contro un
regime che, soppiantando il vecchio Stato liberale proprio nel momento in
cui la pressione dal basso avrebbe potuto farlo evolvere verso forme più
modernamente democratiche, gradualmente aveva conculcato tutte le libertà
del passato, aveva costretto il Paese e le istituzioni in schemi
centralistici e autoritari, aveva tentato e in parte realizzato
l'assoggettamento della giustizia, si era lanciato nell'avventura etiopica
per mera vanità colonialista, aveva inseguito le follie di Hitler prima con
le leggi razziali e poi con l'intervento nella seconda guerra mondiale. Un
insieme di circostanze che, incidendo negativamente con un'inversione di
tendenza storica nel patrimonio ideale di libertà e giustizia che le
rivoluzioni americana e francese avevano consacrato e la civiltà occidentale
aveva saldamente acquisito, ben giustificavano sul piano morale il rifiuto
d'obbedienza e la ribellione contro l'esistente non riformabile per altra
via. Ripeto: non riformabile per altra via, come si verifica nei regimi
autocratici, in cui la concentrazione del potere blocca il circuito
interattivo tra istituzione e sudditi.
Riassumendo: il rispetto della legge vigente costituisce un valore
sociale che deve essere affermato, coltivato e diffuso come esigenza
morale; dal punto di vista dell'ordinamento la giustizia e le sue
applicazioni s'identificano con la conformità alla legge; la non coincidenza
tra la giustizia legale (dike) e il senso della giustizia
(dikaiosyne) che ogni persona reca in sé come sintesi etico-culturale
del dover essere ideale, per quanto diffusa ne sia la percezione, non toglie
validità e vigore alla singola norma né esime dall'obbligo giuridico e
morale di rispettarla; solo in situazioni-limite di radicale,
intollerabile e insanabile contrasto tra il sistema vigente e le più
profonde e radicate convinzioni morali, la coscienza - non il diritto -
potrà consentire e dettare comportamenti di disobbedienza, di resistenza, di
rivolta come strumenti fattuali di rottura in vista della creazione di un
nuovo ordine. Mi rendo perfettamente conto della sensazione di grettezza che
può provocare un'impostazione per cui alle categorie della legalità e della
giustizia venga tendenzialmente impedita ogni connessione con parametri
esterni al diritto storicamente posto, sebbene nel parlar comune - e non
soltanto in quello - sia il primo sia, soprattutto, il secondo concetto
vengano spesso invocati, e talvolta connotati con espliciti riferimenti
verbali, in un senso che trascende il piano legalistico. Tuttavia, da un
punto di vista logico 3.
Il giudice tra legge, giustizia ideale e politica
Ed ecco che il discorso è naturalmente giunto all'approdo della politica,
vista nel suo aspetto di attività di produzione normativa. Una
produzione che non è destinata solo a regolare le relazioni intersoggettive
tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, ma, anzitutto, le
funzioni, l'organizzazione, le competenze, le modalità di svolgimento per
quanto riguarda la stessa attività delle istituzioni a cominciare dalla
legislazione. La politica, nei Paesi che ispirano il proprio assetto a
modelli di democrazia più o meno avanzata, fa capo a gestori con poteri di
rappresentanza - o solo di temporanea fiducia, secondo i pensatori
illuministi - conferiti dal popolo, negli Stati autocratici a dittatori che
di tali poteri si autoinvestono attribuendosi il compito, per grazia del
destino, d'interpretare i bisogni della collettività. Nell'uno e nell'altro
caso si.dà luogo alla formulazione di princìpi e all'articolazione di regole
che dovrebbero costituire proiezione formalizzata dell'autentica volontà,
dello spirito e dell'identità del popolo, e dunque anche e soprattutto degli
ideali di giustizia e delle istanze etiche corrispondenti alla cultura e al
costume della collettività. Ma poi, a valle e nell'ambito di tale
formulazione, la politica presiede nei vari livelli istituzionali alla
quotidiana amministrazione degli interessi della collettività, individuando
i fini concreti da perseguire e scegliendo i mezzi più
opportuni per la loro realizzazione. Sia nel primo sia nel secondo di
tali momenti l'autorità politica, quand'anche la si possa considerare
machiavellicamente svincolata da un rapporto immediato con il valore
assoluto dell'eticità, non può eludere il rapporto con la legalità, quindi
con la giustizia positivamente intesa, quindi con quelle istanze di eticità
che nella legislazione abbiano trovato accoglimento. Tale è il modello del
moderno Stato di diritto, in cui i vertici sovrani sono essi stessi
soggetti alla legge: prospettiva che ancora nel 1620, in
quell'Inghilterra che, pure, aveva conosciuto più di quattro secoli prima la
Magna Charta Libertatum, scandalizzava il re Giacomo I. Al giurista
Edward Coke, infatti, che gli ricordava come i giudici dovessero obbedire
non al volere del sovrano, ma alle leggi del Paese, Giacomo I, che aveva
dalla sua il sostegno di Thomas Hobbes, rispondeva irato: «I shall be
under the law? which is treason to affirm» («Dovrei dunque sottostare
alla legge? È un atto di lesa maestà affermarlo»).
Ma la legalità non vincola soltanto i vertici esecutivi: anche i Parlamenti,
finché essi stessi non le modifichino secondo procedure prestabilite, sono
tenuti a rispettare le leggi vigenti, e ciò vale in particolare per le
Costituzioni rigide
Con qualche malinconia, e senza temere d'incorrere in vilipendio della
nazione, possiamo francamente riconoscere che nel nostro Paese la cultura
della legalità non ha radici né profonde né estese, probabilmente in
conseguenza
In uno scenario così caratterizzato sarebbe stato ben difficile che le
istituzioni rimanessero del tutto incontaminate da inclinazioni non
esattamente ortodosse. Vi è stata la stagione di «tangentopoli», con
il suo intreccio inestricabile di politica e affarismo, con il suo sistema
occulto - ma non tanto - di drenaggio di ricchezza a favore di partiti,
correnti politiche e personaggi corrotti. Vi è poi stato il tentativo, con
«mani pulite», di ripristinare la legalità nella politica e
nell'amministrazione. Le cronache recenti inducono al più nero pessimismo
circa l'utilità di quel tentativo, che sembra circoscritta alla mera
dimostrazione che, se si vuole, qualcosa si può fare contro la corruzione.
Appunto: se lo si vuole. Ma da tempo è in atto il riflusso, sotto
forma di reazione punitiva da parte della classe politica verso la
magistratura, e di sfiduciata stanchezza e rassegnazione nell'opinione
pubblica, pervasa da quell'indifferenza di fondo verso tutto ciò che non
tocca gli interessi personali, da quella sorta di relativismo morale, che
secondo alcuni studiosi sarebbero tipici dell'io cosiddetto postmoderno o
postindustriale. Non mi dilungo in questo inciso sulla realtà nazionale né
su alcuni aspetti di essa, anche a livello elevato, che mostrano segni di
squallore senza l'eguale nei Paesi di democrazia liberale. L'ho aperto per
esemplificare un momento particolare del rapporto in casa nostra tra
politica e giustizia, a proposito del controllo di legalità che la
magistratura non può non esercitare in presenza di notizie di reato, o
comunque se debitamente sollecitata,
D'altra parte il tema del rapporto tra politica e giustizia, più esattamente
tra politica e giurisdizione, non s'identifica con il problema locale e
forse transeunte dei politici inquisiti dalla magistratura, ma ha un respiro
ben più ampio
Può riuscire utile a questo punto ricordare l'ascendente storico meno remoto
del fenomeno. Sebbene comunemente la separazione dei poteri venga fatta
risalire al pensiero illuministico, e io stesso poco fa abbia richiamato
Montesquieu, a cui bisognerebbero aggiungersi Locke, Rousseau, Constant e la
concezione del «regno della legge» passata intatta dalla Rivoluzione
francese alla Restaurazione, in realtà l'attuale posizione del potere
giudiziario in Italia, più che ai modelli francese e inglese, va ricollegata
al modello americano conseguente alla Costituzione varata nel 1787 dalla
Convenzione di Filadelfia. In Francia, infatti, la rigida
legalizzazione del potere giudiziario, la visione del giudice come «bocca
della legge», come severo applicatore della legge, la diffidenza per ogni
operazione di interpretazione o addirittura il suo divieto (filosoficamente
insensato, ma tant'è), la centralità del governo e dunque del potere
esecutivo (Napoleone: «Il Governo è al centro della società come il sole,
tutte le altre istituzioni devono percorrere la loro orbita attorno a lui,
senza mai allontanarsene»), hanno mantenuto la magistratura in una
condizione di sostanziale sottoposizione all'Esecutivo, che non è venuta
meno neppure con la Costituzione gollista del 1958. In Gran Bretagna
la situazione è diversa, ma solo nel senso che il baricentro del sistema è
il Parlamento, che controlla sia il potere giudiziario sia quello esecutivo,
senza alcuna possibilità per il giudice di mettere in discussione il
contenuto della statute law (legge scritta), neanche se
Il modello americano, nel secondo dopoguerra del XX secolo, è stato recepito
negli ordinamenti di vari Stati europei, tra cui la Repubblica Italiana, con
la creazione di Costituzioni rigide che, incorporando, è stato detto, la
dimensione secolarizzata della moralità, o la «positivizzazione del diritto
naturale», formano uno strato normativo soprastante alla legislazione
ordinaria, con il quale il giudice è chiamato a confrontarsi direttamente,
sia traendone criteri di giudizio d'immediata applicazione, sia rimettendo
alle Corti costituzionali questioni di legittimità di leggi ordinarie. Già
questa possibilità di dialogo diretto tra il giudice e la
Costituzione passa, per così dire, sopra la testa del legislatore
ordinario, alla ricerca di un risultato di giustizia che la legge non
garantirebbe. Ma anche altri fattori di mutazione concorrono ad abbassare
gli steccati tradizionali tra la giurisdizione e il terreno delle decisioni
politiche, ad arricchire sia l'attesa di giustizia sia il significato della
legalità, a svelare più chiaramente la nota di creatività che non può non
celarsi - checché ne pensassero gli illuministi e con buona pace dei
politici gelosi - nell'operazione mentale della ricerca e
dell'interpretazione del diritto da applicare al caso singolo. È noto
che secondo un insegnamento di tradizione scolastica, ma alquanto
semplicistico per non dire asfittico, l'applicazione della legge da parte
del giudice riprodurrebbe lo schema del sillogismo categorico illustrato da
Aristotele negli Analitici Primi della sua Logica: premessa
maggiore la norma («chi cagiona la morte di un uomo mediante veneficio è
punito con l'ergastolo»), premessa minore il fatto («Tizio ha avvelenato e
ucciso Caio»), conclusione l'applicazione della norma al fatto («dunque a
Tizio deve infliggersi la pena dell'ergastolo»). Ma nella realtà le cose
sono molto più complicate per ragioni logico-linguistiche prima ancora che
fenomenologiche, né quell'insegnamento gode più di alcun credito salvo forse
presso qualche personaggio politico di modesta levatura culturale che se ne
serve per ammonire i magistrati a compitare la legge senza
interpretarla.
La Costituzione italiana, al pari di altre Costituzioni, contiene un
insieme di princìpi fondamentali in tema di libertà, di eguaglianza,
d'istruzione, di lavoro, di sanità, di famiglia, di ambiente e così
via, che, com'è proprio dei In uno scenario cosiffatto, pur nel pelago dei dubbi e delle cautele che devono costituire il sale e il freno della riflessione filosofica, credo si possa aderire al punto di vista di quegli studiosi che, nella contesa storica tra giusnaturalismo e giuspositivismo, scorgono l'affacciarsi di una terza ipotesi: l'ipotesi secondo cui la riaffermazione del primato della legge si tempera con l'affermazione di un dovere d'interpretazione del diritto che sia sensibile alle istanze di giustizia ideale appartenenti alla morale sociale storicizzata, che trovano il loro luogo tipico, ma forse non esclusivo, di emersione nelle moderne Carte costituzionali. Legalità, politica, giustizia, etica, senza che le rispettive matrici concettuali abbiano a confondersi l'una con l'altra, possono forse in questa prospettiva equilibrarsi in una dialettica di distinti che le sottragga a ogni cristallizzazione lasciando aperta la strada verso il futuro: verso un futuro senza punti di arrivo, ma nutrito della speranza nelle sorti progressive della società umana. Un futuro illuminato dal lampeggiare del vivido frammento di divinità che ogni uomo custodisce dentro di sé.
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