Indultino ed espulsione...

 

Indultino ed espulsione del detenuto straniero

di Mario Pavone (Avvocato)

 

Premessa

L’espulsione amministrativa dello straniero

L’espulsione da parte dell’Autorità Giudiziaria

L’espulsione come misura di sicurezza

L’espulsione come sanzione sostitutiva della pena

L’espulsione come misura alternativa alla detenzione

Problemi derivanti dall’applicazione delle misure

La popolazione carceraria straniera

La finalità rieducativa della pena anche per il cittadino straniero

Premessa

 

La Legge 01.08.2003 n. 207 c.d. "indultino", entrato di recente in vigore dopo una lunga quanto faticosa approvazione da parte del Parlamento, e che è destinata a regolare la materia della Sospensione condizionata della esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni, ha introdotto, tra le varie disposizioni, l’art. 3 (stranieri), norma che prescrive espressamente al comma 1 che "le disposizioni della presente legge non si applicano nei confronti dello straniero che si trova in talune delle situazioni indicate nell’art. 13, comma 2 del TU della disposizioni concernenti la disciplina della immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al D.Lgs 25.07.1998 n. 286". La norma, dunque, rinvia all’art. 13, comma 2 del TU il quale recita testualmente "L’espulsione è disposta dal Prefetto quando lo straniero:

  1. è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto ai sensi dell’art. 10;

  2. si è trattenuto nel territorio dello Stato senza avere richiesto il permesso di soggiorno prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato ovvero è scaduto da più di 60 giorni e non è stato chiesto il rinnovo;

  3. appartiene a taluna delle categorie indicate nell’art. 1 della Legge 1423/1956 come sostituito dall’art. 2 della L. 03.08.1988 n. 327 o nell’art. 1 della Legge 575/1965, come sostituito dall’art. 13 della Legge 646/1982.

La norma, pertanto, pure inserita nell’ambito di benefici premiali derivanti dalla detenzione subita da un condannato che ha scontato la metà della pena detentiva, fatta eccezione per i gravi reati indicati dal comma 3 dell’art. 1, di fatto escluderebbe il detenuto straniero dal beneficio laddove lo stesso rientri nelle categorie indicate dal comma 2, lettera c) del TU, dovendosi escludere ogni altra logica interpretazione del dettato normativo, atteso l’esplicito richiamo operato dal Legislatore dell’art. 13 che riguarda la espulsione in via amministrativa da parte del Prefetto (anche nei casi di cui alla citata lettera c) e non già le altre ipotesi di espulsione demandate all’A.G. a seguito di condanna (art. 15) o come sanzione sostitutiva alla detenzione (art. 16).

L’espulsione amministrativa dello straniero

 

Come innanzi ricordato, il secondo comma dell’articolo 13 T.U. individua nelle lettere a), b) e c) i presupposti per l’adozione del decreto di espulsione. Il primo presupposto riguarda l’ipotesi che uno straniero sia entrato nel territorio nazionale sottraendosi ai controlli di frontiera e non sia stato respinto ai sensi dell’articolo 10 T.U.

Il secondo presupposto è costituito dalla mancata richiesta del permesso di soggiorno entro otto giorni lavorativi, nonché dalla permanenza sul territorio nazionale quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato o è scaduto da oltre sessanta giorni.

Il terzo presupposto concerne l’appartenenza ad una delle categorie di persone contro le quali può essere richiesta l’applicazione di misure di prevenzione.

Si tratta di ipotesi di sospetto molto generiche che devono essere corroborate da elementi di riscontro gravi precisi e concordanti e cioè devono riguardare:

 

coloro per i quali debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi;

coloro per i quali per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto che vivono abitualmente, anche in parte, con proventi di attività delittuose.

 

Può essere espulso lo straniero che sia indiziato di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre organizzazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

In due casi di espulsione è ancora prevista l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro quindici giorni:

a) per lo straniero il cui permesso di soggiorno è scaduto da oltre sessanta giorni e non è stato richiesto il rinnovo, e sempre che non sussista pericolo che lo straniero si sottragga all’esecuzione dell’intimazione, nel qual caso è disposto l’accompagnamento;

b) quando non è possibile trattenere lo straniero nei centri di permanenza, ovvero siano trascorsi i termini di permanenza senza che sia stata eseguita l’espulsione o il respingimento.

Laddove si tratti di persona sottoposta a procedimento penale occorre il nulla osta del Giudice competente (in relazione allo stato del procedimento) che è rilasciato salvo inderogabili esigenze processuali.

Costituiscono impedimenti al rilascio del nulla osta:

 

la sussistenza di inderogabili esigenze processuali;

lo stato di custodia cautelare dello straniero;

il procedimento penale è relativo a reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del cpp e a reati previsti dall’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione.

 

Lo straniero espulso è rinviato allo Stato di appartenenza ovvero di provenienza e non può rientrare in Italia senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’Interno.

Il divieto di rientro operi a per un periodo di dieci anni (in luogo dei cinque anni in precedenza previsti) a decorrere dalla data di esecuzione dell’espulsione. Nel decreto di espulsione può essere previsto un termine più breve, in ogni caso non inferiore a cinque anni, tenuto conto della complessiva condotta tenuta dall’interessato nel periodo di permanenza in Italia.

L’espulsione da parte dell’Autorità Giudiziaria

 

 

Trascurando i problemi connessi all’accertamento della pericolosità sociale dello straniero ai fini dell’espulsione in via amministrativa, la nuova Legge sull’immigrazione contempla altri provvedimenti di espulsione del cittadino straniero:

 

quelli emanati ad iniziativa del Ministro degli Interni,rimasti invariati nella nuova stesura legislativa,cui è attribuito il potere di disporre la espulsione per motivi di ordine e sicurezza dello Stato che,tuttavia, per la delicatezza delle questioni che sottendono possono essere motivati anche "per relationem", come ha di recente stabilito il Consiglio di Stato.

quelli emanati a titolo di misura di sicurezza (art. 15) a seguito di condanna dello straniero per uno dei delitti di cui agli artt. 380 e 381 CPP ed in presenza di accertata pericolosità sociale del medesimo;

quelli emanati ad iniziativa dell’Autorità Giudiziaria (art. 16) a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione.

L’espulsione come misura di sicurezza

 

Fuori dei casi previsti dal codice penale, il Giudice può ordinare l'espulsione dello straniero che sia condannato per taluno dei delitti previsti dagli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale (delitti che consentono l’arresto in flagranza), sempre che risulti socialmente pericoloso.

Della emissione del provvedimento di custodia cautelare o della definitiva sentenza di condanna ad una pena detentiva nei confronti di uno straniero proveniente da Paesi extracomunitari viene data tempestiva comunicazione al Questore ed alla competente autorità consolare al fine di avviare la procedura di identificazione dello straniero e consentire, in presenza dei requisiti di legge, l’esecuzione della espulsione subito dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o di detenzione (art. 15, comma 1 bis, D.lgs. 286/98, come modificato dalla L. 189/02).

L’espulsione come sanzione sostitutiva della pena

 

L’espulsione come sanzione sostitutiva può essere disposta dal giudice penale, che sostituisce la pena detentiva con l'espulsione, accompagnata dal divieto di rientro per un periodo non inferiore a 5 anni. La misura è immediata e viene adottata anche con la sentenza non definitiva.

È disposta in occasione di una condanna per un reato non colposo oppure in occasione di una sentenza patteggiata, quando il giudice ritiene di applicare una pena detentiva entro il limite di due anni e non ci sono le condizioni per applicare la sospensione cautelare della pena.

La sanzione sostitutiva della pena non può essere disposta se non è possibile eseguire immediatamente l'espulsione (per prestazioni di soccorso allo straniero, accertamenti supplementari sulla sua identità o nazionalità, mancanza dei documenti per il viaggio o mancanza di un vettore o altro mezzo di trasporto idoneo).

L’espulsione come misura alternativa alla detenzione

 

La Legge Bossi/Fini stabilisce che l’espulsione come sanzione alternativa venga disposta nei confronti dello straniero, identificato e detenuto, che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2 (espulsione amministrativa) che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni.

Essa non può essere disposta nei casi in cui la condanna riguarda uno o più delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale (si tratta di delitti di particolare gravità), ovvero i delitti previsti dal Testo Unico. Competente a disporre l’espulsione è il magistrato di sorveglianza, che decide con decreto motivato, senza formalità, acquisite le informazioni degli organi di polizia sull’identità e sulla nazionalità dello straniero.

Il decreto di espulsione è comunicato allo straniero che, entro il termine di dieci giorni, può proporre opposizione dinanzi al tribunale di sorveglianza. Il tribunale decide nel termine di venti giorni. L’esecuzione del decreto di espulsione è sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o della decisione del tribunale di sorveglianza e, comunque, lo stato di detenzione permane fino a quando non siano stati acquisiti i necessari documenti di viaggio.

L’espulsione è eseguita dal Questore competente per il luogo di detenzione dello straniero con la modalità dell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica.

In conseguenza va sottolineato come il neo art. 3 della Legge sul c.d. indultino risulta introdotto in aperto contrasto con la norma dell’art. 16 del TU generando una evidente disparità di trattamento che non avrebbe ragion d’essere tanto meno con riferimento alla ratio legislativa della Legge Bossi-Fini di deflazionare il pianeta carcere consentendo la espulsione del detenuto straniero come misura alternativa alla detenzione e nei limiti dei due anni di pena anche residua da scontare. In ogni caso la norma contrasterebbe, con l’art. 3 della Costituzione introducendo una disparità di trattamento con altri detenuti non cittadini stranieri condannati per il medesimo reato.

Problemi derivanti dall’applicazione delle misure

 

Prescindendo dai citati rilievi in relazione alla recente Legge premiale approvata dal Parlamento, va sottolineato come i Tribunali di sorveglianza si trovino ormai ad affrontare numerosi reclami avverso i provvedimenti di espulsione dei detenuti stranieri. Come evidenziato nei primi commenti ai provvedimenti emessi dai Tribunali di Sorveglianza i principali motivi di doglianza sollevati dai ricorrenti stranieri avverso i provvedimenti di espulsione concernono:

 

l’ammissibilità dei provvedimenti di reclamo, ancorché sforniti della indicazione dei motivi. Si perviene a tale conclusione escludendo l’applicazione al procedimento in esame dell’art. 581 c.p.p., alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata posto che in caso contrario verrebbe leso il diritto di difesa, per la difficoltà del condannato straniero di articolare tali motivi nello stretto margine di tempo imposto per la proposizione del reclamo;

la legittimità costituzionale della normativa sulla espulsione sebbene la questione venga ritenuta manifestamente infondata, sulla base di un sintetico richiamo ai precedenti della Corte Costituzionale in materia;

l’accertamento della condizione ostativa del rischio di persecuzione nel Paese di provenienza.

 

Le decisioni, da un lato, escluderebbero la sufficienza della mera dichiarazione dell’interessato e, dall’altro, la configurabilità della necessità di accertamenti ulteriori da parte del Tribunale di Sorveglianza.

Altri problemi relativi alla esecuzione dei provvedimenti di espulsione sono sorti in relazione alla necessità di procedere alla identificazione del detenuto ai fini dell’espulsione.

In proposito il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha di recente emanato una Circolare, diretta ai Direttori degli Istituti penitenziari con la quale ha evidenziato che il tempo concesso dalla vigente normativa per il trattenimento dello straniero nei Centri di permanenza temporanea (20 giorni prorogabili di ulteriori 10 giorni) è spesso insufficiente per addivenire alla sua identificazione ed ottenere i documenti di viaggio necessari per il rimpatrio dei detenuti e degli internati extracomunitari destinatari di provvedimento di espulsione dal territorio dello Stato e che l’attività di identificazione richiede lo scambio di una serie di notizie con le autorità consolari del Paese straniero di sedicente appartenenza, la presa di contatto tra dette autorità ed il detenuto, l’effettuazione delle necessarie verifiche, la materiale predisposizione della documentazione di espatrio.

Secondo il Dipartimento tale situazione deriverebbe dalla comunicazione "a posteriori" delle scarcerazioni alle autorità di pubblica sicurezza ossia al momento delle dimissioni dagli istituti penitenziari. Risulterebbe inoltre all’Amministrazione che gran parte delle persone straniere detenute o internate forniscano, al momento dell’arresto o successivamente – generalità false e/plurime. Ne deriverebbe la oggettiva difficoltà di pervenire in tempi rapidi all’identificazione degli stranieri detenuti ai fini della espulsione.

In conseguenza la Direzione ha disposto di comunicare alle Questure i dati forniti dai cittadini stranieri al momento dell’ingresso negli istituti penitenziari dei detenuti e degli internati extracomunitari, al fine di avviare per tempo l’attività identificativa diretta all’espulsione dello straniero, stabilendo che:

 

quando faccia ingresso in carcere uno straniero extracomunitario di identità non certa (perché privo di documenti, o con documenti apparentemente contraffatti o alterati), l’istituto comunichi a mezzo fax alla questura competente per territorio: la cittadinanza sedicente; le generalità sedicenti; la tipologia del reato; il fine pena la posizione giuridica (in attesa di primo giudizio, appellante, ricorrente, definitivo)

all’atto della dimissione dall’istituto penitenziario per trasferimento, la direzione comunichi il nuovo luogo di detenzione alla questura locale ed a quella del nuovo luogo di detenzione.

i direttori degli istituti agevoleranno anche ai sensi dell’art. 33 reg. es, i contatti con le autorità consolari atteso che mentre il console ha diritto di richiedere di colloquiare con il detenuto, quest’ultimo non può essere obbligato a conferire con lo stesso console.

il detenuto può richiedere che al colloquio sia ammesso il proprio difensore, in ragione delle implicazioni fra procedimenti penali e il procedimento amministrativo di diritto italiano, consolare, internazionale cui potrà seguire l’incontro con il console medesimo.

La popolazione carceraria straniera

 

Risulta ormai evidente l’aumento esponenziale degli stranieri in carcere: dal 1990 il loro numero, più che raddoppiato in quattro anni, triplica nel 1998. Alla fine del 2000 potrebbe quadruplicare. L’anda-mento crescente, infatti, prosegue e, nelle ultime rilevazioni, si è raggiunta la cifra di 15.649 unità (14.763 uomini e 886 donne).

Rispetto alla popolazione totale la quota cresce costantemente: alla fine del 1998 più di una persona su quattro ha cittadinanza straniera. Attualmente la percentuale di detenuti stranieri sul totale delle presenze sfiora il 30%, ma proporzionalmente ancora maggiore è la quota dei detenuti stranieri entrati dalla libertà, cioè il 33% (26.587 su 81.016 nel 1999).

Osservando il trend si può notare che il fenomeno dei detenuti stranieri entrati dalla libertà è cresciuto dell’84.7% dal 1992, mentre il corrispettivo dato relativo agli italiani è sceso del 23.6%. Secondo la provenienza geografica, il 51.3% è di origine africana, il 35.1 europea, il 9% viene dal continente americano e il 4.2 dall’Asia. Inoltre, il 97.5% è extracomunitario (dati al 31.10.2000).

È inoltre interessante rilevare come esistano sostanziali differenze tra la tipologia dei reati attribuiti a detenuti italiani rispetto a quelli ascritti a detenuti stranieri. A fronte di una sostanziale equivalenza dei dati relativi ai delitti contro la persona, si può notare come la percentuale di reati attribuiti agli stranieri in materia di stupefacenti sia superiore al doppio di quella relativa ai medesimi reati attribuiti a detenuti italiani, mentre quella relativa ai delitti contro l’ordine pubblico sia pari a circa un quarto di quella relativa ai reati simili ascritti agli italiani.

Appare significativo anche il rilevante coinvolgimento dei detenuti stranieri nei delitti legati alla prostituzione. Una recente analisi condotta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha permesso di accertare che le cause del costante aumento della popolazione penitenziaria straniera, pur variamente interpretabili a seconda dell’obiettivo dell’interprete, innegabilmente conducono tutte alle condizioni di estremo disagio sociale di coloro che entrano in Italia come clandestini e che tali sono spesso costretti a rimanere non per propria volontà ma per oggettive difficoltà di un corretto inserimento nel contesto sociale.

Ancora più difficile è l’inserimento dello straniero nel contesto sociale detentivo: le difficoltà di comunicazione dovute alla lingua ed alla diversità di cultura, pongono seri limiti al trattamento penitenziario; la certezza dell’espulsione a fine pena non facilita la collaborazione del detenuto.

La mancanza di riferimenti positivi presso la società esterna (alloggio, famiglia, lavoro, legami affettivi significativi) rende difficile l’accesso ai benefici penitenziari, e ciò contribuisce in misura determinante all’elevato numero di presenze in carcere di detenuti stranieri.

Si deve anche considerare che in alcune determinate realtà locali la presenza degli stranieri è rispettivamente insignificante (istituti del Meridione) ovvero decisamente prevalente rispetto agli italiani (istituti delle città metropolitane), di tal modo che la percentuale delle presenze di detenuti stranieri rispetto a quelli italiani subisce delle variazioni di notevole portata a seconda della Regione o dell’istituto penitenziario preso in considerazione.

A titolo esemplificativo, si passa da una percentuale di stranieri rispetto al totale della popolazione detenuta pari a circa l’8% della Campania o al 10% della Sicilia, al 45% della Liguria ed al 48% del Veneto; considerando i singoli istituti penitenziari metropolitani, si passa da un minimo del 6% del carcere di Palermo "Ucciardone", all’oltre 50% di Roma "Regina Coeli" e di Milano "San Vittore".

Differenze altrettanto significative sono rilevabili in ordine ai flussi di ingresso dalla libertà della popolazione detenuta straniera negli istituti penitenziari. In tal senso si evidenziano rilevanti differenze tra istituti di grande affollamento, quali Napoli "Poggioreale" (che presenta una percentuale di ingresso di detenuti stranieri pari al 12%), Roma "Rebibbia" (25%) e Milano "San Vittore" (56%).

Ne deriva che non può esservi una soluzione unitaria al problema dei detenuti stranieri, ma occorre applicare soluzioni differenti a seconda della diversa incidenza del numero di persone straniere sulla popolazione detenuta complessiva residente in ciascuna struttura penitenziaria.

I punti che maggiormente possono qualificare l’intervento delle autorità penitenziarie in relazione alla problematica in esame sono relativi:

 

all’ingresso in carcere degli stranieri;

all’inserimento nel contesto penitenziario;

all’accesso alle opportunità trattamentali.

 

In ordine al primo punto, appare fondamentale fornire al nuovo giunto straniero una completa e corretta informazione sulle questioni di maggiore importanza pratica per il detenuto stesso. In tal senso, l’Amministrazione penitenziaria sta predisponendo, nelle lingue parlate dalla maggior parte dei detenuti stranieri, tutta la modulistica che deve essere compilata dal detenuto al momento di far ingresso in istituto; altrettanto avviene per una sorta di vademecum contenente brevi notizie sul complesso di diritti e di doveri spettanti al detenuto.

Quanto ai profili legati all’inserimento del detenuto nel contesto carcerario, un’importante innovazione è contenuta nel nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, approvato con Dpr 230/2000 il quale all’art. 35, nel sottolineare che nell’esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti di persone straniere si deve tenere conto delle differenze linguistiche e culturali, si prevede espressamente l’obbligo di favorire l’intervento di operatori di mediazione culturale, mediante contatti diretti o attraverso convenzioni con Enti locali o con organizzazioni di volontariato. Particolarmente interessante sembra poi la prospettiva di formare detenuti stranieri come mediatori culturali all’interno del mondo penitenziario.

Con riguardo al terzo punto, l’Amministrazione penitenziaria è impegnata con vari progetti diffusi su tutto il territorio nazionale a svolgere un’azione di orientamento e informazione per i detenuti immigrati, particolarmente mirata all’esercizio della tutela giuridica ed all’accesso ai percorsi alternativi alla detenzione, aiutandoli nella ricerca di condizioni idonee (lavoro, riferimento domiciliare, documentazione) per essere ammessi alla fruizione di permessi e misure alternative alla detenzione.

A tale proposito, va tuttavia operata una precisazione. Non c’è dubbio che a parità di condizioni oggettive (precedenti criminali, gravità del reato ed entità della pena ancora da scontare) i detenuti italiani siano ammessi a fruire di benefici penitenziari (lavoro all’esterno, permessi, misure alternative) con frequenza di gran lunga maggiore rispetto a quelli stranieri. Ciò in quanto questi ultimi scontano la mancanza di riferimenti positivi sul territorio nazionale (la famiglia, un lavoro, un domicilio stabile) e sono altresì sottoposti alla misura dell’espulsione dal territorio dello Stato.

Ne deriva che da un lato mancano i presupposti per essere ammessi a detti benefici, e dall’altro essi si rivelano del tutto inutili se all’esecuzione della pena deve necessariamente fare seguito l’espulsione. Non essendovi, pertanto, spazi rilevanti effettivamente praticabili al fine del reinserimento nella società civile, può determinarsi un affievolimento dell’atteggiamento collaborativo del detenuto straniero irregolare, che, contrariamente a quello italiano, sa che anche se si impegnerà nell’attività di trattamento ciò non inciderà sull’atto conclusivo della propria vicenda penitenziaria, cui farà comunque seguito l’espulsione.

Infine,va sottolineato l’annoso problema in base al quale la possibilità di accedere a misure cautelari domiciliari (per gli imputati) o a misure alternative alla detenzione (quali l’affidamento in prova o la detenzione domiciliare per i condannati) è concretamente legata alla disponibilità delle strutture alternative al carcere ed all’adozione del provvedimento giudiziario di scarcerazione.

La finalità rieducativa della pena anche per il cittadino straniero

 

Come innanzi sottolineato, una questione di grande rilevanza è ritenuta unanimemente, anche dallo steso DAP, quella relativa al reinserimento sociale del detenuto straniero. Si sostiene in Dottrina che la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 comma 3 Cost. normalmente viene perseguita attraverso il c.d. "trattamento" del detenuto in un Istituto Penitenziario, ma il legislatore ha previsto fin dal 1975, con la legge n. 354 (che disciplina l’Ordinamento Penitenziario), la possibilità che, pur essendo condannato ad una pena detentiva, il detenuto possa trascorrere un periodo di tempo al di fuori delle mura carcerarie.

Si lamenta ,inoltre, da più parti che con la Legge Bossi-Fini per i detenuti stranieri sarebbe venuta meno qualsiasi possibilità di reinserimento sociale, anche per coloro che avevano un permesso di soggiorno prima dell’arresto. Infatti, per chi deve scontare una pena inferiore ai due anni, è prevista l’espulsione (art. 16, comma 5, T.U.), mentre per chi ha una pena maggiore sussisterebbe comunque il divieto di rinnovo dell’eventuale permesso di soggiorno posseduto.

In definitiva l’espulsione opererebbe comunque sia quando sia scontata una pena superiore, ai due anni, oppure al termine della carcerazione, per chi non è identificato o è condannato per reati più gravi. Per contro, si sostiene che i detenuti stranieri possono accedere alle misure alternative della detenzione, al pari degli italiani: possono lavorare in semilibertà, possono essere accolti in una comunità di recupero per tossicodipendenti.

In definitiva i detenuti stranieri possono ancora avviare dei percorsi di risocializzazione, almeno fino a che la loro pena è superiore alla fatidica soglia dei due anni sebbene l’espulsione arrivi a demolire quello che loro (e, con loro, gli operatori penitenziari e sociali) hanno faticosamente costruito. Di fronte a questo destino apparentemente ineluttabile ci sarebbe solo silenzio e rassegnazione, anche da parte delle Associazioni che si battono per i diritti civili e di chi dà lavoro agli stranieri semiliberi sebbene una svolta potrebbe venire dalla rimessone alla Corte Costituzionale gli atti riguardanti l’espulsione di un detenuto marocchino, da parte dal Magistrato di Sorveglianza di Alessandria che ha rilevato l’inconciliabilità tra il fine rieducativo della pena e l’espulsione (v. ordinanza in calce).

Altre doglianze vengono dall’esame di alcuni recenti provvedimenti emanati da autorità giudiziarie e di polizia locali, riguardanti persone detenute straniere prive di permesso di soggiorno alle quali non verrebbe consentito di intraprendere o proseguire un’attività lavorativa nell’ambito di misure alternative alla detenzione.

Sul punto si lamenta da più parti come la Legge 189/2002 non sia entrata nel merito dell’applicabilità delle misure alternative alla detenzione nei confronti dei detenuti stranieri privi di autorizzazione al soggiorno ovvero titolari di soggiorno scaduto, revocato etc… atteso l’art. 14 avrebbe integrato l’art. 15 del D.Lgs 286/98 esclusivamente nella parte riguardante la comunicazione al Questore e alla competente autorità consolare dell’emissione del provvedimento di custodia cautelare o della sentenza di condanna definitiva nei confronti dello straniero, al fine di procedere alla sua identificazione in previsione dell’esecuzione della misura dell’espulsione seguente alla cessazione del periodo di custodia cautelare o di esecuzione della pena.

Inoltre l’art. 15 della Legge 189/2002, sostituendo l’art. 16 del D.Lgs 286/98, avrebbe disposto al comma 5 l’obbligo di espulsione atteso che "…nei confronti dello straniero, identificato, detenuto che si trova in taluna delle situazioni indicate nell’art. 13 comma 2 che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni, è disposta l’espulsione. Essa non può essere disposta nei casi in cui la condanna riguarda uno o più delitti previsti dall’art. 407 comma 2 lettera a), del CPP, ovvero i delitti previsti dal presente Testo Unico".

Il comma 6 del citato articolo prevede altresì che: "…competente a disporre l’espulsione di cui al comma 5 è il magistrato di sorveglianza, che decide con decreto motivato, senza formalità, acquisite le informazioni degli organi di polizia sull’identità e sulla nazionalità dello straniero. Il decreto di espulsione è comunicato allo straniero che, entro il termine di dieci giorni, può proporre opposizione dinanzi al tribunale di sorveglianza. Il tribunale decide nel termine di venti giorni".

In base a tali disposizioni si ritiene che l’esecuzione dell’espulsione rimarrebbe sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o della decisione del Tribunale di sorveglianza. In ogni caso lo stato di detenzione del detenuto straniero permarrebbe fino a quando non siano acquisiti i necessari documenti di viaggio per l’esecuzione dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera (comma 7, art. 16 D.Lgs 286/98).

In definitiva, la nuova Legge non avrebbe risolto, quindi, il problema della concedibilità e applicabilità delle misure alternative alla detenzione a cittadini stranieri privi del permesso di soggiorno ovvero titolari di titolo di soggiorno scaduto o revocato, non si rileverebbero quindi elementi di novità. Per contro, si rammenta quanto previsto in proposito dalla Circolare del Ministero del Lavoro n. 27/1993 con la quale è stato stabilito che i cittadini stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno "… sono tassativamente obbligati in forza di una decisione giurisdizionale, a permanere sul territorio italiano e a svolgere attività lavorativa in alternativa alla pena detentiva, in forza di una ordinanza del Tribunale di Sorveglianza o di un provvedimento di ammissione al lavoro esterno…".

In basa a tale principio – condiviso all’epoca dal Ministero di Grazia e Giustizia – la circolare 27/93 aveva pure stabilito il rilascio da parte degli UPLMO (oggi DPL) di "un apposito atto di avviamento al lavoro… prescindendo dalla iscrizione nelle liste di collocamento, dal possesso del permesso di soggiorno e dall’accertamento di indisponibilità". Il predetto atto doveva avere validità limitata al tipo di attività lavorativa e al periodo indicati nel provvedimento senza costituire "titolo valido per la iscrizione nelle liste di collocamento alla cessazione del rapporto di lavoro per il quale è stato concesso…".

La medesima circolare aveva introdotto un’analoga procedura per i minorenni stranieri privi di permesso di soggiorno per i quali "…a seguito della sospensione del processo e messa alla prova – è previsto l’avviamento al lavoro nel quadro di attività di osservazione, trattamento e sostegno ai sensi dell’art. 28 del DPR 48/98…".

Dopo l’entrata in vigore del DLgs 286/98, il Ministero del Lavoro con nota del 11.01.2001 non rilevava elementi ostativi al persistere dell’applicabilità dell’apposita procedura di avviamento al lavoro delineata nella circolare n° 27/93.

Con successiva Circolare del Ministero dell’Interno del Dicembre 2000 venne affermato che "riguardo alla posizione di soggiorno dei cittadini stranieri detenuti ammessi alla misure alternative previste dalla legge, quali la possibilità di svolgere attività lavorativa all’esterno del carcere si rappresenta che la normativa vigente non prevede il rilascio del permesso di soggiorno ad hoc per detti soggetti. In queste circostanze non si reputa possibile rilasciare un permesso di soggiorno per motivi di giustizia né ad altro titolo, ben potendo l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza costituire ex se un’autorizzazione a permanere nel territorio nazionale…".

Tale Circolare precisava, tuttavia, che "…la possibilità per gli stranieri di cui trattasi, di svolgere attività di lavoro all’esterno del carcere è stata disciplinata dalla circolare n° 27/93 del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale con la quale è stato chiarito che è sufficiente un apposito atto di avviamento al lavoro rilasciato dagli Uffici provinciali del lavoro, di validità limitata al tipo di attività lavorativa e a quel periodo indicato nel provvedimento giudiziario di ammissione al beneficio de quo…".

Tutto ciò veniva ribadito dal Ministero anche a fronte di quesiti sottoposti da alcune questure al Ministero dell’Interno rispetto alla possibilità di poter concedere o meno la conversione del motivo permesso di soggiorno rilasciato per motivi di giustizia - eventualmente ottenuto durante lo svolgimento di una misura alternativa alla detenzione - a motivo di lavoro subordinato al termine della misura alternativa medesima.

La Legge 189/2002 all’art. 18, riscrivendo l’art. 22 del D.Lgs 286/98 ha affermato, al contrario, che "… il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno… ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge il rinnovo, revocato o annullato, è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato…" (comma 12).

In conseguenza,si ritiene che tale disposizione contrasti con quanto stabilito dal Ministero della Giustizia secondo cui "… il divieto di occupare alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno… non riguarda i detenuti extracomunitari che vengono ammessi al lavoro all’interno del carcere. Ciò in considerazione del fatto che il lavoro penitenziario presenta natura e caratteristiche proprie rispetto a quello ordinario…".

E ancora: "…per quanto concerne invece, il collocamento dei detenuti extracomunitari all’esterno del carcere ed alle dipendenze di terzi il problema della necessità del permesso di soggiorno è già stato affrontato nel 1993 (circolare Ministero Lavoro 27/93)… la ratio di tale disposizione è da individuarsi nel fatto che i detenuti extracomunitari sono comunque obbligati a permanere sul territorio italiano in virtù di un provvedimento giurisdizionale… il problema relativo al possesso del permesso di soggiorno può considerarsi superato in quanto le disposizioni contenute nella circolare suddetta (circolare Ministero del Lavoro n° 27/93) appaiono tuttora applicabili, visto che l’art. 22 del T.U. 286/98 non sembra possedere carattere innovativo…".

Non va trascurata,infine, una recente Circolare del Ministero dell’Interno del 4.09.2001(18) che ha stabilito che: "…l’art. 5 comma 4 del Dlgs 286/98 detta le condizioni a cui deve essere sottoposto il rinnovo del permesso di soggiorno, che riguardano i motivi e la sussistenza dei requisiti necessari al rilascio e la cui verifica deve essere effettuata dall’Autorità di P.S. … nel caso di richiesta volta ad ottenere il rinnovo presentata da un cittadino extracomunitario in stato di detenzione, si deve precisare che l’istanza non può essere accolta, atteso che la verifica della sussistenza dei requisiti necessari, caratterizzanti la tipologia del permesso invocata, è obiettivamente superata dal provvedimento dell’A.G. in forza del quale l’interessato è detenuto. In sostanza, si può ben sostenere che tale provvedimento contiene in se stesso la caratteristica di autorizzazione al soggiorno, rendendo vano un ulteriore intervento, peraltro di natura amministrativa, dell’autorità di P.S."

Anche alla luce delle citate Circolari,non vi sarebbe alcun dubbio che la legge del 1975 estenda l’applicabilità delle norme sul trattamento penitenziario ai detenuti stranieri infatti, laddove essa afferma che "il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose". Nondimeno i detenuti extracomunitari non riescono ad accedere ai benefici delle misure alternative. Il problema non è irrisorio dato che, come si è visto, gran parte della popolazione carceraria italiana è costituita da extracomunitari.

Si lamenta da parte di alcuni commentatori che si guarda, ad es., all’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 O.P) ordinario e quello previsto "in casi particolari" per i detenuti tossicodipendenti o alcooldipendenti (art. 47 bis O.P.), l’orientamento dei Tribunali di Sorveglianza è per la concessione della misura solo in presenza di determinate condizioni: ambiente familiare idoneo, attività lavorativa che gli permetta di sostenersi autonomamente fuori dal carcere, un alloggio, etc. al fine di creare attorno al detenuto una rete di relazioni che siano di sostegno nel percorso di risocializzazione. Occorre tuttavia sottolineare che gli extracomunitari, sono, nella maggior parte dei casi, privi di quei punti di riferimento familiare, ambientale, sociale e lavorativo che sono generalmente richiesti dall’autorità giudiziaria.

Come innanzi evidenziato anche dal DAP e nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del Tribunale di Sorveglianza di Alessandria, alla privazione della libertà, comune a ciascun detenuto, si aggiungono per il cittadino straniero altri stati oggettivi e soggettivi di ulteriore disagio quali la situazione di immigrato, l’assenza di un nucleo familiare, la mancanza del permesso di soggiorno e quindi l’impossibilità di trovare un lavoro e un alloggio all’esterno etc. È evidente allora, l’iniquità che si abbatte fatalmente su questa categoria di reclusi.

Nel caso di stranieri tossicodipendenti che sono in condizioni di poter usufruire dell’affidamento in prova "in casi particolari", gli ostacoli alla fruizione del beneficio sono anche altri: i programmi socio-sanitari che i detenuti tossicodipendenti devono seguire richiedono un loro ricovero all’interno di apposite comunità terapeutiche

Ma il detenuto straniero nel 90% dei casi non ha (o lo perde con la commissione del reato) il permesso di soggiorno, quindi, è privo dell’assistenza sanitaria e non ha diritto a nessuna prestazione erogata dal servizio sanitario nazionale, nemmeno a quelle che offre una comunità di recupero per tossicodipendenti. Dunque, anche la previsione di forme trattamentali preferenziali nei confronti dei detenuti tossicodipendenti si risolve in una nuova forma di discriminazione per questi ultimi che finiscono per scontare interamente la loro pena negli Istituti penitenziari. Con riferimento alla misura della semilibertà le considerazioni da fare sono analoghe.

Interessante è in proposito una sentenza della Corte di Cassazione che, nel 1982, ha posto fine ad una situazione di discriminazione, che si realizzava nei confronti dei detenuti extracomunitari accogliendo il ricorso di un difensore che lamentava che al proprio cliente era stato negata l’ammissione alla semilibertà dal Tribunale di Sorveglianza di Milano sul rilievo che al detenuto era stata ordinata l’espulsione dal territorio nazionale una volta espiata la pena.

La Corte ha stabilito una volta per tutte che l’espulsione non esclude la possibilità di espiare la pena in semilibertà contrariamente all’orientamento dei Tribunali di Sorveglianza. Altra difficoltà per i detenuti extracomunitari discende dal fatto che i Tribunali di Sorveglianza considerano l’attività lavorativa una "conditio sine qua non" per la concessione della misura. Ciò, nonostante l’art. 48 O.P. la consideri solo come una delle possibili condizioni risocializzanti assieme alle "attività istruttive o comunque utili al reinserimento" (art. 48 comma 1).

Oltre alla difficoltà di trovare un lavoro all’esterno, i detenuti extracomunitari fino a qualche tempo fa (così come in caso di affidamento in prova al servizio sociale) avevano anche quello della mancanza di permesso di soggiorno che non permetteva loro di lavorare. A tal proposito,come innanzi ricordato, il Ministero del Lavoro ha emanato la Circolare 27/1993 con la quale è stata finalmente stabilita la possibilità che i detenuti extracomunitari pur essendo privi di permesso di soggiorno possano ugualmente lavorare qualora siano ammessi al regime di semilibertà e all’affidamento in prova al servizio sociale.

Infine, per quel che concerne la detenzione domiciliare, è facile immaginare quale sia il requisito essenziale per esserne ammessi: dimostrare di avere una dimora dove scontare il resto della detenzione. L’art. 47 ter comma 5 O.P., peraltro, solleva l’amministrazione penitenziaria da ogni obbligo circa il mantenimento, la cura e l’assistenza medica del condannato che si trova in stato di detenzione domiciliare. Ciò significa che una volta fuori il detenuto deve essere in grado di cavarsela da solo altrimenti la misura non potrà essere concessa.

Ancora una volta è la mancanza di permesso di soggiorno da parte dei detenuti extracomunitari a rappresentare un grosso limite. In alcune città del centro-nord il problema è stato risolto in singoli casi dalle associazioni di volontariato che hanno utilizzato i "Centri di Prima Accoglienza" predisposti dagli enti locali come punti di riferimento sia per la detenzione domiciliare sia per le altre misure. Ma si tratta di eccezioni che non giustificano l’assenza in questi casi di una previsione legislativa che consenta al detenuto extracomunitario di ottenere un "permesso di soggiorno per motivi di giustizia" che gli consenta, al pari di tutti gli altri detenuti, di godere dei benefici che la legge consente. Alla luce di quanto è stato detto è facile rilevare che le misure alternative siano causa di disuguaglianza sociale nei confronti di coloro che rappresentano i soggetti più deboli delle popolazione detenuta: gli extracomunitari.

Sarebbe opportuno che il legislatore prevedesse che in questi casi particolari venga concesso un permesso di soggiorno per cure che darebbe diritto all’assistenza sanitaria nazionale ma sembra che neppure con la recente disciplina sull’immigrazione il problema sia stato affrontato e risolto.

 

Ostuni, settembre 2003

 

 

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