Ricerca sul "dopo carcere"

 

Dopo il carcere

Una ricerca sul reinserimento a Parma (giugno 2002)

 

Introduzione

 

Il contesto

 

Le Cooperative parmensi che lavorano con i detenuti

Le Associazioni

Il Contesto Carcerario

Esperienze e visioni del carcere

 

Il reinserimento

 

Analisi difficoltà e bisogni più generali nel reinserimento

Presenza e assenza delle istituzioni il problema del lavoro

Accompagnamento e affiancamento in carcere

Problema della casa e dell’abitazione

Accoglienza cittadina

Coppia, famiglia, relazioni

Il ruolo delle Associazioni e delle Cooperative

Identità e disagio psicologico

Autorità e legalità

 

Indicazioni per il Centro Servizi Carcere

 

Ruolo ed obiettivi del Centro Servizi

Funzioni e facilitazioni del Centro

Progetti particolari del Centro

Componenti e composizione del Centro Servizi e dello Sportello

Introduzione

 

La ricerca che presentiamo sul tema del reinserimento dopo il carcere è stata condotta da tre ricercatori - a partire dal mese di settembre 2000- attraverso la realizzazione, la rielaborazione e l’analisi di numerose interviste. In primo luogo, abbiamo realizzato dei colloqui intervista (otto in tutto) con rappresentanti delle diverse associazioni e cooperative, che a Parma hanno lavorato e lavorano con carcerati ed ex carcerati. Le interviste vertevano sulla storia dell’ associazione o della cooperativa, (Associazione per Ricominciare, Caritas Parmense, Coop. Sociale Cabiria, Coop. Sociale Sirio, Coop. Sociale La BuIa, Coop. Sociale Il Truciolo, Arca del Molinetto) sulle attività condotte, sui rapporti con detenuti o ex detenuti, e sulle problematiche osservate dal proprio punto di vista rispetto all’esperienza del reinserimento. In secondo luogo abbiamo condotto una seconda serie di interviste (oltre una ventina) a persone che hanno terminato di scontare il loro debito con la legge, a cui abbiamo chiesto di raccontare la loro esperienza di reinserimento sociale, dopo il carcere. Si tratta di un lavoro di tipo qualitativo in cui le osservazioni e le analisi non poggiano sugli aspetti quantitativi di tipo statistico e dei grandi numeri.

Al contrario il taglio di questa ricerca è quello di uno scavo in profondità nell’ esperienza di un numero limitato di persone, assieme alle quali si è cercato di far emergere e di registrare attraverso il racconto personale le sfide, le difficoltà e i problemi incontrati nella prima fase di reinserimento, rispetto agli aspetti materiali, relazionali, sociali, individuali. Tra gli ex detenuti. gli intervistati sono quasi tutti uomini perché la popolazione carceraria di Parma è da diversi anni esclusivamente maschile. Il protocollo dell’intervista era mirato in primo luogo a raccogliere indicazioni dirette e concrete per la realizzazione del progetto del Centro Servizi Carcere e, in secondo luogo, a far emergere e ad analizzare le difficoltà e i bisogni più comuni e generali dell’esperienza del reinserimento. Le interviste duravano circa un’ora l’una.

Per quanto riguarda le difficoltà incontrate e sperimentate dagli intervistati nel loro percorso di reinserimento si tratta di un complesso insieme di elementi che possono essere riferiti a quattro dimensioni principali: quella personale e psicologica, quella relazionale, quella della casa e della privacy, quella del lavoro.

La maggior parte degli intervistati hanno lamentato la mancanza di un percorso di sostegno e di orientamento da parte delle istituzioni pubbliche, una volta usciti dal carcere. La casa ed il lavoro sono i problemi fondamentali con cui ci si confronta spesso per lungo tempo. Per quanto riguarda il lavoro è difficile trovare un’occupazione significativa che permette una propria autonomia, per il semplice fatto che un ex detenuto spesso parte da una posizione svantaggiata, in termini di pregiudizi sociali, di curriculum lavorativo, di competenze, di età, di possibilità operative (la mancanza della patente per esempio).

Anche nella definizione di un accordo immobiliare il pregiudizio negativo nei confronti di una persona che in passato ha avuto problemi con la legge può rendere la ricerca particolarmente difficile e frustrante. Inoltre casa e lavoro risultano due fatti profondamente intrecciati perché per le persone che vivono sole spesso gli affitti non sono affatto proporzionati agli stipendi. La casa non è semplicemente un tetto ma significa la costruzione di uno spazio di autonomia e di privacy, la determinazione di uno spazio domestico in cui potersi riconoscere anche in termini identitari e sociali.

Dai suggerimenti e dalle esperienze raccontate emergono dunque alcune indicazioni significative per quanto riguarda la costituzione di un Centro servizi per persone che escono dal carcere. Tale centro infatti se da una parte si deve proporre come una struttura di prima accoglienza con l’obiettivo di orientare e indirizzare, di fornire un appoggio per gli aspetti materiali, di garantire anche un contatto e un più facile accesso ad altri servizi pubblici del territorio (amministrativi, civili, medici e psicologici, comunità e gruppi di auto aiuto), d’altra parte può svolgere un ruolo di presentazione, mediazione e garanzia per ottenere più agevolmente appartamenti in affitto o incarichi di lavoro. Secondo gli intervistati il Centro dovrebbe farsi anche promotore di percorsi di formazione e di avviamento al lavoro per persone che escono dal carcere.

Infine dalla ricerca emerge anche l’importanza di un lavoro di sensibilizzazione e promozione culturale e sociale che potrebbe svolgere il centro.

Altri aspetti emersi dalle interviste riguardano l’importanza delle dimensioni psicologiche e relazionali nei percorsi di reinserimento. Le relazioni affettive funzionano generalmente da appoggio e da elemento rassicurante ed equilibrante, che può aiutare le persone a superare sentimenti di rabbia, solitudine, spaesamento, angoscia. Si potrebbe tenere conto dunque anche dell’importanza sia di un appoggio psicologico, sia di un lavoro di promozione di momenti sociali e conviviali che facilitino contatti, relazioni, amicizie, in ambienti nuovi e rassicuranti.

Nel complesso, dunque, tenendo conto delle indicazioni emerse dalla ricerca (che qui abbiamo solo tratteggiato) il Centro per svolgere un lavoro efficace dovrà essere qualcosa di più di un ufficio e di uno sportello, e tenere conto dell’intrecciarsi di dimensioni insieme materiali, sociali, culturali, psicologiche, relazionali.

 

A cura di Marco Deriu, Davide Rossi, Emanuele Vecchione

Il contesto

 

Le cooperative parmensi che lavorano con i detenuti

 

Il contesto di Parma dal punto di vista delle realtà sociali di volontariato e cooperazione che lavorano in relazione con detenuti o ex detenuti è attualmente piuttosto ricco e variegato.

Per quanto riguarda le cooperative sociali che attualmente lavorano per l’integrazione e il reinserimento dei detenuti, fra queste la più anziana è "la Bula". Nata nel 1980 ed è stata una delle prime esperienze di cooperativa sociale finalizzata alla socializzazione e all’avviamento lavorativo di persone in difficoltà. il progetto era promosso da diversi gruppi di persone che operavano nei campi dell’obiezione di coscienza, dell’animazione giovanile e della socializzazione territoriale a livello dei quartieri Lubiana San Lazzaro.

I valori di fondo dai quali è nata cooperativa sono lo spirito di partecipazione, il ridare voce ai deboli, e una scelta di vita improntata alla povertà, alla semplicità e all’anticonsumismo;

il nome della cooperativa stessa deriva dal termine dialettale "buIa" (segatura), che stava a significare come anche dal piccolo, dallo scarto (la segatura appunto) si può cominciare a costruire.

Per quanto riguarda le attività La BuIa organizza in modo stabile una serie di attività didattiche, ricreative e produttive che tendono al miglioramento delle potenzialità, delle autonomie e delle capacità di relazione di giovani disabili nonché alla promozione del loro inserimento socio-lavorativo, soprattutto attraverso attività di falegnameria e di creazione di oggetti in legno che vengono commercializzati in un negozio gestito direttamente dalla cooperativa stessa.

Fin da subito la cooperativa si è aperta anche ad altre forme di disagio presenti sul territorio con una particolare attenzione alle persone detenute con l’idea di poter dare una opportunità di condivisione, di apertura e di dialogo attraverso il lavoro.

L’attività rivolta a tali persone si è sostanziata con l’attivazione di vari progetti sia interni che esterni al carcere:

dal 1990 al 1994 la cooperativa, a seguito di incontri con i detenuti finalizzati a rilevarne i bisogni, ha fornito libri per i detenuti stranieri, ha svolto attività di cineforum, di poesia e percorsi di formazione.

Dal 1992 al 1996 sono stati realizzati incontri su temi giuridici con i detenuti della sezione paraplegici.

Nel 1998 la cooperativa aveva presentato un progetto di animazione teatrale che però è stato rifiutato dall’amministrazione penitenziaria.

 

Oggi la cooperativa partecipa alle attività del carcere soprattutto offrendo opportunità di borsa lavoro per i detenuti. La Bula ha iniziato i rapporti con il carcere prendendo persone in borsa lavoro da11980, fino a oggi a dato la possibilità di impiego a circa 20 detenuti tutti in borsa lavoro e attualmente lavorano sempre in borsa lavoro un detenuto. Nel periodo di collaborazione con la cooperativa in nessun caso è stata revocata la misura alternativa al detenuto.

Attualmente sono disponibili nella cooperativa un’altro posto, sempre in borsa lavoro .

Dall’esperienza della Bula nasce anche l’esperienza della Coop. Il Truciolo La Cooperativa "Il Truciolo" è nata nel 1986 per iniziativa di Orizzonti Nuovi e degli operatori della Bula. Tra i primi soci fondatori c’erano Alberto Gaiani, Anna Maria Mancini, Gaetano Taborre, Patrizia Ridella, Valeria Vecchi. Per i primi 10 anni Valeria Vecchi lavorava con 4-5 ragazzi al Truciolo. Inizialmente era come un laboratorio occupazionale per la cooperativa BuIa. Inizialmente doveva essere un laboratorio di falegnameria, ma in seguito questo indirizzo è stato abbandonato e si è trasformato in un laboratorio di Cartotecnica. Presidente del Truciolo è Roberto Gelati che è subentrato ad Anna Maria Mancini. Attualmente il Truciolo è composto da undici persone, di cui tre operatori (Roberto Gelati, Paola Negri e Simone Bonon) e gli altri sono dipendenti o persone in borsa lavoro o inserimento lavorativo. La cooperativa inserisce persone con diversi tipi di disagio, psichici, fisici, o che hanno alle spalle esperienze di tossicodipendenza (droga o alcool), o di reclusione. Il vero e proprio inserimento di carcerati è iniziato ne11995. Nel complesso la cooperativa ha avuto una ventina di inserimenti di detenuti. Al momento attuale tuttavia la Cooperativa non ha nessun inserimento inviato dal carcere.

Le attività della Coop. riguardano un ampio raggio di lavori riguardanti il cartone, dal fare delle scatole, a etichettare, a imbustare lettere, a incollare pezzi di carta su dei cartelloni, ed inoltre varie forme di assemblaggio, per esempio preparare delle scatolette, inserire dei profumi, chiuderle, impacchettarle, incelofanarle, inserirle in scatole da imballo e infine spedirle. Sono tutte attività per conto terzi. I committenti sono di diverso genere. L’unica attività autonoma è quella dell’impagliatura di sedie.

Nella storia della Cooperativa si sono sperimentate diverse attività e iniziative rivolte al carcere. Il primo anno c’era un ragazzo arabo P. Abu Shaloub, che entrava nel carcere assieme a qualcun altro della coop. e si organizzavano momenti di scambio con i detenuti stranieri.

Poi l’anno successivo la direzione non ha più permesso a questa persona di entrare e quindi si è interrotto questo lavoro con i detenuti stranieri. Il secondo anno c’è stato ancora qualcuno della cooperativa che entrava e socializzava, organizzando incontri di svago, visioni di film.

Il terzo anno ci sono stati anche interventi scolastici, per aiutare alcune persone che volevano prendere la licenza media. Poi anche questa attività si è interrotta perché non è stata sostenuta dal carcere. Sono state proposte anche attività sportive e ludiche rivolte particolarmente ai detenuti paraplegici. Attualmente sono due o tre anni che la cooperativa non entra più in carcere per attività o scambi.

La cooperativa sociale Truciolo ha iniziato i rapporti con il carcere prendendo persone in borsa lavoro dal 1995, fino a oggi a dato la possibilità di impiego a circa una ventina di detenuti tutti i borsa lavoro e attualmente nessun detenuto lavora con la cooperativa in borsa lavoro. Nel periodo di collaborazione con la cooperativa mai a un detenuto è stata revocata la misura alternativa. Attualmente non c’è la disponibilità nella cooperativa di un impiego in borsa lavoro.

Nello stesso anno in cui prende avvio il Truciolo, nasce anche la "Sirio", la cooperativa sociale che svilupperà il lavoro più ampio e originale nel rapporto con i detenuti. A dar vita alla cooperativa un gruppo di una ventina di amici e compagni di varia estrazione politica e provenienti da ambienti socioculturali svariati come per esempio il mondo sindacale.

All’inizio la cooperativa era sorta tra persone che intendevano prendere posizione di fronte ad alcuni fatti in città. Per esempio il non curarsi da parte dell’amministrazione di alcuni soggetti deboli come anziani o minori a rischi. Nei fatti in questa prima fase la coop. era una specie di gruppo di opinione che organizzava convegni dibattiti, e si faceva portavoce dei problemi dei deboli, degli oppressi di chi non ha voci in capitolo. Poi molto presto il gruppo si è reso conto che questo era importante, ma che si trattava solo di una piccola parte di quello che si poteva fare se si riuscivano anche a creare degli inserimenti lavorativi.

C’è stata allora una lenta metamorfosi della Sirio, che l’ha portata a partire dai primi anni ‘90 ad essere quello che è oggi: una cooperativa sociale di tipo E, un azienda che ha circa 70 soci, che è riuscita non solo ad essere presente nel tessuto della città come portavoce dei problemi sociali, ma anche di partecipare in prima persona a cercare di lenire, migliorare o guarire queste situazione. La cooperativa cerca di trattare inserimenti di persone che hanno avuto l’esperienza del carcere o problemi con la tossicodipendenza, con l’alcolismo. Da questo punto di vista è importante il collegamento con il SERT, che invia persone che hanno bisogno di un inserimento. Altre categorie di persone che hanno trovato un appoggio all’interno della Sirio sono i malati psichici, o persone che hanno invalidità fisiche superiori al 45%, e anche altre persone che vengono dall’aria del disagio, come persone anziane espulse dal processo produttivo, o extracomunitari in difficoltà. La Sirio ha come obiettivo quello di aiutare queste persone ad uscire dai meandri che li hanno portati in carcere o alla droga. Si cerca di aiutarli anche a trovare una casa, e far sì che queste persone comincino a vivere con il frutto del loro lavoro, recuperando una dignità che magari si era persa nel corso degli anni. Far si inoltre che queste persone rispettino le regole della vita. Ci sono stati molti casi positivi e alcuni anche eclatanti di recupero totale.

La filosofia della Sirio era quella di dare un opportunità di lavoro a coloro che per i loro problemi e vissuti erano bisognosi di essere aiutati. Si tratta infatti di capire con chi hai a che fare, capire i problemi che lo hanno indotto a sbagliare e cercare assieme di ricostruire un percorso di recupero. Da questo punto di vista è stato molto importante il rapporto della Sirio con il carcere. Infatti è la cooperativa che ha avuto e ha in assoluto più soci lavoratori detenuti o provenienti dal carcere: ne sono passati parecchie centinaia. Alla cooperativa arrivano centinaia di richieste non solo dal carcere di Parma ma anche da altre città. Le attività della cooperativa con il carcere iniziano nel 1987 con un corso di formazione professionale di sartoria, fuori dal carcere e con l’avviamento lavorativo di due detenuti nel settore della commercializzazione della carta riciclata.

Il primo momento veramente importante della presenza della Sirio in città è stato nel 1987 - un anno dopo la nascita - quando è stata avviata una iniziativa che ha avuto anche un’eco nazionale, ovvero l’uscita per una giornata intera di 110 detenuti. Si era preparato uno spettacolo al cinema Ducale con Renzo Arbore e Marisa Laurito. Anche alcuni detenuti hanno suonato assieme al gruppo di Arbore. È stata un’occasione per la città di parlare dei detenuti e di riflettere sul carcere. Durante quell’iniziativa una persona è evasa. Questo naturalmente ha creato molti problemi e molti hanno attaccato la cooperativa, ma molti l’hanno sostenuta.

Nel 1988 la Sirio ha dato vita al "progetto Cittadella" che prevedeva l’uscita dal carcere di Parma a 24 detenuti del penale denominati scherzosamente "detenuti d.o.c.". Questi detenuti utilizzavano i loro permessi premio per un iniziativa a favore della collettività. Suddivisi in 3 squadre da 8, venivano prelevati al mattino dal carcere e venivano portati in Cittadella.

Durante 7 mesi di intervento la Cittadella è stata pulita e ripulita, cambiando completamente faccia. Alla fine c’è stata una festa in Cittadella con molte personalità locali e nazionali. Vi ha partecipato anche con un suo spettacolo Maurizio Costanzo. L’iniziativa è servita per stimolare l’ Amministrazione del carcere a fare uscire per lavorare dei detenuti che ne avevano diritto. Successivamente la cooperativa si è impegnata in attività di manutenzione del verde scolastico, con il progetto "Greenkeeper" e ha avviato convenzioni con diverse amministrazioni comunali nel settore della manutenzione del verde.

Nel 1987/88 la Sirio ha organizzato un corso e un atelier di cucito che ha permesso di far uscire 6/7 detenute. Durante il corso le detenute hanno prodotto degli abiti e nell’ottobre 1988 è stata organizzata una festa e una sfilata all’Hotel Maria Luigia con gli abiti prodotti durante il corso, alla quale hanno partecipato varie personalità. Anche in quel caso la città ha preso atto che dei detenuti erano usciti, non erano scappati e avevano avuto possibilità di lavorare.

Ci sono state anche iniziative per i detenuti che non avevano diritto di uscire dal carcere.

Per due anni si sono organizzati tornei di calcio tra due squadre della città e due squadre del carcere. Poi si è organizzato un corso di .fitnes5 per le donne detenute. Si è creata in carcere una piccola palestra. E ancora si sono fatti due corsi di giardinaggio, uno per le donne e uno per gli uomini. Sempre all’interno del carcere si è organizzato nel 1994 un corso di formazione per estetista, e quindi si è rilevato un centro di bellezza dove hanno trovato occupazione delle ragazze in borsa lavoro. Nello stesso anno una ventina di detenuti escono con il progetto "Greto Parma" per interventi di ripristino del greto del torrente.

Tutte queste iniziative volevano dimostrare alla città che anche coloro che hanno sbagliato possono cambiar vita, e che gli si deve dare questa possibilità. Dalle prime iniziative ad oggi non è cambiata solo la cooperativa ma forse anche la città. Oggi la Sirio non ha più bisogno di organizzare iniziative dimostrative.

Oggi la cooperativa offre una molteplicità di attività che si potrebbero suddividere in tre filoni:

Offrire dei servizi o i soci lavoratori: per esempio per la pulizia delle strade in collaborazione con l’AMNU;

Svolgere attività lavorative autonome quali: piccoli traslochi, manutenzione automezzi, cura del verde in convenzione con vari enti, istituzioni e privati.

Infine ci sono alcune attività rilevate dalla cooperativa "La Presenza" che si facevano dare dalla Croce Rossa dei vecchi mobili, che vengono poi rivenduti con modifiche e adattamenti su richiesta.

Da un iniziativa della Sirio, in particolare da un corso all’esterno di litografia, prende avvio nel 1990 un’altra realtà cooperativa importante "la Cabiria".

La Cooperativa sociale "Cabiria" nasce nel marzo del 1990 come esperienza di impresa sociale con la finalità di voler rendere indipendenti e dare impulso e sviluppo autonomo a diverse attività di editoria, grafica computerizzata, litografia e commercio della carta riciclata già nate ed iniziate in seno alla "Sirio".

La cooperativa Cabiria si è specializzata nella produzione di servizi legati ai settori della comunicazione, stampa e grafica. Obiettivo di Cabiria è mettere in comunicazione i circuiti normali della produttività, della formazione e del lavoro con quelli della marginalità. La cooperativa intende perseguire lo scopo della valorizzazione delle potenzialità dell’individuo nell’affrontare il malessere e la sofferenza senza schemi preordinati, attraverso uno sforzo di organizzazione, ma anche di fantasia, con una ridiscussione continua dei ruoli che sviluppano processi di emancipazione. La cooperativa si è rivolta fin da subito a persone detenute, tossicodipendenti, con disagio mentale e a minori a rischio.

L’attività specifica rivolta a persone detenute si è quasi sempre realizzata attraverso lo strumento della borsa lavoro: dal 1990 al 1999 sono stati effettuati 29 inserimenti in borsa lavoro, di cui 14 sono stati in seguito assunti dalla cooperativa stessa.

Pochi anni prima della Cabiria aveva preso il via un’altra cooperativa. Nel febbraio del 1987 nasce infatti la cooperativa chiamata "Giardino di Monica e Marisa" dall’iniziativa di varie realtà che da vari anni operavano nel campo della solidarietà. Nel gennaio del 1994 la cooperativa decide di caratterizzarsi come cooperativa di produzione e lavoro integrato assumendo il nome di "l’Arca del Molinetto". La cooperativa ha come scopo lo svolgimento di attività diversificate (cure e manutenzione del verde, gestione di spazzi gioco per bambini, legatoria e stampa, ristorazione e assemblaggio) finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.

Dal 1999 la cooperativa ha avviato una collaborazione con l’istituto penitenziario, per l’inserimento di persone detenute in borsa lavoro all’interno delle attività della cooperativa stessa.

L’Arca del Molinetto ha iniziato i rapporti con il carcere prendendo persone in borsa lavoro dal 1999, fino a oggi a dato la possibilità di impiego a circa 5 detenuti tutti i borsa lavoro e attualmente lavorano sempre in borsa lavoro un detenuto. Nel periodo di collaborazione con la cooperativa a solo un detenuto è stata revocata la misura alternativa che successivamente è stata riconfermata. Attualmente sono disponibili nella cooperativa un’altro posto, sempre in borsa lavoro nel settore pulizia parco.

 

Le Associazioni

 

Oltre alle realtà cooperative, anche le associazioni parmensi hanno un ruolo importante rispetto all’assistenza ai detenuti in carcere e nel loro percorso di reinserimento.

In ambito cattolico già nei primi anni ‘80 si era formata un’associazione che si chiamava "Dialogo", presidente l’avvocato Carmelo Panico. Era l’unica realtà di Parma vicina all’area ecclesiale. L’associazione ha fatto cose egregie ma ad un certo punto si sono formate al suo interno due anime differenti: chi voleva fare solamente supporto ai detenuti per trovare lavoro o per attuare inserimenti echi invece voleva fare anche un lavoro spirituale. Era d’altronde anche un’esigenza, della diocesi quella di avere una realtà del mondo ecclesiale che si interessasse del mondo carcerario. Si crea dunque nel 1989 il "Gruppo Carcere" della Caritas, sostenuto anche dall’allora vescovo, Monsignor Benito Cocchi. L’Associazione il Dialogo continuerà ancora qualche hanno per poi sciogliersi.

Il "Gruppo Carcere" è composto da una decina di volontari. Attualmente il responsabile è Maurizio Saccani. Ha aderito al SEAC, un coordinamento che riunisce una novantina di associazioni impegnate nel volontariato in carcere.

Negli anni passati, i volontari del gruppo potevano entrare in carcere a fare colloqui grazie all’art. 78. Ma attualmente nessun volontario della Caritas ha questa possibilità. E’ possibile lavorare con l’art. 17 che viene concesso dalla Direzione del Carcere che permette di fare attività varie. Il permesso in base all’art. 17 è personale e riguarda attività specifiche. In passato il gruppo ha organizzato molte attività in questo modo: dal cineforum, al teatro, alla musica leggera, alla catechesi. Hanno inviato insegnanti di italiano per insegnare la lingua agli stranieri.

Attualmente le attività che sono possibili al gruppo sono limitate. Non avendo la possibilità di entrare con l’art. 78, gli incontri sono principalmente di carattere epistolare. I detenuti scrivono alla Caritas e loro rispondono e si prendono carico delle persone. I detenuti chiedono soldi o indumenti. Quando chiedono indumenti, devono compilare un modulo presso il carcere e deve esserci il benestare dell’ispettore responsabile. La Caritas può così preparare il pacco e spedirlo.

Quando ci sono esigenze particolari i volontari della Caritas chiedono alla Direzione del Carcere di poter incontrare il detenuto. Dagli incontri nascono richieste le più varie. Si possono avviare progetti soprattutto dopo che i detenuti hanno scontato metà della pena, perché possono uscire gradualmente per permessi premio, licenze, oppure con l’ art. 21 e la semilibertà che permettono di lavorare fuori. A quel punto il Gruppo carcere cerca di avviare un dialogo per aiutare l’inserimento nella vita normale. C’è bisogno di posti di lavoro, di una abitazione.

Quasi tutti sono soli e non sono aiutati dai parenti. Due o tre volte all’anno si organizzano dei pranzi per detenuti ed ex detenuti presso i Missionari Saveriani. La Direzione sceglie 8/10 persone, selezionando tra quelle che fanno richiesta. Sono momenti in cui si possono avvicinare le persone e capire i loro problemi. I volontari della Caritas seguono alcuni ex detenuti per aiutarli nel reinserimento nella vita quotidiana. In generale si è riusciti a trovare sia lavoro che un’abitazione. Vengono inoltre seguite alcune persone in semilibertà e in art. 2I.

Negli anni ‘80 prendeva avvio anche un’altra importante realtà associativa "l’Associazione per ricominciare". L’Associazione oggi raccoglie all’incirca una ventina di persone. Attuale presidente è Padre Vincenzo Procaccianti. Ha sede in San Giovanni presso i Benedettini. Padre Vincenzo Procaccianti è stato per molti anni cappellano del carcere. Tra i primi associati Albino Mezzadri, Adolfo Costa, Marco Menegatti e successivamente Emilia Zacomer. L’associazione si impegna nel gestire colloqui interni per l’ascolto delle necessità delle persone e anche per ritrovare se stesse. Le persone carcerate vengono contattate e vengono seguite, nel momento in cui ottengono i permessi. Li si aiuta a cercare lavoro fuori per uscire con l’art. 2I. Li si segue dopo che sono usciti, quando non hanno nessun punto di riferimento. Si cerca di seguirli, di aiutarli di tenere anche i rapporti con la famiglia, li si aiuta se hanno problemi economici o a trovare alloggi.

Le persone dell’associazione sono tutti cristiani praticanti. Un impegno saliente è anche di dare un supporto spirituale ma in piena libertà. Nell’associazione è Adolfo Costa che cura in particolare questo aspetto. Quello che tiene insieme le persone di questa associazione è lo spirito di servizio verso i carcerati e anche verso i familiari, perché quando una persona è in carcere le tragedie riguardano anche la famiglia. C’è anche chi la famiglia la perde proprio perché è finito in carcere da solo. L’impegno è quello di dare un supporto spirituale e materiale e cercare il recupero delle persone.

A detta degli stessi protagonisti tra i vari gruppi c’è in generale una buona sintonia perché, come ha sottolineato un volontario (I.4.) "Il fine è sempre quello, che uno lo veda dal punto di vista ecclesiale o dal punto di vista laico, il fine è sempre quello. A Parma andiamo d’accordissimo. Andiamo d’accordo un po’ con tutti".

Il lavoro delle associazioni e delle cooperative in questi anni è stato importante non soltanto per le persone che dentro o fuori dal carcere hanno trovato un valido appoggio, ma anche per stimolare le Istituzioni e la città. Sembra infatti di poter dire che la cultura e la mentalità cittadina si è andata modificando in questi anni grazie alla generosità e all’inventiva sociale di queste realtà del territorio. Come evidenzia il responsabile di una cooperativa (I.2.) "La città è entrata nell’ordine di idee che queste persone sono esseri umani che hanno sbagliato, ma ai quali si deve dare una possibilità di riscatto. Questo è possibile se sono inseriti in attività lavorative dove possono vivere con il frutto del loro lavoro".

L’esperienza delle Cooperative e delle Associazioni ha contribuito dunque a creare in città un ambiente meno sfavorevole all’accoglienza delle persone che escono dal carcere. La stessa persona appena citata (I.2.) suggerisce infatti un orizzonte in cui ancora non si è modificato significativamente il contesto: "Il discorso è molto più carente per quanto riguarda il rapporto con il privato. Prendiamo l’esempio della Barilla. Un’azienda che è sensibile ai problemi della città. È più facile che questa ti dia un milione piuttosto che inserire detenuti al proprio interno. Ma questo non è un problema solo della Barilla. Bisognerebbe che ci fossero più aziende disposte ad inserire il detenuto. Attraverso queste attività di recupero non solo fai un opera importante di solidarietà ma anche qualche cosa di utile per la città, perché le restituisci dei cittadini.

 

Il contesto carcerario

 

A Parma è presente una struttura carceraria che comprende sia una Casa di Reclusione, sia una Casa Circondariale e un Centro Clinico. Attualmente (2000/01) i detenuti presenti complessivamente nella Casa di Reclusione e nella Casa Circondariale sono circa 600. Rispetto alla "rilevanza" dei detenuti, il carcere di Parma è uno dei più importanti d’Italia. Nella struttura sono presenti ben 13 sezioni, tra cui la sezione del 41 bis dove ci sono le persone condannate per delitti di mafia, poi ci sono altre sezioni con i parenti dei mafiosi, quella dei collaboratori di giustizia, c’è la sezione del penale vero e proprio, c’è il circondariale dove sono rinchiuse le persone in attesa di giudizio o che devono scontare pene fino a quattro anni, c’è la sezione per i portatori di handicap, il centro clinico attrezzato con strutture ospedaliere.

Negli ultimi anni la situazione del carcere si è aggravata per diversi motivi. Intanto perché alcune sezioni del carcere sono divenute di massima sicurezza. Secondariamente perché sono aumentati i detenuti, mentre il personale non è aumentato. Inoltre è mutata anche la tipologia dei detenuti, per esempio sono aumentati i detenuti stranieri che pongono ulteriori difficoltà legate alla lingua e a bisogni nuovi e differenti. Il disagio ha creato notevoli difficoltà sfociate più volte in tensioni e in episodi spiacevoli come violenze e maltrattamenti contro i carcerati, proteste eclatanti dei detenuti, morti e suicidi. Spesso i detenuti hanno protestato contro la durezza delle condizioni di detenzione e dalla severità delle regole stabilite dalla direzione del carcere. "Teniamo presente - ha sottolineato un socio (I.4.) - che abbiamo agenti di custodia che sono brave persone, bravissimi ragazzi, ma abbiamo anche altre persone che lo sono meno. Quando sono in divisa si sentono liberi di fare certi lavori che sarebbe meglio non farli. Gli manca la preparazione a questa gente. Molti vengono a fare questo lavoro perché non ne hanno trovati altri".

I mutamenti hanno portato difficoltà non solo tra i detenuti ma anche tra il personale carcerario e da ultimo anche tra i volontari e le persone attive nelle cooperative che hanno dovuto confrontarsi con una situazione più complessa e per certi aspetti più chiusa.

Dalle notizie che abbiamo raccolto ascoltando diverse testimonianze, a Parma la Direzione del carcere è molto disponibile per fare attività all’interno (secondo quanto concesso dall’art. 17), ma è meno disponibile per concedere la possibilità ai volontari di rapportarsi direttamente con i detenuti (art. 78) e soprattutto è in difficoltà rispetto alle possibilità di svolgere attività extra-murarie.

Come ha commentato un altro socio "In carcere su 24 ore hanno 4 ore di libertà, d’aria. Poi ogni direttore fa quel che vuole. Per esempio a Parma tutte le attività extra che possono esistere nel carcere, dalla catechesi, al cucito, al corso di computer, devono rientrare in queste quattro ore. E poi per 20 ore guardano per aria, è una cosa assurda. In altre carceri queste attività si possono fare anche gli altri orari, durante il giorno. Ma è anche vero che a Parma c’è una mancanza cronica di personale e quindi ci sono dei problemi grossi. Ma io penso che con un pochino più di buona volontà si potrebbe arrivare a fare cose diverse".

Gli aspetti problematici della situazione carceraria di Parma diventano molto evidenti rispetto ai percorsi di rieducazione e reinserimento. Si segnala da più parti infatti una carenza cronica delle figure professionali che dovrebbero supportare questi percorsi.

Come ha sottolineato un socio (I.1.V) "A Parma hanno solo due educatori per 600 detenuti. Il compito dell’educatore in carcere, è quello di fare un primo colloquio quando entra per la prima volta. E poi dovrebbe seguirli durante gli anni che devono star dentro. C’è un’equipe composta da criminologi, pedagoghi, educatori e direttore, che dovrebbe impostare un lavoro di rieducazione per queste persone. Noi sappiamo che ci sono persone dentro da quattro anni che non hanno mai visto un educatore una sola volta. Questa è una mancanza del ministero, del DAP. Non assumono e quindi la rieducazione non si fa".

La situazione attuale in cui s’intrecciano una carenza di figure professionali e una scarsa propensione a permettere i contatti tra detenuti e realtà sociali all’esterno del carcere, fa nascere varie difficoltà nell’estensione ad un numero significativo di persone di percorsi di reinserimento.

Alcuni soci hanno riportato alcuni giudizi severi sulla situazione. Secondo uno di loro (I.3.) "Non si fa nulla per recuperarli. Anche se una persona esce con l’art. 21 o è semilibero, non ha possibilità di integrarsi se non dove lavora. Ma quando hanno scontato la pena ed escono non conoscono il mondo che è fuori, perché il mondo cammina molto svelto. Quando vengono fuori hanno difficoltà a riconoscere le cose correnti di tutti i giorni e non hanno nessun supporto. I Comuni dovrebbero farsene carico per un certo numero di mesi. Quando escono dal carcere sono cittadini di nessuno. In carcere hanno la residenza e quando escono la perdono".

Un altro socio conferma il giudizio complessivo: I.4. "Quelle persone, quei detenuti che finiscono la pena e prima non hanno mai avuto contatti con i volontari, si trovano fuori dal carcere con il classico calcio nel sedere, il sacco dell’immondizia di vestiti o la valigia se ce l’hanno. Si trovano fuori dopo 10/15/20 anni di carcere. Non sanno cosa fare e se non hanno punti d’appoggio cominciano a delinquere ancora per saltarci fuori".

Nonostante questa difficile situazione, da diversi anni la realtà locale a Parma ha proposto numerose forme di collaborazione tra territorio e istituzioni carcerarie, finalizzate all’inserimento dei detenuti nel contesto sociale e nel mondo del lavoro. Nello specifico alcune realtà del volontariato e della cooperazione sociale dopo l’uscita della legge Gozzini e simili, danno vita ad un rapporto di collaborazione con Enti locali e Amministrazione carceraria.

Grazie a queste leggi innovative, che riconoscono dei diritti (con sentenza di un giudice specifico: la legge istituisce la figura del magistrato di sorveglianza con una funzione anche di garanzia della legalità dell’esecuzione della pena), e che introducono quel principio di flessibilità nell’esecuzione penale che rappresenta la vera svolta nel passaggio da un sistema repressivo di stampo fascista, fondato su una concezione retributiva della pena ad un sistema fondato sul principio della finalità rieducativa e risocializzante della pena (la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, art. 27 della Costituzione).

In sostanza si è avviato a Parma, intorno alla metà degli anni 80, un impegno professionale e del mondo del volontariato per favorire l’inserimento in società piuttosto che l’esclusione e la marginalizzazione. In questi ultimi anni, la cooperazione sociale a Parma ha visto un discreto sviluppo, varie cooperative sono sorte su tutto il territorio provinciale.

Certamente si sono modificate sensibilità e consapevolezze; la filosofia della cooperazione si è maggiormente esplicitata, si è arricchita di nuovi e più attuali significati. Nello specifico del contesto carcere questo si è potuto realizzare anche attraverso una serie di strumenti, noti al grande pubblico come i "benefici" della Gozzini, la cui finalità sia quella di consentire un graduale reinserimento del condannato, favorendo contatti con l’esterno, sia quella di sostituire la sanzione carceraria con una misura alternativa.

Va ricordato che nessuno dei "benefici" della Gozzini è "automatico", in quanto sempre l’applicazione è subordinata ad una valutazione complessiva della condotta tenuta dal condannato e della sua, come si dice, partecipazione al processo rieducativo. Non è solo, si badi, la buona condotta, comportamento per il quale, anzi, si segnalano talora i detenuti più pericolosi, ma è una valutazione complessiva sul percorso di risocializzazione della persona, basato su un periodo di osservazione e di trattamento da parte di un’equipe, composta da psicologi e educatori. Anche se nella realtà, come abbiamo già sottolineato, questo percorso viene perseguito con molta difficoltà.

Ad ogni modo questa prospettiva richiede la capacità da parte delle comunità locali di rispondere ad un insieme complesso di bisogni, relazioni e servizi che permettano la costruzioni di opportunità di vita alternativa alla detenzione o comunque tali da consentire una reale integrazione sociale. È necessario per questo una capacità di individuare percorsi personalizzati per superare conflitti e problematiche connessi alla permanenza in carcere, investendo nella partecipazione di competenze, risorse, servizi differenziati e collegati.

È importante segnalare, da questo punto di vista, che il Comune di Parma ha dato avvio nel marzo 2001 ad uno "Sportello informativo" rivolto agli ospiti italiani e stranieri della Casa Circondariale e della Casa di Reclusione. Lo sportello ha provveduto fra l’altro a pubblicare e distribuire pubblicazioni relative al Regolamento penitenziario e ai percorsi del reinserimento.

Lo sportello informativo del Comune si propone di svolgere una funzione importante di orientamento ed informazione ai detenuti dal punto di vista della tutela giuridica, dei percorsi alternativi alla detenzione, di svolgere un lavoro di mediazione linguistica e culturale per quanto riguarda i detenuti stranieri, di informare rispetto a realtà sociali, economiche, lavorative, scolastiche, formative presenti sul territorio ed infine di offrire un supporto nella direzione del reinserimento sociale.

Nella stessa direzione, nell’aprile 2002, il Comune ha firmato un protocollo di intesa con gli Istituti Penitenziari di Parma per realizzare una serie di interventi "relativi agli adulti sottoposti a misure penali restrittive della libertà presso gli Istituti penitenziari di Parma, per favorire la reintegrazione sociale delle persone ristrette, in particolare dei residenti nel Comune di Parma, per i quali sia già in corso un programma trattamentale interno o sia in via di definizione un progetto di reinserimento elaborato d’intesa con i servizi territoriali competenti". Le misure previste dal protocollo riguardano il consolidamento dello sportello informativo, la promozione di attività trattamentali nei settori educativo, culturale e ricreativo, l’attivazione di corsi di formazione professionale e inserimento nel mondo lavorativo, la promozione di un sistema informativo tra amministrazioni penitenziarie e comunali ed infine la promozione e la valorizzazione della rete territoriale di sostegno.

In relazione anche a quest’ultimo aspetto è chiaro che diventa fondamentale la capacità dei soggetti del territorio - amministrazioni, associazioni, cooperative - di realizzare, tra di loro stessi e nei confronti dei cittadini, un circuito di informazioni, di conoscenze e di mobilitazione. Sarebbe un grave impoverimento se ogni associazione o cooperativa impegnata nel settore sociale o ogni servizio attivato da istituzioni o realtà sociali si chiudesse in sé stessa; se ognuno fosse ignaro dell’altra o, addirittura, l’uno in concorrenza o in conflitto con l’altro.

Ci sembra importante da questo punto di vista la promozione di forme di contatto e collaborazione anche tra lo Sportello informativo del Comune e il Centro Servizi Carcere, che A.li. (Associazione Accoglienza per le Libertà) sta cercando di attivare. L’obiettivo comune dev’essere infatti quello di rafforzare la rete delle istituzioni e delle organizzazioni che operano a Parma per l’integrazione sociale dei detenuti ed ex detenuti attraverso il consolidamento delle relazioni e delle forme di collaborazione con le diverse istituzioni e organizzazioni che operano con la realtà carcere, valorizzando le esperienze di integrazione sociale.

In questo senso la conoscenza delle istituzioni e delle organizzazioni operanti, la valutazione delle esperienze realizzate, il coinvolgimento dei diretti destinatari dei servizi nella definizione delle attività e dei servizi, sono elementi essenziali per la costituzione di una rete locale che voglia offrire in modo coordinato le opportunità e i servizi necessari.

Esperienze e visioni del carcere

 

Prima di approfondire la problematica del re inserimento vorremmo con questo capitolo cercare di recuperare una consapevolezza rispetto al vissuto della detenzione, con cui gli ex carcerati devono necessariamente fare i conti. L’esperienza del carcere è una di quelle che segnano una vita. Dal momento dell’arresto tutto sembra diventare irrevocabile.

La rottura che può significare nella vita di una persona è ben rappresentata in questo racconto offerto da uno degli intervistati: I.9. "Ce ne sono stati tanti di momenti difficili. Comunque il momento più difficile è stato quando mi hanno arrestato nell’ultimo periodo. È stato nel 1982, avevo circa una quarantina d’anni grosso modo. Ero a letto con la mia compagna di allora. Sentii bussare, suonare la porta, e si presentarono delle persone in divisa, che erano della polizia, e mi dissero "Lei è xxxxx, venga con noi la dobbiamo arrestare". Poi dopo imparai tutta la tra fila che c’era dietro a questo arresto. Però è stato un momento molto brutto, perché ero assieme alla mia compagna e lei vedendomi andare via in quel momento e io dovendola lasciare è stato... Per me è stato brutto. Non è che uno lo prendono in mezzo alla strada e lo portano via. Lì sei proprio lì nell’intimità della tua casa e ti vengono a prendere. Per me è stato uno dei momenti più scioccanti e più traumatici. Almeno dal mio punto di vista è stato uno dei momenti più brutti di queste mie esperienze che ho avuto".

La stessa persona racconta che cosa ha significato per lui l’esperienza del carcere. "Beh, l’esperienza del carcere mi ha insegnato che ho perso tutto, diciamo, ecco. Quel poco che avevo l’ho perso. E quando sono uscito non avevo proprio niente, zero. E mi ha segnato nel senso che mi ha fatto riflettere molto su ciò che avevo fatto per andare in carcere. E come posso dire… a posteriori non lo rifarei, in assoluto. Non vale buttar via 10/12 anni della propria vita per poi ritrovarti con niente".

La stessa domanda la poniamo anche ad altre persone: Per I.13. il carcere ha significato "solo cose negative, penso. Cioè a me quello che ha portato sono cose negative. Però c’è stato anche il suo valore anche lì. Perché dalla cosa negativa dici… "però aspetta un attimo. Invece di sbagliare sempre, adesso sai quello che ti aspetta. Solo cose negative. Infatti non ne volevo parlare… che poi diventava quasi un’abitudine. Però quando sei dentro… io veramente sicuramente non lo auguro neanche al mio peggior nemico il carcere, perché è bruttissimo".

Per I.8. "Il carcere è solo abbruttimento. Non c’è niente di quello che senti dire in giro. Non serve a riparare il reato che fai, non serve a farti capire gli errori che hai fatto, perché tanto dentro lì non capirai mai perché tutti i giorni subisci delle angherie, cose, non hai modo di riflettere su quello che hai combinato. È un’esperienza strana. Mio padre quando veniva a trovarmi diceva che il carcere è l’università del crimine. Credo in fondo che abbia ragione. Perché il carcere ti insegna ad odiare. Quello sì. Il carcere se non sei capace impari ad odiare. Altro non te lo insegna. Altro non ti da. Il carcere non ti da nient’altro. Cultura dell’odio e basta. Odio, violenza e... Se ripenso a tutti gli anni che ho fatto in carcere non... beh è chiaro che stabilisci delle amicizie con delle persone che ti... Però in senso morale forse impari ad apprezzare l’ amicizia, quello che... però non ti spiegano, non riesci a capire la città quello che è. La città, la civiltà è qualcosa che lì dentro non entra, non c’è. C’è solo - come si può chiamare il sentirsi uniti dalla disgrazia. Perché hai delle persone che ti sono amici, che con te rischiano, fanno tutto quanto, mentre all’esterno non c’è. Non è come... Ma forse neanche nella città libera c’è questo fatto qua: il sentire la presenza dello Stato, che ci sono delle regole giuste che vanno rispettate. Non le senti all’interno, non ci sono queste cose qua. All’interno del carcere non ci sono lo Stato, le leggi, non c’è niente. L’unica cosa che senti è il rapporto umano che hai con l’altro detenuto, l’altro carcerato, con alcuni agenti che magari hanno una sensibilità maggiore di altri, però la presenza dello Stato non si sente. La presenza dello Stato, della civiltà non si sente niente, non riesci a sentirla".

I.8. insiste sul fatto che questa istituzione non ha regole. "Non ci sono delle regole. Ma non ci sono delle regole non solo da parte… ma anche da parte della custodia. Anche loro non hanno delle regole, perché se un giorno il comandante si sveglia male, cambia tutte le regole e quindi tu non... Anche gli agenti non hanno un’idea di come può andar la cosa. Non c’è niente di stabilito, niente. Lo Stato è assente. Nell’istituzione carcere, la presenza dell’istituzione Stato non si sente. Vige la legge del più forte, il più forte sono le guardie, quindi le guardie stabiliscono quello che devi fare, e quello che non devi fare, giorno per giorno, variando, tanto possono variare le cose a seconda delle esigenze, dei casi, di come decidono, di come si svegliano".

Questa persona si è fatta un’immagine precisa della gente che vive o lavora dentro il carcere. "Sono tutti pazzi. Lo sai perché sono tutti pazzi? Perché una persona che riesce a stare rinchiuso 24 ore in una stanza dev’essere un matto, non puoi essere normale. E una persona che riesce a stare 16 ore al giorno con delle chiavi in mano a rincorrere dei pazzi che sono chiusi dentro a delle stanze non può essere normale. Con la scuola cerchi di studiare. lo facevo scuola, musica, a me piace suonare, suono la chitarra, mi ero buttato in quelle cose lì. Studiare, musica, ed evitare il più possibile il contatto con la custodia perché loro cercano sempre in qualche modo di farti capire che tu non sei degno di far parte della società civile. Allora cerchi di evitare il più possibile il contatto con loro, lo riduci all’essenziale".

Con il suo aiuto cerchiamo di capire perché le guardie guardano i detenuti in questo modo. E ci offre una spiegazione interessante e profonda: I.8. "Sai che io non l’ho mai capito. Non lo so, non lo so. Non lo so e poi sarà anche l’ambiente dove vivi, perché alla fine, non c’è niente da fare perché se tu sei dentro un posto dove ci sono delle persone che devono essere rinchiuse e tu sei quello che le rinchiude, credo che alla lunga il lavoro ti porta a pensarla in quel modo lì. Credo che sia una cosa umanamente normale, anche se civilmente magari uno fa fatica a capirla. Però se c’è una protesta in carcere, una rivolta, allora agli agenti viene detto: "Queste persone qua non sono quelle che pensate, sono… altrimenti come fai ad attaccare? Non potrebbero mai venir su con gli scudi e manganelli, andare ad attaccare delle persone se li ritengono persone umane. Quindi alla lunga credo che il lavoro stesso porti a quelle cose lì. Credo, non lo so, non lo so perché non… però credo che alla fine sia quello lì, un po’… la deformazione professionale. Se tu mi guardi e mi vedi come una persona normale, una persona… non puoi fare quelle cose. Bisogna che io ti faccia capire che non sono come te, che sono diverso da te. Che c’è qualcosa in me che non funziona, se no come fai ad attaccarmi. Quindi credo che dipenda da quello lì. Però quello che credo io può essere smentito domani".

Quello che emerge da questa testimonianza è che non c’è un motivo soggettivo che porta ad assumere quel disprezzo e quella durezza verso i detenuti. È il fatto di svolgere quel lavoro brutale e violento in sé, che può portare ad assumere quella prospettiva mentale perché è l’unica che può giustificare di fronte alla propria coscienza quello che si sta facendo. Ovvero per poter trattare qualcuno come una bestia senza sentirsi in colpa, si deve pensare che l’altro sia veramente una bestia. Del resto questo è lo stesso tipo di dinamica psicologica che si attivava nei campi di concentramento nazisti. Non è il pregiudizio che spiega il comportamento, ma il comportamento che per autogiustificarsi tende al pregiudizio.

Rispetto all’istituzione carcere come cultura e ambiente sociale, diverse testimonianze concordano nel dipingere il carcere come una specie di luogo d’addestramento e di ammaestramento alla cultura delinquenziale.

I.10. "Il carcere in se stesso per me non è altro che un’università della criminalità. Forse saranno pure frasi scontate ma io le ho provate sulla mia pelle. Vedo e conosco qualche giovane che è venuto per una stupidaggine dentro ed è diventato un delinquente. Non parlano più di dove andare a lavorare, no, parlano di come fare i soldi presto e subito. E prima non avevano manco idea di cosa fosse questo.

L’hanno imparato dentro. E poi il carcere in se stesso è un contenitore di sofferenza, ti fa perdere dignità, principi, valori umani. Tutti i valori umani ti fa perdere perché vedi un sacco di abusi, di cose storte, di diritti che non ti vengono applicati, di richieste che non vengono mai esaudite. Questo è il carcere. E c’è di buono però che per esempio uno come me che ha avuto modo di arrivare alla Sirio, che mi hanno tanto aiutato nei primi tempi, oggi svolgo un tipo di lavoro quasi autonomo, la mattina esco e lavoro sia nelle scuole, sia col verde, la pulizia dei viali, dei parchi, tutto quanto".

Dello stesso avviso I.3. che è stato in carcere decenni di tempo, e a cui abbiamo chiesto di raccontarci l’esperienza:

I.3. "E va beh, negativa. Cioè non ti aiuta. Perché la scuola del carcere non è la solita filosofia che si dice. No, no, è scuola di malavita realmente. Là vieni studiato. Se non ti sai difendere subisci tutte le angherie, sia mentali, psicologiche e anche materiali. lo ho visto persone insospettabili che facevano la guerra tra di loro per andare a letto con qualche giovane. Cioè c’è questo fatto qua, cioè non ti aiuta. Il carcere non aiuta. Il custode ha paura del personaggio. Cioè ti tratta bene e sfoga sul povero cristo. Io non ho mai preso uno schiaffo. A me mi chiamavano sempre Don XX, però ci stava il poverino che pigliava le botte. Questo è. Cioè che educazione c’è? Gli educatori a simpatia e antipatia? È un mondo a se. Non ci sta niente da fare. Sono tutte chiacchiere quelle che dicono. Bisogna starci dentro e allora ti rendi conto veramente cosa significa starci. Mettono un ragazzo di 18/19 anni appena fresco fresco arrestato, lo metti attorno a persone che hanno anni di carcere e questo ragazzo quale tipo di esperienza può acquisire scusa? Che parla di canzoni, di arte? No, no, si parla solo di delinquenza, quindi la tua mente, dai oggi, dai domani, subisci! E quindi la manovalanza così si prende. Trovi il ragazzo sveglio che gli piace mettersi in evidenza e quando uscirà tu gli farai fare qualche lavoro. Però non è per aiutare ad inserirsi, ti raccomando,fai il bravo. No, no, se vedi il ragazzo sveglio, svelto, ne approfitti. E lo sfrutti un domani all’esterno con altre cose. Quindi non è che l’hai aiutato. Perché il ragazzo quando esce non trovando un aiuto, giovane è chiaro che è facile che cada. Anche perché il denaro gira con molta facilità.

Cioè a un ragazzo che ha fame gli dai un milione, due milioni, il ragazzo tu lo conquisti, non c’è niente da fare, e gli farai fare quello che vuoi tu. Il carcere è scuola. Perché non c’è suddivisione. Sono mafioso, mettimi con i mafiosi. Ma un povero ragazzino che ha fatto, tanto per dire perché adesso non vanno più in galera, un furto al supermercato o uno scippo, non lo mettere con personaggi di un certo calibro o con uomini incalliti. È chiaro questo non imparerà niente, imparerà solo le cose peggiori. Perché non troverà mai una parola buona. No, verrà solo studiato, per vedere il marcio che esce, che emerge, per poterlo sfruttare. Questo è, non c’è niente da fare. Le strutture carcerarie le vedi come sono? Tutte vecchie, in una cella da tre, ce ne mettono sette, ne mettono otto. E ce ne stanno sessantamila, e logico che poi succede quello che deve succedere. Se potessi, ma non ho tempo, scriverei un libro, quello che ho visto io nel carcere, guarda, ma di tutti i colori, non si salva nessuno. Non si salva nessuno. Polizia penitenziaria corrotta, direzioni corrotte. Poliziotti che facevano all’amore con travestiti nel carcere. Ti ho detto, ho visto cose inaudite. Poi si parla di reinserimento e siamo felici e contenti tutti quanti. No perché siamo fuori. Io ti ho detto sono stato inquisito in tutte le direzioni del carcere. Con tutti. Proprio per gli imbrogli che si facevano. A Vicenza io sono stato sotto inchiesta perché dicevano che io concedevo lavoro all’esterno, la semilibertà dietro pagamento e sono stato inquisito con il direttore del carcere, siamo stati sotto inchiesta tutti quanti. Se venivi tu XX, un bel ragazzo, pulito, la prima volta che venivi in galera e così. È chiaro che tu eri oggetto delle nostre attenzioni. Allora, che vuoi fare vuoi uscire subito o vuoi stare qua. Allora XX, che è la prima volta che veniva qua, paga e ti aiutiamo".

Per questi affari l’intervistato è stato inquisito: I.3. "Io e quello che comandava il carcere di Vicenza. Così è stato a Udine. Me e il direttore. È stato uno scandalo a Vicenza nell’82/83 per questo fatto qua. Che poi ci stava la psicologa che si era invaghita di un ragazzo, un casino. Ci siamo divertiti. Però niente. E quindi ce ne stanno di tutti i colori. Immagina un agente di custodia, ragazzi giovani, che pure c’avevano una ragazza, che si facevano masturbare o facevano l’amore con i detenuti nel carcere. Tu, non riesco a capire. Al limite se lo faccio io che sto da 15 anni dentro, forse, ti dico forse, può essere anche giustificato, perché è un istinto va bene. Ma tu che fra 6, 7 ore vai fuori dove c’è la vita, c’è tutto, stai facendo anche queste cose qua?". Gli chiedo perché. "Che forse loro staranno male anche più di noi".

Gli chiediamo se per caso non si può considerare il carcere una scuola negativa e degradante anche per gli agenti. I.3. " Si, esatto. In effetti. Tu pensa la notte, quando facevano il turno di notte in una sola sezione, una sola guardia. La notte è lunga. È chiaro che tutti i ragazzi, tutti ragazzi giovani, iniziano a pensare, a lavorare con la mente, tutte queste cose qua. Poi questi erano persone che avevano fatto la quinta elementare. Gli agenti di custodia, i secondini, i superiori li chiamavamo noi. Cioè zero. Erano lo scarto di tutti quanti. Chi erano pugliesi e sardegnoli. Noi li chiamavamo sardegnoli volutamente perché sai loro si offendono se li chiami sardegnoli. Sardegnoli erano il ciuccio, l’asino. E noi li chiamavamo sardegnoli. L’unica gioia loro era quella di dire tu mi devi chiamare superiore. Io ti chiamo superiore, però mi devi dire superiore a che. A che cosa sei superiore?".

Per altri l’esperienza del carcere è stata comunque un’occasione anche per maturare: I.2. "Mi ha fatto maturare molto l’esperienza carceraria. Mi ha dato dei lunghi tempi di riflessione, di meditazione. Ha mutato il mio carattere. Penso che sia solo uscito fuori perché non ho avuto modo di valutare se sono cambiato o se è sempre nel mio stesso carattere. E niente, alla fine mi ha segnato perché ho sofferto moltissimo durante la detenzione. E adesso mi ritrovo con un’età diversa, con delle idee diverse, più mature, più oneste".

In certi casi un accidente fisico durante un’operazione ha richiamato tutti alla dura realtà. I.2. "Quando ho avuto l’incidente al braccio. Lì proprio... avevo 25 anni. Mi ha fatto soffrire molto, più di ogni altra cosa, questo incidente. Mi ricordo che durante la notte mi svegliavo e mi mettevo a piangere come un bambino. Perché mi vedevo diverso da come ero prima, con questo incidente al braccio. Mi sentivo un senso di inferiorità rispetto agli altri. Perché mi complessavo io o perché effettivamente era così. Poi dopo ben tre/quattro anni di buona sofferenza, ma buona forte proprio ho detto basta, mi sono stufato di soffrire, devo pensare a come sono adesso. Anche se tutt’ora mi creo dei complessi però li supero. Con difficoltà, però li supero, non sto lì ancora a piangermi addosso che è quello che mi è successo. Poi bisogna andare avanti non bisogna soffermarsi sulle cose brutte".

Un altro intervistato insiste invece sul carcere come luogo di produzione e di consumo a basso prezzo.. I.5. "E quindi tornare in carcere sempre. E questo va a vantaggio di qualcuno. Perché è una grandissima industria il Carcere. Perché ha cinquantamila clienti. Immagina avvocati, magistrati. Le spese che fai in carcere, che sono 700.000 che uno spende al mese. Lavoro che lavori a metà prezzo. Cominci a comprare vestiti nel carcere. È l’azienda più ricca d’Italia c’ha cinquantamila clienti che lavorano anche a metà prezzo e spendono lì la cifra. Secondo me qualcuno ci mangia dietro. Anzi non qual al no, tanti".

Il reinserimento

 

Analisi delle difficoltà e dei bisogni più generali in vista del reinserimento

 

In questo capitolo cerchiamo di analizzare alcune questioni ricorrenti emerse dalla testimonianza degli ex-detenuti. Si tratta di problema ti che e di snodi critici di estrema importanza da cui è possibile trarre alcune indicazioni significative per il ruolo che potrebbe avere il Centro Servizi Carcere.

Quasi tutte le persone intervistate hanno insistito sul senso di spaesamento che hanno provato all’uscita del carcere. D’altro canto, va detto che non sempre l’uscita dal carcere è preparata nel tempo e non sempre quindi la persona ha fatto in tempo ad organizzarsi mentalmente e materialmente. Come racconta un intervistato:

I.9. "Inizialmente quando mi hanno trasferito a Parma, io nemmeno lontanamente mi aspettavo di uscire se non proprio a fine pena o giù di lì. Non mi aspettavo mai che ci fosse qualcuno qui nel parmense che potesse, come posso dire, assumere dei detenuti a ore determinate. Cioè uscire alla mattina e rientrare la sera. Quando un’assistente sociale del carcere qui di Parma e mi chiamò qua in ufficio e mi disse "guarda si è aperta la possibilità di diverse borse lavoro, se sei interessato. "Io non sapevo neanche che cosa fossero queste borse lavoro. E mi disse "guarda la borsa lavoro è che ti danno un tot al mese, cioè praticamente diciamo così ti pagano le sigarette, ti danno le sigarette mensili. Tu esci alla mattina e rientri alla sera". Io fui ben contento di accettare. Il tempo di 4 o 5 mesi mi comunicarono che il giorno dopo dovevo uscire e presentarmi nella sede della Sirio per intraprendere questo lavoro che tutt’ora faccio".

Alcuni intervistati suggeriscono che al momento dell’uscita conta moltissimo anche la mentalità e l’atteggiamento psicologico con cui ci si confronta con la nuova realtà. Quando a una persona chiediamo con che cosa si devono confrontare di importante le persone quando escono, l’intervistato insiste su questo aspetto delle aspettative:

I.9. "Beh, si devono confrontare con la realtà, perché la realtà diciamo così che magari uno non dico sogna, ma pensa che ci sia quando è in carcere e quando esce è molto diversa. È diverso, perché la non hai bisogno di niente, diciamo, o quasi. Se uno si accontenta. C’è il mangiare, c’è il vestire, c’è questo c’è quell’altro. Invece fuori uno se le deve conquistare queste cose. E allora se non ha la forza di lottare o di imporsi in determinate cose queste qui le vengono a mancare. Allora si deve confrontare. Innanzitutto deve sapere lui stesso cosa vuole è chiaro. Perché se uno dice, domenica prossima esco dal carcere. Alè, io voglio subito una ragazza, l’appartamento, una bella macchina ecc. ecc. lì non ci siamo mica più. A meno che uno non dica "beh, io i soldi fuori ce li ho", allora me lo posso anche permettere. Ma se uno dice io devo uscire a lavorare, allora si deve confrontare con se stesso e dire "beh la prima cosa che voglio è questa, la seconda è questa "e allora fare un percorso piano piano e arrivarci".

 

Presenza e assenza delle istituzioni

 

Molti intervistati sottolineano che di fronte al prevedibile spaesamento che la persona vive una volta messo il piede fuori dal carcere si aspettavano in qualche modo un appoggio, un aiuto o quanto meno un ruolo di indirizzo e di accompagnamento da parte delle istituzioni. In particolare si lamenta un’assenza delle istituzioni sul piano della predisposizione di strumenti di assistenza e di aiuto per le persone che escono dal carcere e che non possono contare nell’immediato su risorse autonome. Questo mancato aiuto crea spesso un grande risentimento nei confronti delle istituzioni pubbliche e statali dalle quali ci si sente abbandonati e presi in giro. Come sottolinea uno degli intervistati:

I.3. "Tutto quello che si sente sono tutte belle favolette. Quando sei dentro l’assistente, gli educatori ti promettono aiuto, non ti preoccupare, non fare questo, non fare quell’altro e noi ti aiuteremo. lo sono uscito dal carcere e mi sono trovato senza aiuto e sono andato avanti con quello che avevo quando ero bibliotecario nei miei lunghi anni di detenzione. Quindi avevo un fondo e con quello sono andato avanti. Ho chiesto alle istituzioni di essere aiutato. Solo belle parole, ma tante, tante belle parole. Quindi non credo che uno si possa re inserire. L’unica cosa che ho trovato realmente valido a Parma è stato la Caritas. E queste strutture che io non avevo mai frequentato si sono immedesimate nel mio problema. Mi hanno fatto lavorare al dormitorio della Caritas. Ho conosciuto Maurizio, la signora Pina, ho conosciuto suor Maria Rosa. Tramite queste persone poi ho conosciuto i servizi sociali del comune. Una bravissima assistente sociale. Anzi due assistenti sociali molto brave che mi stanno aiutando. Avevo uno sfratto. Ho chiesto alla Prefettura di essere aiutato. L’unico aiuto che mi è stato dato è stata una proroga. La Caritas, nella persona del suo direttore, si è interessato, tramite i servizi sociali, con XX, mi hanno trovato un appartamento dell’Istituto. E mi hanno fatto lavorare anche nel dormitorio comunale di strada Margherita. E lì insomma ho lavorato cinque mesi, uno stipendio buono e mi sono rimesso un po’ in carreggiata, con tutti i debiti che avevo, per poter andare avanti. C’è la Croce rossa che mi dà un pacco al mese. La Caritas ogni quindici giorni mi dà un pacco, Suor XX mi dà un pacco così vado avanti. Quando ho chiesto a Trento all’ufficio che era preposto agli ex-detenuti, dopo avermi mandato avanti e indietro, la Provincia autonoma di Trento mi ha detto "Signo’, possiamo darvi cinquantamila lire". Io ho guardato questo signore, l’ho ringraziato, e gli ho detto "le dia a qualcun altro". L’inserimento era cinquantamila lire. Poi mi avevano promesso il lavoro ecologico: la raccolta delle fogne. Va bene, va bene tutto, perché io ho avuto un’esperienza lunghissima ho fatto 17 anni di carcere. Non un giorno ma 17 anni, per reati molto ma molto gravi, parliamo della 41 bis. Io ho fatto carcere pesante, con l’articolo 41, perché appartenevo ad una famiglia molto ma molto forte della mafia sicula-napoletana. Quando mi hanno arrestato, mi hanno preso tutto quello che avevo, proprio tutto e quindi l’esperienza del carcere, facevo il bibliotecario, un poco così e mi ero creato un fondo. Mi ero fatto fare un libretto postale dalla direzione del carcere quindi quando sono uscito ho trovato questa cosa qua. Ma le istituzioni pubbliche non mi hanno aiutato. Questo lo posso dire con molta, molta chiarezza. Ho trovato aiuto nelle organizzazioni sociali, ecco.

E onestamente poi ho avuto la fortuna di conoscere i servizi sociali del Comune di Parma. Adesso sono senza lavoro, le bollette me le paga la Caritas, perché non riesco a lavorare, a trovare lavoro e aspetto che riapra il dormitorio, che dovrebbe essere per un anno questa volta e quindi mi darebbe un poco di serenità. Ma caro XX, il resto che si dice nel carcere, devi essere drogato. Se sei drogato ti aiutano, ma se non sei drogato non ti aiutano. Io dalle istituzioni pubbliche non ho avuto niente. Questo con molta chiarezza. Sono stato forte per non commettere altri reati, perché ormai sono anzianotto e gli anni più belli forse li ho trascorsi dentro. E poi ti ho detto questo aiuto di XX, di questa suora, di questa assistente sociale mi hanno dato la forza di andare avanti. Come dice Don XX, anche stamattina gli ho portato le bollette dell’Enel e dell’affitto: "bisogna avere fede". Io fede ne ho e spero di andare a lavorare.

Perché per il lavoro, ..., sono stato solo preso in giro. Prima per via dell’età poi, giustamente, perché vogliono sapere chi sei. E che presenti il certificato penale che è come l’elenco telefonico, e quindi non ti prendono a lavorare, giusto? E questo è. Non c’è nessuna possibilità. A meno che non sei drogato. Se sei drogato, allora ci sono tutte queste associazioni che ti aiutano, ti aiutano. Ma uno che non è drogato, anche se la droga l’ha venduta, non ti aiutano. Cioè cambiare vita, a chiacchiere è facile, però se non trovi persone che si immedesimano e ti danno una mano senza farti pesare l’aiuto che ti danno, allora tu devi rientrare in carcere un’altra volta, perché devi rifare quello che facevi prima. Cioè l’aiuto per il reinserimento, secondo me, e secondo tante persone che conosco sono chiacchiere. Punto e basta".

Sempre la medesima persona ritorna in seguito sullo stesso punto: "Come iniziative ce ne sarebbero tante da portare avanti. Un esempio stupido, in estate, nel fiume, la Parma, come la chiamate voi, non ci sta una goccia d’acqua ed è sporco. Pigliate i detenuti, dateci anche qualcosa in nero, mettevi d’accordo con la cooperativa per i contributi, tanto per dire fai fare la pulizia dei margini, le coperture, intorno. I lavori ci sono. I boschi. Non è che risolvono il problema, però questo è importante, la volontà di cambiare. Tu gli dai la possibilità che a fine mese, gli dai un milione, che io posso vivere. Non è che mi devo preoccupare… io andavo nei supermercati, a cinquantotto anni, cercavo di prendere la busta e me la nascondevo. Ecco te lo dico anche in questo, perché avevo fame.

È inutile che parliamo, a chiacchiere, "ti aiuto", non ti aiuta nessuno. D’iniziative ce ne stanno tante da poter fare, se tu realmente vuoi aiutare chi ha sbagliato. Perché chi è marcio, chi non vuole cambiare, non cambia. Gli puoi dare tutto quello che vuoi ma non cambia. Esce, entra, esce, entra è così. Sarà 50 e 50, ma c’è sta un dieci per cento che si vuol salvare. Li vuoi aiutare questi qua? … niente, ti ho detto, cinquantamila lire. E si doveva riunire per le cinquantamila lire, la commissione. Io guardai a questo qui della Provincia di Trento: "Li tenga lei e non mi rompa il cazzo", proprio così e me ne sono andato. Questo è stato l’aiuto degli altri. E detto questo ho concluso. Ora sono un vecchio pensionato della Caritas e se mi aprono il dormitorio. Glielo detto a Don XX: "Sono proprio nella merda", lui si è messo a ridere e mi ha detto, "No, lei lavorerà per un anno". Questa è la speranza. Se no andiamo a fare due chiacchiere con XX ogni tanto, chiacchiere che non riempiono la pancia. È giusto o no?".

A questa persona abbiamo chiesto se si è rivolto anche al Comune per cercare un aiuto. "L’unica cosa che mi ha dato il comune, mi ha dato la casa tramite la Caritas. Anzi io avevo chiesto al Comune un sussidio, il "minimo vitale", no, non saccio come si chiamano. Una cosa che ti danno ogni mese, ogni due mesi, non lo so. E sono andato alla Circoscrizione.

Questo mi guarda e mi fa parlare, il detenuto ecc. e poi mi dice: "ma lei non ha sessant’anni". "No", "E allora niente". Ah ecco che aggio a fa? Per mangiare devo aspettare i sessant’anni. Poi fatti i sessant’anni sono andato di nuovo alla Circoscrizione e mi ha detto: "Sì, però lei c’ha il bonifico dell’AMPS". Le bollette dell’AMPS che mi paga il comune.

"Dato che sono tre mesi, che finisce l’anno, se noi facciamo i conti non ci troviamo". E allora mi dica: "Cioè, lei mi paga la bolletta del gas per tenere la cucina, però non mi aiuta per comprare la pasta per mettere nell’acqua sopra il gas". "E no, niente da fare, deve aspettare l’anno nuovo per chiedere questo contributo", che si chiama minimo vitale, non so il termine esatto qual è. Però siccome spero di andare, spero che si sblocchi la questione del dormitorio. Se no il 2 gennaio, vado di nuovo in Circoscrizione e vado a chiedergli il minimo vitale.

Poi qui a Parma avevo preso una malattia, la psoriasi, sai che cos’è? E quindi ce stavano creme e cremette da far paura. E lì mi ha aiutato la Croce Rossa. Io c’avevo l’esenzione del comune, però per alcuni medicinali, perché queste sono malattie tutte particolare, mi hanno spiegato, andavo alla Croce Rossa. La presidentessa mi metteva sulla richiesta medica il timbro, e andavo in una farmacia e mi davano i medicinali. Però vedi perché, io mi sono saputo organizzare, ma pensa uno "babbà", che esce timido, non sa, si trova ancora peggio di me. Perché nessuno gli dice guarda fai così, fai così, facciamo un poco di strada insieme".

Anche un’altra testimonianza sottolinea gli stessi aspetti: I.4. "I momenti più difficili sono quando chiedi ai servizi sociali dello stato. Metti che hai il coraggio di chiedergli 50.000 per vivere, loro cosa ti dicono? Cioè sono troppo chiusi nel loro iter burocratico, non so come dire. Non escono da quell’ufficio, non entrano dentro ai problemi piccoli di ogni detenuto. Ci sarà quello che se ne approfitta è logico. Per me il detenuto fuori è abbandonato a se stesso. Quello è una mancanza cronica dello stato, che non fa onore a Gozzini. Perché è bello far fare i detenuti modelli, e poi il modello del detenuto fuori si deve improvvisare, perché servizi non ce ne sono. Fuori loro pensano solo "beh il detenuto deve fare solo buona condotta". Va bene ma dagli un aiuto, non vivrà mica sempre di buona condotta questo cristiano. Questa per me è una mancanza cronica, una carenza totale. Perché il detenuto se non ha queste associazioni di volontariato, vuoi che sia "Per ricominciare" o vuoi che sia la Caritas, che fanno? Questa per me è una carenza totale. Alla fine hanno bisogno di aiuto. Ci sono tante varie forme per aiutare un detenuto. Che questi soldi siano in garanzia a una struttura come questa che farete. Benissimo però devono fare qualcosa ma qualcosa devono fare. Quello che manca è una struttura fuori. Una struttura a livello statale.

Perché non si può avere la presunzione di far fare la buona condotta a un detenuto in carcere e poi fuori abbandonarlo a queste associazioni di volontariato. Ci vorrebbe una struttura che possa raggruppare un piccolo aiuto che da lo stato a quello che realmente ha bisogno. Un prestito diciamo un "prestito d’onore". Anche i detenuti possono avere un onore non è mica detto che non ce l’hanno. Sarà un piccolo aiuto, va bene, ma fare qualcosa in questo senso. Un piccolo aiuto, tutto lì". Ad una persona chiediamo che cosa gli sarebbe utile - o gli sarebbe stato utile - nel suo percorso di reinserimento. Nella risposta ritorna questo tema della mancanza di fiducia e sostegno da parte delle istituzioni.

I.8. "Adesso più niente. Magari prima un aiuto da parte dello Stato più concreto. Più concreto

No, un aiuto e basta; senza concreto, perché non ti aiutano in niente. Forse la fiducia delle istituzioni che non hai assolutamente. Le istituzioni non si fidano mai di te e te rimani sempre un delinquente, un emarginato, uno soggetto deviato. Per lo Stato, per l’istituzione tu sei quello e basta. Rimani sempre quello, comunque. Anche fra vent’anni tu continuerai a rimanere quello che ha commesso dei crimini."

Un altro intervistato sottolinea dunque l’utilità che potrebbe avere il Centro Servizi Carcere rispetto a questo tipo di problematiche e alla questione dell’orientamento. I.4. "Fate bene a fare questo gruppo di solidarietà uniti, perché la gente non sa le possibilità che può avere un detenuto. Anche per ignoranza, di leggi, di qualsiasi cosa, o anche per timidezza, magari preferisce non chiedere per vergogna. E invece se volete fare questo gruppo voi lo indicate, lo seguite.

Non serve avere i servizi sociali per adulti che sono a Reggio Emilia e non ti possono aiutare, perché loro ne hanno migliaia. Loro ti danno la possibilità di uscire, poi tutte le altre strade te le devi trovare da solo. Allora se voi prendete il detenuto che esce e gli aprite queste strade che ci sono, questa è una cosa bellissima. Perché tante volte per ignoranza si perdono delle strade che ti possono aiutare".

Il problema ben evidenziato in una testimonianza è che spesso le istituzioni non hanno un progetto, non hanno predisposto un possibile percorso, o dei possibili servizi ad hoc, ma concepiscono l’aiuto in termini di assistenza occasionale basata sulla richiesta individuale, sulla quasi mendicità, che mette sempre la persona in un atteggiamento di subalternità diretta e personale.

I.3. "Per quanto mi riguarda, per l’esperienza che ho vissuto e anche altri amici miei che hanno fatto il tentativo, non trovi nessuno che ti aiuta. Cioè tutto si riduce, a quell’aiuto immediato, momentaneo, e poi Ciao! Arrivederci. In effetti si mangia una sola volta, bisogna dormire una sola volta e basta.

Cioè non è che sei aiutato nel un percorso di reinserimento per un lavoro, per un qualche cosa. E vero che è difficile, che ci stanno tanti problemi qua. Trovare una casa. Tu tieni presente un proprietario che ti chiede "Tu chi sei?". Tu che dici? Da dove vengo? Da via Burla, da Santo Bono così? Quindi dovrebbero essere le istituzioni che nel carcere ci sono e che sono anche all’esterno che ti dovrebbero dare, starti a fianco proprio per superare questo impatto iniziale. Se no ti trovi male. Hai la possibilità economica tu risolvi. Se non mi avessero sequestrato tutto. Io stavo bene non mi interessavo tanto per dire di queste strutture qua. Però uno che si trova in difficoltà, se non riesce ad organizzarsi da solo, nessuno ti aiuta. Cioè io, per riuscire ad avere una casa, si è interessata la Caritas, l’Assessore ai Servizi Sociali, ha saputo il mio caso che è particolare e mi ha aiutato, se no io stavo sotto i ponti. Parliamoci chiaro, ormai non avevo più nessun introito".

In un’altra intervista tuttavia si registra una visione più positiva rispetto all’intervento delle istituzioni nell’inserimento attraverso, in questo caso, la procedura contemplata dall’art. 21. I.20. "Ho dovuto parlare con l’educatore, criminologo, assistente sociale, insomma tutti gli operatori del carcere che hanno attestato la mia crescita da persona che ero prima a quella che ero in quel momento per usufruire dell’art. 21. Hanno ritenuto opportuno lasciarmi in art. 21, cosicché ho potuto costruirmi una professione. Mi è stato molto utile per inserirmi nel mondo del lavoro, se fossi andato fuori così di punto in bianco, sarei stato in mezzo a una strada. Ci si trovava a fare tutto da capo".

Alla richiesta di specificare meglio i passaggi e le motivazioni che hanno indotto le istituzioni a individuare in lui una persona da premiare, l’intervistato ha così spiegato: I.20. "Nel corso degli anni che sono stato dentro sono sempre stato a contatto con gli educatori e con gli assistenti sociali. Però gli educatori spesso chiedevano trasferimento quindi cambiava spesso l’educatore o l’assistente sociale e succedeva che chi veniva aveva piacere a conoscere le persone con cui aveva a che fare, quindi eravamo sempre in contatto. No, non è che io ho fatto delle domande specifiche, è partito tutto attraverso permessi premio, poi è stato fatto il discorso del reinserimento attraverso il lavoro all’esterno. Hanno visto che avevo tutte le carte in regola ed ero idoneo per star fuori, hanno provato questo esperimento anche se avevo il passato un po’ tormentoso, però hanno detto "è molto giovane quindi vediamo se riusciamo ad inserirlo" hanno fatto questa scommessa qua ed hanno vinto".

 

 

Il problema del lavoro

 

La maggior parte degli intervistati è concorde sul fatto che la questione più urgente, per chi esce dal carcere e deve iniziare un percorso di reinserimento, è quella del lavoro. Da lì si deve partire per mettere in fila le altre cose. Il lavoro, infatti, permette di procurarsi il necessario per vivere. Permette di cercarsi una casa e di accedere ad uno spazio domestico e di autonomia.

Permette di costruirsi un’autonomia economica e sociale e quindi di aprirsi a percorsi relazionali più equilibrati. Al contempo tiene lontani dalla tentazione di avvicinarsi ad ambienti criminosi e ad attività illecite. Dunque è importante che il Centro Servizi Carcere si attivi per favorire il più possibile la sensibilizzazione del mondo produttivo della città e per facilitare l’incontro tra le persone che escono dal carcere e il mondo del lavoro.

Ma sentiamo cosa raccontano gli intervistati. I.9. "Comunque la prima cosa quando uno esce, la cosa che è molto importante, forse anche più della casa è il lavoro. Perché se uno lavora, magari si ripara sempre. Ma se uno si ripara e non lavora non riesce mica a mangiare. E poi lavorando ti tieni impegnato non pensi a determinate cose, lasci perdere magari quei pensieri o quei programmi che si fanno quando si è in carcere " quando esco, faccio questo e questo, metto via dei soldi e poi dopo chi si è visto s’è visto". Discorsi che si fanno in carcere. Però poi se uno lavora, alla sera è stanco, non ha il problema o il pensiero di dire "adesso vado a fare questo e quell’ altro". Perché il giorno dopo deve andare a lavorare e se non vuoI perdere il lavoro lo deve fare".

Sullo stesso tono anche altre persone cui chiediamo quali sono i bisogni più urgenti: I.2. "La prima cosa è il lavoro. Perché il lavoro è fondamentale. Poi un monolocale, un qualcosa per viverci. Una ragazza per sposarmi. E per il lavoro sto chiedendo a tutti. Tutti quelli che conosco, quelli che possono aiutarmi, alla direzione stessa del Carcere. Però per il momento non ho trovato proprio nessuna soluzione. La casa non la cerco ancora, perché che la cerco a fare? Se non trovo prima il lavoro come la pago, la casa, l’affitto. Allora devo prima impegnarmi sul lavoro e poi sulla casa".

I.6."Un lavoro sicuro e una casa un po’ più grande di questa qua. Questo è il mio obiettivo. E una moglie, se riesco a conquistare una moglie. No scherzavo. Perché quando c’è una casa, c’è un lavoro fisso puoi trovare quello che vuoi. Il mio contratto scade il 17 aprile, la mia paura è di stare in mezzo alla strada senza lavoro".

Il lavoro comunque ha anche un aspetto simbolico e sociale non indifferente che in genere viene percepito chiaramente: I.10. "Penso ormai forse è un po’ tardi ma mi sono inserito. Perché la vera vita è il lavoro. È guadag11are soldi con il lavoro. Perché se tu guadagni con il losco e guadagni mille volte di più e poi la ripaghi col carcere non vale niente. Se tu fai i conti e guadagnare un milione e mezzo, due milioni al mese, per un arco di tanti anni, ha guadagnato molto molto di più e non hai neanche perso gli affetti familiari, la carnalità della famiglia".

Alcune persone, in particolare quelle non inquadrate in cooperative, hanno raccontato la difficoltà di trovare lavoro una volta uscite dal carcere. In particolare la testimonianza di I.3. esemplifica abbastanza bene molti dei problemi che deve affrontare una persona che deve ricominciare da capo dopo il carcere:

"Per lavoro, niente, io ho fatto inserzioni, sono andato per portiere, per giardiniere, vediamo, l’età, vediamo l’età e niente. Tutte esperienze negative.

- Mi dia nome, mi dia cognome, che esperienze di lavoro ha?

- Io sono ragioniere (perché sono ragioniere).

- Sa usare il computer?

- No (perché non l’ho mai usato).

-Ah. E dove ha lavorato?

-Alla Fiat.

-Quanto tempo fa?

- Tempo fa, quarant’ anni fa.

Questo è il problema. Come fai a rispondere quando ti pongono queste domande. Che ci sta un lasso di tempo della tua vita che non puoi stringere in pochi mesi. Si tratta di vent’anni. Che tu non hai fatto niente in vent’anni, hai fatto una certa vita da delinquente. Allora tu cerchi di portare avanti quello che hai fatto prima dei vent’anni, però è chiaro che non c’è più riscontro. E io ho lavorato alla Fiat, chiami la Fiat e dice "E chi è questo qua". Non hai gli archivi di vent’anni fa, di trent’anni fa. Poi ci sta anche il problema dell’età. Loro preferiscono un giovane. Poi il fatto della patente che non sono patentato. Questo è anche un altro handicap. Io sono stato pure da un’impresa di pulizia per pulire le scale, questi lavori qua. "Sì, sì, vediamo, vediamo". Sono stato in via Langhirano, in quella grande impresa di pulizia, importantissima. E alla fine? Niente".

Il responsabile di una cooperativa (I.2.) ha notato che se potessero uscire dei detenuti che hanno alcune caratteristiche o capacità lavorative più specializzate, il loro inserimento all’esterno diventerebbe più facile. Ci sarebbe più richieste che permetterebbero l’inserimento.

Dunque sarebbe auspicabile che si organizzassero dei corsi di specializzazione sia dentro il carcere che una volta usciti, in modo da migliorare le competenze tecnico - professionali di chi esce dal carcere e si affaccia sul mercato del lavoro.

Da questo punto di vista il problema della patente di guida è molto sentito. Molte possibilità di lavoro sono infatti connesse alla possibilità di muoversi in automobile. Ma in alcuni casi la patente viene ritirata durante la detenzione. All’uscita però diventa uno scoglio importante.

Un altro aspetto riguarda le competenze tecniche che cambiano con il tempo, e la necessità di aggiornamenti professionali. Un esempio classico è la capacità di utilizzare il computer:

I.3. "L’unica cosa che c’era in carcere è questi corsi che facevano per il computer, però dato che io facevo il bibliotecario e lo scrivano dicevo "che mi servono questi computer". Mentre, in effetti, quando sono uscito fuori tutto è cambiato. Oggi vedi tutte queste cose qua che io non so neanche, pur essendo ragioniere, ma io mi sono diplomato nel 1964, e non ci stavano le cose che ci stanno adesso e quindi mi sono trovato in difficoltà. Poi è difficile che ti danno il lavoro".

Più in generale vi sono alcuni problemi concreti che riguardano l’età, le competenze, l’esperienza di lavoro che si può esibire. Da questo punto di vista diventa importante naturalmente che dentro e fuori dal carcere ci sia una preparazione e una formazione ma tuttavia resterebbe probabilmente importante un servizio di mediazione da parte del Centro Servizio Carcere per presentare gli ex detenuti per colloqui di lavoro.

La maggior parte delle persone farebbe qualsiasi lavoro. Tuttavia alcuni hanno sottolineato che un lavoro che restituisca il senso di uno spazio aperto sarebbe particolarmente indicato per una persona che è appena uscita dal carcere. Come nota un intervistato:

I.2. "A me qualsiasi lavoro andrebbe bene. Però che sia un lavoro all’aperto che non sia chiuso in un capannone, perché mi sembrerebbe un altro carcere. Un luogo dove posso avere la visione delle persone, delle automobili, della vita, no? Sono stato troppo tempo chiuso e allora il fatto di essere continuamente chiuso, mi opprime mi fa sentire sempre chiuso. Poi io ho anche uno spirito viaggiatore. Mi piace viaggiare, mi piace conoscere".

La situazione rispetto al lavoro cambia un poco per le persone che riescono ad accedere ai benefici dell’art. 21, o della semilibertà, o dell’affidamento. Dalle testimonianze raccolte non si riesce a capire bene attraverso quali criteri si selezionano le persone che possono accedere a questa opportunità. Senz’altro conta il comportamento tenuto in carcere da una parte e i contatti che si possono vantare fuori. Come racconta un’intervistata I.1.: "Mi sono avvicinata ai termini di quello che poteva essere la partecipazione all’articolo 21, alla semilibertà. Fuori, siccome io vivevo a Parma prima di essere arrestata, avevo comunque lasciato delle ‘non so come dire, delle relazioni. Alcune si erano naturalmente più assottigliate, altre sono rimaste relazioni importanti, relazioni che ho tuttora. Quindi si era creata quando io ero tornata, attorno a me questa rete di amicizie di gente che mi seguiva, mi scriveva, si interessava. E per un caso fortuito una di queste persone si è incontrata con un’altra che aveva questa possibilità di offrire questa opportunità di farmi uscire dal carcere in art. 21 come volontariato. Sarei uscita in art. 21 facendo questa esperienza. I termini c’erano".

D’altra parte nell’accesso a questi benefici sembra emergere anche un elemento di casualità. Una persona per esempio ha colto quest’opportunità dopo aver scritto una lettera alla Gazzetta di Parma. I.4. "Io avevo scritto alla Gazzetta di Parma, dicendo che la mia pena sarebbe finita per il reinserimento con la Gozzini. E chiedevo alla Gazzetta di Parma di aiutarmi a cercare un posto di lavoro. E li mi è stato dato. Mi è stato dato la possibilità del reinserimento tramite la coop. Sirio. Per il fatto di aver fatto buona condotta il magistrato mi ha autorizzato ad andare a lavorare alla Sirio. Lì sono stato quattro mesi al verde pubblico, poi purtroppo era un lavoro molto pesante, essendo un minorato fisico. E mi sono chiuso, e quando, incredulo le guardie mi hanno fatto firmare un foglio, in cui per me non ero idoneo, il mio stato di salute non era idoneo per quel lavoro. Poi sono andato a Porto azzurro dove c’era il carcere per minorati fisici. Di lì naturalmente il signor XX e la Rosanna stando sempre in contatto mi hanno aiutato anche finanziariamente, a livello di un piccolo aiuto ma magari importante, perché non ha neanche i soldi per i francobolli chi non ha la possibilità. Il signor XX mi ha dato un lavoro temporaneo nella sua ditta. Con quel posto di lavoro io ho avuto la possibilità di uscire dal carcere e farmi tutta la legge che permette questo reinserimento. E da lì ho cominciato questo cammino, standomi sempre vicino, sempre con la Rosanna. Finito quel lavoro sono andato all’ufficio di collocamento.

Ho parlato con il direttore di questo ufficio ed ero disperato. Sono andato lì e gli ho spiegato tutta la mia situazione, che ero un ex detenuto e così e così. Questo signore qua, veramente eccezionale, mi ha dato un indirizzo della Greci, che fa alimentari a Ravadese. E lì veramente sono rimasto impressionato, perché era la prima volta - e ho chiesto a tanta gente dicendogli prima la verità per non avere poi, diciamo, magari chi dice "beh potevi dirmelo prima", sai quando fai tanti anni di carcere. E ho trovato due persone, ho incontrato il ragioniere XX e mi ha detto "guardi a noi non interessa il suo passato. A noi interessa che si comporti bene, e tutto il resto lo dimentichi". Queste sono parole che E anche la signorina che c’ era è stata dolce con me. Ho iniziato a fare le stagioni da questo signor Greci, per un po’ di anni, per 4 o 5 anni".

In generale comunque approfittare delle possibilità offerte dall’art. 21 è difficile. Molto difficilmente il detenuto può cercarlo, in prima persona, direttamente. Lo deve cercare la famiglia o gli amici che ha fuori. Ma molto spesso i detenuti non hanno rapporti o legami nella città del carcere in cui si trovano. Sicuramente le possibilità offerte dalla città sono molto superiori a quelle effettivamente percorse, anche come vedremo per questioni organizzative del carcere.

Un altro intervistato che era in borsa lavoro racconta che sta lavorando con una cooperativa ma che fa fatica, non è soddisfatto: I.6. "Mi hanno offerto questo lavoro qua in borsa lavoro, non è assunzione. Perché borsa lavoro vieni pagato 600.000 al mese. Lavori otto ore per 600.000. Vieni sempre guardato male, sei sempre considerato come un detenuto. Perché quando uno esce dal carcere gli occhi sono sempre puntati su di lui. È considerato sempre un criminale. Anche dentro la cooperativa, non ho legami molto profondi, perché io non parlo tanto. Però non sono stupido, capisco le cose... lo sfruttamento totale... Poi io volevo anche cambiare lavoro. Volevo un lavoro fisso, perché ho diversi diplomi. E non riesco a trovare niente. Ho chiesto ai miei compagni di lavoro, ho chiesto di qua e di là, niente. Adesso mi sono iscritto anche in un’agenzia di lavoro, che offre lavoro. Niente mi hanno mandato due o tre volte per colloqui, come saldatore, ma erano posti lontani e non ho la macchina, non ho la possibilità di comprare la macchina, perché con un milione e quattro, non puoi mica arrivare più di tanto. Non puoi neanche comprare i vestiti figurati la macchina".

Un’altra persona - un immigrato marocchino - racconta invece di un’esperienza interessante di lavoro con alcune cooperative. I.5. "Ho cominciato a lavorare con persone disabili. Mi hanno dato molto e io ho dato molto anch’io, penso. I testimoni sono gli operatori delle cooperative con ali ho lavorato. Ma anche i ragazzi con cui ho lavorato. Comunque anche se era un lavoro che non ho mai visto, non ho mai frequentato, non ho mai pensato di fare e mi era stato proposto e dovevo farlo per forza perché dovevo uscire in articolo 21, alla fine mi sono trovato davanti a un lavoro che è fatto per me proprio. Lavorare con i disabili. Perché mi trovo benissimo. Ma poi anche i ragazzi si trovano benissimo. Perché nelle cooperative dove sono passato, continuo ad avere queste relazioni, magari vado anche a fare volontariato con loro, anche se non lavoro più con loro e lavoro in altra parte, continuo ad andare qualche volta, e quando hanno bisogno mi chiamano a fare volontariato. Ancora oggi sono in collegamento, in relazione con loro. Io avevo la domenica libera e invece di passarla in giro, prendevo i mie permessi per andare a fare volontariato con la coop. XX, perché avevano un ragazzo con sclerosi multipla che aveva bisogno comunque di assistenza 24 ore su 24".

Anche un altro intervistato ha vissuto un’esperienza molto positiva: "La XX mi ha fatto fare un corso di eco ambiente al Cavagnari di 90 ore. E mi sono state utili anche le 5.000 che danno ogni ora. Poi è passato un po’ di tempo e hanno aperto un’ area ecologica in via Bonomi. Il comune l’ha data in gestione alla Sirio. E lì la signora XX e il signor XX mi hanno chiamato e mi hanno detto "vuoi fare il responsabile di quest’area ecologica, è un posto fisso". Gli ho detto subito di sì, perché ho una fiducia cieca in queste persone. È da luglio che faccio questo mestiere e questo è molto importante. Quest’area ecologica, che non so se ogni paese deve avere la sua area, è una zona libera. Sei proprio in mezzo alla libertà, non so se è gli anni che ho fatto e riuscire. Ma è bellissimo. Se poi queste aree le fanno tutti. Se tutti i paesi avessero queste aree, ma sai a quanti detenuti potrebbero dare queste aree.

E avendo passato magari anni di carcere, chiusi, con un reinserimento di questo genere. Poi non so il sogno è di mettere su una casa sopra. Se un detenuto con la sua famiglia sta lì è il massimo. Guarda è bellissimo per un detenuto essere così in libertà e tutto. Lo stipendio c’è. Io mi sento a questo punto realizzato. Io ho finito il mio carcere. Quel lavoro lì è un sogno. È un sogno perché sei libero. Questo è molto importante. Se tu pensi quante aree ecologiche possono fare in Italia. Non so se ci sono le cooperative che si assumono la responsabilità di prendere questi detenuti. Ma sai quante aree ecologiche che ci sono e per ogni detenuto dargliene una, io sono convinto che non fanno più cretinate. Se lo tengono pulito, c’hanno il contatto umano con le persone del paese, c’hanno delle persone che gli dicono "però è bello". Sai quante persone me lo dicono? "È un lavoro esaltante. C’hai la soddisfazione delle persone. Magari vengono lì e ti offrono la bottiglia di vino della sua cantina. Guarda è bellissimo. Diciamo per un detenuto è oro quello. Perché sai cosa vuol dire riallacciare un dialogo con le persone normali?".

Certamente si deve segnalare come lo stipendio delle borse lavoro risulti particolarmente basso, per cui le persone sono comunque messe in una posizione di estrema debolezza sia verso l’istituzione carcere, sia verso le cooperative, sia rispetto alla possibilità di organizzarsi un percorso di autonomia e di indipendenza. Le diverse esperienze analizzate sembrano suggerire comunque che al di là della questione dello stipendio piuttosto basso è anche il tipo di lavoro e d’ambiente lavorativo che incide sul grado di soddisfazione. Per alcuni la possibilità di lavorare tramite una cooperativa con dei ragazzi disabili o nel verde è stata una grande occasione. Altri tipi di mansione - perfino il lavoro di ufficio - possono essere invece vissuti negativamente soprattutto se ci si sente comunque "detenuti", lavoratori "diversi".

 

 

Accompagnamento e affiancamento in carcere

 

Come saggiamente suggeriscono alcuni intervistati, la questione del reinserimento dovrebbe iniziare quando entri in carcere e non solo quando ne esci. I.8. "Tu guarda la massa di recidivi che c’è stata: è la conferma della sconfitta. Il carcere è inutile. Alla fine hanno scoperto che non serve a niente. Perché se il carcere dovrebbe reinserire la gente, questa funzione non la svolge, non svolge la funzione per cui è nato. Il fatto di fare una cosa dopo che si è usciti dal carcere, secondo me non adempie pienamente. Chiaramente quando esce uno ha bisogno di avere degli appoggi, qualcosa a cui appoggiarsi, ma è più utile farlo all’ interno, fare una cosa interna al carcere in modo da prendere la persona subito, nel momento in cui commette un reato e finisce dentro al carcere, nello stesso momento prenderlo e cercare di farlo reinserire. Se no, dopo che uno ha scontato la pena

Cioè il carcere abbruttisce. Quando uno esce dal carcere è incazzato nero. E non è facile, non è facile per uno che ha fatto cinque, dieci anni di galera, dire va beh, ora ricomincio da capo. Certo è utile anche avere, perché che una volta che uno esce è facile trovare degli appoggi, delle cose. Però credo che sia più costruttivo dal momento dell’arresto. Sarebbe meglio iniziare prima, però vedo, forse non c’è la volontà politica di iniziare prima. Quando tu vieni fuori, dopo aver fatto una carcerazione medio - lunga, non hai nessuna intenzione di parlare a nessuno. Non gliene frega niente a nessuno dentro. In carcere nessuno ti spiega niente. Cioè tu sei un escluso, sei feccia, sei delinquente punto e basta. Finché poi magari non arrivi che sei definitivo, però ormai sei talmente avvelenato che alla maggior parte delle persone non gliene frega più niente, se alla fine arriva qualcuno a dirgli, guarda che in fondo c’è una prospettiva di un inserimento, cioè cosa gliene frega? Cioè, è vent’anni che prendo calci in faccia adesso che ho finito vieni qua a dirmi… Cioè non lo so, non lo capisco".

In effetti c’è qualcosa di contraddittorio nel concepire la questione del reinserimento come qualcosa che deve "accadere" una volta "scontata la pena". Quest’idea rimanda in fondo al fatto che la detenzione sia fondamentalmente una punizione che si deve subire, e che soltanto alla fine sia possibile pensare di ripresentarsi di fronte alla società. In realtà questo tipo di concezione è di per se un ostacolo ad un percorso di reinserimento. Se per anni l’istituzione carceraria rafforza la rappresentazione negativa e antisociale del detenuto, se gli fa sperimentare delle forme di rapporti malsani, allora l’idea di reinserimento alla fine sembrerà giungere incongruamente da un’altra realtà.

Al contrario andrebbero sostenute, ampliate e rafforzate in carcere tutte quelle forme di socializzazione, formazione, studio, lavoro, accompagnamento che mettono il detenuto in una prospettiva costruttiva anche nel caso di una lunga detenzione. Anche in questo caso il Centro Servizio Carcere potrebbe svolgere un’opera di sensibilizzazione e promozione culturale sulle problematiche connesse al carcere. Per scendere più nel concreto, all’interno del carcere si segnalano alcuni specifici aspetti problematici. Innanzitutto si segnala l’assenza o la debole presenza di alcune figure chiave: avvocati, educatori, psicologi, medici, assistenti sociali.

I.14. "C’è carenza di educatori dentro l’istituto questa è una cosa grave, secondo me lo Stato invece di fare qualche prigione in più dovrebbe pensare ai presupposti, come dicevo prima, a un vero reinserimento, reinserimento significa dargli la fiducia".

L’assistente sociale viene descritto spesso come latitante o poco partecipe ai problemi del detenuto: "l’assistente sociale nel momento in cui sei fuori in articolo 21 o in permesso o in licenza o in semilibertà o in affidamento tu dipendi dall’assistente sociale, quindi l’assistente sociale dovrebbe essere quello che ti dovrebbe seguire, il controllo dovrebbe farlo solamente la questura, quando ci sono delle segnalazioni a me che mi viene davanti al posto di lavoro o in casa, come è successo e succede ancora; la penitenziale, in divisa, dentro i parchi insieme ai bambini: "documenti", così a me m’arrestavano un’altra volta, mi sentivo arrestato un’altra volta, e tu assistente sociale lo permetti… l’assistente sociale mi deve venire a trovare più spesso, qualora io do dei problemi deve fare in modo che in me non ci siano dei problemi".

Molti detenuti semplicemente non conoscono leggi, regolamenti, diritti, date di scadenza per atti processuali o per domande. Questo aspetto è sottolineato in particolare da un immigrato: I.5. "Un altro aspetto che è molto importante anche. Perché quando io appena entro in carcere faccio il primo grado. Ho il diritto dell’appello. Ma sono senza avvocato, perché una persona che non conosce nessuno fuori come fa a prendere l’avvocato. L’avvocato vuole soldi. Dice, conosci qualcuno fuori? Vado a parlare con qualcuno fuori? Tu o non conosci l’indirizzo, non sai il numero di telefono, in un’altra città magari, e come fa quest’avvocato a difenderti senza una lira. Gratuito patrocinio, nessuno ti spiega cos’è. Non sai neanche se esiste. Allora ci sono tantissime persone che hanno fatto il primo grado, non hanno presentato la domanda dell’appello, e sono andati definitivi direttamente. L’appello a volte ti tolgono tutto, proprio scarcerano le persone, o tolgono la metà o un terzo. Tantissime persone sono andate definitive perché non hanno presentato la richiesta perché non hanno l’avvocato o l’avvocato non vuole perché vuole soldi o referenti fuori. Ci vogliono dunque persone che leggono i tuoi diritti e i tuoi doveri. Perché lì quando entri ci sono solo i doveri, i diritti nessuno te li legge. L’altra cosa, i giorni. Se non c’è un avvocato che ti presenta i giorni o se non sai come si presentano i giorni. Praticamente la buona condotta, tre mesi all’anno. Praticamente un quarto della pena. Infatti io dovevo fare 12 anni e ne ho fatto 8 anni e mezzo di cui due anni e mezzo in semilibertà o art. 21. Ma se non sono andato a scuola, non conosco tutte queste cose, vedevo solo gli italiani che uscivano".

La mancanza di figure che assistano i carcerati comportano nei fatti la difficoltà ad accedere a misure come l’art. 21 o l’affidamento. Infatti gli educatori in questo caso dovrebbero giocare un ruolo chiave, seguendo e proponendo il detenuto per una determinata occasione e tenendo contatti con realtà esterne. Tuttavia il bassissimo numero di educatori dentro il carcere, segnalato sia dagli ex-detenuti che dai volontari delle associazioni o delle cooperative, parliamo di circa 2 per 600/700 detenuti, dovuto alla mancanza di assunzioni da parte del Ministero competente, rende assai limitato il ricorso a tale misura.

I.2. "Su altre cose come il lavoro all’esterno sono loro gli educatori che fanno tutto poi ti chiamano e dicono "Guarda c’è questa possibilità, tu cosa vuoi fare, te la senti". Solo che il numero degli educatori è molto ridotto. Ce n’è uno o due, massimo tre, che devono curare 700 persone. La cosa è molto problematica".

I.10. "Le difficoltà c’erano, ma a me sconosciute, perché quando io presentavo istanza di affidamento mi sembrava una cosa irraggiungibile, perché mi veniva sempre rinviata. Andavo a discutere a Bologna e mi veniva sempre rinviata. Però loro mi dicevano che erano motivi che mancavano le relazioni del carcere, degli educatori. Io non lo so se fosse la verità o no. Ed era la voce che girava in carcere. Che gli educatori erano pochi, i richiedenti di questi benefici eravamo in tanti e loro non riuscivano a smaltire le nostre richieste".

La situazione diventa ancora più svantaggiosa per gli immigrati. Come sottolinea un intervistato: I.5. "Poi in carcere ci sono due educatori per 300 o 400 persone. E come fa? Va a chiamarti tu, extracomunitario che non parli neanche la lingua? Ma chi se ne frega. Lei va a chiamare qualcuno che rompe tutti i giorni. Infatti, se vai a vedere, siamo solo due extracomunitari che siamo usciti. E anche perché abbiamo fatto la scuola".

Interrogando le persone sulle necessità maggiori di che vive in carcere si ritorna spesso al discorso sul lavoro che ti aiuta ad uscire dall’ambiente carcere e a reinserirti in mezzo alla gente; tuttavia le difficoltà istituzionali per avviare questo percorso sono notevoli: I.15. "Il lavoro è la cosa più importante, qua (in carcere) ci sono migliaia di detenuti, e oltre 200 detenuti so che potrebbero mettere piede fuori (borsa lavoro o art. 21), e non lo mettono, perché non trovano lavoro o perché l’educatore non lo chiama. Io mi ricordo che ci sono persone che devono uscire da molto prima di me, ma sono ancora dentro io mi devo considerare fortunato, lì e come il lotto se prendi i numeri bene…".

Dunque in questo caso la soluzione non può venire dal territorio, ma il Centro Servizi Carcere può farsi eventualmente portavoce di questa esigenza con le autorità competenti nelle sedi e nelle modalità che riterrà opportuni. Un secondo aspetto problematico riguarda la questione della formazione professionale all’interno del carcere. Molte testimonianze segnalano la scarsa connessione tra i corsi realizzati dentro al carcere e le richieste e le possibilità che sono poi effettivamente presenti nel territorio. Come ha notato un intervistato: I.3. "Sì, nelle carceri queste cose le facevano, ti ho detto di computer, di ceramiche. Di corsi ne facevano nel carcere, questo sì, bisogna riconoscerlo. Però vedi tu mi fai un corso, spendete milioni, miliardi, così. Quanto io esco dal carcere dovete trovare la stessa organizzazione fuori che mi ha aiutato all’inizio del percorso per mettere a frutto quello che ho imparato, che ho fatto. Quando mi fai il corso di ceramica, spendi soldi, poi quanto esco tu, Stato, aiutami. L’istituzione ti deve garantire al lavoro. Deve dire "lo seguiamo noi". Realisticamente non si tratta di garantire dei posti di lavoro ma quantomeno di connettere il più possibile la formazione con le effettive esigenze manifestate dalle cooperative e dalle realtà produttive e di servizio presenti sul territorio. Anche i responsabili di diverse cooperative hanno segnalato che una delle problematiche fondamentali è proprio quella di garantire nel periodo della detenzione opportunità formative significative e utili, che siano propedeutiche al reinserimento nel mondo lavorativo una volta usciti dal carcere in modo tale che siano acquisite competenze professionali spendibili sul mercato del lavoro.

Dunque il criterio per la selezione nell’attivazione di corsi di avviamento professionale dentro al carcere deve essere la richiesta di professionalità utili anche fuori dal carcere e non per esempio - quelle utili dentro il carcere o quelle maggiormente offerte dalle realtà formative esterne.

 

Problema della casa e dell’abitazione

 

Un altro dei grandi problemi che si trovano ad affrontare le persone che escono dal carcere è quello della casa. I.13. "Ah, per questo stavo sempre lottando anche se ero in galera, tornavo fuori ed era sempre un continuo lottare per la casa, perché quello che io avevo sempre in mente fin da piccolo è avere un tetto sulla testa. Perché ho abitato con mio papà, poi dopo c’è stato il trauma del collegio e allora… e quando vado fuori io cosa faccio? Dove vado? Lì è stata una lotta continua con la casa. Avrò fatto un po’ impazzire quelli che comune. Adesso me la sono meritata. Ce l’ho da 6, 7 anni".

I.8. "Sì. La casa è stato ed è ancora un problema, perché pago un capitale, per cui non vedo l’ora di venire via. Però quelli sono problemi che hanno un po’ tutti. Pago 800.000 al mese più 1.500.000 di spese di condominio. La metà del mio stipendio se ne va per la casa. Credo che siano problemi che hanno tutti. Non credo che siano legati al fatto che uno esce dal carcere e ha problemi con la casa".

Se da una parte la ricerca della casa è un aspetto difficile per ogni cittadino, per le persone che hanno alle spalle un passato delinquenziale e l’esperienza del carcere si aggiungono una serie di difficoltà ulteriori, dovute ai pregiudizi, alle diffidenze e a una scarsa disponibilità economica. Inoltre spesso le persone che escono dal carcere non hanno riferimenti nella città in cui si trovano ad abitare. I.9. "Sì, certo, certo. Ci sono state e ci sono tutt’ora delle difficoltà. Difficoltà perché io Parma non la conoscevo proprio. Non sapevo neanche da che parte girarla. E la prima cosa che quando uno esce dal carcere è di avere un tetto sulla testa. Cioè un punto di appoggio, dove finito il lavoro uno si possa riposare o fare quant’altro. E inizialmente io ho trovato molte difficoltà per trovare, non dico un appartamento, ma un buco perché grosso modo a ben vedere l’appartamento dove abito io è un paio di metri più grande di questa stanza qua. Non è che sia tanto igienico poca aria e tutto il resto. La difficoltà maggiore per chi esce dal carcere, appunto secondo il mio punto di vista è trovare un appartamento. Perché chiedono referenze e quando ti chiedono "da dove vieni?" Uno non può dire, come me, vengo da Bologna. Eh, vengo dal carcere, sono un detenuto, sono un ex-detenuto. E quando sentono quella parola lì, 99 su 100 si tirano indietro anche se magari vorrebbero dartelo, questo appartamento… Io sono stato fortunato, diciamo, da quel lato, anche se l’appartamento è quello che è. In quaranta giorni, tramite un giro di parole, mettendo di mezzo l’uno o l’altro, sono riuscito ad averlo. Ma non sono neanche stato io ad averlo è stata la mia compagna, cioè una ragazza che ho conosciuto in carcere e che anche lei in quel periodo è uscita. Allora io in borsa lavoro, lei in libertà. Lei dormiva fuori, sulle panchine. Dopo 40/50 giorni è riuscita a trovare questo appartamento. Il proprietario non me lo voleva dare perché, appunto per quanto ho detto prima. E io sono stato costretto a mettere in mezzo mio figlio. Da Bologna, l’ho fatto venire qua, gli ho fatto prendere l’appartamento a nome suo, etc. Poi, dopo 4/5 mesi, il proprietario se ne è accorto che la storia era così, comunque gli è andato bene perché attualmente io continuo a pagare il mio affitto normale. Io pago 550.000, pago parecchio. Come ho detto prima è un paio di metri più grande di questo. Però, ecco, la difficoltà maggiore per chi esce in libertà, secondo me è trovare un appartamento".

Se oltre a essere ex detenuto uno è anche immigrato il cercar casa può diventare davvero una faccenda impegnativa. I.6. "Se non hai riferimenti qua, è difficile trovare la casa. Poi meno male che io ho lavorato un po’ quando ero dentro e ho accantonato due milioni nell’ultimo anno. Allora con quei soldi sono riuscito a risparmiare, a stringere la cinghia, perché volevo prima di tutto prendere la casa, come punto di partenza. La difficoltà è che, secondo me, c’è troppa ignoranza qua. Non voglio chiamarla razzismo, io la chiamo ignoranza, che è meglio. Perché qua a Parma ci sono un casino di case vuote. Ma per gli stranieri no. Io non voglio stringere rapporti giusti con i miei paesani, con gli extracomunitari, cerco di bilanciare questa cosa qua.

Primo ci sono degli stranieri che non sono adatti a dargli una casa qua, non è giusto: una casa pulita con tutti i mobili, esci dopo tre o quattro mesi ed è distrutta tutta. Poi entri con due persone o entri da solo e porti quindici persone, disturbi i tuoi vicini di casa e non è giusto. Da quel lato lì ho sempre ragionato così. Poi il resto, ci sono persone che possono stare in appartamento, che non disturbano gli altri, pagano, perché se gli presenti la busta paga, perché non gli dai questa casa qua. Gli telefoni e dicono ah, ho appena dato, ho appena affittato. Oppure ti danno un prezzo e poi ti cambiano il prezzo".

Giustamente alcune persone non vogliono un aiuto nei termini di assistenza ma cercano piuttosto un appoggio pubblico, istituzionale per trovare casa e lavoro e a questo punto ci si può scontrare con tutti i paradossi e le logiche assistenziali, di cui sono spesso impregnate le burocrazie amministrative. Da questo punto di vista il racconto di I.1. è piuttosto eloquente: "Sicuramente il primo problema è stato quello abitativo, perché io quando sono uscita non ho mai pensato di andare a vivere con qualcuno. Né con qualcuno inteso nel senso di convivenza, ma fermamente non volevo andare a casa di amici e compagni o cose di questo genere. Un mio collega con il quale ho rapporti tutt’ora mi ha ospitato in casa sua per 10 giorni, nel senso che io, chiaramente messa fuori dal carcere con i sacchi, ero decisamente in mezzo a una strada. E lui mi ha detto vieni a casa mia. Va bene vengo a casa tua e poi dopo nel giro di otto/dieci giorni ho scelto di non andare a casa di compagni o a casa di nessuno, per non innescare quelle situazioni dove in quel periodo guadagnavo 600.000 al mese con la cooperativa e non potevo sicuramente pagarmi un affitto. E allora sono andata in comune, da una signora che si occupava di questo discorso della casa. I miei figli non abitavano già più qui, uno a Milano e uno a Roma, e mi sembrava un mio diritto vivere qui da sola. Io avevo chiesto, in Comune, che loro mi trovassero un alloggio che mi permettesse di pagare un affitto in proporzione. E loro mi hanno detto di no, che c’erano tutta una serie di problemi. E comunque non potevano lasciarmi in mezzo a una strada e quindi mi hanno messo in un albergo. Il problema della casa è stato una tragedia praticamente. Ma forse esasperata dal fatto che non volevo chiedere aiuto economico. Cioè non volevo chiedere aiuto a nessuno. Ho rifiutato strenuamente delle situazioni di… E quindi sono stata a lungo in un albergo. Periodicamente andavo qua da questi sindaci che si sono intanto ripetuti - perché ci sono stata molto in albergo - con un elenco di case sfitte. Io andavo la e dicevo: "Adesso io guadagno 800.000, io so che ci sono queste case sfitte". E loro andavano su tutte le fuori e "Ma lei come fa a sapere che ci sono case sfitte?".

-"Sono case vuote da tanto tempo, io sono disposta ad imbiancarle".

- "Sono case da ristrutturare".

- "Io sono disposta a mettere a posto la casa e a pagare l’affitto".

Regolarmente questi andavano su tutte le furie e non mi davano la casa. Loro spendevano per mantenermi in albergo una cosa tipo 800.000, però rifiutavano questa mia proposta dove non so, io ne avrei pagate 100.000 e mi sarei pagata una casa. La situazione si è sbloccata solo quando la XX è diventata Assessore ai Servizi Sociali e incontrandola un giorno lei mi dice "Ma dove vai, dove sei adesso". E io esasperata le ho detto "Ma sono sempre così". Allora guadagnavo un milione "Posso pagare un affitto, non trovo una soluzione".

Allora lei, persona di buon senso, mi ha rapidissimamente trovato una casa dove pagare una quota di affitto. Poi mi sono sganciato anche da quella situazione lì perché ho trovato una casa piccola, 29 mq., di là dall’acqua, che mi piace molto, dove pago un affitto basso, rispetto agli affitti che chiedono. Però ci ho messo del tempo. Credo di essere stata in albergo più di due anni. Che vuol dire che non puoi ammalarti, che non puoi farti una camomilla la sera, che fai una vita proprio non puoi ricevere nessuno". Si deve inoltre sottolineare che la costruzione di un ambiente domestico sicuro e tranquillo ha dei riflessi anche dal punto di vista sociale, degli ambienti che si frequentano, del comportamento sociale che si è stimolati a mettere in atto.

Come sottolinea I.5. " Avere una casa, c’hai un posto di riferimento. Non come prima, che non avevo casa e che giri tutto il giorno, o ti giri nei bar. Cominci a conoscere persone che frequentano tutto il giorno il bar, che non lavorano. Io ho fatto fatica per trovare questa casa qua. Non c’ho neanche un minuto per andare a vedere le cose. Corro sempre per andare a vedere. Ho trovato casa perché mi sono associato con Infocasa, che c’è un sardo, Giampaolo. Allora lui mi ha aiutato, ha scritto anche una lettera al proprietario di casa "Guardi che questo è un mio amico". Ha telefonato lui al proprietario "guardi che questa è un persona seria, lavora in Comune, di qua di là". E meno male che l’ho trovata. Ci ho messo circa 5 mesi a trovare la casa".

Ora vivono in due in un piccolissimo monolocale in cui pagano 600.000 al mese. Diversamente c’è chi ha fatto della casa una ricerca quasi interiore, grazie a questa alta aspettativa è riuscito a percorrere strade che hanno soddisfatto le sue attese: I.14. "La casa è stata una mia riflessione negli anni, la casa è sempre stato un sogno prima non ho mai avuto una casa che non fosse una cella ed è triste sai anche quando in quella povera cella che 2 x 2 o 4 x 4 quando al mattino alzavi il materasso sotto la plastica c’era l’acqua anche sui muri facevi così (muove un dito dall’alto vs. il basso contro un muro immaginario) acqua… ho aspettato così di essere semilibero per avere una casa mia, quando ho avuto un lavoro sicuro, uno stipendio sicuro e potevo contare sulle mie forze ho iniziato questa ricerca, volevo una casa in campagna con il mio giardino e spazi aperti. Sono andato a in un’agenzia, chiaramente ho tenuto nascosto che ero un ex-detenuto, anche perché il mo passato è un fatto personale e non tutti devono esserne partecipi... e ho così trovato quello che faceva al caso mio... ho dovuto sacrificare molti fine settimana per restaurarla... ho portato avanti per un certo periodo nella mia casa di campagna un piccolo allevamento di conigli con il quale arrotondavo lo stipendio".

 

Accoglienza cittadina

 

Molte persone, una volta uscite dal carcere, pur provenendo da diverse regioni d’Italia scelgono per comodità, per facilità o per ragioni personali di rimanere a Parma. Spesso questa scelta ha precise motivazioni, in particolare il fatto di non voler rientrare in contatto con ambie1lti che si frequentavano in precedenza. Come spiega uno degli intervistati: I.10. "Ho pensato di stare qui a Parma perché penso che se io andassi a Napoli con l’età che ho io, 55 anni, imputato definitivamente, e scontata la carcerazione per rapine di camion, non penso che troverei qualcuno che mi darebbe un autotreno in mano per farmi lavorare. E poi sai oggi con i camion che esistono oggi che viaggiano a 130 - 140 all’ora devi essere di una certa prestanza fisica e psicologica, devi stare bene in salute e devi essere giovane, non un uomo della mia età, un giovane di 30/35 anni devi stare sveglio, ma sveglio veramente, non puoi permetterti distrazioni. Quando viaggiavo io il camion più veloce faceva 80 km all’ora. Nel ‘91 sono stato fuori, avevo dieci anni in meno ho fatto per quasi un anno la Spagna, il Portogallo, la Germania, posti strani, però adesso ne ho 55. Sai com’è, non penso che troverei facilmente. E allora ti ripeto, che farei a Napoli? Mi metterei in situazioni losche un’altra volta, per portare le 100.000 a casa. No, non ne voglio sapere più. Stando qua allora c’è lo stipendio, o ti mangi sta minestra o ti butti dalla finestra. Invece a Napoli, se non c’hai la ministra, sei tentato di andartela a cercare e la troveresti molto facilmente. E io non la voglio trovare facilmente. La voglio tenere qua sta minestra, me la voglio guadagnare, con la forza delle mie braccia. A Napoli, passava una macchina della polizia e avevo paura. Mi squillava il telefono e avevo paura, se mi bussavano alla porta avevo paura, se viaggiavo in macchina e trovavo un posto di blocco avevo paura, adesso niente. Mi sento... non puoi immaginare che serenità mi sento dentro. Mi fermeranno anche, la Mobile, la Digos, i Carabinieri, manco li penso, perché sto a posto, ho pagato con la giustizia. I problemi, gli impegni economici che ho, li pago tutti quanti, li onoro tutti quanti, perciò mi devi credere: "amico mio, non me ne passa manco per la capa…. Sono libero, sono sereno e viaggio a testa alta. Ho sofferto, ho sofferto".

L’immagine della città dal punto di vista dell’accoglienza e della disponibilità umana che ci restituiscono le interviste è ambivalente. Da una parte si registra una cerca chiusura o snobismo verso persone che non si conoscono, dall’altra anche grandi gesti di solidarietà e un tessuto fatto di volontari e associazioni molto ricco e vivace. Chiediamo un po’ a tutti come si sono trovati a Parma: I.4. "Insomma io mi sono trovato bene a Parma, ho trovato della solidarietà e della disponibilità. Poi anche il Comune, tramite i servizi sociali, c’era XX, mi ha aiutato. Io credo di essere uno dei fortunati". I.10. "Sì, sto molto bene. Sto bene perché la gente dialoga. Trovo molta precisione. Non so, non posso dirti sincerità, perché forse io vedo tutto in altra maniera la sincerità, però la gente è molto precisa: quello che è tuo è tuo, quello che è loro è loro. Ed è una regola molto importante e giusta. Nel senso del lavoro, dei rapporti con le conoscenze, con altre persone. Io ho amicizie qua con uomini, con donne, con tante persone. A Napoli non te la puoi permettere di avere un’amicizia con una donna. La gente subito pensa cose cattive, pensa subito cose in un’altra maniera. Invece qua è normale".

Un altro intervistato può sottolineare alcune differenze positive dell’ambiente di Parma, rispetto ad esempio a quello di Modena: I.7. "È stata un’esperienza nuova. Però io l’avevo già vissuta la semilibertà negli anni ‘80. Però non come la sto vivendo qua a Parma. A Modena se sapevano che uno era detenuto già eri guardato più male. Qua a Parma è diverso. Qua tanta gente ti aiuta, ti capiscono, anzi sono loro stessi che ti chiedono informazioni "come si sta dentro, come non si sta, sono vere tutte quelle chiacchiere che dicono? "Può anche essere quello che mi ha messo a mio agio. Io non sono mai stato guardato male da nessuno. A Modena in semilibertà, articolo 21, escono in pochi. E poi quei pochi che escono hanno sempre fatto dei reati, dei casini, e quindi l’opinione ne risente. A Modena questi sei mesi che ci sono stato io, su 25 che eravamo, c’erano 18 tossici, hai capito? Non è come qua a Parma dove su 20 che ci siamo, i tossici sono due o tre. E dunque essendoci tanti tossici qualcuno lo trovavano facendo reati, o l’hanno trovato a spacciare e l’opinione pubblica è ancora più allarmata. O forse c’hanno un’ altra mentalità. Qua a Parma ti fanno vivere, praticamente. Non te la fanno pesare in nessuna maniera. Qua a Parma, se uno c’ha volontà l’inserimento non manca, non puoi sbagliare, anche come lavoro, come cooperativa. E poi anche trovare una cooperativa come la Sirio, ti dà soddisfazione anche come stipendi".

Secondo un altro intervistato I.8. "Parma è una città che nonostante sia magari un po’ snob, però devono conoscerti, però una volta che ti conoscono poi ti accettano, non si fanno grossi problemi o pregiudizi. Parma come città è abbastanza accogliente. Chiaramente se non ti conoscono c’è diffidenza, ma questo penso che sia normale dappertutto".

Ad un’altra persona chiediamo esplicitamente se ha avuto difficoltà o atteggiamenti spiacevoli con i locali. I.10. "Da ex-detenuto? Con le persone che incontro? Che ho contatti? No. O non me la fanno sentire. No. Anzi dirò di più. Mi viene facile dire a qualcuno che sono un ex detenuto perché non me lo fanno pesare. E non parlo della Sirio, o delle maestranze della Sirio. Parlo delle persone qualsiasi con le quali faccio eventuali conoscenze così in qualche bar, locale in qualche posto, che mi ritrovo. Sì, non mi pesa questa cosa".

C’è chi dal punto di vista sociale non ha avuto particolari difficoltà, perché poteva contare su precedenti contatti ed amicizie. I.1. "Io credo di essere stata una persona molto fortunata. Prima vivevo a Parma, perché avevo questa rete di relazione e di amicizie, e poi io penso che le persone come me che hanno fatto il carcere per motivi politici, ci sia una sorta comunque di attenzione diversa. L’esterno penso, ma l’ho anche verificato che è così - non ha mai vissuto il detenuto politico come ha vissuto il ladro, il truffatore, lo spacciatore. Se anche c’è stata la condanna, con tutto quello che si è espresso, se anche c’è completo disaccordo su tutto quello che quegli anni hanno prodotto secondo me io ho sempre vissuto un atteggiamento diverso, rispetto all’atteggiamento che poi ho visto esprimersi verso persone che sono uscite dal carcere ma perché erano stati legati alla mafia o allo spaccio internazionale. Un detenuto politico non era connotato come un criminale, pericoloso poi per la società. Sono stata fortunata perché c’erano fuori queste persone che mi conoscevano, non so, forse che potevano parlare di me in certi termini, altri che hanno creduto, quindi quando sono uscita ho trovato questo ad aspettarmi. Anche lì, comunque, ho sentito che ero quella che ero per tutto un certo periodo".

D’altra parte, alcune testimonianze sottolineano anche delle difficoltà nel sentirsi accolti da questa città. I.9. "Beh, io sinceramente, posso dire che ha parte l’inserimento che ho nel lavoro della Sirio, ecc. ecc. oltre i miei compagni di lavoro non è che ne vada a cercare o ne frequenti più tanto. Escluso diciamo qua il circolo del bar che ormai c’è una confidenza, e quindi anche fuori magari quando ci vediamo ci salutiamo. Ma del resto, almeno da parte mia, no, negativo. A parte che io poi diciamo così sono casa e lavoro. Perché io, finito di lavorare, c’ho un cagnolino, me lo vado a prendere, me lo porto a spasso e finito lui, vado in casa, preparo da mangiare, quello che ho da mangiare e via. La mia ragazza è a Reggio, purtroppo, la vado a trovare tutte le domeniche e via. Sperando sempre che questo benedetto appartamento che ci hanno promesso in primavera ce lo concedano. L’USL e il Ser.T., che seguono la mia ragazza, hanno promesso che in primavera avremmo un appartamento. Perché gli ho detto che finche abito in quel appartamento lì, la Roberta non la faccio più venire a Parma, perché non si può. Non c’è aria, non c’è spazio, non c’è niente. Ce l’hanno promesso, io, sempre con la mia solita flemma, aspetto".

Anche altre persone sottolineano una certa chiusura dei parmigiani: I.3. "Diciamo che gli amici di Parma sono molto, ma molto limitati. Sono amicizie come questi con al lavoro al dormitorio, della cooperativa Aurora, che aveva l’appalto del dormitorio. Ma è una cosa molto ma molto limitata, anche perché hai anche il timore di esporti, capito. Chi sei? Perché? Per come? Quindi per evitare anche delle domande, ho fatto anche una scelta voluta. Anche perché voi parmigiani non è che siete proprio espansivi, espansivi nelle amicizie".

I.9. "Poi se uno si adatta, dipende anche il carattere. E poi anche l’ambiente. Ci vuole molta pazienza prima di riuscire ad entrare in un gruppo di persone, in un ambiente. Perché non so ti rifiutano cioè ti rifiutano, non sono aperti. Io non so almeno dall’esperienza che posso avere io. Cioè se uno a Bologna o in altre città se uno va in un bar e intavola un discorso, e poi magari la sera dopo ritorna in quel bar gli avventori, i clienti di quel bar, si ricordano che tu la sera prima hai fatto quello e quello. E magari in un breve lasso di tempo si forma un’amicizia eccetera. Qui invece uno può entrare in un bar anche un anno dietro fila ma siamo sempre al punto di fila. Almeno quello che posso pensare io. Cioè, l’inserimento personale, secondo il mio punto di vista è molto difficile a Parma. Non so il motivo. Però è così. L’inserimento diciamo così nella città, escluso il lavoro, perché per il lavoro uno si deve inserire per forza, perché se non ti inserisci nel lavoro ritorni in via Burla, la storia è quella.

Però c’è anche modo e modo per inserirsi. C’è un inserimento attivo e un inserimento solo passivo: senti va beh, io lavoro lì, finche mi tengono, mi tengono e bo. Invece c’è un inserimento attivo che dice: io lavoro lì, cerco di dare se non il 100%, perché il 100% non lo da mai nessuno, almeno arrivare non so al 70-80%. Poi essendo anche una cooperativa la Sirio o anche magari le altre, non sai ciò che puoi andare incontro. Perché chi esce puoi prendere bene come prendere male. Però in linea di massima la cosa è positiva, da quel lato lì. Io sono quasi 5 anni che sono qua e non ho mai visto nessuno che di qua è scappato. Nel lavoro bene o male uno si impegna. Io sono contento di essere uscito, di essere inserito in questa cooperativa, anche se il mio inserimento non è nel quadro della cooperativa. È nel quadro mio, è nella mia persona. Io mi sono inserito, mi trovo bene, lo stipendio è quello che è, io mi accontento, ogni tanto brontolo perché magari vorrei di più, però capisco anche le esigenze, che magari dicono "più di così non ti possiamo dare, perché se lo diamo a te lo dobbiamo dare a tutti, siete tutti soci".

Certamente Parma è una città che potrebbe dare tanto, come nota un immigrato: I.6. "Secondo me Parma può anche aiutare tanto. Perché in altre città è difficile trovare un sostegno così, di volontariato, che hanno questa volontà di aiutare detenuti. Perché se andiamo a Milano, andiamo a Genova o da altre parti, non è come Parma. Parma offre tanto. È una città, secondo me, che può fare anche di più per i detenuti. Può anche cambiare il carcere da così a così".

 

Coppia, famiglia e relazioni

 

In carcere una delle cose che si patisce è l’esclusione da un mondo affettivo e relazionale. Questo aspetto è sottolineato particolarmente da un intervistato che lo collega anche alla propria identità culturale: I.10. "Perché sai noi meridionali siamo più sentimentali, più carnali, più romantici. E questa è la sofferenza, la mancanza degli affetti. Io ho sofferto tanto. Sto soffrendo ancora. Perché le sofferenze più cattive sono le lontananze dai propri affetti, dalla propria famiglia".

In seguito nell’esperienza del reinserimento conta moltissimo la rete di relazioni di cui si dispone, o che si riesce in qualche modo ad attivare. Spesso chi esce ha bisogno di punti di appoggio all’esterno, ha bisogno di tutto, di un posto, di un lavoro, e di persone con cui instaurare dei rapporti sani. Come nota il responsabile di un’associazione (I.4.) "Le famiglie hanno un peso determinante se rimangono in contatto con il detenuto, se gli vogliono bene, se lo aiutano. Hanno un peso determinante anche per il ritorno del detenuto alla vita normale. Se la famiglia se ne frega, ci sono problemi psichici abbastanza importanti. Noi quando possiamo teniamo sempre i contatti con i famigliari dei detenuti".

Ma non bisogna pensare che ci sia solo la famiglia. Esistono anche gli amici, le compagne o i compagni che si riesce a trovare. A volte contano perfino le relazioni di fiducia che si riescono a costruire dentro l’esperienza del carcere. I.8. "Beh, la famiglia sempre non mi hanno mai abbandonato in quel senso lì. Mi sono sempre stati tutti dietro. Comunque non credo che sia un problema della famiglia. Il fatto che rientrare nella legalità cosiddetta - che poi di legale c’è ben poco - c’è più un fatto personale, dettato da altre cose non dalla famiglia. O forse anche la famiglia ma in minima parte. Io ho incontrato il direttore di un carcere che ha incominciato a farmi pensare. Era la direttrice del carcere di Cremona XX Naturalmente chi può contare su ambienti e amicizie già abbastanza solide è più avvantaggiato. I.1. "Quando sono uscita, soltanto con una persona che lavorava con me ho stabilito una relazione di amicizia e con i miei compagni. Con loro non ho avuto nessun tipo di disagio o difficoltà. Per un po’ ho frequentato persone che uscivano dal carcere. Probabilmente mi sono sentita molto più dentro casa. Per un periodo sì è stato così. Io sono stata fortunata perché sono tornata nella città che era mia, ti tranquillizza. Così invece, come ho detto prima, uno va a casa la sera poi, stringi stringi, non c’è niente. Quando ti addormenti non c’hai niente. E poi diciamo così, speriamo che vada bene. Tutto questo periodo non è mai successo niente, né infortuni né malattie, niente. Però quando uno è solo non si sa mai.

Anche altri intervistati sottolineano il desiderio e l’importanza di una compagna: I.2. "La prima cosa è il lavoro. Perché il lavoro è fondamentale. Poi un monolocale, un qualcosa per viverci. Una ragazza per sposarmi. Perché io sono entrato in carcere che avevo 21 e mezzo, sono uscito a 32 anni, sono stato quattro mesi fuori. Non ho avuto la possibilità. Sì, ho avuto delle relazioni con delle persone, per capire se è la persona adatta al tuo futuro, se può essere la madre dei tuoi figli. Però in quattro mesi non è che si può stabilire se la persona che c’hai vicino è quella che è adatta o meno. Poi sono stato riarrestato e non ho potuto più valutare la cosa".

I.2. "Difficoltà ne vivo ancora adesso. IO se avessi una donna avrei risolto il 99% dei miei problemi. Non dico una sguattera, una donna che mi voglia bene o che mi stiri il colletto delle camicie, e sai, sarebbe tutta un’altra musica. Che mi faccia da mangiare. Avrei più forza, sarei più ordinato, sarei più buono, un sacco di cose. Però che mi voglia bene, non un’avventura. Adesso non mi fermerei mai su un’avventura, da andare a fare una sveltina, anche perché sono sieropositivo. E quindi se dovessi avere una donna, che sia quella".

Insomma l’incontro con una compagna, che garantisce uno spazio di affettività, accoglienza, fiducia, piacere, può essere determinante, e sancire una vera e propria svolta nel proprio percorso personale. Per qualcuno la presenza di una relazione affettiva è l’elemento su fa leva tutto il resto. Ascoltiamo per esempio la testimonianza di una persona che ha avuto problemi di droga per tutta la vita, che ha passato in carcere diversi anni, e che ora ha trovato la forza di ricominciare: I.13. "Lei mi ha accolto lo stesso, nonostante anche che qui a Parma mi conoscono tutti. Un tossico non è tanto ben visto. Pluripregiudicato. Dunque non è che ti vedano di buon occhio. Le dicerie. Non solo dicerie: fatti di come mi ero comportato. Sì, mi ha dato molta fiducia. Mi ha dato una spinta. Adesso vedo che mi guardano con altri occhi, la gente che mi ha visto in quelle condizioni e ho preso un po’ più coraggio. Non è facile. No, ci voleva la presenza di una persona con carattere che mi voleva bene che mi sapeva accettare com’ero. E questo però non mi potevo mica inventarmelo. Dovevo essere io a cambiare subito e a farmi vedere. Ti dico la verità io li conosco anche tutti questi ragazzi. Qualcuno ritorna in galera. Però mi rivedo con uno specchio, com’ ero allora anch’ io. Si vede che sono una persona positiva adesso".

Gli chiediamo allora se la cosa più importante è stata questa ragazza: I.13. "Sì, io penso che sia una delle prime. Non dico anche la mia buona volontà, perché me lo ripete anche lei che ci vuole una volontà, però ero stimolato, capito, per tornare a vivere un po’, perché ero morto veramente. E praticamente me la cercavo tutti i giorni. Poi avevo sempre in testa quella ragazza lì, che aveva fatto quella fine lì, morta d’overdose. E non pensavo che avevo altre via d’uscita. Invece no, certe volte la vita... non sai mai cosa... non posso lamentarmi sicuramente. Certo vorrei questo, vorrei quello ma ho una ragazza che mi vuol bene, mi ha preso per quello che sono. Io penso che capita poche volte. È stato quasi un miracolo. Poi lei già sapeva. Allora mi sono meravigliato: "so già tutto".

Una esperienza simile è raccontata in un’altra intervista, dove si nota come il superamento del pregiudizio, può diventare una spinta nel creare e rinforzare "identità nuove": I.20. "Mia moglie lavorava in un negozio vicino al bar dove andavo a fare la pausa, ci siamo conosciuti, mi ha dato fiducia anche se ho trovato difficoltà immense con i suoi fratelli e genitori, che mi hanno giudicato male io ho avuto pazienza e poi con il tempo hanno imparato a conoscermi per quello che ero non per quello che ho fatto".

 

Il ruolo delle associazioni e delle cooperative

 

Raccogliendo la testimonianza di numerose persone, emerge chiaramente il ruolo centrale che hanno avuto le associazioni e le cooperative di solidarietà sociale, nel permettere un percorso di reinserimento lavorativo e sociale, soprattutto in una situazione di latitanza da parte delle istituzioni.

Un intervistato cui abbiamo chiesto di cosa ha bisogno una persona che esce dal carcere, ci risponde sottolineando la centralità e l’importanza di queste realtà: I.10. "Ha bisogno di quello che adesso ho trovato io. Innanzitutto il lavoro e la gente che vi è intorno come questi qua della Coop. Sirio. Perché io ho trovato subito amicizie. Tante volte mi sono trovato un po’ in difficoltà, avevo bisogno di un avvocato, di un consiglio, di qualcosa, la XX si è messa a disposizione mia. Cerca di trovarmi delle soluzioni lavorative migliori. E forse una volta per tutte mi sistemerà meglio. Ho trovato XX che è un’amica insomma disposta, molto disponibile a qualsiasi richiesta mia. Mia, nostra. Di tutti quelli come me, quelli che abbiamo bisogno. L’ambiente lavorativo è quello che è. Non ho molti problemi. Niente insomma, sto bene".

Anche un’altra persona porta una testimonianza simile: I.4. "Nel carcere di Parma ho conosciuto XX che è un volontario carcerario dell’Associazione "Per ricominciare". Nel frattempo ho conosciuto anche la signora XX. Però io sono venuto a conoscenza del signor XX tramite un detenuto che anche lui ha avuto la fortuna di incontrare questo uomo, che per me è un santo. E da lì è cominciato il mio reinserimento. Nel senso che io mi sono sempre dichiarato innocente e avevo tanta rabbia quando sono uscito. Lui forse ha tramutato la mia rabbia in perdono, non so cosa dirti. Sono parole che adesso hanno un significato per me".

Gli chiediamo di spiegarci come lo ha aiutato: "Mi ha aiutato standomi vicino tutte le settimane che veniva. Con aiuti finanziari, piccolo aiuti. Adesso tu non lo sai ma lì loro danno anche le 20/30.000, io non ero nella possibilità di averla. E quei famosi 30 o 50.000 che lo Stato dà ai non abbienti non c’erano mai. Poi sono stato trasferito a Volterra".

La stessa persona racconta ancora altri incontri: "Poi non dimentichiamoci degli aiuti. Avevo bisogno, sono andato alla Caritas. Ho conosciuto prima la moglie di XX e poi XX. E lì quando ero con l’acqua alla gola chiedevo e mi hanno sempre aiutato. La casa di accoglienza, è molto importante. Tutte strutture che vanno bene per la legge Gozzini, perché solo una legge senza avere il supporto fuori, caro mio… C’è gente che va anche a rubare per fame".

Anche un volontario delle Associazioni, I.4., concorda su questo punto. A suo modo di vedere "Quelle persone, quei detenuti che finiscono la pena e prima non hanno mai avuto contatti con i volontari, si trovano fuori dal carcere con il classico calcio nel sedere, il sacco dell’immondizia di vestiti, o la valigia, se ce l’hanno. Si trovano fuori dopo 10/15/20 anni di carcere. Non sanno cosa fare e se non hanno punti d’appoggio cominciano a delinquere ancora…".

In un’intervista emerge chiaramente il ruolo delle cooperative che si occupano di reinserimento sociale, l’intervistato discute sulle necessità, di chi vuole riscattarsi da errori commessi nel passato, attraverso quelle relazioni di fiducia e di stima che passano anche attraverso il lavoro. I.14. "Iniziai a scrivere a chiunque poteva fare qualcosa per me contattai la Bula che sono andato dopo un mese a lavorare da loro. All’epoca c’era XX come Assessore sono stato 2 anni e 4 mesi alla Bula il mio compito era quello di stare sempre con i ragazzi e occuparmi insieme ad altri. Il pomeriggio gestivo il negozio, quindi mi hanno dato la massima responsabilità, fiducia, e questo quello che manca la fiducia. Per l’opinione pubblica noi siamo solo dei numeri, degli oggetti, ed è brutto essere considerato un oggetto che un tempo ha sbagliato e ora è messo da parte ho sempre cercato di migliorarmi non dico riconquistare gli anni che ho perso, ma di riscattarmi di avere delle soddisfazioni, degli affetti.

Un altro intervistato ribadisce l’opera di queste realtà e queste persone: I.3. "Io oggi vado avanti per la carità degli altri. Per le opere di questi. Io sono napoletano, non sapevo neanche che esisteva la Caritas. Presi l’elenco telefonico, e lessi e telefonai. Parlai con questa signora XX che sta alla Caritas. Gli spiegai signora sono così e così ho bisogno di un bel pacco. Sì, mi disse, adesso la faccio parlare con una persona, e mi fece parlare con XX. Un uomo eccezionale realmente, poi c’è la moglie, i figli, tutti quanti. Poi XX, mi ha presentato a Don XX. Poi mi hanno presentato l’assistente sociale della terza circoscrizione, la signora XX, che è una bravissima donna realmente. E da lì vivo. Che c’è stato un periodo che mangiavo solo latte, non avevo neanche i soldi per comprare il pane, perché mi hanno sequestrato tutto". Certo, non si può scordare che l’importanza di queste realtà e di questi volontari si staglia su un panorama di desolante assenza delle istituzioni.

 

Identità e disagio psicologico

 

Uno degli intervistati, descrive con molta secchezza la situazione in cui si è trovato (e in cui probabilmente si trovano in molti), quando è uscito dal carcere. I.8. "Cioè il carcere abbruttisce, quando uno esce dal carcere è incazzato nero. E non è facile, non è facile per uno che ha fatto cinque, dieci anni di galera e dire va beh ora ricomincio da capo. Quando tu vieni fuori dopo aver fatto una carcerazione medio - lunga, non hai nessuna intenzione di parlare a nessuno. Non gliene frega niente a nessuno dentro. In carcere nessuno ti spiega niente. Cioè tu sei un escluso, sei feccia, sei delinquente punto e basta. Finche poi magari non arrivi che sei definitivo, però ormai sei talmente avvelenato che alla maggior parte delle persone non gliene frega più niente, se alla fine arriva qualcuno a dirgli, guarda che in fondo c’è una prospettiva di un inserimento, cioè cosa gliene frega? Cioè è vent’anni che prendo calci in faccia adesso che ho finito vieni qua a dirmi Cioè non lo so non lo capisco".

Un’altra persona sottolinea inoltre che il rapporto psicologico con il carcere continua in maniera più o meno consapevole o sotterranea anche una volta liberi. C’è come un’identità di cui ci si deve piano, piano liberare: I.1 "Non è che uno all’improvviso solo perché lo mettono fuori si sente libero. Si questa identità dell’essere prigioniero l’ho avuta anche dopo, per un bel po’. Forse devo distinguere due cose. Una è che sono convinta che uno che è stato in carcere non potrà mai prescindere da questo fatto. Dal fatto che è stato prigioniero, che è stato in carcere. Secondo me uno che va in carcere, quando esce dal carcere non potrà mai fare come se non fosse esistito. Perché lo considero un danno. Considero anche superare il danno una grossa... Ad un certo punto però io ho provato... Mi ricordo che mi hanno fermato in macchina, mi hanno fatto controlli. È venuto lì un carabiniere e mi ha detto: "Ma lei è pregiudicata", io l’ho guardato, incazzatissima, mentre ero lì la parola pregiudicata non mi diceva niente. Gli ho detto "Ma sarà lei pregiudicata". Lialtra persona che era con me mi guardava e faceva gesti. E lì ho provato una grossa meraviglia. Però io faccio una distinzione. Per me questa cosa dell’essere pregiudicata mi sembrava una specie di insulto, di lesa maestà ed in effetti ho reagito come una specie di regina offesa e a questi qua gli ho detto un sacco di ragioni balorde. Sono stato scandalizzata di questa cosa, che loro mi considerassero pregiudicata. Nello stesso tempo sento questa cosa della prigione. Adesso non è che io mi senta prigioniera, assolutamente. Però io mi sento come sempre anche lievemente, come una persona che è stata in prigione".

Diverse delle persone che abbiamo incontrato si soffermano sul fatto che il percorso di reinserimento non è affatto scontato nemmeno una volta che si è riusciti a costruire qualcosa. I rischi, le minacce interne ed esterne continuano ad essere presenti. I.8. "Io intanto penso di aver cominciato un percorso che non ho ancora fatto, spero di portare a termine. Ma non lo saprò mai se riuscirò a portarlo a termine. Intanto qualcosa ho iniziato a fare e spero di arrivare in fondo. Per me riuscire ad arrivare in fondo senza tornare in galera sarebbe già un bel successo" Chiediamo quali sono i rischi di questo percorso, quali i possibili ostacoli: "Quando tu hai avuto una vita di devianza, non ce n’è. Succede una qualsiasi cavolata. Per esempio succede una lite qua di fuori, arrivano i Carabinieri, io sono lì a guardare, portano via me e te ti lasciano andare. Se tu sei pecora nera rimani pecora nera. È così. Può succedere qualunque cosa. Quello che per te è una cavolata per me può diventare un dramma. I rischi sono tantissimi. Tutto, anche un incidente stradale, ti può ostacolare, bloccare, tutto quanto".

Da questi racconti sembra dunque che ci si confronti da una parte con una forma di "etichettamento" sociale che continua a pesare e dall’altra con la sensazione di sentirsi sempre sotto osservazione, con l’idea che si può essere imputati di qualcosa in qualsiasi circostanza. I.8. "Si comunque. Non è di essere sotto osservazione. Tu sei consapevole che se io dovessi fare un incidente in macchina e per sbaglio vengono a sapere che ho dei precedenti penali, io passo dal torto. A te ti mandano via e ti dicono che hai ragione. Vengono là e mi dicono "tu perché andavi così, cosa mi stai raccontando, ma sì, col passato che c’hai può mai essere…" Purtroppo è così, anche se uno fa fatica a crederlo. Io mi ricordo una volta, che ancora non avevo smesso di fare il delinquente, mi hanno rubato la macchina, sono andato in Questura per far la denuncia e mi hanno detto "o te ne vai, o ti arrestiamo". Mi hanno detto così. Ho dovuto mandare mio padre in un’altra caserma per fare la denuncia che mi hanno rubato la macchina. Dunque, si arriva a quei livelli lì. Uno spera poco in questo Stato, però cerca di stare a galla da solo. Oppure spera di trovare delle persone che dopo che ti hanno conosciuto ti aiutano. In questo sono stato fortunato di essere qua alla Sirio. Anche per quella storia del Maresciallo dei carabinieri mi hanno aiutato loro. Se non sarei qua, ora, sarei ancora in carcere a scontare la condanna tranquillamente pur non avendo fatto niente, se non ci fossero state quelle persone che lavorano qua in Sirio".

Anche altri testimoni racconta questa esperienza di un carcere immateriale, una paura interiorizzata che continua a incombere anche a distanza di anni. I.6. "Mi ha segnato che non posso allontanarmi sui miei passi. Il carcere non è un’esperienza, è una paura, che ti fa sempre evitare tutti i divertimenti. Perché magari uno si ubriaca e pensi solo al carcere.

Allora devi comportarti civilmente. Non devi fare altri errori. E ti accontenti di poco. E non è che ti lasci andare, con questa vita qua, con persone che corrono in macchina con i soldi. Perché quella lì non è una vita. È una vita, ma per uno povero non può andare a vivere come vivono gli altri che stanno bene, che hanno opportunità di stare bene. Noi siamo considerati poveri e moriamo poveri".

A uno degli intervistati chiediamo esplicitamente di che cosa avrebbe bisogno per avere la sensazione di aver chiuso, di essere realmente uscito. La risposta è molto pessimista. I.8. "No, io ho grandissimi dubbi. Credo che niente e nessuno mi darà mai questa sicurezza. Credo che non me la potrà dare mai nessuno, perché non lo so domani cosa potrà succedere, ho moltissimi dubbi in merito. Non ho una convinzione. È chiaro che finché ce la faccio resto fuori. Però non lo so. Non ho la più pallida idea. Anche come non sapevo di essere diventato delinquente, adesso non posso sapere, non credo che uno possa essere sicuro di cose di questo tipo qua. Io posso essere sicuro che fra poco vado a mangiare, quello sì, ma queste cose qui è molto difficile. Non lo puoi sapere".

Anche rispetto al tema dell’identità e delle sue trasformazioni in rapporto all’esperienza del carcere, la storia e la testimonianza di un immigrato aggiunge e amplia la questione. Trascriviamo un lungo pezzo del racconto di un giovane immigrato marocchino, molto intelligente e portato alla riflessione: I.5. "Ormai sono un altro, adesso. Ho fatto delle esperienze incredibili. Non sono più quello di prima. Sono cambiato tre o quattro volte. No, veramente ho avuto tre o quattro identità diverse. L’ultima quella che sto vivendo adesso. Sto vivendo uno stato incredibile che nessuno può saperlo, nessuno può immaginarlo anche. Non so come spiegarlo. Lo sto vedendo solo io. Ero una persona piena di vita, facevo di tutto, avevo dei sogni nel cassetto: aiutare i bambini abbandonati e gli anziani della mia città. Questo era il mio sogno quando avevo 18/19 anni, mi ha accompagnato da bambino. Perché sai, giocando a pallone, uno diventa famoso, poi la città era piccola e tutti ti conoscono. Mi accompagna ancora, però ormai è tardi, ho 31 anni. E poi non ho in mano niente, se riesco a portare avanti me stesso è già un risultato positivo".

Interveniamo nel suo racconto per ricordargli che, in fondo, anche se non ha aiutato i bambini e gli anziani della sua città, in compenso sta aiutando le persone qui da noi. "Sì, forse era quello che mi ha spinto anche a fare questo lavoro, perché è un servizio alla persona, anche se in modo diverso".

Per questo giovane ragazzo ricostruirsi una vita dopo il carcere significa fare i conti con tanti passati e con tanti presenti, e con l’angoscia di non sapere chi si è veramente, chi si è diventati, chi si può diventare. "Rispetto all’uscire. Già pensare spavento o gioia di uscire. Non so se gioire o se spaventarmi non so. Sì, la gioia, perché sei un uomo libero. Libero per modo di dire. Poi cosa fai dopo? Anche se c’ho un lavoro che a me piace molto, che a me dà tantissime soddisfazioni, però è sempre legato al carcere. E quindi mi sento ancora in un modo o nell’altro legato al carcere. Sì, perché anche se mi piace molto, questo lavoro non l’avevo scelto io. L’avevo trovato tramite persone che avevo conosciuto in carcere. Magari loro non vedono questa cosa, magari l’hanno dimenticata. Però io tornando indietro, penso che questo l’ho conosciuto quando ero in permesso dal carcere. Infatti adesso purtroppo sto andando via. Mollerò il corso e mollerò anche il lavoro, sapendo che sto facendo uno sbaglio enorme. Però bisogna staccare un po’. Sapendo che sto sbagliando. Magari tra sei o sette mesi dopo mi pentirò di aver lasciato questo lavoro o il corso. Io ero in ansia totale per l’uscita dal carcere. È difficile gestire la libertà dopo 8 anni e mezzo di galera perché vuoi fare di tutto. Perché le cose che ti vietavano, che erano vietate per te, le vuoi fare, perché qualche cosa da dentro ti spinge, è come una forma di ribellione. Non so, una forma veramente di ribellione. Vuoi ribellarti per sentirti te stesso. Non so, vuoi trovare una nuova identità. Ma questo però è naturale, infatti sto trovando una nuova identità. Poi mi è venuta l’altra ansia. Non so mi è venuto in testa di andare subito a casa mia. Tranquillizzare casa mia, andare di nuovo a trovare la mia identità vera. Perché mi piaceva, anche se non trovo più quella identità che avevo da ragazzino, perché era piena di successi, piena di sogni, piena di cose. Quindi è come uno che andava a cercare la sua gioventù, la sua vecchia identità, anche se non c’è più: è un altro mondo, adesso. I genitori sono cambiati, i fratelli sono cambiati, i coetanei sono cambiati. Tutto è cambiato praticamente, perché adesso è un’altra generazione. E quindi mi è venuto anche l’ansia di andare giù. Perché ci vogliono come minimo una decina o una ventina di milioni. Per il viaggio, per i regalini, devi stare due o tre mesi lì e anche i genitori non sono ricchissimi, quindi un piccolo aiuto lo devi dare e quindi ero in ansia totale. E, infatti, sono riuscito ad andare subito dopo che sono uscito. E quindi l’ansia dell’uscita, o la gioia, chiamiamola così, o tutti e due. Poi l’ansia di andare a casa. Poi andare a casa e vedere quel mondo lì e praticamente ti trovi spaesato perché non hai trovato quella cosa che hai lasciato, a cui eri legato molto. Poi il ritorno. Sono fasi che ti mandano in tilt, praticamente. Poi sentirmi comunque dentro la famiglia, i fratelli, anche il quartiere, la città. Essendo una città piccola, ero conosciutissimo. Poi i familiari che erano tantissimi. Quindi ho passato due mesi solo a salutare la gente. Il ritorno è stato terrificante. Il ritorno qua. Non voglio più vivere in questa cultura qui. Perché ho conosciuto solo sofferenza. E soprattutto perché non mi aspettavo questa cosa qui, da questo mondo qua, da questa cultura. Secondo me, se non fossi entrato in carcere, avrei un’altra idea, un’altra vita. Non mi sono reso conto ancora che ho 31 anni e sono lontano mille anni luce da quando sono entrato. Perché a volte si annulla questo periodo qua. Perché è difficile entrare nel cervello di una persona. Perché se una persona veramente era intenzionata ad entrare in questo mondo assumendo rischi e tutto va bene. Ma se una persona non se lo aspettava proprio. Non ho mai saputo il mondo del carcere, non ho mai conosciuto il mondo del carcere, non ho mai parlato di carcere prima, finché mi trovo condannato a 10 anni e mi trovo staccato dalla vita che avevo, staccato da tutti i sogni. Non so non mi sono reso conto ancora. E quindi sono in una fase di accettare la nuova situazione, di ricostruire una nuova identità. È difficilissimo e quindi non so cosa fare. Ho tantissime idee ma devo eliminarne alcune, perché alcune sono irrealizzabili. E quindi l’unica era partire di nuovo da zero. Staccarmi da questo mondo qua e partire, non so da zero no, ma diciamo da dove Non so pensando di tornare di nuovo a casa mia, ritrovarmi a pensare cosa voglio, a quello che mi conviene e rendermi conto che praticamente mi hanno mandato fuori tempo e luogo. E poi mi trovo senza base qua comunque. Voglio un’identità soprattutto, una base da cui partire. E accettarlo. Perché adesso non so qua a Parma abito con una persona che è ancora in carcere. È in affidamento. Abito in una stanza che è come una cella del carcere. Il lavoro è un lavoro che mi lega sempre al carcere. Anche psicologicamente, soprattutto psicologicamente, perché l’ho conosciuto tramite persone che ho conosciuto in carcere. Conosco soprattutto persone che sanno che ero in carcere. Io il carcere proprio non lo voglio più nominare neanche pensare, perché solo a vedere persone che ti hanno conosciuto tramite il carcere tu pensi sempre al carcere. E invece voglio un’altra identità al di fuori del carcere".

Dunque quello che si prospetta a questa persona è un percorso molto difficile e tormentato. Sente in parte di dover recuperare dei frammenti di un’identità lontana nel tempo e nello spazio, un "chi" che appartiene al passato ("chi era" per la sua famiglia e la sua cultura), ma anche al suo presente ("chi è" in una città del mondo occidentale), non per fuggire, ma al contrario per poter ritornare a questa realtà sociale e culturale, a questo presente con più libertà e con una prospettiva futura non più così opprimente.

I.8. "Io ho pensato di tornare a casa mia. Ci sono i miei familiari, padre, madre, fratelli che non mi conoscono perché alcuni di loro erano piccolini quando sono venuto qua. E sentivano solo parlare di un fratello. E quando sono andato lì, mentre dormo loro mi spiano, aprono la porta e cominciano a guardare "questo è XX di cui sentivamo parlare". Quindi voglio andare di nuovo a inserirmi dentro. Almeno a riposarmi un po’. Perché lì ti riposi, quando sei vicino ai tuoi, che ti capiscono e ti conoscono e sanno chi sei e chi eri. Perché qua nessuno sa ciò che eri. Vedono solo che sei stato in carcere e che sei uscito oggi dal carcere. Io voglio frequentare almeno per un po’ le persone che mi conoscevano prima. E poi partire e tornare qua in Italia con un’altra ottica praticamente. Acquisire anche sicurezza, affetto". Insomma, si tratta di trovare, di comporre una soggettività che non neghi le esperienze negative e opprimenti del carcere ma che non anneghi nemmeno tutto ciò che si è stati e che si può essere a quel mondo così angosciante e disumano.

 

Autorità e legalità

 

Per alcuni l’esperienza del carcere rimanda ad un rapporto con l’autorità, vista tuttavia in una prospettiva ambigua e sostanzialmente negativa. Nell’esperienza di alcune persone conta molto la provenienza sociale e anche politica nello spiegare l’atteggiamento verso l’istituzione carcere e verso la possibilità di reinserirsi. Vediamo da questo punto di vista una testimonianza particolarmente significativa: I.8. "È fondamentale dove nasci, dove cresci, la zona. Che ne so se io, invece che vivere in Bicocca a Milano, avessi vissuto a Milano 2, probabilmente non sarei diventato delinquente. Credo che sia una cosa, poi va beh c’è chi è delinquente per indole. Però credo che uno non nasca delinquente. Ci sono quartieri di città dove l’odio verso la polizia, verso lo Stato, ti viene inculcato dalla nascita. Non è che tu sei contro le istituzioni perché così, perché ti svegli così. C’è tutta una serie di cose che ti portano ad andare contro le istituzioni".

Gli chiediamo di provare a descrivere il motivo che lo ha portato ad infrangere la legge è stato l’odio verso le istituzioni. "È stato il comportamento che aveva la polizia nei riguardi di quelli che abitavano in quel determinato quartiere. Poi magari ognuno ha le sue esperienze. Però il fatto di essere preso a schiaffi solo perché abiti in un determinato posto credo che sia emblematico".

Gli chiediamo di raccontare. "Eravamo ragazzini con i motorini, allora esistevano i Ciao, gli scooter non esistevano ancora. Dove abitavo io era distante quasi 7/8 chilometri dal centro, io abitavo in periferia. Ci hanno fermato: "documenti". Chiaramente noi abitavamo tutti in quel quartiere lì. Cioè quello era un quartiere che secondo loro erano tutti delinquenti, quindi ci hanno preso a schiaffi, perché non dovevamo andare in centro. Magari abbiamo anche incontrato dei deficienti, però la cosa è rimasta".

Gli chiediamo ancora se, dal punto di vista suo - non dell’autorità - c’è stato un primo atto identificabile che ha fatto consapevolmente contro la legge. "Sinceramente no. Non ci ho mai riflettuto sopra. Però nel momento in cui le facevo non ho mai pensato di fare una cosa che era contro la legge. Magari adesso se ci penso lo capisco. Però nel momento in cui fai quelle cose lì non pensi che sia contro la legge, contro la morale, non le pensi quelle cose lì. Nel momento in cui le fai non pensi di commettere chi sa che cosa. Che cosa sto facendo, poi alla fine? Se tre carabinieri hanno sparato al mio amico che fino a ieri ci uscivo insieme soltanto perché non si è fermato al posto di blocco e gli hanno sparato, che cosa c’è di legale?".

Ancora gli chiediamo di raccontare. "Due amici. Hanno rubato una macchina, ad un posto di blocco li inseguono. Questo era abbastanza capace di guidare, li ha presi un po’ in giro, non so, diciamo, li ha fatti girare per un po’. Poi si è fermato e loro gli hanno sparato. Ma nel quartiere lo hanno visto tutti. Poi sul giornale è uscito che hanno sparato alle gomme, noi abbiamo visto invece che si erano fermati, erano scesi, hanno sparato alle gomme, ma uno aveva un proiettile nella schiena e l’altro tre. La legalità dove arriva? Boh! Non credo che uno si ponga un problema, specialmente quando sei un delinquente".

Questa testimonianza è particolarmente interessata perché ci avvicina a percepire un’idea di reinserimento particolare, potremmo dire quasi paradossale rispetto al senso comune. Comincia ad emergere nel momento in cui proviamo a chiedergli qual è stato il momento più difficile che hai vissuto in carcere. I.8. "Il momento più difficile? Ah, non lo so ce ne sono stati tanti. Boh! Forse è stato quando arrivi ad un punto che dici "basta, voglio cambiar vita". Cerchi di venirne fuori e ti danno l’illusione di poter venir fuori e invece poi non ne vieni fuori perché loro te lo impediscono. Il momento più difficile è quello. Dire no! Io ho comunque deciso di cambiare e quindi vado avanti per la mia strada. Contro queste persone qua che non me lo vogliono permettere".

Gli chiediamo in che senso, in che modo non glielo permettono. "Perché te fai degli sforzi per cambiare e loro magari ti dicono "guarda adesso non ti preoccupare, adesso vieni fuori, c’è il lavoro c’hai tutto" però non ti fanno uscire, ti lasciano lì a continuare per un altro anno, per altri due anni, per altri tre anni. E non è facile. Forse è stato il momento peggiore. Ma non ci sono momenti felici nel carcere. La cosa più difficile è questa".

Cerchiamo allora di sapere quali sono state le difficoltà che ha incontrato nel suo tentativo di reinserimento e qui cominciamo a capire meglio come nella sua esperienza, le autorità abbiano rappresentato uno scoglio, un ostacolo anche nel suo processo di reinserimento.

"Un maresciallo dei carabinieri. Mi ha fatto delle cose assurde. Poi grazie alla Sirio, a un magistrato che ha capito alla fine perché il Maresciallo dei Carabinieri ha detto delle palle. Però la difficoltà maggiore sono stati i Carabinieri. Non mi accettavano. Ho preso una casa in un paese qua vicino e loro assolutamente non volevano. Non volevano, hanno fatto dei rapporti ai magistrati palesemente falsi, e ho dimostrato che erano falsi, però intanto il magistrato aveva preso provvedimenti. Mi hanno chiuso, poi mi hanno fatto uscire un’altra volta. Comunque le difficoltà maggiori sono state le forze dell’ordine. Sono stati loro. Non è facile anche perché io parlando con un magistrato un giorno mi ha detto "Puoi dire tutto quello che vuoi, però lui è un maresciallo dei carabinieri e tu sei un delinquente. Io a chi devo credere?". Hai ragione anche te, io cosa ti devo dire? Credi al maresciallo dei carabinieri. Poi sono riuscito a dimostrare il contrario. Però poi al maresciallo non hanno fatto niente. Non è che sono andati dal maresciallo a dirgli: "guarda che tu hai detto il falso, che è un reato gravissimo per un carabiniere". Io ho pagato, poi sono uscito e lui è ancora al suo posto tranquillamente. Starà facendo la stessa cosa a qualcun altro".

Gli chiediamo di spiegarci perché secondo lui questo maresciallo ha agito in questo modo. "Non lo so. Lì c’è stato un maresciallo dei Carabinieri che ha detto "guarda io non ho niente, semplicemente non lo voglio". L’unica risposta che ha dato è "non lo voglio", punto e basta. Non accettava che un detenuto andasse ad abitare nel suo territorio. Farà come i cani, farà la pipì in giro e non voglio nel mio territorio. Non lo so, non lo so, anche perché non ho mai avuto il dispiacere di conoscerlo".

Nei fatti dunque non si conoscevano neanche. "Sì. Non ne ho la più pallida idea. Sono sfigato. Poi credo che sia un po’ la convinzione di tutti questi poliziotti, carabinieri che dicono "il lupo perde il pelo ma non il vizio". Loro sono convinti di stare dalla parte del giusto e quindi di decidere chi va bene e chi no. Non lo so. Boh! Forse magari anche il fatto che quel carabiniere c’aveva poco da fare. Se avesse avuto altro da fare probabilmente avrebbe lasciato in pace me. Le difficoltà sono grossissime e non dipendono dalla volontà o meno di chi vuole o non vuole inserirsi. A volte penso che hanno paura di restare senza lavoro. Ogni tanto mi vengono queste idee un po’ malsane però Anche perché sono convinto che se il maresciallo avesse avuto qualcosa da fare, non avrebbe perso tempo a fare un rapporto per il magistrato di sorveglianza, falso. Si sarebbe impegnato a fare altre cose. Evidentemente non c’aveva proprio niente da fare e, comunque, io credo che la cosa, il discorso, debba iniziare prima che uno cominci a delinquere. Sì perché chiaramente ci sono delle zone e dei quartieri dove c’è più probabilità che diventi delinquente che in altri posti. Ma visto che è impossibile bisogna cominciare dal momento stesso del primo arresto. Ma anche lì non te lo permettono perché gli imputati non possono parlare con nessuno. E quindi ho poche speranze".

Questa testimonianza racconta un’esperienza paradossale, ma forse neanche troppo, in cui il reinserimento è possibile non solo nell’indifferenza o nella diffidenza delle autorità, ma addirittura a dispetto della volontà delle autorità ufficiali. Il rapporto difficile con le autorità si sente anche dentro al carcere. Quello che in particolare le testimonianze sottolineano è la distanza tra la proclamazione ideale - per esempio del regolamento penitenziario - e la realtà concreta del sistema carcere, dove, secondo il loro punto di vista, vige una modalità arbitraria, e una volontà prevaricatrice delle guardie e dei loro superiori.

Per esempio come nota un intervistato I.10. "Le nuove strutture sono proprio costruite a misura d’uomo, però non ti fanno stare a misura d’uomo. Perché in 2 mq ci dovrebbe essere un solo lettino e tutti gli accessori per vivere da solo. Invece te ne mettono due, te ne mettono tre. Allora se si è in due non si può stare tutti e due in piedi in quello spazio, perché ci si tocca le spalle, come quando si è in un autobus affollato e allora si fa il turno: io sto in branda e tu in piedi o viceversa. O uno sta in branda e l’altro allo scrittoio, perché tutti e due non ci si sta. E figurati quando si è in tre e figurati i periodi estivi, quello che si passa in quegli ambienti lì. E poi qua è un po’ particolare. Tutta una cosa particolare. Qua non si è sentiti, non si è ascoltati. È dura, è dura qua, un po’ più dura che in altri carceri. Io disgraziatamente da Belluno a Trapani li ho passati quasi tutti, ma questo qua l’ho trovato il più cattivo, come regime proprio, insomma. Prima quando sono arrivato nel 1996 stavo abbastanza bene, come apertura, come chiusura... Poi cambiano ogni tanto le maestranze, i comandi, i direttori, i comandanti. Allora secondo le loro fisime, le loro turbe, cambiano gli istituti. Il regolamento se funzionasse, con quello che c’è scritto, si starebbe abbastanza bene. Ma il regolamento lo fanno loro. Il regolamento lo stabiliscono loro. Perché esiste un regolamento penitenziario, ma è solo una figura. Tante volte c’è gente che sta male, che ha bisogno di pronto soccorso. C’è morta tanta gente in cella, per mancanza di soccorsi. Sono sempre i direttori e i comandanti che fanno il bello e il cattivo tempo".

Una questione con alcuni aspetti in comune a quest’ultima è descritta da un immigrato che sottolinea la connessione tra mancanza del permesso di soggiorno, la precarietà dei riferimenti economici e sociali e la vulnerabilità e l’attrazione verso il mondo malavitoso. I.5. "Comunque, una persona così, che esce da un giorno all’altro con la sua roba, non sa dove dormire, non sa dove andare, non sa che lavoro fare, nessuno gli dà lavoro, soprattutto senza permesso di soggiorno. Perché avendo il permesso di soggiorno posso chiedere alla Caritas, posso chiedere il lavoro, posso anche trovare il lavoro. Posso fare tantissime cose, con il permesso di soggiorno. Ma uscire senza il permesso di soggiorno, anche se sei una persona onesta, sei sempre un ladro, sei ancora in carcere, sei ancora illegale, nell’ambito dell’illegalità. E quindi devi fuggire ancora. Allora la prima persona che mi fa una proposta, io accetto. Se mi dicono "vieni a spacciare con noi". Perché chi è che ti invita a lavorare con lui, o a dormire con lui, senza permesso di soggiorno? Il mondo dell’illegalità.

È quello che ti dà tutto, ti apre le porte, però in cambio di qualcosa. E quindi cosa faccio io senza permesso di soggiorno, senza niente, senza un soldo in tasca, con le mie borse… non conosco nessuno? Io accetto qualsiasi cosa per dormire, per mangiare un pasto caldo, per guadagnare un po’ di soldi, io accetto qualsiasi cosa, questo è poco ma sicuro. E quindi tornare in carcere sempre. E questo va a vantaggio di qualcuno".

Dunque l’autorità può partecipare in maniera molto forte al processo di reinserimento. E tuttavia il suo ruolo e il suo influsso può essere sia molto positivo sia molto negativo a seconda che prevalga l’aspetto di rieducazione o che prevalga l’aspetto di diffidenza nei confronti dei detenuti o meno.

Indicazioni per il Centro Servizi Carcere

 

In questo capitolo presentiamo le indicazioni e gli stimoli più diretti emersi nelle interviste che abbiamo svolto, tenendo conto sia del punto di vista delle associazioni e delle cooperative, sia del punto di vista degli ex detenuti stessi.

 

Ruolo ed obiettivi del Centro Servizi

 

costituire una prima accoglienza con l’obiettivo di orientare ed indirizzare

 

Diverse persone intervistate, sia ex detenuti che referenti di associazioni e cooperative hanno sottolineato l’importanza che il Centro Servizi si configuri come una struttura di prima accoglienza.

I.1. "Ritengo la struttura possa effettivamente essere di prima accoglienza con persone che conoscono e sanno capire e comunque accettare il vissuto di un altro che viene fuori e che sarà estremamente disorientato perché oltre a non avere la casa e a non avere più relazioni significative avrà questo disagio psicologico, il bisogno di ricostruire l’identità. Io penso che una struttura gli possa offrire in effetti anche soltanto informazioni. Perché le persone che non sanno niente di quello che le aspetta fuori possono essere indirizzate anche per andare al cinema. Proprio dalle cose più banali.

E poi sicuramente sarebbe importante riuscire a creare una rete di informazione ma non solo che aiutino rispetto al discorso della casa. Poi io non penso che tutti quelli che escono che sono in semilibertà o in misure alternative, desiderino vivere a Parma, anche se mi sembra di capire che la maggior parte delle persone che escono da Parma vogliono stare tutti a Parma. Però un domani con uno stipendio normale un’abitazione normale possano riuscire a trovarla. Poi anche un supporto da un punto di vista psicologico, ma non psicologico nel senso intendiamoci della psicologa, ma proprio così un attimo di accoglienza, di dargli la possibilità di riprendersi, perché se la detenzione è stata lunga uno ha stravolto tutto nella propria vita. Sono diversi persino i movimenti che fai quando sei dentro e quando sei fuori, quindi immaginiamoci".

Anche i responsabili delle cooperative hanno espresso la necessità che il Centro Servizi Carcere rappresenti un punto di accoglienza e di informazione che possa rispondere alle esigenze più immediate della persona appena uscita dal carcere, di solito legate al reperimento di una abitazione, di un lavoro e al disbrigo di pratiche burocratiche. Tale luogo dovrebbe quindi supportare la persona a chiarirsi e a impostare i passi necessari al reinserimento nel mondo esterno.

 

raccordo dei servizi e delle realtà di supporto

 

Un intervistato (I.5.) ha lamentato il fatto che, durante la sua esperienza di detenzione in carcere, ha avuto seri problemi di salute e non ha trovato le cure mediche necessarie. Quando è uscito dopo molto tempo si è ritrovato in una condizione precaria e irrisolta dal punto di vista medico. Il Centro servizi potrebbe dunque informarsi e quindi svolgere una funzione di orientamento e contatto con presidi medico sanitari sia per quanto riguarda problemi fisici che psicologici che culturali.

Più in generale si potrebbe suggerire a partire da alcune testimonianze che il centro svolga anche un ruolo di raccordo tra servizi, indirizzando gli utenti in diversi uffici e presidi che possono offrire risposte o supporto in termine di questioni amministrative, civili, cure mediche, assistenza psicologica, comunità, gruppi di auto aiuto ecc. Come è emerso anche attraverso dal dialogo con i responsabile di più cooperative (I.6. e I.8.) tale luogo dovrebbe inoltre connettere le risorse che fanno riferimento alla cooperazione sociale, all’associazionismo e ai servizi in modo da facilitare contatti e l’orientamento nella costruzione di percorsi di reinserimento sociale che contemplino servizi pubblici e risorse del territorio.

 

rapporti con case di accoglienza

 

Secondo un altro intervistato (I.3.), un referente delle associazioni, sarebbe necessaria l’appoggio di una casa di accoglienza regolamentata per un breve periodo di transizione in attesa di trovare una soluzione abitativa più autonoma. Un contatto comunque con strutture di accoglienza dal punto di vista abitativo sembrerebbe importante.

 

dovrebbe essere un punto di appoggio per pasti spese, lavori per proporre lavoro per chi è dentro e può uscire in borsa lavoro

 

Alcune testimonianze hanno sottolineato il fatto che stando alle disposizioni dell’art. 21 è difficile trovare il lavoro. Difficilmente si può cercarlo direttamente. Lo deve cercare la famiglia oppure il responsabile della direzione o richiederlo il datore del lavoro. Dunque il Centro potrebbe eventualmente raccogliere o monitorare l’offerta di lavoro nel parmense per suggerire o proporre contatti a chi sta dentro e alla direzione del Carcere. I.12. "Qui hanno molto bisogno di aiuto quelli che devono uscire dal cercare. Specialmente aiutarli ad uscire. Perché tanti hanno bisogno di uscire e reinserirsi e queste possibilità non gliele danno tanto.

Invece avendo un punto d’appoggio, per esempio ci sono delle persone che uscirebbero con un qualcosa tipo borsa lavoro - se gli pagano le spese giornaliere, il trasporto, le sigarette, il pasto a mezzogiorno dove mangiare e ristorarsi un attimino - tanti uscirebbero a lavorare. Là per non stare chiusi venti ore su ventiquattro ore. Chiusi dove? In un buco dove sono due persone dove non hanno niente. C’hanno una televisione, ma quella televisione lì arrivi ad un certo punto che la odi, non ce la fai più".

 

mediazione con le autorità

 

Dal racconto di I.8. emerge il ruolo anche negativo che può essere giocato da rappresentanti delle autorità pubbliche quando un ex detenuto che non conoscono viene ad insediarsi sul medesimo territorio. In questi casi si potrebbe forse prevedere un ruolo di presentazione e mediazione da parte del Centro Servizi nei confronti dell’ex detenuto in modo da superare l’ostilità preconcetta e guadagnarsi un atteggiamento se non di collaborazione, almeno non di ostilità.

 

un riferimento anche per il volontariato e l’ aiuto

 

In un caso (I.6.) l’intervistato - un immigrato maghrebino - insiste sul fatto che Parma può aiutare, perché in altre città è difficile trovare del volontariato che aiuta i detenuti. Secondo lui Parma è una città che può dare di più. Da questo punto di vista il Centro Servizi Carcere dovrebbe anche essere un centro di riferimento per stimolare la conoscenza e le forme di aiuto, e solidarietà verso queste situazioni e vissuti. Potrebbe stimolare l’interesse per accrescere il numero di volontari, e potrebbe svolgere attività culturali per aumentare la consapevolezza pubblica su questi temi e situazioni.

 

stimolare l’attenzione e sensibilizzare il tessuto sociale e produttivo

 

Nella sua testimonianza un referente delle cooperative (I.2.) ha sottolineato che ci vorrebbero più aziende disposte ad inserire i detenuti. Che questa disponibilità servirebbe alla città in quanto tale. Dunque il Centro di servizi potrebbe anche impegnarsi per un’opera di sensibilizzazione del tessuto produttivo della città ~ della provincia, distribuendo materiale informativo e quando possibile contattando e stringendo relazioni con alcune aziende o enti.

 

promuovere la cultura dell’integrazione sociale

 

Più in generale è emerso dal dialogo con i responsabili delle cooperative e delle associazioni (I.6.) che il Centro Servizi Carcere dovrebbe diventare un centro in grado di documentare le esperienze e la progettualità sociale avviata nel rapporto tra carcere e territorio e di promuovere nei diversi modi possibili la cultura dell’integrazione sociale, organizzando momenti di sensibilizzazione, di approfondimento, di incontro e conoscenza.

 

Funzioni e facilitazioni del Centro

 

informazioni, indirizzi e moduli vari

 

Un immigrato maghrebino (I.6.) ha raccontato le sue difficoltà nel confrontarsi con la burocrazia e i servizi civili e amministrativi. Non capisce bene dove si deve andare, quali moduli deve chiedere e come compilarli. Da questo punto di vista il Centro Servizi Carcere oltre a fornire informazioni e ad indirizzare gli utenti potrebbe anche dotarsi di tutta una serie di modulistica e di documenti per facilitare l’accesso ad istituzioni, servizi, bandi, gare, iscrizioni pubbliche e private ecc.

In un’altra intervista emerge anche l’importanza di un ruolo di orientamento nei servizi e nell’assistenza fin ora svolto in qualche modo dalle associazioni e dalle cooperative. I.9. Fuori dal carcere, personalmente, mi ha aiutato la XX, anche se con qualche riserva. Perché più di lei non vedo chi mi possa avere aiutato. Perché quando c’ho qualche problema, se è piccolo cerco sempre di risolverlo da solo. Se è grande a chi mi devo rivolgere? Alla XX. La quale che mi dice?

"XX prova ad andare da questo, prova ad andare da quell’altro, prova a sentire". Ma se io non avessi lei che mi dice prova ad andare di qua, prova ad andare di là, io dove vado? lo sono proprio a digiuno di queste cose, ignorante, zero per zero. Si tratta più che altro di questioni finanziarie. Poi dopo da lì saltano fuori anche le altre. Perché se uno dice si io ho i soldini potrei prendermi una casa più grande, potrei fare questo, quell’altro. In mancanza di questo punto base non si può fare altro.

Un referente di una cooperativa (I.1.), sottolinea che in molti casi c’è una scarsa conoscenza e uno scarso accesso alle informazioni per quanto riguarda la possibilità di accedere alle pene alternative. Dunque nello sportello sarebbe necessario qualcheduno che conosca bene questo tipo di normativa e quindi che sia in contatto con il Ministero di Grazia e Giustizia, per avere gli ultimi regolamenti e circolari e che sia in buon rapporto con il magistrato di sorveglianza che ha sede a Reggio Emilia e a Bologna, e con il Servizio sociale carcerario che ha sede a Reggio Emilia. Secondo l’intervistato (I.2.) "si potrebbe - in convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia - offrire la possibilità di avere in questo sportello il tempo e lo spazio fisico per parlare una mattina o due alla settimana con gli assistenti del Servizio sociale esterno per la possibilità dell’affido, negli ultimi tre anni della pena".

In generale si possono offrire consulenze giuridiche e finanziarie varie. Per esempio i detenuti che hanno dei figli, hanno bisogno di essere informati sulle possibilità di vedere, o avere rapporti con i loro figli o con chi li accudisce. È un mondo complicato che va visto e capito caso per caso. Poi si deve tener conto che ci sono tutti i problemi che riguardano la gestione dei soldi tra le famiglie e detenuti. Anche qui si possono dare utili consigli, fare delle mediazioni importanti.

 

assistenza e presentazione per garanzia lavoro

 

Diversi intervistati hanno sottolineato la difficoltà per un ex detenuto di ottenere fiducia e credito da parte di possibili datori di lavoro in funzione di una qualche occupazione. il Centro potrebbe dunque svolgere un ruolo nel presentare e offrire una certa garanzia al datore di lavoro nei confronti di una persona di cui conosce la storia e le possibilità.

Ci deve essere una garanzia e un accompagnamento. Come racconta un intervistato: I.3. "Si tratta di vent’anni. Che tu non hai fatto niente in vent’ anni, hai fatto una certa vita di delinquente. Allora tu cerchi di portare avanti quello che hai fatto prima dei vent’anni, però è chiaro che non c’è più riscontro. E io ho lavorato alla Fiat, chiami la Fiat e dice "chi è questo qua". Non hai gli archivi di vent’ anni fa, di trent’ anni fa. Ecco perciò il percorso va fatto insieme a qualcun altro. Di corsi ne facevano nel carcere, questo si, bisogna riconoscerlo. Però vedi tu mi fai un corso, spendete milioni, miliardi, così. Quanto io esco dal carcere dovete trovare la stessa organizzazione fuori che mi ha aiutato all’inizio del percorso per mettere a frutto quello che ho imparato, che ho fatto. Cioè quello non si redime. Ma è logico se uno muore di fame, come faccio a redimermi? Questo è quello che manca secondo il mio modo di vedere. Quando mi fai il corso di ceramica, spendi soldi, poi quanto esco tu, Stato, aiutami. L’istituzione ti deve garantire al lavoro. Deve dire lo seguiamo noi. Deve dire chi è, se no, non si prende un detenuto".

 

sostegno e garanzia per casa

 

Un discorso simile si può fare per la casa. Anche lì senza garanzia o referenze difficilmente un ex detenuto troverà un locatore disposto ad affittagli il proprio immobile. il Centro dovrebbe svolgere la funzione di intermediario e di garante. I.3. "Cioè non è che sei aiutato per un percorso di reinserimento per un lavoro, per un qualche cosa. È vero che è difficile, che ci stanno tanti problemi qua. Trovare una casa. Tu tieni presente un proprietario che ti chiede "Tu chi sei?". Tu che dici? , Da dove vengo? Da via Burla, da Santo Bono così? Quindi dovrebbero essere le istituzioni che nel carcere ci sono e che sono anche all’esterno che ti dovrebbero dare, starti a fianco proprio per superare questo impatto iniziale".

 

prestiti d’onore

 

Rispetto al problema della disparità tra stipendi ed affitti e alle necessità economiche delle persone appena usciti dal carcere, un testimone ha suggerito l’idea che il Centro possa offrire o farsi garante per piccoli prestiti d’onore. I.4. "Poi gli affitti che ci sono è un disastro. Non possono vivere così, ci vorrebbe qualcosa, non so adesso come vanno le vostre cose, ma ci vorrebbe una struttura che possa raggruppare un piccolo aiuto che mi dà lo stato a quello che realmente ha bisogno. Un prestito diciamo - per dirlo come fanno adesso - un prestito d’onore. Anche i detenuti possono avere l’onore, non è mica detto che non ce l’hanno. Sarà un piccolo aiuto, vabbè, ma fare qualcosa in questo senso. Ecco un piccolo aiuto, tutto lì, questo per me è molto importante".

 

informazioni sulle persone che stanno per uscire

Una referente delle associazioni (I.3.) sottolineava che per svolgere con più efficacia e tempestività il proprio ruolo e le proprie funzioni, bisognerebbe che i volontari o gli addetti siano informati sulle persone che escono. Si potrebbe ipotizzare che qualora le persone che dovrebbero uscire prevedano di cercare un appoggio nel centro di servizi, possano prima della loro uscita già prendere contatti - diretti o indiretti - con il Centro Servizi Carcere e informino gli operatori della loro situazione personale, per quanto riguarda possibili appoggi familiari o amicali, per la situazione abitativa e lavorativa ecc., in modo che ci si possa attivare per tempo e predisporre il miglior aiuto e orientamento possibile.

 

 

Progetti particolari del Centro

 

formazione ed avviamento al lavoro. Contatti con centri di qualificazione professionale.

percorsi di crescita (possibilità per il futuro). Contatti con centri di formazione, educazioni ed altre possibilità formative ed espressive.

 

Da alcune testimonianze veniva sottolineata l’importanza di poter accedere, una volta usciti dal carcere a corsi di formazione professionale ma anche a momenti e ad occasione di formazione personale e culturale più generale. Come ha notato un socio I.1. "Ci sono i detenuti che vogliono studiare. Dentro il carcere spesso non si riesce. Questo è un altro campo su cui si potrebbe lavorare. Se una persona ti lavora e ti dice " io voglio imparare", cioè io sono andato a farmi un corso di alto incendio pericoloso con i pompieri, non mi serve a niente, sono andato a pagarmi la mia quota, ho perso del mio tempo, e sono andato a prendermi un diploma, perché, perché io guardo al futuro, cioè magari un domani può anche servire, vuoi aprire un distributore di benzina non hai quel diploma non lo puoi fare, devo fare il portinaio non hai quel coso non lo puoi fare, un altro miglioramento che chiedo sempre è un corso di botanica".

 

Componenti e composizione del Centro Servizi e dello Sportello

 

persone che conoscono l’esperienza della detenzione e che sanno accettare il vissuto dell’altro

 

Alcune persone hanno sottolineato l’importanza di riflettere sulle figure che andrebbero ad operare nel Centro di Servizi ed in particolare con funzione di sportello e di contatto diretti con gli utenti. In primo luogo potrebbe essere importante che vi sia qualcuno che ha vissuto esperienze simili.

Nell’intervista I.1. emerge chiaramente questo aspetto quando chiediamo di approfondire un’osservazione sul fatto che in questa struttura di prima accoglienza ci debbano essere persone che conoscono che sanno accettare il vissuto dell’altro. In particolare le chiediamo di specificare se pensa a figure che hanno una competenza di tipo professionale, o legate al fatto di avere vissuto un’esperienza simile.

I.1. "Io penso all’esperienza, perché io so queste persone che adesso vengono in semilibertà dove sono io, come mi vivono rispetto al vissuto comune. Sicuramente non mi vedono come un’assistente sociale come un educatore. E c’è un tipo di relazione sicuramente diversa. lo penso che sarebbe importante. Dovrebbe essere comunque una persona particolare. Una persona che ha vissuto un’esperienza ma che abbia Mi sembra di capire che farete della formazione. Ma già a Bologna in altre città esistono situazioni come quella, simile a quella che avete intenzione di creare. E so che all’interno di queste situazione lavorano delle persone che hanno avuto l’esperienza del carcere. A Bologna ci lavora per dire l’ex compagna di Renato Curcio, cioè delle donne, delle persone che si occupano proprio di questo. Gestiscono anche un paio di appartamenti con cui danno inizio a questo primo periodo di ospitalità, intanto che funziona la ricerca del lavoro e degli strumenti per l’autonomia".

 

avvocati e figure professionali

 

In secondo luogo, un intervistato I.5. parlando da un punto di vista generale ha accennato all’importanza di persone che ti spieghino i tuoi diritti e i tuoi doveri, che ti aiutino a verificare date, scadenze. Un’altra persona I.10. ha esplicitato l’importanza di consulenze con avvocati o persone competenti in queste materie. Potrebbe essere significativo da questo punto di vista dunque prevedere che il centro si doti per qualche ora la settimana di personale competente addetto a consulenze giuridiche.

 

persone che conoscono la lingua

 

Un’altra persona I.5. ha sottolineato inoltre l’importanza della presenza di figure mediatrici o traduttrici che conoscano le lingue delle persone che hanno bisogno: albanese, arabo, francese ecc. per facilitare la comunicazione e la comprensione della situazione e delle possibilità.

 

 

 

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