Carcere e affari...

 

It’s business baby!
Investimenti ed espansione nel sistema penitenziario

di Paola Bonatelli 

 

8.1 - Lavori in corso

 

Le carceri italiane sono quasi tutte dei cantieri. Spesso i lavori di ordinaria manutenzione, quelli in economia, vengono svolti dai detenuti, mentre l'attività di ristrutturazione vera e propria, affidata a ditte esterne, riguarda per la maggior parte dei casi il rifacimento delle docce.

Le "carceri d'oro" degli anni Ottanta, come abbiamo avuto già modo di segnalare nel primo Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, risentono di alcuni problemi "tipici": umidità, scollamento dei pannelli usurati, problemi agli impianti idraulici (tubature dell'acqua, fogne). Le carceri insediate in strutture antiche, castelli, fortezze, conventi, sono in dismissione, ma nel frattempo le attività di ristrutturazione non si fermano (citiamo un caso per tutti, San Vittore), anche perché lo stato di degrado rasenta sovente la fatiscenza. C'è anche chi stila una classifica degli istituti: l'autore è Alfredo Bonazzi (per la mala "Il Gratta", quasi 30 anni nelle patrie galere), per il mensile "Maxim".

Per quanto riguarda l'adeguamento delle strutture penitenziarie ad alcuni parametri fissati dal nuovo Regolamento di Esecuzione entrato in vigore il 20 settembre del 2000 - abbondante luce naturale, passaggio d'aria esterna, doccia e acqua calda in cella, bidet per le donne, cucina per non più di 200 reclusi, spazio-mensa - si può affermare che nessun carcere italiano è attualmente in regola con la generalità degli standard previsti. Alcune carceri, qua e là per il paese, hanno fatto qualche tentativo di adeguamento: il carcere di Rieti, che però rientra fra quelli di prossima dismissione, ha le docce e l'acqua calda nelle celle, ma gli spazi per i passeggi sono piccoli; la Casa circondariale di Camerino (33 detenuti) ha sei celle dotate di bagno interno e acqua calda, ma carenza di spazi interni ed esterni per le attività; le celle del carcere di Monza hanno il pulsante della luce all'interno e l'interfono, ma le sale per la "socialità" sono piccole e c'è una sola cucina per 500 detenuti; nella Casa circondariale di Rebibbia-Nuovo Complesso due sezioni hanno docce e acqua calda all’interno delle celle; a Trieste ci sono i lavabi con l'acqua calda; sempre a Rebibbia verrà realizzato un prefabbricato per le attività scolastiche e di formazione professionale. Molte carceri hanno sistemato, o hanno in previsione di farlo, gli spazi adibiti ai colloqui dei detenuti con i loro cari: a Rebibbia-Nuovo Complesso, nell'attesa di rimuovere i banchi divisori in muratura, ristrutturare le sale d'attesa e costruire i bagni adiacenti all'area verde, sono stati tolti i vetri divisori (salvo che nella sezione di alta sicurezza). Lo stesso a Brescia, a Varese, a Potenza.

A fronte di questi lavori o progetti di lavori, lo stato delle carceri italiane versa, per quanto riguarda le strutture e a detta degli stessi direttori, a parte qualche eccezione, in diversi livelli di degrado. Tra le cause innanzitutto il sovraffollamento, che arriva a punte scandalose, come a Latina, dove a volte ci sono sei detenuti per cella con i materassi a terra e la struttura non consente alcuna sistemazione di fondo, o a San Vittore, 2.000 detenuti in un istituto con 800 posti. Poi la vetustà delle strutture, come a Pordenone, dove anche la quantità di luce naturale è insufficiente e il passaggio dell'aria è ostacolato da grate e pannelli di plastica, a Brindisi, dove le finestre sono ancora a bocca di lupo, a Brescia, antica struttura a "panopticon", che certo non consente di realizzare i lavori di adeguamento richiesti. Per alcune di queste carceri c'è già il decreto di dismissione, per tutte le altre l'adeguamento entro cinque anni è obbligatorio.

Sarebbe necessario quindi avviare un monitoraggio globale delle strutture penitenziarie e un progetto unitario di ristrutturazione che tenga conto degli standard e delle indicazioni del Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CPT).

 

8.1.1. Più detenuti? Più carceri

 

Costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta: l'ha scritto chiaro il CPT nell'ultimo Rapporto reso pubblico. Gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria. Gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono viceversa quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione. Osservazioni interessanti, che hanno però trovato scarsa eco a livello governativo. Il vasto programma di edilizia penitenziaria predisposto nel gennaio del 2001 dal Comitato paritetico di edilizia penitenziaria, presieduto dall'allora ministro Piero Fassino e composto da rappresentanti dei ministeri della Giustizia e dei Lavori pubblici, prevede infatti la costruzione di 22 nuove carceri.

In quell'occasione, il Guardasigilli affermò che il risanamento edilizio degli istituti di pena era uno degli impegni prioritari del governo, mentre l'allora ministro dei Lavori pubblici Nerio Nesi si diceva soddisfatto non solo perché la costruzione di nuove carceri rispondeva «alle note esigenze di condizioni sicure e umane di espiazione della pena», ma anche perché avrebbe dato «un contributo sostanziale alle politiche di occupazione del governo».

Con il successivo decreto del 30 gennaio 2001, il ministro Fassino dispose la dismissione di 21 carceri, incaricando il direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di promuovere le intese necessarie con le regioni o con gli enti locali interessati, per reperire le aree per la localizzazione dei nuovi istituti penitenziari da costruire in sostituzione di quelli che sarebbero stati dismessi.

Il programma di edilizia penitenziaria viene portato avanti dal successivo governo che, nella Finanziaria 2001-2003 stanzia 830 miliardi di lire. La legislazione sui lavori pubblici attualmente in vigore consente l'apertura a formule di finanziamento innovative con l'eventuale apporto di capitali privati quali la locazione immobiliare, il project financing e la vendita di beni immobili dismessi. Una scelta, quella di introdurre forme di gestione privatistica nel settore penitenziario, che vorrebbe rispondere alle esigenze di efficienza, risparmio e realizzazione di interventi in tempi rapidi, ma che di fatto spiana la strada alla privatizzazione sul modello statunitense: ideazione, costruzione e gestione della struttura penitenziaria e dei suoi ospiti.

Il "concorso di architettura per idee avente per oggetto l'elaborazione di un prototipo originale e inedito di istituto penitenziario di media sicurezza a trattamento penitenziario qualificato" è della primavera del 2001. L'istituto-modello, che deve prevedere 200 posti detentivi, sarà costruito su un'area pianeggiante rettangolare di 80.000 mq, lambita da via pubblica. La zona detentiva deve essere composta da 60-80 unità autonome modulari ripetibili (le cosiddette "sezioni") di circa 60-80 posti letto, dorate di spazi polivalenti per il trattamento sia interni che esterni. Celle a due posti con servizi igienici oppure moduli a 4 posti con spazi distinti per il pernottamento e il soggiorno, dotati di servizi igienici e attrezzati per la cottura di cibi. Del concorso, scaduto il 13 giugno 2001, e degli atti relativi non abbiamo altre notizie. Sino al gennaio 2002 i provveditori regionali dell'amministrazione penitenziaria non hanno ricevuto comunicazioni a riguardo, mentre proseguono, come vedremo più avanti, i contatti con le amministrazioni locali interessate alla costruzione di nuove carceri.

 

8.1.2. Proposte nuove, idee vecchie

 

Il ministro Roberto Castelli prosegue l'opera del suo predecessore, ma ha una marcia in più: la cultura e la pratica dell'impresa, con qualche competenza specifica nel ramo. Le carceri, secondo il ministro Castelli, vanno riaperte e costruite: riaperte quelle che sono state dismesse e sono ancora in buono stato (come il famigerato istituto collocato nell'isola di Pianosa), messe a pieno regime quelle nuove e sotto utilizzate (come Milano-Bollate, 14 anni di lavori e 240 miliardi di spesa per 820 posti in cella), costruite quelle che servono.

Con il 33% di detenuti tossicodipendenti e quasi il 30% di stranieri, le soluzioni per il sovraffollamento sono strutture detentive differenziate per i tossicodipendenti e il reimpatrio con promessa di rinunciare a tornare in Italia per gli stranieri detenuti "per reati lievi". Per chi resta in carcere invece, sarà il lavoro, anzi l'obbligo al lavoro a realizzare ciò che tanti sforzi legislativi non sono riusciti a garantire. Il ministro dunque traccia un quadro che si può riassumere così:

rispediti i detenuti stranieri in patria, trasferiti i pericolosi in carceri speciali, sistemati i tossicodipendenti e i sofferenti psichici in strutture più "leggere", magari gestite da "amici di famiglia" e rigorosamente proibizioniste (vedi più avanti la vicenda San Patrignano-Castelfranco Emilia), quelli che restano facciamoli lavorare. Gli altri, se lavorano, potranno avere i permessi e forse in qualche modo tornare nella società. Con questa prospettiva inizia la calda estate 2001. Le carceri sono un inferno, quasi 58.000 detenuti, ultimi dei quali gli arrestati durante il G8 di Genova: ragazzi e ragazze di tutto il mondo, reduci dai pestaggi di polizia e carabinieri e dai massacri della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, tra i pochi ad avere parole positive per il trattamento ricevuto nelle carceri italiane (Voghera, Genova, Alessandria): "un'oasi" - dicono - dopo le violenze subite.

 

8.1.3. Antico carcere vendesi

 

Nell'ottobre 2001 il ministro lancia una proposta che definisce «rivoluzionaria»: vendere le carceri storiche che si trovano al centro delle città e finanziare così la costruzione di strutture più funzionali e moderne. La proposta inaugurerebbe una nuova politica che consentirebbe al ministero di recuperare risorse per costruire penitenziari «di nuova concezione e più accoglienti». Con l'obiettivo di «migliorare le condizioni di detenzione all'interno delle carceri», anche perché molto spesso, viste le condizioni delle strutture esistenti, i detenuti non possono lavorare e costruirsi «un futuro migliore nella società». Le tappe del progetto prevedono: l'individuazione dei penitenziari di interesse storico-artistico, la verifica della disponibilità delle amministrazioni locali allo spostamento, l'individuazione delle volumetrie necessarie e la richiesta ai Comuni di organizzare gli strumenti urbanistici, la verifica con il ministero delle Finanze dei tempi di sdemanializzazione e infine l'aggiudicazione delle opere.

Sullo stesso tema alcuni parlamentari del centrodestra presentano un disegno di legge sulle norme relative all'edilizia carceraria nei centri urbani (Atto Senato n. 645, presentato il 20 settembre 2001), attualmente ancora in esame alla XIII commissione. In pratica il disegno di legge vieta la costruzione o l'ampliamento di strutture carcerarie poste nei centri storici delle città superiori a 200.000 abitanti, imponendo ai Comuni le relative varianti ai Piani regolatori e prevedendo la possibilità di un intervento diretto dei ministeri interessati (Infrastrutture e trasporti, Giustizia) qualora i Comuni si dimostrassero inadempienti. Una proposta che si armonizza con il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), che disciplina l'espropriazione, anche a favore di privati, dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per l'esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità (art. I, CO. I).

Nella breve relazione che introduce il disegno di legge, i presentatori richiamano il caso dell'istituto di San Vittore, nel cuore di Milano, che crea problemi insolubili e non si può riammodernare. E infatti è proprio San Vittore il primo nella lista delle carceri da vendere: lo riporta il "Corriere della Sera" . 50.000 metri quadrati che, considerando i vari parametri, potrebbero valere 300 miliardi di lire (154.937.000 euro). Il ministro della Giustizia annuncia di aver già cominciato a lavorare col ministro dell'Economia, responsabile dell'eventuale sdemanializzazione, per studiare i progetti di fattibilità e valutare le volumetrie degli edifici. Ovvero, commenta il "Corriere", per rendere appetibili gli immobili sul mercato.

Ancora il ministro Castelli - a Milano, ai primi di novembre 2001, per la festa della Polizia penitenziaria nel nuovo carcere di Bollate - e il sindaco Gabriele Albertini annunciano di voler chiudere San Vittore e di aver avviato uno studio di fattibilità per la sua dismissione. Si tratterebbe insomma di una permuta, che potrebbe avvenire grazie ad un gentlemen agreement con il ministro delle Finanze, il quale dovrebbe provvedere alla sdemanializzazione degli immobili.

E il privato acquirente costruirebbe in cambio un nuovo carcere. Le permute dovrebbero essere a costo zero per i contribuenti, dato che - secondo il ministro - «San Vittore dovrebbe valere la costruzione di un nuovo penitenziario». A San Vittore intanto proseguono i lavori di ristrutturazione, finanziati dal ministero con 60 miliardi.

A gennaio 2002 entra in vigore il decreto interministeriale che definisce come vanno spesi gli 830 miliardi di lire (43 milioni di euro) stanziati nella Finanziaria per gli anni 2001-2003. 95 miliardi di lire (5 milioni di euro) vengono assegnati all'esercizio finanziario 200I, 375 (19,5 milioni di euro) all'esercizio 2002 e 360 (18,5 milioni di euro) a quello del 2003. Il piano prevede e contabilizza gli interventi di ristrutturazione e risanamento, i risarcimenti e le indennità di vario genere, la costruzione di nuovi istituti. Circa 270 miliardi (di cui 42 residui) è la somma stanziata per le ristrutturazioni: 10 miliardi al carcere romano di Regina Coeli, 20 alla casa circondariale di La Spezia e alla casa di reclusione di Fossano, quasi 17 miliardi per il carcere di Venezia, e via discorrendo. Per la costruzione dei nuovi istituti (8 dei 22 previsti con un elenco di priorità) vengono stanziati in tutto 620 miliardi.

La Sardegna fa la parte del leone con 112 miliardi per il nuovo carcere di Cagliari e 104 per quello di Sassari. Soltanto 50 miliardi per la prigione "contesa" di Pordenone e 35 per il carcere di Marsala.

Il piano predisposto dai ministri della Giustizia e delle Infrastrutture non piace per nulla al SAPPE, il principale sindacato autonomo della Polizia penitenziaria. Sono però soprattutto i lunghissimi tempi di attuazione a preoccupare gli agenti: «Prima di vedere l'effettiva realizzazione - sostengono - passeranno ancora parecchi anni e per molti dei nuovi istituti previsti non è stata ancora definitivamente approvata dai Comuni interessati l'area su cui dovrebbero sorgere.

È il caso di Savona, Pordenone, Cagliari e Sassari. Questo significa che non vi è alcun progetto e nessuna gara d'appalto è stata indetta. Ad essere ottimisti - sostiene il SAPPE - prima di inaugurare uno dei nuovi istituti passeranno almeno altri 4 o 5 anni».

 

8.2

It's business, baby: San Patrignano

e la nuova frontiera anglosassone

 

Il caso San Patrignano-Castelfranco rappresenta realmente quel «cavallo di Troia», per usare le parole di Alessandro Margara, capace di far penetrare l'interesse privato in un settore delicato come quello dell'esecuzione penale.

È il presidente Ronald Reagan, a metà degli anni Ottanta, a dare impulso alla privatizzazione del sistema penitenziario americano; nel 1988 una apposita Commissione presidenziale raccomanda l'estensione della privatizzazione delle carceri, incentivando forme di finanziamento e di costruzione diretta degli istituti da parte di privati. Oggi sono circa 145.000 le persone detenute nelle carceri private (erano 15.300 nel 1990), gestite da vere e proprie società dai nomi indicativi: Group 4 Total Security Ltd., Detention Corporation, Incarceration Group, Societé carcerale Mickey Mouse Ltd. Sono le multinazionali della sicurezza, quelle che non hanno nessun interesse nell'eventuale abbassamento del tasso di detenzione (gli Stati Uniti hanno il tasso di carcerazione più alto fra i paesi occidentali, 700 detenuti su 100.000 abitanti). Né hanno interesse, per esempio, a punire un dipendente colpevole di maltrattamenti: il detenuto ha valore in quanto è inserito nell'azienda-carcere, che deve dimostrare i suoi numeri e far quadrare i conti. Il recluso in un carcere privato statunitense deve essere obbligatoriamente assicurato contro i danni fisici subiti a causa di reciproche violenze. Non solo: si assiste sempre più frequentemente a strani fenomeni, quali l'acquisizione, da parte delle compagnie private, di intere cittadinanze: gente che abita in zone depresse, che vede nella costruzione di un carcere un'opportunità di guadagno. Ci sono Stati che esportano detenuti, dalle galere pubbliche a quelle private: a Youngstown, la CCA (Correction Corporation of America), uno dei colossi del settore con 71.000 detenuti da gestire, ha promesso agli abitanti 450 posti di lavoro; i detenuti li ha importati dalla prigione di Lorton, nel distretto di Columbia.

In Gran Bretagna, dove i primi piani sperimentali di privatizzazione delle carceri sono stati avviati nel 1990, il risultato è stato l'aumento delle aggressioni rispetto alla media delle prigioni statali e relazioni sugli incidenti zeppe di omissioni. Nei paesi dove il carcere privato è una realtà consolidata (Stati Uniti, Australia, Regno Unito, Nuova Zelanda, Canada) sono numerose le denunce di maltrattamenti, anche fino alla morte, dei detenuti. In occasione della morte di Scott Nornberg, deceduto per asfissia in un carcere dell'Arizona dopo che 14 agenti l'avevano legato a una sedia di costrizione applicandogli un sacco sul viso, Amnesty International ha inviato una delegazione di osservatori, che hanno testimoniato sulle violenze subite dai reclusi. Amnesty si è detta preoccupata, oltre che dell'uso di strumenti di costrizione, anche della carenza di assistenza medica, della condizione dei minorenni, che non seguono i programmi di rieducazione previsti dalle leggi internazionali, della situazione delle donne detenute, spesso accompagnate da agenti maschi, dalla presenza di catene negli accampamenti all'aperto.

Non va certo meglio l'esperienza australiana, documentata dai rapporti di alcune associazioni per i diritti civili. La privatizzazione del sistema penitenziario nello Stato di Victoria è avvenuta senza che il governo fornisse alcuna informazione sulla gestione degli appalti, giustificando l'omissione con la formula della "riservatezza commerciale". Le tre compagnie private che hanno vinto le gare di appalto, la ACM (Australian Correctional Management), la CCA (Corrections Corporation of Australia) e il Group 4 Remand Services Ltd., sono riuscite anche ad ottenere la condanna di molti attivisti delle associazioni per i diritti civili, che informavano l'opinione pubblica sulle loro speculazioni e su ciò che accadeva nelle carceri. Tra il 1992 e il 1996 infatti, nelle 4 prigioni private australiane, sono morti 14 uomini rimasti proprietà delle compagnie anche dopo la morte, come dimostra l'esito dell'inchiesta istruita dopo la morte del primo di loro.

Il giudice decise che non c'erano irregolarità nel contratto di gestione della compagnia, protetta dalle leggi sulla "trattativa privata" e tanto bastò.

La ACM ha addirittura costruito un carcere femminile su un'area di immagazzinaggio e sperimentazione di munizioni, esplosivi e prototipi di armi, che apparteneva alle Australian Defence Industries. La CCA è a tutti gli effetti una multinazionale che opera in diversi paesi. In America ha costruito e gestito il primo carcere femminile privato del mondo, in mezzo al deserto del Nuovo Messico: un luogo infernale, dove le donne erano stipate in dormitori aperti e non usufruivano di alcun programma rieducativo; la compagnia non assicurava nemmeno i collegamenti postali.

Il Group 4 Remand Services Ltd. è invece un'azienda britannica che gestisce alcune strutture detentive nel suo paese, tra cui Campsfield, il centro di detenzione per immigrati di Kidlington (Oxford). Questo centro, utilizzato precedentemente come casa di correzione per minori, è stato riaperto come centro di detenzione per gli stranieri nel 1993 e funziona come un carcere di massima sicurezza. Nell'estate del 1997 Campsfield salì alla ribalta delle cronache per una rivolta dei detenuti che costò un processo a nove cittadini africani, conclusosi con la loro assoluzione. Il giudice decretò che le accuse a loro carico erano state inventate e la realtà distorta dai membri della Group 4. Ora Campsfield, <<da vergogna di Oxford>> (così lo definiscono i media inglesi), sta per essere chiuso. Il ministro degli Interni ne ha recentemente annunciato la chiusura, una vittoria per i promotori della campagna Close Campsfield, che da anni protestano contro le condizioni di reclusione e l'esistenza stessa del campo. La Group 4 gestisce anche il servizio di traduzione dei detenuti di dieci distretti (Inghilterra e Galles).

In Australia è presente sin dagli anni Settanta e concorre agli appalti di gestione degli istituti penitenziari. Appalti che ovviamente, come ovunque, giocano al ribasso; lo stesso dicasi per i costi di gestione, che si cerca, come in tutte le aziende, di ridurre all'osso. Ridurre i costi di un carcere significa però innanzitutto abbassare i livelli di qualificazione del personale, assumere persone senza esperienza, tagliare spese ritenute inutili, e quindi ridurre gli spazi di umanità, ritenuti non produttivi.

Il quadro generale delle esperienze privatistiche nel sistema penitenziario mostra dunque parecchi aspetti inquietanti, gli stessi che preoccupano tutti coloro che hanno levato voci critiche contro la strada intrapresa con la vicenda San Patrignano. Di fatto, se l'ex Casa di lavoro di Castelfranco Emilia - per la cui ristrutturazione lo Stato, vale la pena ripeterlo, ha speso 15 miliardi di lire verrà data in gestione alla comunità dei Muccioli, si tratterà del primo esperimento di carcere privato in Italia.

San Patrignano è la comunità di recupero per tossicodipendenti più famosa d'Italia. Gestita "di padre in figlio" dalla famiglia Muccioli (attualmente da Andrea, figlio del fondatore Vincenzo), da sempre nell'agenda anche privata di noti esponenti del mondo della politica e dello spettacolo, la comunità rappresenta l'incarnazione del "solidarismo autoritario" che intende "salvare" il tossicodipendente, individuo incapace di intendere e volere, anche senza il suo consenso e contro il suo consenso - come scrive Luigi Manconi sin dall'approvazione della legge 162/1990 che riformò in senso repressivo la legislazione antidroga. A questa comunità potrebbe essere affidata la gestione dell'ex Casa di lavoro di Castelfranco Emilia, una struttura costituita da un'azienda agricola di 23 ettari con stalle, frutteti, vigne, serre, alveari e macchine agricole, per cui lo Stato ha già speso 15 miliardi in vista dell'attuazione di un protocollo d'intesa tra ministero della Giustizia e Regione Emilia-Romagna, che aveva messo allo studio il recupero e la destinazione della Casa di lavoro a custodia attenuata per i tossicodipendenti.

L'operazione inizia a metà luglio de1 200I, in ballo c'è l'assegnazione di un finanziamento della Comunità europea (Progetto Equal, incentivi per il lavoro di soggetti appartenenti a categorie svantaggiate). Il provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria dell'Emilia Romagna firma un'intesa di partnership con la comunità di Muccioli. A metà agosto viene chiesto il parere al DAP, che prende le distanze dal progetto. Ciononostante, il 26 agosto, data di scadenza del bando europeo, viene presentato un progetto che appalta al privato l'esecuzione della pena e nel contempo impedisce il controllo da parte dell'amministrazione penitenziaria.

Il sistema della detenzione diventa un business che nemmeno le denunce di Alfonso Sabella, magistrato, ex capo degli ispettori del DAP rimosso nel dicembre del 2001 riusciranno a fermare. Sabella sostiene che nelle carceri italiane i posti per i detenuti ci sono, ma non vengono sfruttati "per ragioni di comodo".

L'esito del monitoraggio disposto a suo tempo dal DAP avrebbe potuto dimostrare l'inutilità della realizzazione di nuove strutture penitenziarie, «la cui progettazione dipende talvolta solo da interessi localistici». Proprio gli accertamenti compiuti sullo stato generale delle carceri e l'utilizzo del personale, secondo Sabella, avrebbero potuto essere la causa della sua estromissione dal DAP.

 

8.3

Macomer, Pianosa e l'Asinara

 

La relazione semestrale al Parlamento sullo stato di attuazione del programma di costruzione e adattamento di stabilimenti di sicurezza del ministero della Giustizia, per un importo totale di spesa prevista di 21 miliardi e 500 milioni, fissa l'ampliamento delle sezioni per i detenuti sottoposti al 41 bis nelle carceri di Terni (1 miliardo e 700 milioni) e Spoleto 6 miliardi e 500 milioni), mentre introduce il "carcere duro" a Tolmezzo (lavori ultimati), Opera (3 miliardi per l'adeguamento dell'ex sezione femminile) e Macomer, dove l'intera struttura circondariale cambia destinazione d'uso (13 miliardi di spesa).

La scelta di Macomer scatena una bagarre nella cittadina sarda, ma maggiore attenzione viene posta ai propositi di riaprire gli istituti di pena delle isole di Pianosa e dell'Asinara. Due carceri speciali, dismesse per ragioni ambientali: nelle isole, infatti, vi sono oggi aree naturalistiche protette. Anzi, il compendio dell'Asinara è già stato trasferito dallo Stato alla Regione. Quanto a Pianosa, il piano prevederebbe la riapertura della struttura e il trasferimento in quella sede di detenuti a basso tasso di pericolosità, che potrebbero curare l'ambiente naturale dell'isola tirrenica. Un progetto che il DAP dovrebbe elaborare per presentarlo poi al ministro dell'Ambiente e alla Regione Toscana. Questa però è una scelta che ha molti nemici: l'Ente Parco, la Regione Toscana, il ministero dell' Ambiente. Una scelta in controtendenza, in quanto profondamente antieconomica.

 

8.4

Le carceri contese: Rieti e Pordenone

 

Il carcere fa gola a tutti. Si creano aspettative, anche economiche. Nelle località interessate alla costruzione di istituti penitenziari le commissioni del ministero incontrano i rappresentanti degli enti locali. A volte tutto fila liscio, come a Spini di Gardolo, dove verrà edificato il nuovo carcere di Trento, che possederà tutte le caratteristiche previste dal recente regolamento penitenziario, a volte ci sono degli intoppi, come nel caso del carcere di Rieti e di quello del Friuli occidentale. Vere e proprie grane politico-amministrative, che coinvolgono diversi soggetti, dagli amministratori locali, come nel caso Pordenone-San Vito al Tagliamento, ai cittadini, rappresentati dalle associazioni che hanno inviato nel giugno 2001 una diffida al TAR sulle irregolarità riguardanti la costruzione della casa circondariale di Rieti.

A Rieti, tutto nasce da errori ed omissioni contenuti nel verbale redatto dalla Commissione ministeriale nel febbraio 2000, in cui è scritto che l'area individuata dal Comune per la costruzione del nuovo istituto è destinata a «uso prevalentemente agricolo e residualmente di rispetto». Un'indicazione sbagliata che il Comune non si prende la briga di verificare, nonostante l'invio, da parte di alcune associazioni, di un atto stragiudiziale di comunicazione e diffida, in cui si invita il Consiglio comunale ad adottare decisioni cognita causa e nel rispetto delle normative vigenti. Anche il presidente dell'Amministrazione separata dei Beni civici di Vazia solleva eccezioni sulla localizzazione dell'area, inviando le proprie osservazioni al procuratore della Repubblica di Rieti e al presidente della Commissione ministeriale.

L'area in questione infatti, non solo è vincolata nella destinazione urbanistica in parte a zona per attrezzature comuni (ospedale) e in parte a verde di rispetto: comprende anche 7.000 mq di cave a cielo aperto da cui si estrae materiale inerte. Un particolare, certo non trascurabile, omesso dalla stessa Commissione ministeriale, ma espresso chiaramente nei verbali precedenti, del 1986 e 1987, in cui l'area veniva giudicata «non idonea». Costruire un edificio in zona di cave significa infatti sostenere costi onerosi e rifare la viabilità. Non è ancora tutto: oltre alle cave, nell'area è presente una falda acquifera che alimenta una sorgente di acqua potabile, di cui usufruiscono i cittadini reatini; una falda, come risulta dalle perizie idrogeologiche, che si trova a soli dieci metri di profondità sotto le cave, molto permeabile all'inquinamento. La zona è soggetta infine a vincolo paesistico secondo una delibera del 1999 della Regione Lazio.

Dati di fatto che non impediscono al Consiglio comunale di Rieti di approvare, nella seduta dell'8 maggio 2000, la scelta dell'area, che va a costituire variante al Piano regolatore, stabilendo che debba intendersi destinata a "Servizi pubblici generali". Il successivo 26 settembre il sindaco di Rieti riceve una nota del DAP, in cui si precisa che il nuovo carcere deve prevedere una capienza di 250 posti detentivi. Pochissimi per i 70.000 mq di superficie coperta e i 210.000 metri cubi di volume previsti, capaci di accogliere dai 700 ai 1.000 detenuti. Tutti motivi che inducono l'Amministrazione separata dei Beni civici di Vazia e le associazioni già firmatarie della prima diffida a presentare ricorso al T AR contro il Comune di Rieti e i ministeri della Giustizia e dei Lavori pubblici, che hanno risposto con un silenzio "omissivo" all'atto di diffida presentato nel marzo 2000.

Tutt'altro problema quello che riguarda il carcere che dovrebbe sorgere nel territorio del Friuli occidentale: l'area era già stata individuata dal governo del centrosinistra, la vecchia sede dismessa della Friulcarne nel comune di S. Vito al Tagliamento. Il Consiglio comunale aveva espresso parere positivo, i vincoli urbanistici erano stati rimossi, il decreto ministeriale che autorizzava la costruzione era pervenuto al sindaco il 10 maggio 2001. Tutto regolare, salvo la dicitura relativa alla destinazione del nuovo istituto: Pordenone-San Vito. Secondo il ministro Fassino significava carcere della provincia di Pordenone da costruirsi a San Vito, secondo il suo successore significa che la localizzazione precisa non è ancora stata fatta. Nel mese di ottobre un funzionario ministeriale incontra il sindaco di Pordenone e visita il sito di Via Musile, che pure aveva ricevuto parere positivo della commissione ministeriale, ma è di proprietà della Curia, oltre a trovarsi proprio all'entrata della città. Insorgono i consiglieri comunali di San Vito e gli agenti di polizia penitenziaria della FPS-CISL. «È un'operazione - dichiara il consigliere comunale Luciano Dal Frè - banditesca e sporca, che, scavalcando ogni ordine istituzionale e di rappresentanza politica tende a rimettere in discussione una scelta già sanzionata e per la quale sono stati stanziati 50 miliardi».

Gli agenti minacciano - se non si definisce la sede del nuovo carcere, avviando le procedure di vincolo del finanziamento - di chiedere la chiusura della Casa circondariale di Pordenone, un antico castello. Il timore è quello di perdere la priorità nei finanziamenti assegnati al Friuli occidentale per lo sviluppo dell'edilizia penitenziaria e da fonti ministeriali si apprende che il castello, in cui ha sede l'attuale casa circondariale, potrebbe essere venduto per ricavare le risorse necessarie a costruire il nuovo istituto. Un'idea che non piace agli esponenti politici locali, anche perché il castello potrebbe rientrare nel novero delle dismissioni a titolo gratuito, secondo l'accordo Stato-Regione, che prevede un elenco aperto di strutture da trasferire agli enti locali.

 

8.5

Conclusioni

 

Le valutazioni e le conclusioni che si possono trarre dal quadro prospettato sono abbastanza evidenti e certamente non è troppo audace affermare che vi è un'indubbia convergenza generale verso una visione privatistica dell'intero sistema, ivi compreso il settore penale. La vicenda di San Patrignano, il viaggio studio del presidente del Consiglio Berlusconi nelle carceri private cilene lo stanno a dimostrare. Una tendenza preoccupante, per nulla confortata dall'esperienza dei paesi in cui la privatizzazione del settore penitenziario è da anni una realtà.

Le Nazioni Unite se n'erano rese conto già nel 1988, quando avevano cercato di frenare le tendenze americane alla privatizzazione nel settore penitenziario; il rapporto della sotto-commissione per la lotta contro la discriminazione e per la protezione delle minoranze aveva elencato una serie di argomenti contrari alla devoluzione dei poteri pubblici in campo di esecuzione della pena. In pratica il Rapporto sottolinea il fatto che solo allo Stato spettano i poteri e le funzioni disciplinari (compreso l'uso della forza), ma anche la responsabilità per la protezione dei diritti umani. Una gestione privata - il Rapporto lo specifica in modo chiaro - potrebbe opporre il segreto commerciale a eventuali richieste di chiarimenti esterni (come è accaduto in Australia e come si è tentato di fare nel processo per la rivolta di Campsfield), oltre all'innegabile fatto che <<la giustizia non può essere condizionata da interessi privati>>.

Inoltre, se l'ossessione securitaria, produce maggiore domanda di penalità, ossia più richiesta di carcere, l'ottica e la pratica del business penitenziario con l'entrata dell'interesse privato in un settore così delicato rischiano di gonfiare ulteriormente questa domanda. Basti pensare alla faccenda degli appalti, che possono scatenare appetiti mafiosi, pur essendo a tutt'oggi controllati dalla pubblica amministrazione. Con l'intervento dei capitali (e quindi degli interessi) privati, il giro d'affari crescerà non solo intorno alle mere strutture (aree di costruzione, edificazione, forniture di vario genere), ma anche intorno alla gestione stessa dell'esercizio della penalità.

Alle società private, come del resto già succede nei paesi di common law, può essere data in gestione la sorveglianza interna (o parte della sorveglianza) dei detenuti, ma anche "pezzi" di gestione (per esempio i tossicodipendenti, sul modello di San Patrignano) o l'esecuzione esterna della pena, ad esempio i controlli dei soggetti in misura cautelare o alternativa e la sorveglianza elettronica.

È chiaro che a nessuna compagnia o multinazionale della sicurezza farebbe piacere una riduzione della pressione penale, con conseguente minor giro di affari.

Più gente va in carcere, più ci si potrà guadagnare. Anche se non è dimostrato un collegamento diretto tra privatizzazione e crescita della popolazione detenuta, tutto fa pensare che un nesso in effetti vi sia.

Nonostante le numerose controindicazioni, pare che - insieme con l'espansione del sistema penale - anche questa sua modalità di gestione, propria del modello americano, si stia lentamente espandendo in Europa e nel nostro paese. Il business delle prigioni ha oramai una sua storia e una sua geografia, ma sembra anche che abbia un futuro molto roseo.

 

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