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Italia, quanto silenzio sul mal
di carcere di Marzio Barbagli
Nel 2001, nelle
carceri italiane, si sono uccisi 69 detenuti. Di per sé, qualcuno può
osservare, questa cifra non dice nulla. Ci si uccide per molte ragioni e nei
luoghi più vari, in auto o per strada, in una povera casa di periferia o su
una spiaggia mentre il sole tramonta. Per capire cosa sta succedendo abbiamo
dunque bisogno di qualche altro dato. Nel 2001 il tasso di suicidio dei
detenuti è stato di 124 per 100mila presenti, quello della popolazione
italiana di 8 per 100mila. Quindi in carcere ci si uccide ben quindici volte
più che fuori. D'altra parte, anche il tasso di suicidio delle carceri varia
nel corso del tempo e quello del 2001 è stato il più alto registrato negli
ultimi dodici anni. Come spiegare
questo forte aumento? Alla fine di luglio del 2000, commentando la mancata
approvazione di un provvedimento di amnistia o di indulto, Adriano Sofri
scriveva di aspettarsi non un'ondata di proteste, ma l'aumento del numero di
suicidi. «Vedrete nell'estate che continua - osservava - quando si sarà
saputo ufficialmente che “non danno niente”. Se ne andranno, senza dire
niente». Questa ipotesi, ripresa sei mesi dopo su La Stampa da Luigi
Manconi, sembra a prima vista quella buona per interpretare cosa è successo.
E' possibile che
anche la delusione dell'estate di due anni fa abbia avuto qualche effetto
sul numero delle morti volontarie, dando la spinta definitiva a qualche
detenuto che già da tempo pensava di porre fine ai suoi giorni. Ma se si
analizzano le serie mensili dei suicidi e quella dell'ultimo quindicennio ci
si accorge che l'ipotesi Sofri non basta a spiegare cosa è successo. In
primo luogo, perché è difficile pensare che gli effetti di quella delusione
siano continuati anche per tutto il 2001. In secondo luogo, perché l'aumento
del tasso di suicidio è iniziato prima, all'inizio degli anni '90. Si può
allora cercare di ricondurre questo aumento agli altri grandi cambiamenti
avvenuti nelle carceri nell'ultimo decennio. Il primo è costituito dalla
rapidissima crescita della quota degli stranieri. L'ipotesi che si
può avanzare è che gli immigrati corrano il rischio di uccidersi più degli
autoctoni, perché per loro la reclusione è un'esperienza ancora più dura. Ma
questa ipotesi non trova conferma nei dati disponibili. Il secondo grande
cambiamento è dato dal sovraffollamento. Nei paesi nei quali (a differenza
di quanto avviene da noi) l'amministrazione penitenziaria ha promosso
indagini sui suicidi si è riscontrato che questi sono più numerosi negli
istituti con un eccesso di reclusi. Riducendo lo spazio e le altre risorse
disponibili, aumentando il rumore, la disorganizzazione, le interazioni non
desiderate, il sovraffollamento rende la vita in questi istituti ancora più
faticosa e stressante. Inoltre, con il sovraffollamento è più difficile
occuparsi in modo adeguato dei nuovi arrivati, dedicare loro le attenzioni e
le cure che meritano. Eppure, sappiamo
che è questa la fase più difficile, che è proprio questo il gruppo più a
rischio. Tutti i detenuti che entrano per la prima volta in carcere sono in
preda ad una forte ansia e alcuni di loro, dopo poco tempo, cadono in uno
stato di depressione. Sta di fatto che in Italia, nell'ultimo decennio, il
tempo intercorso fra l'ingresso in un istituto ed il suicidio è stato di non
più di tre giorni nel 14% dei casi e fra quattro giorni ed un mese in un
altro 21%. Tuttavia, secondo i risultati delle ricerche condotte in vari
paesi, il sovraffollamento influisce moderatamente sulla frequenza delle
morti volontarie. D'altra parte, i
dati italiani mostrano che fra sovraffollamento e tasso di suicidio non vi è
sempre una relazione chiara, perché quest'ultimo era alto anche alla fine
degli anni '80, quando il numero dei reclusi era molto minore di oggi. Il
terzo grande cambiamento è costituito dal forte aumento della quota dei
tossicodipendenti, che hanno raggiunto il 29% dei reclusi. E, secondo i
risultati di alcune ricerche condotte in Gran Bretagna e nel Stati Uniti, in
carcere questo gruppo corre maggiori rischi di suicidio di altri. I
dirigenti del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria sono
consapevoli di quanto sta accadendo nelle carceri del nostro paese.
Lo prova il fatto
che già nel 2000 essi hanno deciso di creare una unità di monitoraggio per
esaminare uno per uno i casi di suicidio (come riferisce Le Due Città,
l'interessante rivista che pubblicano da tre anni). Ma questo non basta. E'
giusto che dei drammatici problemi delle carceri del nostro paese si
occupino il governo ed il parlamento. E' necessario che vengano promosse
ricerche scientifiche serie e rigorose per descrivere e spiegare cosa sta
avvenendo. E' indispensabile che vengano investite nuove risorse per rendere
più adeguate le strutture ed il personale degli istituti
penitenziari.
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