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 Legalità tra etica, diritto e politica di Francesco Saverio Borrelli 
 "Ci 
    sarebbe forse possibile vivere, se fosse corrotta quella parte di noi che 
    viene turbata dall'ingiustizia, mentre dalle cose giuste riceve 
    giovamento? È giusto o ingiusto che si cerchi di evadere pagando e 
    ringraziando coloro che ci aiuteranno a farlo? Se ci sembra giusto, 
    proviamoci; altrimenti, se ci apparirà chiaro che di un'azione ingiusta si 
    tratta, non preoccupiamoci di dover morire o di subire qualsiasi altra pena, 
    restiamo con tranquillità al nostro posto e diamoci pensiero, piuttosto, di 
    non commettere ingiustizia. E se commettere ingiustizia è, per chi lo 
    fa, cosa né buona né bella, noi non dobbiamo nemmeno ricambiare le 
    ingiustizie, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi. A condividere queste 
    opinioni sono e sempre saranno in pochi, e fra chi la pensa così e chi no, 
    non è possibile comunità d'intenti. Ma può sopravvivere, e non essere 
    sovvertita, una città in cui si fa quanto è possibile per distruggere le 
    leggi, una città in cui le sentenze non hanno efficacia, e possono essere 
    invalidate e annullate da privati cittadini?».     
    Nel celeberrimo dialogo di Platone, il Critone, da cui sono estratti 
    i passi appena citati, Socrate respinge l'insistente proposta del discepolo 
    Critone, che vorrebbe farlo fuggire dalla prigione e da Atene con l'aiuto di 
    amici fedeli e generosi che hanno raccolto il denaro necessario per 
    corrompere il carceriere. In quelle proposizioni, in quegli interrogativi, e 
    in generale negli scenari dialettici dell'intero dialogo - la cui rilettura, 
    in tempi di pensiero debole, ma soprattutto di morale debole, non si 
    raccomanderà mai abbastanza - è possibile cogliere il riferimento, diretto o 
    indiretto, a tutti gli aspetti del tema enunciato nel titolo: la legalità 
    intesa come osservanza delle leggi della città; l'etica, come norma 
    dell'agire individuale posta dalla ragione e dalla coscienza; la giustizia, 
    come riverbero dell'etica ma anche come applicazione della legge da parte 
    dei     
    Mi accingo a proporre un modesto contributo di riflessione sulle 
    tematiche alte della giustizia, in un momento caratterizzato da 
    polemiche non sempre disinteressate, da disinformazione, da disorientamento 
    dell'opinione pubblica, e chiarezza vorrebbe che anzitutto si tentassero 
    definizioni almeno provvisorie di ciascuno dei termini enunciati. Senonché 
    ci accorgeremo ben presto come essi facciano parte di una sorta di struttura 
    a geometria variabile, non tanto per la multifunzione lessicale di alcuni, 
    quanto per la diversità delle prospettive culturali, storicamente e/o 
    ideologicamente condizionate, da cui possono trarre luce, e per i nessi di 
    rimando reciproco dall'uno all'altro. 1. 
    Il senso della legalità     
    Di legalità si parla in senso oggettivo, per indicare il principio di 
    organizzazione dei moderni ordinamenti giuridici, basato su un corpo 
    precostituito di norme generali e astratte destinate a vincolare più o meno 
    strettamente le stesse istituzioni, oltre che i cittadini e i rapporti tra 
    loro. In accezione più specifica, nel diritto penale il principio di 
    legalità, accolto nell'art. 25 della Costituzione italiana e negli artt. 1 e 
    2 del Codice penale, vieta che qualcuno possa esser punito per un fatto che 
    non sia previsto come punibile in virtù di norma anteriormente entrata in 
    vigore (irretroattività della legge penale). Suo corollario è il principio 
    di tassatività, che impone la formulazione delle fattispecie legali, o 
    figure di reato, mediante descrizioni analizzabili con un numero finito di 
    operazioni mentali, e che, correlativamente, inibisce la creazione di nuove 
    fattispecie criminose da parte della giurisprudenza. Sempre sul piano 
    dell'oggettività, la connotazione positiva o negativa di legalità sta a 
    indicare, come predicato, la relazione di compatibilità o contrasto di 
    determinati atti o fatti o persino iniziative istituzionali con i modelli 
    normativi vigenti ai vari livelli dell'ordinamento.     
    Se ci poniamo dal lato dei soggetti dell'ordinamento, la legalità 
    indica il momento anche psicologico del sottostare spontaneamente alla 
    legge: una sottomissione che può scaturire da abitudine contratta 
    passivamente, da disciplina     
    Dal punto di vista del valore, non v'è dubbio che il rispetto della legalità 
    sia fattore, indice e conseguenza ad un tempo del coefficiente di 
    coesione nelle formazioni sociali. La morale di sostegno 
    dell'ordinamento, di ogni ordinamento, ne rappresenta un collante 
    indispensabile alla sopravvivenza, perché, se è vero che esistono 
    istituzioni preposte al controllo della legalità e all'attuazione anche 
    coattiva della legge, la possibilità di coercizione incontra dei limiti, nel 
    senso che decresce in misura proporzionale, forse più che proporzionale, 
    all'incremento statistico di diffusione delle violazioni, fino a scendere in 
    prossimità del livello zero quando lo scostamento dalle norme sia 
    generalizzato. In altri termini, ogni punto percentuale d'incremento nella 
    diffusione della devianza dovrebbe fronteggiarsi in ipotesi con un aumento 
    proporzionale, o più che proporzionale, delle risorse destinate al 
    ripristino della legalità. Ma è evidente che proprio il tasso di diffusione 
    dell'illegalità costituisce un limite nella reperibilità delle risorse umane 
    - e culturali - da destinare alla lotta contro la devianza. Per dirla 
    brutalmente: in una collettività di banditi sarà pressoché impossibile 
    trovare poliziotti e magistrati che affidabilmente gestiscano la legalità 
    ufficiale, piuttosto che la controlegalità banditesca.     
    La legalità è dunque un valore al quale il cittadino deve essere 
    educato perché il suo rispetto è fattore di conservazione dell'ordine 
    sociale, baluardo delle libertà democratiche, difesa contro l'arbitrarietà, 
    scudo dell'eguaglianza di tutti, ricchi e poveri, forti e deboli, nei 
    confronti dei poteri reali, o, com'è stato detto, «potere dei senza potere»; 
    è garanzia della prevedibilità dei comportamenti nostri e altrui, dunque 
    elemento di sicurezza e affidabilità reciproca nelle relazioni 
    intersoggettive; e, nelle democrazie aperte al rinnovamento, anche fattore 
    di emersione delle obsolescenze, delle irrazionalità, delle contraddizioni o 
    inadeguatezze dell'assetto esistente e dunque stimolo indiretto al progresso 
    istituzionale, normativo, economico. Ma la legalità è un valore, per così 
    dire, climatico al quale lo stesso comportamento delle istituzioni e dei 
    pubblici uffici deve ispirarsi nella quotidianità. Francesco Bacone 
    (+1626), nel saggio Della Grandezza (Of Great Place), 
    individuò i quattro difetti dell'autorità come «lentezza, villania, 
    debolezza, corruzione». Sono passati quasi quattro secoli, e in tutti i 
    Paesi occidentali, negli ultimi anni anche da noi, leggi e provvedimenti 
    amministrativi si sono succeduti per portare nelle prassi delle pubbliche 
    amministrazioni una maggior trasparenza e un atteggiamento di più attenta 
    considerazione degli interessi del cittadino. Si pensi alle leggi sulla 
    semplificazione delle procedure amministrative, sul diritto di accesso, 
    sulla tutela della riservatezza, sui diritti fondamentali del contribuente. 
    Molti passi avanti, dunque, ma solo un inguaribile ottimista potrebbe dire 
    che, di quei difetti, il nostro Paese si sia emendato. 2. 
    Rapporto tra diritto ed etica: giusnaturalismo o giuspositivismo?     
    Se la legalità, come rispetto dell'ordine esistente, è un valore, si può 
    accettare senza incertezze e senza residui una sorta di equazione tra 
    legalità e giustizia, o addirittura, su un terreno più avanzato, tra 
    legalità ed etica? Qui il discorso si complica. Da un punto di vista 
    piattamente operativo e realistico, giustizia significa né più né meno che 
    attuazione del diritto vigente, spontanea, ovvero ottenuta attraverso i 
    meccanismi dichiarativi e coercitivi della giurisdizione: ma il diritto 
    vigente e la sua applicazione puntuale conseguono sempre risultati 
    rispondenti al senso profondo di giustizia che ciascuno di noi porta in sé 
    come proiezione di un ideale interiore di dignità umana, di 
    equilibrata distribuzione dei beni materiali e spirituali della vita, di 
    saggia e razionale composizione dei conflitti, di tutela efficace delle 
    persone e delle cose? E se così non è, possiamo contestare la validità del 
    diritto vigente e rifiutare di conformarci ad esso?     
    Sul problema del rapporto tra legalità e giustizia astratta, tra nomos (legge) e
    dike (giustizia), le posizioni teoriche sono 
    fondamentalmente due: 1) il giusnaturalismo, che movendo dal 
    presupposto dell'esistenza di norme razionali, universalmente valide, 
    anteriori a ogni norma giuridica positiva, condiziona l'obbligatorietà e 
    quindi l'intrinseca validità della legge alla sua conformità a tali norme, 
    sicché in altri termini la legge è tale solo se eticamente giusta 
    (Verbindungsthese, nella terminologia tedesca, cioè tesi del 
    collegamento diritto/morale); 2) il giuspositivismo, che contestando 
    che la giustizia sia un reperto di natura, ossia un criterio desumibile 
    dalla mera osservazione dell'umanità e del mondo, sostiene che legge e 
    morale si pongono su piani distinti (Trennungsthese, tesi della 
    separatezza), e che il diritto è tale ed è vincolante a prescindere dalla 
    sua eticità.     
    La contrapposizione tra i due orientamenti non è puramente teorica e può 
    avere rilevanti ricadute pragmatiche. Mi riferisco alle questioni 
    dibattute sia al processo di Norimberga sia, successivamente, davanti ai 
    tribunali ordinari della Repubblica Federale Tedesca, per stabilire se 
    appartenenti alla Wehrmacht fossero giuridicamente tenuti, o meno, a 
    obbedire agli ordini dei superiori contrastanti con i diritti umani. Mi 
    riferisco, più in generale, alla teorizzazione del diritto di resistenza, 
    come opposizione contro le lesioni o le minacce ai diritti fondamentali 
    arrecate con atti, con provvedimenti, con leggi formalmente in vigore: e 
    alludo non tanto alla resistenza predicata nel medioevo da ecclesiastici 
    come Manegoldo di Lautenbach (+ 1119) o Giovanni di Salisbury (+ 1180), che 
    si dirigeva contro il sovrano, quanto a quella singolare formulazione del 
    diritto di resistenza che si rinviene nell'art. 35 della Costituzione 
    francese del giugno 1793 («di fronte alle ingiustizie e all'oppressione 
    l'insurrezione è per il popolo, e per ogni parte del popolo, il più 
    sacrosanto dei diritti e il più inderogabile dei doveri»), che si ritrova in 
    alcune Costituzioni di Laender tedeschi, ma anche a certi 
    atteggiamenti di disobbedienza civile o di ostruzionismo che qua e là 
    emergono nella vita contemporanea come manifestazioni di obiezione di 
    coscienza. Accenno di passaggio all'opinione di chi ha intravisto nella 
    menzione dei «diritti inviolabili dell'uomo», contenuta nell'art. 2 della 
    nostra Costituzione, un embrionale riconoscimento del diritto di resistenza. 
    Sono decisamente scettico, forse perché condizionato dal mio passato di 
    operatore della legge, circa la possibilità logica di configurare la 
    resistenza contro l'ordine costituito come diritto soggettivo riconoscibile 
    da norme giuridiche, giacché l'ordine costituito rappresenta un sistema 
    chiuso che può prevedere, e normalmente prevede, meccanismi di correzione 
    dall'interno, ma non può, per la contraddizione che non lo consente, 
    conferire patente di legittimità alla ribellione attuata da un proprio 
    appartenente che voglia dargli scacco matto.     
    Ma, al di là della constatazione che ogni ordinamento, democratico o 
    autocratico che sia, si autoqualifica «giusto», ritengo che concettualmente 
    non sia corretto condizionare il riconoscimento di validità, sul piano 
    giuridico, del diritto positivo al parametro della conformità a un modello 
    pretesamente naturale di giustizia o di eticità anziché al realistico 
    parametro dell'effettività. La natura, ahimé, nel mondo dei viventi non ci 
    mostra modelli di giustizia o di eticità, ma solo di forza, e quelli che noi 
    adottiamo come espressivi di valore sono proiezioni, talvolta nobilissime, 
    della nostra cultura, dunque modelli storicamente e ideologicamente 
    condizionati, dunque relativi a punti di vista più o meno condivisi, mai 
    categorici e definitivi. So bene che questo discorso solleva serie obiezioni 
    da parte di chi aderisce alla filosofia del diritto naturale. Ma, 
    laicamente, non posso ignorare il disordine sociale che si creerebbe 
    lasciando penetrare nell'ordinamento criteri assiologici ad esso estranei o 
    con esso contrastanti, come convinzioni religiose sulla cui valenza uno 
    Stato, appunto, laico non può esprimere disponibilità differenziate, o 
    filosofiche, costumanze di clan o di etnia, finalismi politici di 
    vario genere, privilegi di casta o di consacrazione popolare, criteri 
    pragmatici di particolari subculture, magari tradizioni gentilizie, e così 
    via, soprattutto in presenza di realtà geopolitiche di convivenza 
    multietnica e multiculturale, entro le quali legittimare l'esenzione dal 
    rispetto di questa o quella norma giuridica creerebbe un contesto di 
    confusione e incertezza.     
    L'ordinamento giuridico ha dunque carattere eminentemente autoreferenziale, 
    nel senso che esso, e soltanto esso, può dettare i criteri per riconoscere 
    giuridicità ai rapporti interpersonali, ai diritti, ai doveri. Ma 
    attenzione: questo non significa che la concezione legalistica del 
    positivismo giuridico e la credenza nel primato della legge debbano tradursi 
    eticamente sempre e comunque in un atteggiamento di passiva rassegnazione 
    alla gabbia di ferro della parola del legislatore. Non credo, ho detto, alla 
    resistenza come diritto soggettivo riconosciuto dall'ordinamento (perché 
    allora dovrebbe esistere anche il diritto soggettivo di opporsi alla 
    resistenza e l'enunciato sarebbe intrinsecamente contraddittorio, per 
    l'affermazione simultanea di due diritti uguali e contrari, come abbiamo 
    visto); ma credo che esista talvolta - non sembri paradossale - un dovere 
    morale nascente da un'esigenza categorica che può dar luogo alla resistenza 
    contro l'autorità come fatto di rottura, come atto di ribellione o 
    addirittura di rivoluzione, che nel tempo si legittimerà retroattivamente, 
    se e quando avrà aperto una falla nel sistema o magari l'avrà travolto 
    instaurando un nuove ordine settoriale o generale. Si tratta ovviamente di 
    ipotesi-limite, di situazioni nelle quali non per spunti episodici e 
    occasionali, ma per profondo, insanabile essenziale contrasto tra 
    l'ordinamento e la coscienza morale non vi sia e non possa più 
    esservi compatibilità tra ciò che la legge pretende e ciò che la voce perentoria 
    del foro interiore reclama come giusto; situazioni nelle quali non 
    l'opinione del singolo o del gruppo, non la predicazione di un'ideologia o 
    di un programma politico, bensì la somma dei valori forti, riassuntivi delle 
    acquisizioni secolari e millenarie faticosamente assicurate dal procedere 
    della civilizzazione, renda assolutamente intollerabile e non 
    altrimenti rimediabile il conflitto tra l'ordine esistente e la dignità 
    della persona umana.     
    Non è difficile trovare nella storia del «secolo breve» da poco conclusosi 
    esempi concreti di tale situazione. La resistenza antifascista, 
    sebbene nell'ultima fase supportata, quanto a legalità, dalla presenza del 
    Regno del Sud, è certamente stata di questo tipo, come ribellione contro un 
    regime che, soppiantando il vecchio Stato liberale proprio nel momento in 
    cui la pressione dal basso avrebbe potuto farlo evolvere verso forme più 
    modernamente democratiche, gradualmente aveva conculcato tutte le libertà 
    del passato, aveva costretto il Paese e le istituzioni in schemi 
    centralistici e autoritari, aveva tentato e in parte realizzato 
    l'assoggettamento della giustizia, si era lanciato nell'avventura etiopica 
    per mera vanità colonialista, aveva inseguito le follie di Hitler prima con 
    le leggi razziali e poi con l'intervento nella seconda guerra mondiale. Un 
    insieme di circostanze che, incidendo negativamente con un'inversione di 
    tendenza storica nel patrimonio ideale di libertà e giustizia che le 
    rivoluzioni americana e francese avevano consacrato e la civiltà occidentale 
    aveva saldamente acquisito, ben giustificavano sul piano morale il rifiuto 
    d'obbedienza e la ribellione contro l'esistente non riformabile per altra 
    via. Ripeto: non riformabile per altra via, come si verifica nei regimi 
    autocratici, in cui la concentrazione del potere blocca il circuito 
    interattivo tra istituzione e sudditi.     
    Riassumendo: il rispetto della legge vigente costituisce un valore 
    sociale che deve essere affermato, coltivato e diffuso come esigenza 
    morale; dal punto di vista dell'ordinamento la giustizia e le sue 
    applicazioni s'identificano con la conformità alla legge; la non coincidenza 
    tra la giustizia legale (dike) e il senso della giustizia 
    (dikaiosyne) che ogni persona reca in sé come sintesi etico-culturale 
    del dover essere ideale, per quanto diffusa ne sia la percezione, non toglie 
    validità e vigore alla singola norma né esime dall'obbligo giuridico e 
    morale di rispettarla; solo in situazioni-limite di radicale, 
    intollerabile e insanabile contrasto tra il sistema vigente e le più 
    profonde e radicate convinzioni morali, la coscienza - non il diritto - 
    potrà consentire e dettare comportamenti di disobbedienza, di resistenza, di 
    rivolta come strumenti fattuali di rottura in vista della creazione di un 
    nuovo ordine. Mi rendo perfettamente conto della sensazione di grettezza che 
    può provocare un'impostazione per cui alle categorie della legalità e della 
    giustizia venga tendenzialmente impedita ogni connessione con parametri 
    esterni al diritto storicamente posto, sebbene nel parlar comune - e non 
    soltanto in quello - sia il primo sia, soprattutto, il secondo concetto 
    vengano spesso invocati, e talvolta connotati con espliciti riferimenti 
    verbali, in un senso che trascende il piano legalistico. Tuttavia, da un 
    punto di vista logico 3. 
    Il giudice tra legge, giustizia ideale e politica     
    Ed ecco che il discorso è naturalmente giunto all'approdo della politica, 
    vista nel suo aspetto di attività di produzione normativa. Una 
    produzione che non è destinata solo a regolare le relazioni intersoggettive 
    tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, ma, anzitutto, le 
    funzioni, l'organizzazione, le competenze, le modalità di svolgimento per 
    quanto riguarda la stessa attività delle istituzioni a cominciare dalla 
    legislazione. La politica, nei Paesi che ispirano il proprio assetto a 
    modelli di democrazia più o meno avanzata, fa capo a gestori con poteri di 
    rappresentanza - o solo di temporanea fiducia, secondo i pensatori 
    illuministi - conferiti dal popolo, negli Stati autocratici a dittatori che 
    di tali poteri si autoinvestono attribuendosi il compito, per grazia del 
    destino, d'interpretare i bisogni della collettività. Nell'uno e nell'altro 
    caso si.dà luogo alla formulazione di princìpi e all'articolazione di regole 
    che dovrebbero costituire proiezione formalizzata dell'autentica volontà, 
    dello spirito e dell'identità del popolo, e dunque anche e soprattutto degli 
    ideali di giustizia e delle istanze etiche corrispondenti alla cultura e al 
    costume della collettività. Ma poi, a valle e nell'ambito di tale 
    formulazione, la politica presiede nei vari livelli istituzionali alla 
    quotidiana amministrazione degli interessi della collettività, individuando 
    i fini concreti da perseguire e scegliendo i mezzi più 
    opportuni per la loro realizzazione. Sia nel primo sia nel secondo di 
    tali momenti l'autorità politica, quand'anche la si possa considerare 
    machiavellicamente svincolata da un rapporto immediato con il valore 
    assoluto dell'eticità, non può eludere il rapporto con la legalità, quindi 
    con la giustizia positivamente intesa, quindi con quelle istanze di eticità 
    che nella legislazione abbiano trovato accoglimento. Tale è il modello del 
    moderno Stato di diritto, in cui i vertici sovrani sono essi stessi 
    soggetti alla legge: prospettiva che ancora nel 1620, in 
    quell'Inghilterra che, pure, aveva conosciuto più di quattro secoli prima la
    Magna Charta Libertatum, scandalizzava il re Giacomo I. Al giurista 
    Edward Coke, infatti, che gli ricordava come i giudici dovessero obbedire 
    non al volere del sovrano, ma alle leggi del Paese, Giacomo I, che aveva 
    dalla sua il sostegno di Thomas Hobbes, rispondeva irato: «I shall be 
    under the law? which is treason to affirm» («Dovrei dunque sottostare 
    alla legge? È un atto di lesa maestà affermarlo»).     
    Ma la legalità non vincola soltanto i vertici esecutivi: anche i Parlamenti, 
    finché essi stessi non le modifichino secondo procedure prestabilite, sono 
    tenuti a rispettare le leggi vigenti, e ciò vale in particolare per le 
    Costituzioni rigide     
    Con qualche malinconia, e senza temere d'incorrere in vilipendio della 
    nazione, possiamo francamente riconoscere che nel nostro Paese la cultura 
    della legalità non ha radici né profonde né estese, probabilmente in 
    conseguenza     
    In uno scenario così caratterizzato sarebbe stato ben difficile che le 
    istituzioni rimanessero del tutto incontaminate da inclinazioni non 
    esattamente ortodosse. Vi è stata la stagione di «tangentopoli», con 
    il suo intreccio inestricabile di politica e affarismo, con il suo sistema 
    occulto - ma non tanto - di drenaggio di ricchezza a favore di partiti, 
    correnti politiche e personaggi corrotti. Vi è poi stato il tentativo, con 
    «mani pulite», di ripristinare la legalità nella politica e 
    nell'amministrazione. Le cronache recenti inducono al più nero pessimismo 
    circa l'utilità di quel tentativo, che sembra circoscritta alla mera 
    dimostrazione che, se si vuole, qualcosa si può fare contro la corruzione. 
    Appunto: se lo si vuole. Ma da tempo è in atto il riflusso, sotto 
    forma di reazione punitiva da parte della classe politica verso la 
    magistratura, e di sfiduciata stanchezza e rassegnazione nell'opinione 
    pubblica, pervasa da quell'indifferenza di fondo verso tutto ciò che non 
    tocca gli interessi personali, da quella sorta di relativismo morale, che 
    secondo alcuni studiosi sarebbero tipici dell'io cosiddetto postmoderno o 
    postindustriale. Non mi dilungo in questo inciso sulla realtà nazionale né 
    su alcuni aspetti di essa, anche a livello elevato, che mostrano segni di 
    squallore senza l'eguale nei Paesi di democrazia liberale. L'ho aperto per 
    esemplificare un momento particolare del rapporto in casa nostra tra 
    politica e giustizia, a proposito del controllo di legalità che la 
    magistratura non può non esercitare in presenza di notizie di reato, o 
    comunque se debitamente sollecitata,     
    D'altra parte il tema del rapporto tra politica e giustizia, più esattamente 
    tra politica e giurisdizione, non s'identifica con il problema locale e 
    forse transeunte dei politici inquisiti dalla magistratura, ma ha un respiro 
    ben più ampio     
    Può riuscire utile a questo punto ricordare l'ascendente storico meno remoto 
    del fenomeno. Sebbene comunemente la separazione dei poteri venga fatta 
    risalire al pensiero illuministico, e io stesso poco fa abbia richiamato 
    Montesquieu, a cui bisognerebbero aggiungersi Locke, Rousseau, Constant e la 
    concezione del «regno della legge» passata intatta dalla Rivoluzione 
    francese alla Restaurazione, in realtà l'attuale posizione del potere 
    giudiziario in Italia, più che ai modelli francese e inglese, va ricollegata 
    al modello americano conseguente alla Costituzione varata nel 1787 dalla 
    Convenzione di Filadelfia. In Francia, infatti, la rigida 
    legalizzazione del potere giudiziario, la visione del giudice come «bocca 
    della legge», come severo applicatore della legge, la diffidenza per ogni 
    operazione di interpretazione o addirittura il suo divieto (filosoficamente 
    insensato, ma tant'è), la centralità del governo e dunque del potere 
    esecutivo (Napoleone: «Il Governo è al centro della società come il sole, 
    tutte le altre istituzioni devono percorrere la loro orbita attorno a lui, 
    senza mai allontanarsene»), hanno mantenuto la magistratura in una 
    condizione di sostanziale sottoposizione all'Esecutivo, che non è venuta 
    meno neppure con la Costituzione gollista del 1958. In Gran Bretagna 
    la situazione è diversa, ma solo nel senso che il baricentro del sistema è 
    il Parlamento, che controlla sia il potere giudiziario sia quello esecutivo, 
    senza alcuna possibilità per il giudice di mettere in discussione il 
    contenuto della statute law (legge scritta), neanche se     
    Il modello americano, nel secondo dopoguerra del XX secolo, è stato recepito 
    negli ordinamenti di vari Stati europei, tra cui la Repubblica Italiana, con 
    la creazione di Costituzioni rigide che, incorporando, è stato detto, la 
    dimensione secolarizzata della moralità, o la «positivizzazione del diritto 
    naturale», formano uno strato normativo soprastante alla legislazione 
    ordinaria, con il quale il giudice è chiamato a confrontarsi direttamente, 
    sia traendone criteri di giudizio d'immediata applicazione, sia rimettendo 
    alle Corti costituzionali questioni di legittimità di leggi ordinarie. Già 
    questa possibilità di dialogo diretto tra il giudice e la 
    Costituzione passa, per così dire, sopra la testa del legislatore 
    ordinario, alla ricerca di un risultato di giustizia che la legge non 
    garantirebbe. Ma anche altri fattori di mutazione concorrono ad abbassare 
    gli steccati tradizionali tra la giurisdizione e il terreno delle decisioni 
    politiche, ad arricchire sia l'attesa di giustizia sia il significato della 
    legalità, a svelare più chiaramente la nota di creatività che non può non 
    celarsi - checché ne pensassero gli illuministi e con buona pace dei 
    politici gelosi - nell'operazione mentale della ricerca e 
    dell'interpretazione del diritto da applicare al caso singolo. È noto 
    che secondo un insegnamento di tradizione scolastica, ma alquanto 
    semplicistico per non dire asfittico, l'applicazione della legge da parte 
    del giudice riprodurrebbe lo schema del sillogismo categorico illustrato da 
    Aristotele negli Analitici Primi della sua Logica: premessa 
    maggiore la norma («chi cagiona la morte di un uomo mediante veneficio è 
    punito con l'ergastolo»), premessa minore il fatto («Tizio ha avvelenato e 
    ucciso Caio»), conclusione l'applicazione della norma al fatto («dunque a 
    Tizio deve infliggersi la pena dell'ergastolo»). Ma nella realtà le cose 
    sono molto più complicate per ragioni logico-linguistiche prima ancora che 
    fenomenologiche, né quell'insegnamento gode più di alcun credito salvo forse 
    presso qualche personaggio politico di modesta levatura culturale che se ne 
    serve per ammonire i magistrati a compitare la legge senza 
    interpretarla.     
    La Costituzione italiana, al pari di altre Costituzioni, contiene un 
    insieme di princìpi fondamentali in tema di libertà, di eguaglianza, 
    d'istruzione, di lavoro, di sanità, di famiglia, di ambiente e così 
    via, che, com'è proprio dei In uno scenario cosiffatto, pur nel pelago dei dubbi e delle cautele che devono costituire il sale e il freno della riflessione filosofica, credo si possa aderire al punto di vista di quegli studiosi che, nella contesa storica tra giusnaturalismo e giuspositivismo, scorgono l'affacciarsi di una terza ipotesi: l'ipotesi secondo cui la riaffermazione del primato della legge si tempera con l'affermazione di un dovere d'interpretazione del diritto che sia sensibile alle istanze di giustizia ideale appartenenti alla morale sociale storicizzata, che trovano il loro luogo tipico, ma forse non esclusivo, di emersione nelle moderne Carte costituzionali. Legalità, politica, giustizia, etica, senza che le rispettive matrici concettuali abbiano a confondersi l'una con l'altra, possono forse in questa prospettiva equilibrarsi in una dialettica di distinti che le sottragga a ogni cristallizzazione lasciando aperta la strada verso il futuro: verso un futuro senza punti di arrivo, ma nutrito della speranza nelle sorti progressive della società umana. Un futuro illuminato dal lampeggiare del vivido frammento di divinità che ogni uomo custodisce dentro di sé. 
 
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