Diritto di asilo

 

Diritto di asilo esercitabile senza termini decadenza o prescrizione

Tribunale Catania, sentenza 15.12.2004 n° 4010

 

Il terzo comma dell’art. 10 della Costituzione è una norma immediatamente precettiva, che costituisce in capo allo straniero che provenga da un paese nel quale "sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana" un diritto perfetto all’asilo. E ciò anche in mancanza di una legge ordinaria che disciplini in dettaglio i modi di esercizio di tale diritto. Unico presupposto per il riconoscimento del diritto di asilo è la provenienza dell’istante da un paese nel quale "sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana". Il diritto di asilo può, allo stato, essere esercitato liberamente da chi ne è titolare, senza termini di decadenza o di prescrizione dello stesso. Lo ha stabilito il Tribunale di Catania con la sentenza n. 4010 depositata in cancelleria in data 15 dicembre 2004.

Il giudice ha anche precisato che le domande tendenti a ottenere il riconoscimento del diritto all’asilo e/o del diritto al rifugio rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario e sono domande di accertamento e non costitutive, in quanto non riguardano lo "stato delle persone" e, dunque, le relative cause non rientrano fra quelle di cui all’art. 70 c.p.c.

 

(Altalex, 17 gennaio 2005. Si ringrazia il dott. Felice Lima)

 

Repubblica Italiana - Tribunale di Catania - Prima Sezione Civile

 

In nome del Popolo Italiano - Il giudice Felice Lima ha emesso la seguente

 

Sentenza n. 4010

 

nella causa civile iscritta al n. 3665/04 R.G.,

 

promossa da

 

XXXXXXX, nato a Sinjar (Iraq) il 10.7.1972, + altri

tutti dom. in Catania, via Aloi n. 54/A, presso lo studio dell’avv. Serena Catanzaro, rappr. e dif. dall’avv. Massimo Aiello, per mandato a margine dell’atto introduttivo del giudizio; - Attori

 

contro

 

Ministero dell’Interno, nella persona del Ministro in carica, dom. per legge in Catania, via Vecchia Ognina n. 146, presso gli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, che lo rappr. e dif. per legge;

 

Convenuto contumace

 

posta in decisione all’esito dell’udienza del 14 ottobre 2004, sulle conclusioni precisate come in atti.

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso a questo Tribunale depositato il 30.3.2004, XXXXXXX e YYYYYYY esponevano:

"Sono cittadini iracheni appartenenti all’etnia curda del gruppo Yazidi. Sono sposati dal 1990 e hanno vissuto nella città di Sinjar nel nord dell’Iraq. Dal 1995 il sig. XXXXXXX è stato costretto dal regime governativo di Saddam Hussain a lavorare come guardia carceraria in una piccola città irachena chiamata Badush, dove si è trasferito con moglie e quattro figli.

Durante la permanenza a Badush, in data 29.7.00, tre prigionieri di etnia curda, reclusi nel carcere dove il sig. XXXX lavorava e condannati a morte per aver organizzato una manifestazione antigovernativa, riuscirono a portare a termine con successo un tentativo di evasione. La polizia irachena, in considerazione solamente dell’appartenenza all’etnia curda e senza offrirgli la possibilità di dimostrare la propria estraneità all’evasione, accusò il ricorrente di essere stato complice nell’organizzazione della predetta fuga, tant’è che il direttore del carcere ne dispose, insieme ad altre due guardie carcerarie anch’esse di etnia curda, l’immediata reclusione al posto degli evasi e la relativa condanna a morte senza alcuna verifica di sorta della fondatezza degli addebiti.

Al sig. XXXXXX non rimaneva altro che tentare la fuga, sicché la stessa sera del 29.7.00 tentò di evadere assieme agli altri due reclusi curdi. Il tentativo andò in porto per lui e per uno solo dei due compagni di evasione, sopravvissuto ai colpi di arma da fuoco dei carcerieri iracheni che si erano avveduti della fuga. Così l’esponente, con un mandato di cattura pendente sulle proprie spalle, rimase nascosto con la propria moglie e i quattro figli, per una settimana fuori dalla città di Badush. Lì vennero raggiunti dal padre del sig. XXXXXX, il quale, atteso lo stato di pericolo in cui si trovavano quali traditori del regime, li ha aiutati ad organizzare il viaggio per lasciare il paese, pagando 9.000 dollari U.S.A. a persone che li avrebbero tradotti fino in Germania. Raggiunto in macchina Musel e da lì presero un taxi fino alla frontiera con la Turchia, dove erano attesi da persone che li fecero salire su un autobus dal quale scesero 24 ore dopo allorché giunsero ad Instanbul. Lì rimasero per 10 giorni in una casa, in attesa del giorno in cui sarebbero stati imbarcati.

Partiti a bordo di un peschereccio, dopo sei giorni di viaggio, in data 22.8.2000 sbarcarono in Italia. Raggiunsero Roma, poi Milano in treno e da ultimo in macchina giunsero in Germania il 28.8.2000. Ivi fecero richiesta di asilo politico, trovando ospitalità da parenti del padre, anch’essi fuggiti dall’Iraq, cui lo Stato Tedesco aveva riconosciuto lo status di rifugiati politici in quanto perseguitati dal regime iracheno in ragione della loro etnia curda. Proposero anch’essi istanza per il riconoscimento di detto status, che venne denegato con provvedimento comunicato in data 15.4.01 in virtù dell’incompetenza della Germania, conformemente a quanto stabilito dalla Convenzione di Dublino, essendo lo Stato Italiano, Paese di primo ingresso, deputato a provvedere in merito.

Avverso detto diniego i ricorrenti proposero inutilmente ricorso, e così dopo quasi più di un anno di soggiorno in Germania, anche a causa dello stato di gravidanza della sig.ra ZZZZZZZZZZ che in data 6.4.02 partorì il quinto figlio, i ricorrenti vennero accompagnati alla frontiera per lasciare il territorio tedesco. Lo Sesso giorno arrivarono a Catania, dove la Questura di Catania, dopo aver verbalizzato la richiesta di riconoscimento di status di rifugiato, rilasciò loro un permesso di soggiorno temporaneo per motivo di richiesta di asilo politico, in attesa del colloquio con la Commissione Centrale competente.

In data 26.11.2003, detta Commissione, conformemente a quanto stabilito dal D.L. 416/89 così come modificato dalla L. 36/90 e dal D.P.R. 136/90, provvide a convocare i ricorrenti per l’audizione, in esito alla quale, con decisioni nn. Id 122481 Sez. e Id 122480 del 26.11.03 notificate entrambe per il tramite della Questura di Catania in data 30.1.04, detto organo ha denegato il richiesto status di rifugiati.

Entrambi i provvedimenti di diniego, formalizzati a seguito di un brevissimo colloquio di circa quindici minuti, sono così motivati: "rilevato che le contraddizioni e i mutamenti di versione, riscontrati durante l’intervista personale, comportano perplessità in ordine alla veridicità e alla credibilità di quanto asserito ed alla fondatezza della richiesta; - considerato che, in ordine al ritardo tra l’ingresso in Italia e la presentazione della domanda, non vengono fornite giustificazioni plausibili e che la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato riveste carattere strumentale essendo stata prodotta alfine di poter prolungare, in assenza di altre opportunità il soggiorno in Italia in attesa della decisione della Commissione Centrale; - ritenuto che la ricerca di migliore occupazione lavorativa deve ritenersi prevalente e assorbente rispetto agli altri moventi cui va ricondotto l’espatrio, conferendo a quest’ultimo carattere di emigrazione ad aspetto prettamente economico"".

Sulla base di questa narrazione e di diverse considerazioni di diritto, i ricorrenti chiedevano al Tribunale di "annullare e/o revocare le decisioni della Commissione di cui al ricorso e, per l’effetto, ritenere e dichiarare lo status di rifugiati degli stessi ricorrenti. In via subordinata, concedere un permesso di soggiorno per motivi umanitari ovvero, in via gradata, il diritto di asilo in territorio italiano".

Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza venivano notificati al Ministero dell’Interno e alla Commissione centrale per il riconoscimento della status di rifugiato.

Nessuno si costituiva per l’amministrazione dell’Interno.

Il 16.4.2004 veniva adottato inaudita altera parte un decreto cautelare, che veniva confermato con provvedimento del 30.4/3.5.2004.

Acquisiti i documenti offerti in produzione e precisate le conclusioni, la causa veniva posta in decisione.

 

Motivi della decisione

 

Come si è detto, il ricorso introduttivo del giudizio e il decreto di fissazione della prima udienza sono stati notificati dagli attori, oltre che al Ministero dell’Interno, anche alla Commissione centrale per il riconoscimento della status di rifugiato. La Commissione, però, è organo del Ministero dell’Interno privo di autonoma soggettività giuridica (cfr sul punto Cass. Sez. 1, 18 giugno 2004, n. 11441). Dunque, unico contraddittore legittimo in questo giudizio va ritenuto il Ministero dell’Interno.

 

Di esso va dichiarata la contumacia, perché, come si è detto, benché ritualmente chiamato in giudizio (vi è in atti la relata di notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza), non ha provveduto a costituirsi.

 

Oggetto del giudizio sono le domande con le quali gli attori chiedono si riconosca loro lo status di rifugiati o, in subordine, quello di aventi diritto all’asilo nel nostro paese. Entrambe le domande rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.

Infatti, come statuito dalle Sezioni Unite della Corte Suprema, con la sentenza 17 dicembre 1999, n. 907, "la qualifica di rifugiato politico ai sensi della convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 costituisce, come quella di avente diritto all’asilo (dalla quale si distingue perché richiede quale fattore determinante un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito non richiesto dall’art. 10, comma 3, cost.), una figura giuridica riconducibile alla categoria degli "status" e dei diritti soggettivi, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato (così come quelle sul riconoscimento del diritto di asilo) rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, una volta espressamente abrogato dall’art. 46, L. n. 40 del 1998, l’art. 5, D.L. n. 416 del 1989, conv. con modificazioni dalla L. n. 39 del 1990 (abrogazione confermata dall’art. 47 del testo unico D.L.vo n. 286 del 1998), che attribuiva al giudice amministrativo la competenza per l’impugnazione del provvedimento di diniego dello "status" di rifugiato".

 

La competenza territoriale ad esaminare domande come quelle oggetto di questo giudizio è, ex artt. 25 e 19 c.p.c., del Tribunale di Roma, luogo dove ha sede il Ministero dell’Interno convenuto.

Diversamente da quanto sembra emergere dalla motivazione di Cass. Sez. I, 18 giugno 2004, n. 11441, la competenza in questione è quella per territorio c.d. semplice, derogabile dalle parti.

Sicché, ai sensi del 2° comma dell’art. 38 c.p.c., l’incompetenza non può essere rilevata d’ufficio, ma deve (nel caso di specie, avrebbe dovuto) essere "eccepita a pena di decadenza nella comparsa di risposta".

È stato sostenuto in contrario, dal Tribunale di Catanzaro, nella sentenza riassunta nella motivazione della citata Cass. Sez. I, 18 giugno 2004, n. 11441, che sembra condividerla (il dubbio sorge perché nell’ordinanza delle Corte Suprema, nella parte relativa allo svolgimento del processo vengono esposte tutte le tesi del Tribunale di Catanzaro, ma nella parte relativa ai motivi della decisione viene affrontata solo la questione della individuazione del Tribunale competente e non anche quella della natura di questa competenza, se derogabile o inderogabile), che si tratterebbe di competenza per territorio inderogabile "in ragione della natura della controversia afferente status, della partecipazione del P.M. e del rito camerale". Ma tutti e tre questi motivi sono privi di fondamento.

In particolare:

1. Il fatto che la condizione di rifugiato e quella di avente diritto all’asilo vengano definiti come degli status non significa affatto che le cause relative a queste questioni siano cause "riguardanti lo stato delle persone", ai sensi dell’art. 70, n. 3, c.p.c.. Quelli al rifugio e all’asilo sono - com’è stato sempre affermato in tutte le sedi - diritti delle persone interessate, ma non riguardano il loro stato. Basti considerare che l’asilo è dovuto a taluno sulla base delle condizioni di vita del paese dal quale provengono, sicché quel diritto sussiste o viene meno in relazione a fatti e circostanze che riguardano la vita di una nazione e non dell’interes-sato. E con riferimento all’equivoco lessicale nel quale è incorso il Tribunale di Catanzaro e sembra essere incorsa anche la Corte Suprema, si consideri che parlano di "status" con riferimento alla qualità di "erede" Cass. Sez. I, 22 gennaio 1988, n. 488, Cass. Sez. II, 28 marzo 1981, n. 1787, C. Conti reg. Lazio, sez. giurisd., 14 novembre 1995, n. 388, C. Conti reg. Lombardia, sez. giurisd., 27 luglio 1995, n. 786, C. Conti reg. Molise, sez. giurisd., 23 maggio 1995, n. 61, Comm. trib. reg. Treviso, sez. IV, 26 novembre 1986, n. 981. Ed è pacifico che lo "status di erede" non ha nulla a che fare con lo "stato delle persone". Sicché:

2. Non è in alcun modo necessaria ex art. 70 c.p.c. la partecipazione del pubblico ministero alle cause che hanno ad oggetto domande di rifugio e/o di asilo.

3. I giudizi come questo vanno trattati con il rito c.d. contenzioso ordinario e non con quello camerale, non essendovi alcuna norma che consenta di derogare alla regola generale del rito ordinario.

Ciò posto, il sottoscritto non può rilevare d’ufficio una incompetenza territoriale derogabile che l’amministrazione convenuta, rimasta contumace, non ha eccepito.

 

Per le ragioni testé dette, questo giudizio avrebbe dovuto essere promosso con atto di citazione a udienza fissa. È stato promosso, invece, con ricorso. Tuttavia, il procuratore degli attori, nel notificare all’Avvocatura dello Stato il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza di prima comparizione, ha inserito nell’atto notificato le seguenti testuali parole: "Si invita il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore (...) domiciliati per la carica presso la sede dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania (...) a comparire all’udienza del 12.10.2004, ore 9.00 e segg., dinanzi al Tribunale Civile di Catania, Giudice Unico dr Felice Lima, nei locali di ordinaria seduta in Catania piazza Verga, con l’invito a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’art. 166 c.p.c. e con avvertimento che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all’art. 167 c.p.c., per sentire accogliere le conclusioni già spiegate in ricorso introduttivo".

Sicché, avendo l’atto notificato tutti i requisiti di cui all’art. 163 c.p.c. ed essendo state, quindi, rispettate tutte le forme necessarie alla validità della vocatio in iudicio dell’amministrazione convenuta, la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di prima comparizione e degli avvertimenti sopra testualmente riportati ha pienamente raggiunto il suo scopo e la scelta del ricorso in luogo della citazione resta, nel caso di specie, del tutto irrilevante, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 156 c.p.c..

 

Gli attori deducono, a fondamento della loro domanda di riconoscimento della condizione di "rifugiati", il fatto di essere stati oggetto, nel loro paese di origine (l’Iraq), di gravi persecuzioni. La loro narrazione - che trova riscontro in alcune lettere spedite loro da congiunti - appare del tutto verosimile.

E palesemente inverosimile e surreale appare, invece, la motivazione solo apparente del provvedimento di rigetto dell’istanza adottato il 26.11.2003 dalla Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, che, senza chiarire in alcun modo su cosa fondi un tale assunto (che stride con evidenza con la ben nota situazione nella quale versa da alcuni anni l’Iraq), si limita ad affermare che "la ricerca di migliore occupazione lavorativa deve ritenersi prevalente e assorbente rispetto agli altri moventi cui va ricondotto l’espatrio, conferendo a quest’ultimo carattere di emigrazione ad aspetto prettamente economico".---

Non può dirsi, tuttavia, raggiunta una prova rigorosa della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento agli attori e ai loro figli minori della condizione di rifugiati, perché, per un verso, i documenti prodotti non offrono una prova rassicurante dei fatti dedotti in giudizio (non è certa né l’identità degli autori delle lettere prodotte né la veridicità dei loro racconti) e, per altro verso, va rilevato che, nella prospettazione degli attori, essi subivano persecuzione da esponenti dell’amministrazione irachena facente capo al governo di Saddam Hussein con riferimento ad asserite responsabilità del XXXXXX nell’evasione di alcuni detenuti. E nella condizione in cui notoriamente oggi versa l’Iraq, deve presumersi che le persone dalle quali gli odierni attori avevano da temere quegli atti di persecuzione non siano più nelle condizioni di attuarli, perché l’amministrazione facente capo al governo di Saddam Hussein risulta essere stata quasi del tutto smantellata. Sicché la domanda degli attori tendente a ottenere il riconoscimento della condizione di rifugiati va rigettata.

 

È fondata e va accolta, invece, la domanda tendente a ottenere il riconoscimento del loro diritto di asilo. Dispone l’art. 10 della Costituzione che "lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge".

Aderendo alla quasi unanime opinione di dottrina e giurisprudenza (con rarissime eccezioni, fra le quali Tribunale Roma, 13 febbraio 1997, in Foro it. 1997, I, 1257), deve ritenersi che questa norma della Costituzione sia immediatamente precettiva e attribuisca un diritto perfetto all’asilo allo straniero che si trovi nelle condizioni previste dal citato art. 10, sicché la promulgazione di una legge ordinaria che stabilisca le condizioni per l’esercizio di quel diritto non è condizione di esistenza dello stesso, ma fonte di una sua eventuale concreta disciplina di dettaglio.

Ciò emerge con evidenza dal tenore della norma, che non prevede la possibilità per il legislatore ordinario di prevedere un diritto di asilo in favore di determinati soggetti né demanda al medesimo legislatore il potere di individuare i presupposti e fondamenti di quel diritto, ma, al contrario, afferma la positiva concreta esistenza di quel diritto e ne individua il presupposto: il fatto che allo straniero "sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana".

Sicché, l’adozione di una legge ordinaria che lo regoli non è posta dalla Costituzione come condizione di esistenza del diritto di asilo, né essa è tale per una necessità pratica, perché il diritto di asilo ha un suo contenuto concreto pur in assenza della legge ordinaria che lo disciplini ulteriormente. Dunque, non appare possibile sotto alcun profilo negare carattere immediatamente precettivo all’art. 10 della Costituzione.

E in questo senso si sono espresse - esplicitamente o implicitamente -, fra le altre, Cass. Sezioni Unite, 26 maggio 1997, n. 4674; Cass. Sezioni Unite, 17 dicembre 1999, n. 907; Cass. Sez. I, 7 febbraio 2001, n. 1714; Cass. Sez. I, 4 giugno 2002, n. 8067; Sez. I, 4 maggio 2004, n. 8423; Cass. Sez. I, 18 giugno 2004, n. 11441; Trib. Roma, 1 ottobre 1999, in Giur. di Merito, 2000, I, 203; Trib. Roma, 3 giugno 2003, in Giur. di Merito, 2003, II, 2065; Cons. Stato, Sez. IV, 6 marzo 1995, n. 149; Cons. Stato, Sez. IV, 10 marzo 1998, n. 405; Cons. Stato, Sez. IV, 18 marzo 1999, n. 291; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 23 gennaio 1992, n. 15; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 19 febbraio 1992, n. 91.

 

L’art. 32 della legge 30 luglio 2002, n. 189, ha introdotto nel D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, gli articoli da 1 bis a 1 septies, che contengono anche alcune disposizioni in materia di diritto di asilo. Tali disposizioni, per un verso, non riguardano i profili del diritto di asilo qui in discussione e sono, quindi, irrilevanti in questo giudizio, e, per altro verso, non sono ancora in vigore, perché l’art. 34 della medesima legge 189/2002 ne ha subordinato l’entrata in vigore alla previa adozione del "regolamento previsto dall’art. 1 bis, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416", regolamento a oggi non ancora emanato.

 

Come si è già detto, unico presupposto per il riconoscimento del diritto di asilo è quello indicato dall’art. 10 della Costituzione e, cioè, il fatto che allo straniero che invochi quel diritto "sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana". Cass. Sez. I, 4 maggio 2004, n. 8423, ha osservato (cfr la motivazione per esteso) che "le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto che non possano trovare applicazione al richiedente asilo le disposizioni che disciplinano il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Ciò sulla base di talune concorrenti argomentazioni: il precetto costituzionale e la normativa sui rifugiati politici non coincidono dal punto di vista soggettivo; la categoria dei rifugiati politici è meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo, in quanto la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge 24 luglio 1954, n. 722, prevede quale fattore determinante per la individuazione del rifugiato, se non la persecuzione in concreto, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall’art. 10, terzo comma, Cost.; tale convenzione non prevede un vero e proprio diritto di asilo in favore dei rifugiati politici (Cass. S.U., 26 maggio 1997, n. 4674). Nella medesima pronuncia si è altresì rilevato che alla diversità di requisiti ai quali sono subordinate le due situazioni soggettive corrisponde anche una diversità di trattamento, nel senso che allo straniero il quale chiede il diritto di asilo null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato, mentre il rifugiato politico, ove riconosciuto tale, viene a godere, in base alla Convenzione di Ginevra, di uno status di particolare favore. Alla luce di tale considerazione si è quindi affermato che le controversie che riguardano il diritto di asilo, di cui all’art. 10, terzo comma, Cost., rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un diritto soggettivo al quale non è applicabile la disciplina sullo status di rifugiato, la quale invece espressamente prevede la giurisdizione del giudice amministrativo. Una successiva pronuncia (Cass. S.U., 17 dicembre 1999, n. 907), intervenuta dopo che l’art. 47 D.L.vo n. 286 del 1998 aveva abrogato gli articoli 2 e seguenti del decreto-legge n. 416 del 1989, ha poi affermato che la qualifica di rifugiato politico, secondo le previsioni della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, che garantisce ad ogni rifugiato il libero e facile accesso ai tribunali nel territorio degli stati contraenti, con conseguente sostanziale parificazione del rifugiato al cittadino ai fini della delibazione relativa alla sussistenza della giurisdizione, costituisce come quella di avente diritto all’asilo - dalla quale si distingue, perché richiede, quale fattore determinante, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall’art. 10, terzo comma, Cost. - uno status, un diritto soggettivo, con la conseguenza che tutti i provvedimenti, assunti dagli organi competenti in materia, hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, per cui le controversie riguardanti il riconoscimento del diritto di asilo o la posizione di rifugiato rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. In tale occasione si è quindi affermata la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda proposta avverso il diniego dello status di rifugiato politico da parte della apposita Commissione costituita presso il Ministero dell’interno".

Subito dopo, però, ha sostenuto - contraddittoriamente - (cfr la massima) che "asilo e rifugio politico, pur avendo connotazioni diverse, sono tuttavia accomunati sotto il profilo procedimentale, la domanda di asilo dovendo essere assistita dalle medesime formalità previste per la richiesta di riconoscimento dello "status" di rifugiato, e in particolare occorrendo che sia accompagnata dalla richiesta di un permesso di soggiorno temporaneo, come disposto dall’art. 1, comma 5, del decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416. Ne consegue che, in mancanza della prova (o anche della semplice allegazione), da parte dell’interessato dell’avvenuta presentazione di una istanza di concessione del permesso di soggiorno in pendenza della domanda di asilo, la sola proposizione della domanda stessa non può costituire, di per sé, ostacolo alla espulsione dello straniero". Si tratta, deve dirsi, di una argomentazione che non può essere condivisa, perché illogica.

Posto, infatti, che la stessa Corte ribadisce espressamente - richiamando anche propri precedenti sul punto - che gli istituti del rifugio è dell’asilo sono diversi fra loro e, addirittura, che l’istituto dell’asilo copre un’area di applicazione più ampia di quella del rifugio, appare del tutto illogico affermare che una disposizione dettata espressamente solo per il rifugio si debba applicare anche all’asilo e ciò in danno dei richiedenti asilo.

Per fare un paragone agevolmente condivisibile, sarebbe come se, dopo avere sottolineato come lo stato giuridico dei magistrati abbia solo alcuni profili comuni a quello degli altri impiegati civili dello Stato, che costituiscono una più ampia categoria, si pretendesse di applicare a tutti gli impiegati civili dello Stato delle disposizioni espressamente dettate per i magistrati.

E ciò senza dire che, diversamente dall’esempio testé proposto, il rapporto fra diritto di asilo e rifugio non è quello di genus e specie, trattandosi, invece, di istituti del tutto diversi: il diritto all’asilo spetta a chi proviene da un paese nel quale, indipendentemente dalla sua condizione personale, è generalmente impedito l’effettivo esercizio delle nostre libertà costituzionali; il diritto al rifugio spetta a chi, indipendentemente dalle condizioni generali del paese dal quale proviene, è personalmente oggetto di una persecuzione. Arbitraria appare, dunque, la pretesa di imporre al diritto di asilo condizioni di esercizio dettate per il rifugio.

Va osservato, infine, che, con una ulteriore contraddizione, nella motivazione della stessa sentenza della Corte Suprema qui in discussione (la n. 8423 del 4 maggio 2004) si afferma che, in ogni caso, i limiti tratti dalla disciplina del diritto al rifugio non si applicano all’asilo "nel caso in cui l’interessato proponga una specifica domanda di accertamento dinanzi al giudice ordinario" (così testualmente la motivazione di quella sentenza).

Sicché, essendo quest’ultimo il caso qui in discussione, anche se si volesse seguire l’indirizzo scelto da Cass. Sez. I, 4 maggio 2004, n. 8423, fin qui criticato, deve, comunque, affermarsi che nel giudizio dinanzi al giudice ordinario per l’accertamento del diritto di asilo l’unico presupposto per il riconoscimento dello stesso è quello sopra indicato, tratto dal citato art. 10 della Costituzione.

 

Ciò posto in diritto, deve ritenersi notorio che in questo momento in Iraq è "impedito l’esercizio" e ancor più "l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana". Non occorre citare fonti di cognizione particolarmente autorevoli, venendo quotidianamente resa nota da tutti i mezzi di informazione, nel nostro paese e fuori, la condizione dell’Iraq e, fra l’altro:

- che in quel paese non vi è un governo legittimo;

- che il paese è occupato militarmente da potenze straniere;

- che le potenze occupanti - è stato provato e da esse stesse riconosciuto - hanno violato in più occasioni e gravemente anche i più basilari principi della Convenzione di Ginevra, imprigionando cittadini civili senza alcuna garanzia processuale, assoggettandoli a torture e in molti casi assassinandoli mentre erano detenuti;

- che il paese è tuttora soggetto a operazioni militari delle potenze occupanti nel corso delle quali vengono in vario modo (bombardamenti aerei e missilistici, attacchi con mezzi blindati di terra, ecc.) uccisi indiscriminatamente anche civili innocenti, donne e bambini;

- che nel paese non sono garantiti l’ordine e la sicurezza pubblica;

- che nel paese non è garantito il diritto ad agire e difendersi in regolari giudizi;

- che nel paese non sono garantite libertà fondamentali come il diritto di muoversi liberamente, di ottenere tutela per i propri diritti, patrimoniali e non, lo stesso diritto alla incolumità personale e alla vita;

- che nel paese operano oppositori delle potenze occupanti che utilizzano tecniche di guerriglia che anch’esse provocano l’uccisione indiscriminata di civili innocenti.

A fronte di tutto ciò, appare, come si è già detto, sorprendente e incomprensibile che la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato abbia potuto affermare che nel caso degli odierni attori "la ricerca di migliore occupazione lavorativa deve ritenersi prevalente e assorbente rispetto agli altri moventi cui va ricondotto l’espatrio, conferendo a quest’ultimo carattere di emigrazione ad aspetto prettamente economico".

 

E, poiché nel provvedimento di rigetto della richiesta di rifugio vi è anche un inciso del seguente testuale tenore "considerato che, in ordine al ritardo tra l’ingresso in Italia e la presentazione della domanda, non vengono fornite giustificazioni plausibili", sono necessarie alcune considerazioni sul punto. Per le ragioni fin qui esposte, quelli al rifugio e all’asilo sono, nel nostro ordinamento, diritti perfetti. E nel nostro ordinamento la regola è quella della libertà di forme e di tempi nell’esercizio dei diritti, costituendo i limiti temporali allo stesso - fra i quali, per esempio, le decadenze e le prescrizioni - eccezioni che devono essere espressamente previste dalla legge.

Ora, in mancanza di espresse previsioni di decadenza o prescrizione per l’esercizio dei diritti all’asilo e/o al rifugio, appare francamente incomprensibile la ragione per la quale in diverse sedi si pretenda di attribuire una qualche importanza all’asserito - e nel caso di specie non provato - ritardo nell’esercizio di quei diritti.

Non è possibile comprendere, cioè, perché non appaia strano che un numero elevatissimo di persone si presenti a chiedere all’amministra-zione pubblica dopo tempi anche lunghissimi provvidenze alle quali abbia a qualsiasi titolo diritto o anche solo interesse legittimo e sembri strano che taluno eserciti nei tempi che ritiene più opportuni o che le circostanze rendano concretamente praticabili il proprio diritto all’asilo o al rifugio.

Per di più, poi, che intercorra un certo tempo, a volte anche lungo, tra l’ingresso nel nostro paese e la richiesta di rifugio e/o di asilo appare del tutto ragionevole, se si considera, fra le altre tante circostanze:

- che ci vuole un tempo perché uno straniero si orienti in un quadro legislativo della materia assai complesso, che non appare chiaro e di univoca interpretazione neppure a chi studia da tempo dottrina e giurisprudenza;

- che in molte occasioni è accaduto che siano stati espulsi richiedenti asilo (come si è visto, Cass. Sez. I, 4 maggio 2004, n. 8423, che si è sopra esaminata ha ritenuto legittima l’espulsione di un richiedente asilo per il solo fatto che l’interessato non aveva seguito quanto prescritto proceduralmente per la diversa richiesta di rifugio);

- che fino al 15 luglio di quest’anno - data della sentenza n. 222 della Corte Costituzionale - gli stranieri venivano espulsi senza avere la previa possibilità di rivolgersi al giudice per far valere eventuali illegittimità dell’espulsione e in diverse occasioni questo Tribunale ha dichiarato l’illegittimità di espulsioni disposte in danno di richiedenti asilo. Alla stregua di tutto ciò, appare del tutto ragionevole che chi ha diritto all’asilo faccia valere tale suo diritto solo quando assolutamente necessario a sottrarlo a un’espulsione in ipotesi illegittima.

 

Le spese processuali, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., seguono la soccombenza. Il procuratore degli attori ha omesso di produrre la prescritta nota.

In mancanza di essa, tenendo conto della natura e del valore della controversia e dell’attività difensiva effettivamente svolta, vanno liquidate in complessivi € 2.000,00, di cui € 500,00 per diritti di procuratore ed € 1.500,00 per onorario di avvocato, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.

 

P. Q. M.

 

Il giudice dichiara che XXXXXXXX + altri hanno diritto di asilo nel territorio dello Stato Italiano. Rigetta la domanda degli attori tendente a ottenere il riconoscimento del loro diritto al rifugio. Condanna il Ministero dell’Interno al rimborso, in favore degli attori, delle spese del giudizio, come sopra liquidate in complessivi € 2.000,00 (duemila/00), oltre I.V.A. e C.P.A., come per legge.

 

Deciso in Catania, il 13 dicembre 2004.

Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2004.

 

 

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