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Cpt: le gabbie della vergogna, di Nicoletta Dentico
Peace Link, 15 dicembre 2004
Scriviamo mentre si conclude, in nome dei trattati internazionali e dei principi, l’odissea dei 37 africani ricacciati nel Mediterraneo per 22 giorni a bordo della nave umanitaria tedesca Cap Anamur. Avanzata senza esito la richiesta di asilo in Germania, una volta in Italia sono stati sballottati tra un centro di permanenza temporanea ad Agrigento e un centro di accoglienza a Caltanissetta per poi finire a Ponte Galeria a Roma, sottoposti a un processo di identificazione senza esclusione di colpi, ispirato alla logica contabile del contrasto agli sbarchi, piuttosto che alla comprensione delle singole storie di fuga, e alle loro ragioni. Con una tempistica farsesca, nell’impotenza dei rispettivi legali e delle associazioni mobilitate contro la frettolosa liquidazione delle richieste dei naufraghi della Cap Anamur, la loro avventura si è consumata tra le disponibilità di accoglienza degli enti locali e il pugno di ferro a oltranza del Ministro dell’Interno Pisanu, dopo qualche tentativo di resistenza e un rimpatrio forzato collettivo, in barba alla pronuncia della Consulta che, con una sentenza del 15 luglio scorso, ha dichiarato illegittima questa forma coattiva di espulsione, prevista dalla legge Bossi-Fini. Intanto, con due anni di ritardo, si approvano i decreti attuativi della legge Bossi-Fini. E il disegno di legge sul diritto d’asilo, avallato all’unanimità in Commissione, attende di essere discusso in aula alla Camera.
Un’Europa inadeguata
Una storia feroce, in quel mare di nessuno dove è naufragato ancora una volta, per dirla con le parole dell’Osservatore Romano, il senso di civiltà e di umanità. Era avvenuto due anni prima al largo delle coste australiane con i 600 disperati in fuga dall’Afghanistan, a bordo della nave Tampa, e speravamo che la vergogna di quella vicenda (per la quale il premier conservatore Howard riuscì a rimontare i sondaggi elettorali, fino a vincere le elezioni) non avesse a ripetersi: invece ha fatto scuola. Per i complicati risvolti di diritto internazionale, il caso della Cap Anamur racconta con dichiarazioni parecchio imbarazzanti il disagio politico, sociale e organizzativo che l’accoglienza dei profughi comporta, e anche la grossolana incomprensione del fenomeno migratorio. Svela inoltre la inadeguatezza delle norme adottate sul piano europeo, come la Convenzione di Dublino, che affidano la gestione degli sbarchi esclusivamente alla nazione interessata, con un carico necessariamente più oneroso sui Paesi della fascia esterna. Infine, evoca con forza la necessità di guardare a una nuova politica di gestione dell’immigrazione, che sappia superare la pura logica di contenimento e di repressione della clandestinità, per permettere al mondo civilizzato di affrontare senza paure la sfida della accoglienza. Dobbiamo temere le migrazioni? Quale logica conduce la politica a cavalcare e alimentare il senso di minaccia e di rifiuto dell’opinione pubblica? Entrare nel nostro mondo è permesso alle merci più becere e inutili: perché la libera circolazione è invece vietata a esseri umani che tentano disperatamente di approdare a una speranza di vita migliore? E quale prezzo sta pagando la nostra società, in nome di questa sindrome della sicurezza? Quale deficit di diritto e di democrazia stiamo inconsapevolmente avallando, con sfumature più o meno umanitarie? Sullo specchio d’acqua al largo di Porto Empedocle, i naufraghi della Cap Anamur trascinati dall’ostinazione di un rifiuto, queste domande ce le hanno poste tutte con i loro sguardi impotenti e sospesi. Ma sono decine di migliaia, ogni anno, le storie di immigrazione che rimbalzano gli stessi interrogativi come sassi contro le pareti ruvide della nostra indifferenza.
Un diritto separato
Alcuni di questi sono veri e propri "non-luoghi", territori designati alla penombra più ostinata, sconosciuti all’opinione pubblica, recinti di appiglio giuridico incerto. Li abbiamo costruiti con muri altissimi e ben visibili intorno agli extra-comunitari detenuti senza causa di reato, li gestiamo con managerialità equivoca, e in ogni caso sono ormai organici al business dell’immigrazione: i centri di permanenza temporanea e assistenza (cpta). Istituiti in Italia nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, quindi in pieno governo di centro-sinistra, i cpta sono solo uno dei capitoli più controversi ed eloquenti della deriva nella gestione del fenomeno migratorio. Sono stati previsti per gli immigrati trovati in condizioni irregolari sul territorio italiano, e motivati dalla necessità di procedere ad accertamenti supplementari sull’identità e la nazionalità degli stranieri. Non sono prigioni, ma quasi. Non sono centri di accoglienza, ma quasi. I cpta hanno inaugurato un’inquietante precedente: la possibilità di limitare la libertà dell’individuo anche nel caso in cui non sussistano reati penali commessi. In pratica, si è venuto a creare un diritto separato per i cittadini extra-comunitari, in base al quale un cittadino immigrato può essere soggetto a custodia e privazione della libertà personale anche nel caso – puramente amministrativo – di non possedere un permesso di soggiorno. I centri di permanenza temporanea sono divenuti a tutti gli effetti luoghi di detenzione militarizzati, una terra di nessuno all’interno della quale i reclusi vagano da un muro all’altro, da un corridoio all’altro per sessanta lunghissimi giorni. Gabbie. Gabbie per uomini e donne giudicati colpevoli di aver varcato i confini per vedere come si sta in Europa, rei di non essere stati regolarizzati dai rispettivi datori di lavoro e di lavorare in nero, responsabili di aver perso la loro occupazione e di non averne trovata un’altra. Tutto finisce là dentro. La dignità, gli slogan, i mille dibattiti, forse anche i diritti e i doveri assommati in una "carta" che ne doveva in qualche modo umanizzare la quotidianità. I 60 giorni che la Bossi-Fini prevede per il soggiorno dei trattenuti nei cpta (raddoppiando i termini della normativa precedente) centellinano in una ritualità di alienanti attese quella provvisorietà dove tutto sembra permesso poiché temporaneo. Anche perché i cpta raccolgono i senza nome, gli invisibili, persone pronte a sopravvivere con qualunque mezzo, gente che si è fatta anni di galera assieme a uomini e donne dall’anima immacolata, schiavi delle raccolte stagionali di frutta e verdura e sfruttati ai distributori notturni di benzina, ragazze conficcate nella tratta stupro dopo stupro ed esseri umani in fuga dalla fame, dalle epidemie, dalla morte violenta che ha già corroso gran parte della loro famiglia. Clandestini.
Rompere l’omertà
Un agghiacciante riserbo oscura le informazioni su questi centri, la cui mappa risulta peraltro a geometria variabile: sappiamo che ne esistono 11 in Italia – Torino, Milano, Modena, Bologna, Roma, Restinco (Brindisi), S. Foca di Modugno (Lecce), Lamezia Terme, Trapani, Caltanissetta, Agrigento – oltre ai centri ibridi che funzionano come centri di identificazione dei richiedenti asilo, secondo la legge Bossi-Fini, ma che hanno caratteristiche pressoché identiche. Molte prefetture negano i dati statistici sul numero dei reclusi, la loro provenienza, le modalità del rilascio, e rimandano al Ministero dell’Interno che in genere rilascia dati molto frammentati e disomogenei – lo dice un rapporto della Corte dei Conti – e con estrema difficoltà. Non è dato accedere a questi centri se non ai parlamentari. E ai rappresentanti dell’ACNUR, che poco o nulla sfruttano questa possibilità. Gli enti gestori, ormai definitivamente cooptati alla logica detentivo-punitiva di questa fetta di umanità, in combutta con le forze di polizia non fanno entrare giornalisti, e da qualche tempo neppure i funzionari degli enti locali che ospitano questi luoghi della scomparsa. Medici Senza Frontiere (MSF), la prima organizzazione indipendente a poter entrare nei cpta per un’indagine completa sulla realtà umanitaria di questi centri, ha denunciato con toni fattuali ma inequivocabili le violazioni dei diritti umani e le inadempienze rilevate in un rapporto del gennaio 2004. Accusata di slealtà dal governo, da allora si è vista chiudere i battenti di Lampedusa – dove aveva operato esternamente dal luglio 2003 – e preclusa ogni visita ulteriore ai cpta. Non è reato l’immigrazione clandestina, e questa altro non è se non l’adattamento dell’immigrazione regolare alla progressiva chiusura delle frontiere, ovvero al disegno di de-localizzare la questione in Paesi a democrazia ridotta, dunque più compatibili con una gestione deterrente del problema. Eppure le pratiche amministrative illegittime si moltiplicano sotto i nostri occhi di cittadini inconsapevoli, e insieme un’applicazione sempre più rigida e arbitraria delle leggi, come è avvenuto anche nel caso Cap Anamur. Si autorizzano le espulsioni prima ancora dell’udienza di convalida davanti al giudice, si moltiplicano i trattenimenti per le stesse persone che vanno e vengono dai cpta, con i fogli di via che non si contano più, impossibilitati a uscire dal circuito della clandestinità. Peggiorano le condizioni di salute dei migranti nei centri, e incrementano a vista d’occhio gli atti autolesivi, estremo indicatore di una spirale della rabbia e della violenza dominanti. No, queste strutture non funzionano, come dimostrano anche i pochi dati del Ministero dell’Interno. E per quello che sono diventate, con la Bossi-Fini, bisogna chiuderle. Il danno fatto finora per migliaia di persone è enorme, ma pensare di risolvere la questione con semplici slogan di principio non porta lontano. Occorre lavorare a soluzioni alternative che rispettino i migranti come soggetti di diritto e tutelino la loro dignità di persone. Questa è una sfida per l’Italia, e in questa ottica che si è attivato da un anno un gruppo di lavoro misto sui cpta – composto da parlamentari e membri autorevoli della società civile – che, dopo aver studiato complessivamente la questione, punta a una seria ricerca politica delle alternative praticabili. Tuttavia la questione non può essere solo affrontata sul piano nazionale. Spetta all’Europa ripensare le scelte e le politiche comuni sull’immigrazione. Le frontiere non fermano chi ha fame. Fu così anche per i quasi 27 milioni di italiani che decisero di non restare, nell’Italia stretta nella morsa della miseria più nera, e che dalla fine dell’Ottocento con un "pateravegloria" sono andati via, con il terrore del mare, a cercar fortuna all’estero. Una storia di migranti che non conosciamo, al di là della retorica patriottarda del bravo italiano che sgobba e si fa ben volere da tutti, e che abbiamo rimosso come se avessimo paura di confrontarci con la realtà ustionante del nostro dolore passato.
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