|
Colpa
mortificante, e responsabilità vivificante di Giancarlo Caselli Per meglio predisporci alla
riflessione e all'ascolto, come vuole la logica di questi incontri, abbiamo
pensato che potesse essere di grande aiuto la lettura di alcuni testi che
esplicitano alcuni passaggi fondamentali. In questo modo credo che sia più
agevole riflettere, e tentare itinerari di giustizia. Il titolo e il filo
conduttore di questi incontri è Dalla colpa alla responsabilità. Non è un
itinerario facile, perché esige libertà e soprattutto disponibilità a rompere
determinati schemi che rappresentano una proposta culturale, molto superficiale,
ma di fatto dominante e, nello stesso tempo, o proprio per questo, schemi che
hanno radici profonde nella nostra umanità. Non possiamo negarlo: cercare la
colpa è molto più facile, e più rassicurante che non interrogarci su
responsabilità che possono anche coinvolgerci, metterci in gioco. La colpa
permette di incontrare il colpevole, o presunto tale. E in questo modo ci
permette di liberare la nostra coscienza. Liberarla da quei sottili vincoli che
ci uniscono gli uni agli altri. La responsabilità invece è un itinerario molto
più complesso, perché ci obbliga a ragionare, a stare nei termini della
corresponsabilità. La colpa non cancella la dignità
dell'uomo Proviamo a entrare più nel vivo
con la prima delle tre letture - tutte e tre tratte dal Vangelo - che vorrei
proporvi: un brano del Vangelo di Luca (15,1-32): «Si
avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e
gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro".
Allora egli disse loro questa parabola. "Chi di voi se ha cento pecore e ne
perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta,
finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a
casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho
trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in
cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno
bisogno di conversione. O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non
accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?
E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con
me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto. Così vi dico, c'è più
gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte". Gesù disse ancora: "Un uomo
aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del
patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio
più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò
le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese
venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò
e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei
campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano
i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti
salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo
e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come
uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il
padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate
qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari
ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è
stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei
campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò
un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: è
tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo
ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa
con i miei amici. Ma ora questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le
prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il
padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava
far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in
vita, era perduto ed è stato ritrovato"». Abbiamo sentito la parabola: due
figli, il più giovane che chiede la sua parte di eredità, se ne va, dilapida
tutto, nella piena cultura dello spreco. Rimane senza nulla, diviene guardiano
di porci, e da quella posizione medita un cambiamento, fondato sulla richiesta
di perdono. Progetta il discorso: «Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te non sono più degno di essere
chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni». Parte. Il padre lo
intravede, gli corre incontro, il figlio comincia il discorso, ma il padre lo
interrompe. Il figlio riesce soltanto a dire: «Ho peccato contro il cielo e
contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio ‑ quello
che noi magistrati chiameremmo il dispositivo. ‑ Trattami come uno dei
tuoi garzoni », ma non riesce a concludere. Perché il padre lo interrompe; non
gli permette di pronunciare tutte le parole pensate. Il senso è chiaro: nessuna
colpa può negare la condizione preesistente, nessuna colpa può cancellare la
dignità di figlio, o fratello, che si possiede. Forse questo è il punto più
basso, più avvilente, più distruttivo della colpa: spingere a pensare che sia
giusto persino negare la propria dignità. Il colpevole considera giusto essere
non più figlio, non più persona, non più portatore di una dignità. Ma il
padre rompe questo meccanismo. Quando il figlio inizia la frase finale il padre
lo interrompe. E l'invito è chiaro: non entrare nella spirale della colpa, non
lasciarti travolgere da essa, resta fuori, assumi le tue responsabilità, ma non
ti annullare. Tu resti figlio. Sarebbe colpa peggiore dell'altra che un errore
anche grave, anche significativo, negasse la tua condizione, la tua dignità di
figlio, di fratello. Sarebbe non soltanto colpa, sarebbe anche un percorso, una
logica disumana. C'è un altro aspetto
significativo del passo: il figlio maggiore non solo non capisce, ma non vuole
accogliere la logica e la prospettiva del padre. Secondo lui l'altro che ha
sbagliato deve stare dentro l'errore, non può uscirne. E il linguaggio del
fratello maggiore è esplicito, è duro. Non dice: «mio fratello è tornato »,
ma: «questo tuo figlio »; dove l'espressione «questo » indica una presa di
distanza, una rottura di solidarietà, il massimo che il linguaggio può
esprimere: in tutte le lingue l'espressione «questo » o «questi » indica
separazione e disprezzo. Ed è la logica di chi vede, interpreta, usa la colpa
degli altri per separarsi, per rivendicare una propria presunta innocenza, una
propria pretesa estraneità. Eppure anche in questo caso la
parabola ci mette di fronte a logiche inattese. Il padre osserva l'errore del
figlio più giovane, e attende il suo ritorno, ma col figlio maggiore cambia
atteggiamento: esce dalla casa a cercarlo, gli parla, tenta di convincerlo, di
dissuaderlo dal suo errore. Abbiamo letto anche la parte
iniziale della parabola, per capire chi sono i veri destinatari: i farisei che
si ritengono puri, e mai coinvolti, né coinvolgibili nel peccato degli altri. Uscire
dalla colpa per incontrare le proprie responsabilità esige un metodo
personalizzato. Ed è per questo che il padre usa con i due figli due
atteggiamenti distinti, diversi: il primo lo attende, il secondo esce a
cercarlo. Storie, colpe diverse, che richiedono logiche, risposte, atteggiamenti
diversi. Schiacciare tutto e tutti su un'unica strategia correttiva è ingiusto
perché diverse sono le colpe, e diverse, sempre diverse, le storie delle
persone. Non appiattire le persone con i loro errori in un unico contenitore è
itinerario non soltanto sapiente, è premessa di giustizia. E’ sforzo perché
nessuna colpa neghi mai la dignità originaria della persona e perché non si
generalizzi fino al punto di negare l'originalità di ciascuno. Le colpe
schiacciano, le colpe negano speranza, ma ritrovare le proprie responsabilità
è esigenza che si può realizzare soltanto nella chiarezza, la chiarezza di un
percorso che sappia incontrare la persona, ciascuna persona, e affrontare il
problema senza invertire e capovolgere i termini. Il padre della parabola opera
così. Non solo, propone ai fratelli di re incontrarsi perché la loro libertà
ritrovata resti la prima misura della giustizia. Il testo non ci dice se il
fratello maggiore rientra in casa per partecipare alla festa; il racconto si
sospende, si interrompe. Io credo che sia volutamente sospeso, per ricordarci
quale atteggiamento vivere quando chi ci è accanto si assume le responsabilità
dei suoi errori: disponibili a entrare nel suo cambiamento, senza giudicare,
pronti, per quanto possibile, a sostenere il suo reinserimento. Condanna e riabilitazione Il secondo brano che vi propongo
è tratto invece dal Vangelo di Giovanni (8,1‑11): «Gesù si avviò allora verso il
monte degli Ulivi. Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo
andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei
gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono:
'Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè,
nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne
dici?". Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che
accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome
insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: "Chi di voi è
senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei". E chinatosi di
nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno,
cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là
in mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti
ha condannata?". Ed essa rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù le
disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più"». A Gesù viene portata una donna
colta in flagrante adulterio. La legge di Mosè in proposito è chiara e netta:
bisogna lapidare la donna. Ma per Gesù diventa evidente che quei sassi, se
lanciati, schiacciano non soltanto la colpa, schiacciano soprattutto la persona,
e la colpa diventerebbe un macigno che uccide, anziché la premessa di
cambiamento, di liberazione. Gesù conosce il cuore degli uomini, e quindi non
vieta di lanciare i sassi, semplicemente propone che il primo ad alzare la mano
sia chi non ha responsabilità personali per cui chiedere perdono. Ma quelli «
se ne andarono uno per uno ». E sulla nozione di colpa intesa
come condanna senza appello si articola una logica insidiosa, difficile a
sradicarsi, una logica che in ogni caso ostacola qualunque pratica rieducativa,
mentre il modo per avviare percorsi rieducativi è invertire questa logica. Il
che significa anche essere non tanto permissivi con sé e severi con gli altri,
quanto piuttosto il contrario. Solo lo sguardo lucido, sincero, sulle proprie
fragilità, sulle proprie responsabilità mancate, garantisce il coraggio di non
alzare la mano in termini vendicativi contro l'altro, contro gli altri. Le
parole conclusive di Gesù sono molto chiare: alla responsabilità riconosciuta
per i propri errori non si può rispondere con la condanna che nega la vita, ma
è necessario creare le premesse perché l'altro possa nuovamente andare,
riprendere il proprio cammino, ricominciarlo o finalmente cominciarlo, se mai
non ha potuto consapevolmente avviarlo. «Va' e d'ora in poi non peccare più ». E allora, a questo proposito,
emergono una serie di domande che mi sembrano quasi obbligate. La pena,
soprattutto la pena detentiva, il carcere, è condanna che schiaccia l'altro o
è percorso di riabilitazione, di possibile riabilitazione, per riprendere il
cammino senza ritornare ancora sullo stesso errore? Il carcere deve essere il
luogo dell'abbandono in cui dimenticare chi ha sbagliato, oppure può essere
l'extrema ratio per contenere chi può fare del male a sé e agli altri,
preparando però il terreno per un suo cambiamento? Quante condanne sono più
funzionali a eliminare, togliere di mezzo, buttar via la chiave, eliminare
l'altro, piuttosto che a provare a restituirgli il cammino? La differenza resta questa: la
colpa condanna, nega non soltanto la speranza, ma anche la vita; invece la
responsabilità, assunta liberamente, serenamente, restituisce e, in alcuni
casi, crea ex novo lo spazio per un
cammino. Il diritto e la giustizia Il terzo brano proviene dal
vangelo di Matteo (1,18‑25). Credo che sia un testo che, anche da parte
degli addetti ai lavori, non ci si aspetterebbe in una riflessione su colpa e
responsabilità. E forse, a una prima lettura, con riferimento al nostro tema,
può persino un po' sconcertare. Ma poi cercherò di motivare la mia scelta. «Ecco
come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa
di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera
dello Spirito santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla,
decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose,
ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe,
figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel
che è generato in lei viene dallo Spirito santo. Essa partorirà un figlio e tu
lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Tutto questo avvenne perché si
adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la
vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che
significa Dio con noi. Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva
ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, la quale, senza che
egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù ». Giuseppe è promesso sposo a
Maria, ossia, secondo le nostre categorie, fidanzato. Se non sbaglio, secondo la
legislazione ebraica, è già sposo. Ma, prima che inizi la convivenza, la sposa
rimane incinta. Comincia il riscatto dell'umanità, ma Giuseppe non lo sa
ancora. Sa invece che la legge su questo punto è severa: la sposa dovrebbe
essere lapidata. Ma, per salvare la vita alla sua sposa, Giuseppe decide di
ripudiarla in segreto. E’ amareggiato, facile immaginarlo, sofferente,
probabilmente umiliato, ma non vuole uccidere la donna che ama. Gli basta
allontanarsene in segreto, sganciare la sua vita da quella della sposa, e allora
a questo punto, possiamo domandarci: colui che rinuncia a un suo diritto ‑
era diritto di Giuseppe ripudiare la sposa ‑ per salvare la vita di un
altro, come possiamo definirlo? Forse noi diremmo semplicemente che Giuseppe era
buono, ma per l'evangelista non è soltanto questo, è prima di tutto giusto: «Giuseppe
suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla ». Ecco allora: rinunciare a un
diritto per salvare la vita di un altro non è soltanto bontà, è anche
giustizia. Al punto che, sviluppando coerentemente fino in fondo il
ragionamento, potremmo dire che, se Giuseppe avesse rispettato il suo diritto,
non sarebbe stato giusto, sarebbe diventato ingiusto. E’ una provocazione
scomoda, sconcertante, molto forte: quando la colpa dell'altro autorizza a
infierire sul colpevole, si entra nell'ingiustizia. E’ un percorso molto esigente,
molto difficile, quello che ci chiede di non usare la colpa dell'altro contro la
sua persona. Ma questo percorso è premessa di giustizia. La sola giustizia
capace di preparare la bontà vera, quella che tutti vorremmo, quella che tutti
cerchiamo. Ecco allora il punto di riflessione che mi ha portato a scegliere
questa lettura: l'assolutezza del diritto può diventare sentenza contro la
giustizia. Di qui la necessità di fare in
modo che la giustizia resti sempre il senso tanto della legge quanto del
diritto. Questo è il percorso da compiere, da provare a realizzare giorno per
giorno, perché questa è la giustizia che costruisce i necessari legami affinché
nessuna colpa venga mai vissuta nell'isolamento, nella condanna senza speranza. Chiamare giusto chi esce dal
diritto formale è una provocazione oltre misura, oltre ogni misura ma,
attenzione, non significa disobbedienza alla legge, significa capacità di
entrare nello spirito più profondo della legge. Queste sono riflessioni non so
fino a che punto accettabili, certo molto personali, ma che in ogni caso credo
suscettibili di qualche implicazione per quanto concerne il nostro agire. Dalla colpa alla responsabilità
è itinerario di difficile attuazione, perché sembra quasi, e in questi tempi
lo si vive quotidianamente, che abbiamo bisogno di colpe, di colpevoli, di
liberarci dai sensi di colpa, mentre dovremmo ritrovare una capacità adulta,
serena, di assumere le nostre responsabilità e la vera maturità del nostro
vivere. Alla luce delle riflessioni che
abbiamo sviluppato fin qui, c'è da chiedersi come dovrebbe cambiare il carcere.
La risposta è un lungo elenco di meno: meno luogo di segregazione, meno
condanna e più restituzione di nuovo cammino, meno luogo di contenimento di
problemi sociali irrisolti, meno disattenzione, meno solitudine. Di questo
vorrei parlare per concludere, visto che fin qui ho cercato di sviluppare, pur
con molti limiti, un minimo di riflessione teorica, mentre è assolutamente
necessario passare dalla teoria alla pratica. Fin qui ho parlato di necessità
di immaginare un carcere, un'espiazione della pena che sia anche proposta di
recupero, opportunità e occasione di rigenerazione. Occorre chiedersi quanta
parte di questo obiettivo di rieducazione sia realizzabile nel contesto reale
dell'istituzione penitenziaria. E’ necessario anche essere realisti e non
accontentarsi di risposte consolatorie. Le condizioni dell'istituzione
penitenziaria sono molto difficili, soprattutto perché oggi sul carcere si
scarica tutta una serie di problemi e, quindi, di compiti che, se le cose
funzionassero meglio, soprattutto per quanto riguarda il momento
dell'educazione, della prevenzione, dell'assistenza, del sostegno, potrebbero
essere affrontati con altri strumenti e potrebbero, dunque, trovare altre
risposte. Oggi il carcere funziona come ultimo livello istituzionale, come una
discarica dolorosa, molte volte tragica, come una discarica finale dove si fanno
precipitare problemi che non sappiamo vedere o che, se anche vediamo, non
sappiamo risolvere: i problemi della salute, della tossicodipendenza, quelli
collegati a fallimenti famigliari e scolastici, al disordine amministrativo,
alla miseria, all'immigrazione, alla disoccupazione, all'abbandono. Pochi sanno che il record di
durata di detenzione in Italia, 49 anni, non è detenuto dall'autore di una
strage o da un boss mafioso. E’ una persona che ha commesso, più di cinquant'anni
fa, i reati per cui è stata condannata. Ma oggi è persona che vive in una
cella di un ospedale psichiatrico giudiziario, dalla quale non vuole uscire,
dalla quale nessuno ha il coraggio di farla uscire, di fatto, per non farla
morire su una strada. Questa persona non ha un parente, o comunque non ha un
parente disposto a riceverla, non ha un'istituzione alternativa, o comunque non
ha un'istituzione alternativa disposta a riceverla, non ha un'assistenza
adeguata, esterna all'istituzione penitenziaria. Così sta trascorrendo il suo
quarantanovesimo anno nell'istituzione penitenziaria. In altri Paesi su questo
caso, io credo, ci si interrogherebbe molto più di quanto da noi ci si
interroghi sui permessi ai detenuti o su vicende processuali di certi imputati,
più o meno eccellenti. Da noi, trattandosi di persona senza nome, è un caso
privo di interesse. Eppure questo caso chiarisce
molto bene cosa sia di fatto il carcere nel nostro Paese. E chiarisce come
l'obiettivo di rieducare rischi di essere, se non un'utopia, quanto meno un
obiettivo molto distante, per quanto riguarda i tempi della sua effettiva
realizzazione, visto che tra teoria e prassi c'è uno scarto troppo profondo.
Ecco, questo scarto è testimoniato, dimostrato prima di tutto dalle cifre.
Fino a febbraio 2000 le presenze nelle carceri italiane contavano 52.784
persone, di cui 50.531 uomini e 2.253 donne. Se si considera la capienza
regolamentare, effettiva, delle nostre carceri rispetto al numero effettivo
dei carcerati constatiamo che ci sono circa 9.000 presenze in esubero. Questo
numero eccedente comporta alcune cose non di poco conto. Significa, per esempio,
che, oltre alla pena della sottrazione della libertà, il massimo concepibile
nel nostro ordinamento costituzionale, viene inflitta una pena accessoria che
non è prescritta dalla legge. Significa che le condizioni di lavoro del
personale penitenziario, della polizia penitenziaria e degli altri operatori
penitenziari, che sono già difficilissime, diventano ancora più ostiche.
Significa che gli spazi per quel necessario trattamento, perché la pena diventi
speranza, perché la pena diventi mano tesa per una possibilità di recupero,
si riducono decisamente. Nelle
nostre carceri c'è un'esigua minoranza di soggetti davvero pericolosi, o
ritenuti tali in base alla condanna inflitta, e una stragrande maggioranza di
soggetti che hanno sbagliato, e debbono conseguentemente, in base alla normativa
vigente, espiare la condanna loro inflitta, ma sono ‑ e lo dico con grande
rispetto ‑ dei poveracci che hanno sbagliato, soprattutto perché non
hanno funzionato, molte volte, tutta una serie di meccanismi politicosociali o
educativo‑preventivi. Allora occuparsi di questi
problemi, porre la drammaticità delle loro dimensioni non è una questione che
riguarda soltanto gli addetti ai lavori o chi fa queste cose per mestiere, ma
riguarda tutti quanti, credenti o non credenti (ma, se posso permettermi, da
parte dei credenti è necessario un impegno maggiore). E’ necessario occuparsi
di ciò anche perché è scritto nella Costituzione: la pena deve tendere
all'educazione del condannato. E’ necessario perché rappresenta un dovere di
solidarietà preciso, che credo sia scolpito nelle coscienze dei cristiani e di
ogni persona di buona volontà. E’ necessario perché in uno Stato moderno
‑ nella settima potenza industriale del mondo ‑ è un dovere di
civiltà l'attenzione verso chi ha maggiormente bisogno, ancorché abbia
commesso errori anche gravi. Tuttavia se tutto questo non sembrasse sufficientemente
convincente e volessimo fare un ragionamento molto più, non dirò meschino,
ma utilitaristico, di costi e benefici, dovremmo considerare che un carcere che
non combini con l'espiazione della pena almeno il tentativo di recuperare,
risocializzare, reinserire, un carcere che sia soltanto segregazione, con
momenti di avvilimento e abbrutimento, come la situazione attuale presenta,
finisce con l'essere scuola di delinquenza, cinghia di trasmissione di scelte di
contrapposizione, molte volte anche violenta, alle regole di convivenza. Un
carcere siffatto diventa un fattore di profondo disagio, di contagio, di
insicurezza. Mentre un carcere che offra la speranza, la prospettiva,
l'opportunità, o che almeno tenti questa direzione è un carcere che prova a
realizzare qualcosa che può significare la speranza, la prospettiva,
l'opportunità e potrebbe comportare diminuzione di recidiva, minor numero di
delitti commessi, quindi più sicurezza. Sicurezza e recupero non sono categorie
antitetiche, confliggenti, incompatibili fra loro, ma due parti della stessa
medaglia che si integrano. Qualunque altra via è perdente e controproducente,
non soltanto per i singoli, ma anche per la collettività nella quale viviamo. Ecco perché davvero vi sono
grato dell'occasione offertami riflettere su queste cose è importante. Spero
che le considerazioni emerse in quest'occasione riescano a fare in modo che
ciascuno di noi, almeno un poco, guardi ai problemi del carcere con uno sguardo
nuovo. L’insegnamento del Vangelo ancora una volta è illuminante: Gesù
raccomanda di «visitare i carcerati ». Cristo evidentemente conosceva bene la
psicologia dei carcerati e sapeva che, se vengono lasciati soli, possono entrare
in una spirale, e molte volte purtroppo vi entrano, di distruzione di sé non
solo psichica ma anche fisica. E conosceva anche la nostra psicologia di uomini
liberi, che siamo portati troppo facilmente a ragionare in termini di «se lo
sono voluto », «dovevano pensarci prima », « tanto non c'è niente da fare
» o «che cosa ci posso fare io »... Questo è un modo di pensare, purtroppo,
molto diffuso nella nostra collettività. «Visitare i carcerati » significa
anche rifiutare le logiche del «buttare via la chiave », che sono poi logiche
che ci portano a rinchiuderci, a barricarci in un recinto, magari ricorrendo,
per difenderci dagli altri, a quegli stessi mezzi, a quegli stessi strumenti che
vorremmo respingere e dai quali ci vorremmo difendere: la violenza. Si tratta di problemi complessi,
e non so fino a che punto io li abbia ulteriormente complicati, ma comunque sono
problemi ai quali vale davvero la pena di dedicarsi. Qui a Milano, ho trascorso
il pomeriggio nel carcere di San Vittore, per discutere insieme a vari operatori
e a vari detenuti impegnati quotidianamente in attività lavorative, del
problema del lavoro nel carcere: educazione significa lavoro, formazione
scolastica e professionale e, quindi, possibilità concrete di un reinserimento
che passi attraverso un'occupazione. Se non è così, i discorsi diventano
vuoti. E l'invito che mi permetto di
rivolgere a chi è già impegnato su questo versante è quello di proseguire, e
a chi non lo è di cominciare, perché è proprio l'attenzione solidale di tutti
su questi problemi che può aiutare a risolverli, non soltanto nell'interesse
dei carcerati, ma nell'interesse della collettività intera, che perseguirebbe
così, in maniera concreta, razionale, lucida, quell'esigenza di sicurezza che
tanto avverte.
|