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Sentenza Corte Costituzionale n° 223/2004 Illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 5-bis, del Testo unico sull’immigrazione
Sentenza sull’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 5-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), introdotto dall’art. 2 del decreto-legge 4 aprile 2002, n. 51 (Disposizioni urgenti recanti misure di contrasto all’immigrazione clandestina e garanzie per soggetti colpiti da provvedimenti di accompagnamento alla frontiera), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 2002, n. 106, nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida debba svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa.
In nome del popolo italiano, la Corte Costituzionale, composta dai signori: Gustavo Zagrebelsky Presidente Valerio Onida Giudice Carlo Mezzanotte Fernanda Contri Guido Neppi Modona Piero Alberto Capotosti Annibale Marini Franco Bile Giovanni Maria Flick Francesco Amirante Ugo De Siervo Romano Vaccarella Alfonso Quaranta
ha pronunciato la seguente sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale: dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), inserito dall’art. 13, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, dal Tribunale di Torino con ordinanze del 9 novembre 2002 (3 ordinanze) e del 19 dicembre 2002, rispettivamente iscritte al n. 1, al n. 2, al n. 3 e al n. 111 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4 e n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2003; del combinato disposto dell’art. 558 del codice di procedura penale e degli artt. 13, commi 3, 3-bis, 3-quater, e 14, comma 5-quinquies, del predetto decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificati dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, promosso nell’ambito di un procedimento penale dal Tribunale di Firenze con ordinanza del 14 novembre 2002, iscritta al n. 72 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 aprile 2004 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto in fatto
1. - Con tre ordinanze di identico contenuto (r.o. n. 1, n. 2 e n. 3 del 2003) il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, terzo comma, e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), inserito dal comma 1 dell’art. 13 della legge 30 luglio 2002, n. 189, nella parte in cui prevede che per il reato di cui al comma 5-ter dello stesso art. 14 è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto. Il giudice a quo – premesso che procede all’udienza di convalida nei confronti di un cittadino straniero tratto in arresto nella flagranza del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998, per non avere ottemperato all’ordine, emesso dal questore a norma del comma 5-bis dello stesso art. 14, di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni – rileva che l’arresto obbligatorio è previsto esclusivamente in relazione a fattispecie delittuose particolarmente gravi e che "denotano spiccatissima pericolosità sociale", mentre il reato in oggetto ha natura contravvenzionale ed appare di modesta gravità, essendo punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno. La previsione dell’arresto obbligatorio si porrebbe quindi in contrasto con l’art. 3 Cost., sia per il maggior rigore della disciplina censurata rispetto a quella prevista per altri reati contravvenzionali, di pari o maggiore gravità, sia per l’irragionevole equiparazione operata con i gravi delitti elencati nell’art. 380 del codice di procedura penale. La disparità di trattamento emergerebbe con particolare evidenza dal confronto con l’altra ipotesi di arresto in flagranza introdotta dalla legge n. 189 del 2002 (art. 13, commi 13 e 13-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998), concernente la condotta dello straniero espulso che rientra nel territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell’interno: per questa ipotesi infatti, ritenuta dal legislatore di pari gravità sotto il profilo della pena edittale (arresto da sei mesi a un anno) e connotata da un "elemento intenzionale particolarmente evidente", è previsto solo l’arresto facoltativo. Ad avviso del giudice a quo la disposizione censurata viola anche l’art. 13 Cost., non integrando gli estremi dei "casi eccezionali di necessità ed urgenza" che possono legittimare l’adozione da parte dell’"autorità amministrativa" di provvedimenti provvisori incidenti sullo status libertatis; in particolare, poiché l’arresto in flagranza è previsto solo in relazione a fattispecie per le quali il giudice può, all’esito del giudizio di convalida, applicare una misura cautelare, il provvedimento restrittivo della libertà risulta "privo di senso laddove sia esclusa ab origine la possibilità di applicare una misura cautelare in sede di convalida". Inoltre, prosegue il rimettente, dal momento che nessuna disposizione consente al giudice di adottare una misura cautelare in relazione alla fattispecie in esame, l’arresto operato dalla polizia giudiziaria "è destinato per sua stessa natura a sfociare immediatamente nella liberazione dell’arrestato". In realtà, tale provvedimento dovrebbe essere adottato ancor prima dallo stesso pubblico ministero, che ai sensi dell’art. 121 delle norme di attuazione del codice di procedura penale ha l’obbligo, non appena informato dell’arresto, di porre immediatamente in libertà l’arrestato quando ritiene di non dover chiedere l’applicazione di misure coercitive, posto che tale disposizione è operante "a fortiori nelle ipotesi in cui l’applicazione di misure cautelari sia vietata ex lege, a prescindere da ogni valutazione discrezionale del pubblico ministero". Ad avviso del rimettente, l’arresto non sarebbe giustificato neppure ove lo si ritenga finalizzato a creare lo status detentionis necessario per procedere a carico dello straniero con il rito direttissimo e per consentire di adottare, in caso di condanna, il previsto provvedimento di espulsione, in quanto il giudizio direttissimo non richiede necessariamente lo stato di detenzione dell’imputato, ma "presuppone semmai una situazione di particolare evidenza della prova". Inoltre, conclude sul punto il rimettente, se difficoltà operative, quali la mancata identificazione o la mancanza di un vettore disponibile, hanno impedito di dare corso all’espulsione dello straniero, "non saranno certo poche ore di custodia […] che potranno modificare tale situazione di impotenza": anche sotto questo profilo, l’arresto risulta quindi privo di qualsiasi utilità e non appare giustificato da alcuna ragione di necessità e di urgenza. La disposizione censurata sarebbe anche in contrasto con l’art. 97 Cost. in quanto comporta un sensibile aggravio di lavoro sia per gli organi di polizia giudiziaria, costretti a procedere obbligatoriamente all’arresto senza alcun margine di discrezionalità, sia per gli organi dell’amministrazione penitenziaria, sia per gli stessi tribunali che devono celebrare udienze di convalida dall’epilogo del tutto scontato. Sostiene infine il rimettente che la liberazione dell’arrestato non incide sulla rilevanza della questione, in quanto la convalida dell’arresto tende ad accertare la legittimità dell’operato della polizia giudiziaria e prescinde, quindi, dallo stato di detenzione dell’imputato. È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza o, comunque, infondata. L’Avvocatura rileva preliminarmente che l’avvenuta liberazione dell’arrestato presuppone necessariamente la definizione del giudizio di convalida; nel merito, osserva che la disciplina censurata è giustificata dall’"esigenza di prevenzione sociale" di impedire che lo straniero che viola l’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato possa trattenersi ulteriormente in Italia e rendersi irreperibile. Altra sezione dello stesso Tribunale di Torino (r.o. n. 111 del 2003) ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e terzo comma, 27, secondo comma, e 97, primo comma, Cost., analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies. Il giudice a quo, che procede all’udienza di convalida nei confronti di un cittadino straniero tratto in arresto nella flagranza del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, svolge considerazioni sostanzialmente analoghe a quelle contenute nelle precedenti ordinanze del medesimo Tribunale e ritiene che la disposizione censurata sia in contrasto in primo luogo con l’art. 3 Cost., in quanto l’istituto dell’arresto obbligatorio nella flagranza di reato riguarda esclusivamente delitti di particolare gravità, mentre la condotta in esame integra una semplice contravvenzione, peraltro punita con sanzione assai modesta. La disposizione violerebbe anche l’art. 13 Cost., perché l’arresto in flagranza da parte della polizia giudiziaria ha natura di "provvedimento provvisorio", "finalizzato […] alla successiva applicazione da parte del giudice di un provvedimento propriamente cautelare", mentre la contravvenzione in parola non consente l’adozione da parte del giudice di alcuna misura cautelare. L’art. 14, comma 5-quinquies, sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto l’arresto, non avendo funzione ‘precautelarÈ, né essendo comunque utile per le indagini o per l’esecuzione della pena, assumerebbe i connotati di "un provvedimento restrittivo dal contenuto sostanzialmente sanzionatorio". Sarebbero altresì violati gli artt. 2 e 13, primo comma, Cost., in quanto l’arresto obbligatorio, avendo solo una impropria funzione sanzionatoria, finisce per comprimere ingiustificatamente il principio della inviolabilità della libertà personale. La norma impugnata sarebbe da ultimo in contrasto con l’art. 97 Cost., comportando un sensibile aggravio di lavoro sia per gli organi di polizia giudiziaria, sia per gli organi dell’amministrazione penitenziaria sia, infine, per gli stessi tribunali. È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. Il Tribunale di Firenze (r.o. n. 72 del 2003) dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 24, 101, secondo comma, e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 558 del codice di procedura penale, nonché degli artt. 13 (commi 3, 3-bis, 3-quater), e 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificati dalla legge n. 189 del 2002, nella parte in cui da un lato prevede (art. 14, comma 5-quinquies) che per il reato contravvenzionale di cui all’art. 14, comma 5-ter, è obbligatorio l’arresto e si procede con rito direttissimo, dall’altro impone al giudice di concedere, all’atto della convalida, il nulla osta all’espulsione (non ricorrendo le "inderogabili esigenze processuali" di cui all’art. 13, comma 3, a sua volta richiamato dal comma 3-bis) e di pronunciare quindi sentenza di non luogo a procedere (a norma dell’art. 13, comma 3-quater, atteso che la presentazione dell’arrestato al giudice del dibattimento ex art. 558 cod. proc. pen. non costituisce provvedimento che dispone il giudizio). Il Tribunale premette di essere investito della richiesta di convalida dell’arresto nei confronti di uno straniero in relazione al reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, e del conseguente giudizio direttissimo a norma del combinato disposto degli artt. 558 cod. proc. pen. e 14, comma 5-quinquies, e che, in forza di tali disposizioni, "l’arresto dell’imputato […] dovrebbe essere convalidato e si dovrebbe procedere a giudizio direttissimo". Ad avviso del rimettente l’arresto obbligatorio per la fattispecie di cui all’art. 14, comma 13-ter, punita nel massimo con la pena di un anno di arresto e perciò ritenuta all’evidenza di scarsa gravità dallo stesso legislatore, si porrebbe in primo luogo in contrasto con gli artt. 2, 3 e 10 Cost., violando il principio di eguaglianza che, in relazione ad una normativa destinata ad incidere su diritti inviolabili garantiti da trattati internazionali, quali quelli riconosciuti dagli artt. 5 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali a chi sia privato della libertà personale, non consente disparità di trattamento tra cittadini e stranieri. Ulteriori dubbi di illegittimità costituzionale sarebbero ravvisabili nella disciplina del giudizio direttissimo conseguente alla convalida, inesorabilmente destinato ad esaurirsi con una "pronuncia non di merito". Difatti, prosegue il rimettente, nei confronti dell’arrestato non può certamente essere disposta la custodia cautelare in carcere, non consentita per reati contravvenzionali, e quindi lo straniero sottoposto a procedimento penale deve essere espulso dal questore, previo nulla osta del giudice all’atto della convalida, che nel caso di specie non potrebbe essere negato; di conseguenza, intervenendo l’espulsione nei confronti di un imputato presentato al giudice del dibattimento per la convalida dell’arresto ex art. 558 cod. proc. pen. e non potendo tale provvedimento essere equiparato a quello che dispone il giudizio di cui al comma 3-quater del medesimo art. 13, il giudice dovrà limitarsi a pronunciare sentenza di non luogo procedere. Tale sentenza priverebbe però lo straniero del diritto di accedere ad un giusto processo quanto ai fatti contestati, con chiara violazione degli artt. 111 e 24 Cost., nonché degli artt. 5 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che prevedono il diritto per ogni persona privata della propria libertà di presentare ricorso davanti ad un tribunale affinché decida sulla legittimità della propria detenzione. La disciplina censurata violerebbe perciò anche l’art. 13 Cost., configurando "un caso di […] arresto obbligatorio, che non trova il suo naturale sbocco nell’esercizio dell’azione penale e nel conseguente vaglio giurisdizionale sul merito dell’accusa", e l’art. 101, secondo comma, Cost., in quanto espropria il giudice "dell’esercizio della giurisdizione" e lo assoggetta "ad una decisione amministrativa del questore, dalla quale deriva il contenuto necessitato della sua pronuncia". Conclusivamente, il Tribunale rimettente, ritenendo i prospettati dubbi di illegittimità rilevanti ai fini della decisione sulla convalida dell’arresto, ha sospeso il "giudizio di convalida, limitatamente al reato in esame" e, affermando che "non può farsi luogo al giudizio direttissimo, la cui celebrazione presuppone l’avvenuta convalida dell’arresto, che in questo caso manca, in forza della sospensione" e che "non sembra […] si possa sospendere anche il giudizio direttissimo, che non è ancora instaurato", ha disposto "la restituzione degli atti al pubblico ministero perché proceda, per questo reato, con il rito ordinario". È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. In particolare l’Avvocatura osserva che, essendo state sollevate tutte le questioni nella fase della convalida dell’arresto, sono all’evidenza inammissibili le censure concernenti il giudizio direttissimo, in quanto non finalizzate alla definizione del giudizio a quo, che concerne esclusivamente la misura precautelare, tanto più che in relazione al giudizio di merito il rimettente ha restituito gli atti al pubblico ministero perché proceda con le forme ordinarie. Peraltro, secondo l’Avvocatura, tale provvedimento chiuderebbe addirittura la fase della convalida, ex art. 558, comma 5, cod. proc. pen., cosicché le questioni sollevate sarebbero irrilevanti anche in relazione al giudizio di convalida, di fatto già "definito con statuizione di merito e restituzione degli atti al pubblico ministero". Nel merito le questioni sarebbero, comunque, infondate. Quanto alla dedotta violazione del principio di ragionevolezza, l’Avvocatura ritiene che la previsione dell’arresto obbligatorio nella flagranza di reati contravvenzionali rappresenta una scelta di politica criminale del legislatore esercitata discrezionalmente a seconda dei diversi momenti storico-sociali, in ragione dell’interesse dello Stato alla tutela del bene protetto dal reato. In particolare, la previsione dell’arresto obbligatorio per la contravvenzione di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998 risponderebbe alla "esigenza di prevenzione sociale" di impedire che lo straniero si trattenga ulteriormente nel territorio dello Stato e si renda irreperibile. È pertanto "logico e coerente" che all’arresto obbligatorio consegua altresì il giudizio direttissimo e, in caso di condanna, una nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica.
Considerato in diritto
Il Tribunale di Torino (r.o. n. 1, n. 2, n. 3 e n. 111 del 2003) e il Tribunale di Firenze (r.o. n. 72 del 2003) dubitano, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 13, 27, secondo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), inserito dal comma 1 dell’art. 13 della legge 30 luglio 2002, n. 189, nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio dello straniero colto nella flagranza della contravvenzione di cui all’art. 14, comma 5-ter, del medesimo decreto, per essersi trattenuto senza giustificato motivo nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale entro il termine di cinque giorni. Il Tribunale di Firenze solleva anche, in riferimento agli artt. 24, 101, secondo comma, e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 558 del codice di procedura penale e 13, commi 3, 3-bis e 3-quater, e 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificati dalla legge n. 189 del 2002, nella parte in cui da un lato prevede il ricorso al giudizio direttissimo, dall’altro imporrebbe al giudice di concedere, all’atto della convalida dell’arresto, il nulla osta all’espulsione e di pronunciare, quindi, sentenza di non luogo a procedere. Poiché tutti i rimettenti sollevano questioni relative alla disciplina dell’arresto obbligatorio dello straniero colto in flagranza del reato di inottemperanza all’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale, prevista dall’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo n. 286 del 1998, ed il Tribunale di Firenze solleva questione della medesima disposizione anche nella parte in cui prevede che si proceda a giudizio direttissimo, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi. Per quanto attiene al primo gruppo di questioni, il nucleo centrale delle censure si sostanzia nella violazione degli artt. 3 e 13, terzo comma, Cost. Le questioni sono fondate. Al riguardo, si deve in primo luogo precisare che secondo l’ordinamento processuale le misure coercitive possono essere applicate solo quando si procede per un delitto e, in particolare, ai sensi dell’art. 280 cod. proc. pen., per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero, nel caso in cui sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere, non inferiore nel massimo a quattro anni; nell’ipotesi di convalida dell’arresto l’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. consente l’applicazione di una misura coercitiva al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 dello stesso codice, ma limitatamente ai delitti di cui all’art. 381, comma 2, o ai delitti per i quali è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza. La norma censurata prevede invece l’arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale, per di più sanzionato con una pena detentiva, l’arresto da sei mesi a un anno, di gran lunga inferiore a quella per cui il codice ammette la possibilità di disporre misure coercitive. Ne consegue – attesa l’autonomia tra il giudizio di convalida, volto a verificare ex post la legittimità dell’operato dell’autorità di polizia, e la protrazione dello stato di privazione della libertà personale, per la quale è richiesto un ulteriore e autonomo provvedimento (ordinanza n. 297 del 2001) – che il giudice chiamato a pronunciarsi sulla convalida dell’arresto per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998 deve comunque disporre l’immediata liberazione dell’arrestato ex art. 391, comma 6, cod. proc. pen., ove non vi abbia già provveduto il pubblico ministero a norma dell’art. 121 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, posto che per tale reato la legge gli preclude di disporre la custodia cautelare in carcere e, più in generale, qualsiasi misura coercitiva. In questa situazione non potrebbe quindi neppure trovare applicazione quell’orientamento giurisprudenziale per il quale nel giudizio direttissimo il giudice non è tenuto a pronunciarsi sul mantenimento della custodia cautelare subito dopo la convalida dell’arresto, potendo la relativa ordinanza essere emessa in un momento successivo, durante il dibattimento o all’esito dello stesso unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, dal momento che tale orientamento presuppone comunque che il reato per cui si procede consenta l’applicazione di una misura custodiale, e cioè che il provvedimento cautelare sia, per lo meno in astratto, ammissibile in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio. L’arresto obbligatorio previsto dall’art. 14, comma 5-quinquies, è dunque privo di qualsiasi sbocco sul terreno processuale, è una misura fine a se stessa, che non potrà mai trasformarsi nella custodia cautelare in carcere, né in qualsiasi altra misura coercitiva, e non trova alcuna copertura costituzionale. In particolare, a norma dell’art. 13, terzo comma, Cost., all’autorità di polizia è consentito adottare provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale solo quando abbiano natura servente rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalità del processo penale, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale in vista dell’intervento dell’autorità giudiziaria. Ove – come nel caso di specie – non sia dato riscontrare alcun rapporto di strumentalità tra il provvedimento provvisorio di privazione della libertà personale e il procedimento penale avente ad oggetto il reato per cui è stato disposto l’arresto obbligatorio in flagranza, viene meno, come questa Corte ha in più occasioni rilevato, la giustificazione costituzionale della restrizione della libertà disposta dall’autorità di polizia (v., ad esempio, con riferimento al codice di procedura penale del 1930, sentenza n. 173 del 1971, nella quale gli estremi della necessità e urgenza giustificativi del provvedimento restrittivo della libertà personale sono individuati nelle esigenze processuali di acquisizione e conservazione delle prove; sentenza n. 305 del 1996, secondo cui la "misura precautelare provvisoria […] può essere adottata solo nella ragionevole prognosi di una sua trasformazione ope iudicis in una misura cautelare più stabile"). Pertanto la misura precautelare prevista dall’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo n. 286 del 1998, non essendo finalizzata all’adozione di alcun provvedimento coercitivo, si risolve in una limitazione ‘provvisoria’ della libertà personale priva di qualsiasi funzione processuale ed è quindi, sotto questo aspetto, manifestamente irragionevole. 3.2 - La disciplina censurata non trova valida giustificazione neppure ove la si voglia ritenere finalizzata, sia pure impropriamente, ad assicurare l’espulsione amministrativa dello straniero che non abbia ottemperato all’ordine di allontanarsi dal territorio dello Stato. I richiami al procedimento di espulsione amministrativa contenuti nei commi 5-ter e 5-quinquies dell’art. 14 del decreto legislativo n. 286 del 1998 dimostrano, infatti, che tale procedimento seguirebbe il suo corso a prescindere dall’arresto dello straniero, destinato comunque a rimanere privo di effetti decorso il termine massimo di novantasei ore previsto per la convalida dall’art. 13, terzo comma, Cost. L’art. 14, comma 5-ter, dopo aver definito la fattispecie di trattenimento senza giustificato motivo nel territorio dello Stato, dispone che in "tale caso si procede a nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica", con evidente riferimento alla disciplina di cui all’art. 13, commi 4 (v. sentenza n. 105 del 2001) e 5-bis (v. sentenza n. 222 del 2004); dal canto suo l’art. 14, comma 5-quinquies, prevede nel secondo periodo che, al fine di assicurare l’esecuzione dell’espulsione, ove non sia possibile eseguirla con immediatezza mediante accompagnamento alla frontiera, il questore può disporre il trattenimento dello straniero presso il centro di permanenza temporanea di cui al comma 1. L’arresto in flagranza per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, non costituisce dunque un presupposto del procedimento amministrativo di espulsione, atteso che l’accompagnamento alla frontiera e il trattenimento in un centro di permanenza temporanea sono autonomamente previsti nei commi 5-ter e 5-quinquies dell’art. 14, che fanno riferimento alle discipline descritte nell’art. 13, commi 4 e 5-bis, e nello stesso art. 14, comma 1, operanti a prescindere dal previo arresto dello straniero. Conclusivamente, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 13 Cost., dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo n. 286 del 1998, nella parte in cui stabilisce che per il reato previsto dal comma 5-ter del medesimo art. 14 è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto. Restano così assorbite le censure prospettate in riferimento agli altri parametri. L’ulteriore questione sollevata dal Tribunale di Firenze in relazione alla previsione del giudizio direttissimo e alla disciplina che imporrebbe al giudice di concedere, all’atto della convalida dell’arresto, il nulla osta all’espulsione e di pronunciare quindi sentenza di non luogo a procedere, è manifestamente inammissibile. Dall’ordinanza di rimessione emerge che il Tribunale rimettente ha sospeso il giudizio di convalida dell’arresto in relazione al reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998 e, rilevato che per tale reato non si poteva fare luogo al giudizio direttissimo, la cui celebrazione presupponeva l’avvenuta convalida dell’arresto, ha ordinato "la restituzione degli atti al pubblico ministero perché proceda, per questo reato, con il rito ordinario". A prescindere dalla ritualità del provvedimento con cui è stata disposta la restituzione degli atti al pubblico ministero, non vi è dubbio che il Tribunale rimettente si è comunque spogliato del processo e non può più fare applicazione delle norme in relazione alle quali ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, che deve pertanto essere dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.
per questi motivi
La Corte Costituzionale
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), inserito dal comma 1 dell’art. 13 della legge 30 luglio 2002, n. 189, nella parte in cui stabilisce che per il reato previsto dal comma 5-ter del medesimo art. 14 è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto; 2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 558 del codice di procedura penale, nonché degli artt. 13, commi 3, 3-bis, 3-quater, e 14, comma 5-quinquies, del predetto decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificati dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 101, secondo comma, e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Firenze, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2004.
Gustavo Zagrebelsky, Presidente
Guido Neppi Modona, Redattore
Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2004
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