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Il permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art. 18 T.U. Immigrazione Un importante strumento di tutela per le persone straniere che scontano un pena A cura di Salvatore Fachile, Associazione Diritti Minori
Premessa
Il presente lavoro nasce dalla esigenza di colmare in parte la carenza di attenzione prestata sia dai giuristi che dall’associazionismo all’istituto di cui al 6° comma dell’art. 18, T.U.Imm. Si tratta, infatti, di un importante strumento di supporto per migranti che hanno scontato (o stanno ancora espiando) una pena detentiva, che è stato a lungo trascurato, trovando una scarsissima applicazione, a fronte di uno sviluppo sistematico dell’analogo strumento sancito nei commi precedenti della medesima disposizione. Ciò stupisce tanto più se si pensa che la categoria protetta dalla norma giuridica è composta da soggetti migranti, che stanno espiando una pena, presumibilmente di giovanissima età. Una situazione di straordinaria debolezza sociale resa ancora più acuta dalla radicalizzazione dell’intolleranza verso i migranti che hanno commesso degli illeciti penali. Una spiegazione, come sempre, risiede nel principio per il quale tanto più debole è il soggetto sociale, tanto più scarsa sarà la sua capacità di pressione politica e dunque la possibilità di ottenere tutela.
La norma in esame si inserisce in un contesto normativo più ampio, di cui rappresenta una sorta di appendice e del quale rispetta in pieno la ratio legis. Infatti, l’art.18 nei suoi primi cinque commi, come è noto, disciplina il c.d. permesso di soggiorno per motivi umanitari, rilasciato a tutti i soggetti che presentano i seguenti requisiti: 1. essere stranieri; 2. aver subito violenza o essere stati sfruttati in modo grave, in una qualsiasi forma (lavorativa, sessuale, criminale ecc.); 3. che ricorra un pericolo di vita per se o per i propri familiari, come conseguenza della scelta di sottrarsi alla violenza o allo sfruttamento. Non si richiede necessariamente la denuncia degli sfruttatori, appunto perché la ratio sottesa non è - in prima battuta - la prevenzione criminale, quanto piuttosto la tutela delle persone straniere che hanno subito una coercizione o un inganno che le ha condotte a comportamenti leciti o illeciti da cui lo sfruttatore ha tratto vantaggio. La norma dunque mira a tutelare le persone straniere vittime di inganno o coercizione che decidono di fuoriuscire da tale situazione. Lo strumento di tutela previsto è costituito da un programma di protezione e "inserimento" sociale e da un permesso di soggiorno per motivi umanitari che consente di regolarizzare la persona in modo stabile, permettendole di lavorare e di ottenere un ordinario permesso di soggiorno per motivi di studio o di lavoro. La scelta degli strumenti è dettata dalla vulnerabilità peculiare delle persone straniere che in questo caso si trovano escluse dal contesto sociale italiano e privi della possibilità di regolarizzare la propria presenza sul territorio nazionale. La categoria dei potenziali destinatari non prevede eccezioni o specifiche di sorta, relative all’età, al sesso o alle vicende giudiziarie di cui si è eventualmente stati destinatari. Peraltro, quest’ultimo aspetto appare aderente alla realtà specifica del contesto sociale preso in esame. Infatti, molto spesso la persona sfruttata risulta avere consumato reati, spesso legati al mancato rispetto delle norme sulla immigrazione, sullo spaccio di droga, sulla dichiarazione di false generalità, e così via. Ciò non impedisce, e non ha impedito, l’applicazione dell’art.18 e il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, anche nel caso di condanna definitiva, sia nelle ipotesi di pena già scontata che in via di esecuzione. A ulteriore riconferma, si rileva l’esistenza di realtà associative che agiscono prevalentemente in carcere, inserendo nei propri programmi persone ivi presenti in via cautelare o con sentenza definitiva. Ciò evidenzia come, in relazione al permesso di soggiorno per motivi umanitari, non trovino applicazione le norme che nella commissione di determinati reati vedono un ostacolo, tendenzialmente insuperabile, alla regolarizzazione della persona straniera. La ratio ancora una volta è chiara: la regolarizzazione si nega alle persone straniere che in via presuntiva risultano potenzialmente pericolose perché hanno già commesso un reato, per il quale ci sia stata condanna o addirittura sia stata scontata la pena. La persona vittima di coercizione o inganno, viceversa, se ha commesso reato lo ha fatto perché costretta o aggirata, conseguentemente non nasce nei suoi confronti quella presunzione di pericolosità che sta a fondamento dell’impedimento alla regolarizzazione. La commissione di un reato o l’espiazione di una pena anche detentiva e seppur definitiva non interferiscono in alcun modo, dunque, con l’avvio o la prosecuzione di un ordinario programma art.18, che a tale evenienza rimane "indifferente". Queste minime illustrazioni dell’istituto sancito nei primi commi dell’art.18 giovano a individuare la natura, la ratio, i destinatari e requisiti dell’analogo strumento di cui al comma 6° della disposizione medesima.
Il permesso di soggiorno di cui al comma 6°
L’art.18, comma 6 recita testualmente: "Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo può essere altresì rilasciato, all’atto delle dimissioni dall’istituto di pena, anche su proposta del procuratore della Repubblica o del giudice di sorveglianza presso il tribunale dei minori, allo straniero che ha terminato l’espiazione di una pena detentiva, inflitta per i reati commessi durante la minore età e ha dato prova concreta di partecipazione a un programma di assistenza e integrazione sociale". La norma, come sempre, deve essere interpretata secondo i canoni ermeneutici dell’ordinamento giuridico italiano: anzitutto, alla luce della ratio legis (che si evince dalla lettura della disposizione) così come inserita nel suo contesto normativo. Una lettura, dunque, sistematica, che nel caso di specie tiene conto in particolare della ratio legis dell’intero articolo 18. In secondo luogo, l’operazione ermeneutica non può prescindere dal fondamentale criterio interpretativo fondato sull’economicità dell’ordinamento giuridico, secondo il quale a una lettura priva di significato o ripetitiva di quanto altrove già sancito deve preferirsene, nel rispetto della ratio legis, una che consente di fare emergere significati e regole di comportamento ulteriori. La corretta applicazione di tali criteri evita nel caso specifico di giungere a banali semplificazioni del dettato normativo che leggono nel 6° comma una sorta di ripetizione e duplicazione di quanto già enunciato dai primi comma dell’art. 18.
"Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo (18, ndr) può essere altresì rilasciato (…) allo straniero che ha terminato l’espiazione di una pena detentiva, inflitta per i reati commessi durante la minore età (…)". La lettura non presenta nodi problematici, si evince chiaramente come il destinatario sia una persona straniera che ha espiato una pena per un reato commesso durante la minore età, a prescindere se nel frattempo sia divenuto o meno maggiorenne. La norma chiarisce in modo inequivocabile che il fatto criminoso deve essere compiuto durante la minore età, ma il destinatario è semplicemente lo "straniero", anche maggiorenne. Il legislatore ha correttamente considerato che spesso il fatto che la espiazione della pena può iniziare o semplicemente terminare molto tempo dopo la commissione del fatto, quando la persona straniera è gia divenuta maggiorenne. D’altro canto, non sarebbe risultata costituzionalmente legittima una norma che avesse consentito di usufruire dell’opportunità di cui al 6° comma solo allorquando la tempestività del sistema giudiziario e/o la brevità della pena avessero permesso al reo di terminare la pena prima del compimento del diciottesimo anno. Inoltre, la disposizione legislativa avrebbe avuto in tal caso una gamma molto ristretta di potenziali destinatari: i reati quasi sempre vengono commessi da adolescenti vicini al compimento della maggiore età; il sistema giudiziario, inoltre, ha i suoi tempi inevitabili per giungere a una sentenza definitiva, che si sommano alla espiazione pena. La norma, dunque, correttamente si limita a richiedere che la minore età sussista solo al momento della commissione del fatto penalmente illecito, per il resto consente l’accesso a ogni persona straniera anche maggiorenne. Questo primo punto già evidenzia che la situazione considerata dal legislatore determinante ai fini di una speciale e aggiuntiva tutela è rappresentata dalla commissione di un fatto illecito da parte di uno straniero minore. Il fatto stesso che un minore (straniero nel caso specifico) consumi un reato fa sorgere in capo al legislatore l’idea che vi sia una situazione di disagio minorile, che in quanto tale merita una attenzione particolare, che va oltre l’ordinario, in ossequio ai principi generali dell’ordinamento giuridico italiano.
La persona straniere che vuole avvalersi dello strumento qui in esame deve trovarsi "all’atto delle dimissioni dall’istituto di pena", aver "terminato l’espiazione di una pena detentiva" e aver "dato prova concreta di partecipazione a un programma di assistenza e integrazione sociale". Anzitutto, è chiaro che il legislatore ha preferito stabilire che l’eventuale permesso di soggiorno per motivi umanitari venga rilasciato solo allorquando la persona straniera sia fuoriuscita dal carcere e non prima. Ciò ovviamente non toglie, né che la persona possa stare espiando una pena al di fuori del carcere (come meglio si spiegherà più avanti), né che si possa all’interno dell’istituto di pena ottenere il rilascio o il rinnovo di altro permesso di soggiorno (per motivi di minore età, di affidamento, di lavoro, di famiglia ecc.), così come normalmente avviene in rispetto alla normativa vigente. L’interesse al permesso di soggiorno per motivi umanitari rilasciato alla fine della espiazione pena detentiva, infatti, nasce non solo in capo a chi non è titolare di alcun permesso di soggiorno, ma anche nel caso contrario. Si pensi, a tal proposito, a un permesso per motivi di minore età, non convertibile al raggiungimento della maggiore età; o a un maggiorenne con permesso di soggiorno per lavoro subordinato, che avendo commesso una certa tipologia di reato dopo il 2002 rischia il rifiuto del rinnovo. Il permesso per motivi umanitari ex art.18, comma 6°, dunque, potrà essere rilasciato solo dopo essere fuoriusciti dal carcere, tanto a chi non è titolare di alcun permesso, quanto a chi il permesso lo ha già, ma nutre interesse a un diverso titolo legittimante il proprio soggiorno. Più problematico è l’aspetto relativo alla tipologia di pena scontata dallo straniero. La norma testualmente si riferisce alla "espiazione di una pena detentiva". Ci si chiede di conseguenza cosa debba intendersi per "pena detentiva" e per "espiazione". Per chiarire la portata delle due nozioni è necessario approfondire il tema della ratio legis. Come si è detto, l’art.18, comma 6 ha come precipui destinatari le persone straniere che hanno commesso un reato da minori, dettando a tal proposito una regola aggiuntiva a quella precedente: deve infatti escludersi che la disposizione si limiti a ripetere quanto già affermato nei precedenti commi del medesimo art.18. In questa ottica, non è possibile limitarsi ad affermare che la norma in esame conceda a questa particolare categoria di soggetti la possibilità di regolarizzarsi anche nel caso di commissione di reato e di espiazione della pena. Infatti, una tale facoltà è concessa a tutti quelli che rientrano nella categoria protetta dall’art.18, e non solo a chi al momento della commissione del reato era minorenne. Se ne deduce che a questi ultimi il comma 6 riconosce una ulteriore tutela, che si concretizza nel fatto che i requisiti richiesti dal legislatore, ossia la violenza o grave sfruttamento congiunti con il pericolo attuale vengono considerati impliciti nel fatto stesso di aver commesso un reato durante la minore età. In altri termini, il legislatore opportunamente ritiene che se un minore ha commesso un reato esistono buone possibilità che lo abbia fatto in quanto minacciato, ingannato o in qualche modo costretto a opera di altra persona. Si presume, inoltre, che il minore proprio a causa della sua giovanissima età abbia avuto difficoltà a percepire l’azione dell’altro come un inganno o una forzatura: una difficoltà a riconoscere il vizio della propria volontà che si aggiunge a una più debole capacità di reazione sia durante la coercizione che successivamente alla commissione del fatto. Si pensi in via esemplificativa, a un minore spinto a rubare dal proprio genitore: con estrema difficoltà vedrà in quest’ultimo un violento minacciatore o un ingannatore e con altrettanta difficoltà riuscirà a sottrarsi alla sua soggezione prima della commissione del reato ovvero successivamente mediante una denuncia o una semplice confidenza ai servizi sociali. In altri termini, il legislatore è ben conscio che un minore che subisce violenza o sfruttamento ha molte più difficoltà ad accedere al percorso di cui all’art.18, sia che questo presupponga una denuncia sia che si basi sul racconto ai servizi sociali. Una persona molto giovane rischia di non riconoscere la violenza o lo sfruttamento subito e comunque di non riuscire a comunicarlo mai al mondo esterno. Allo stesso modo, è probabile che la persona molto giovane, anche a causa della profondità e complessità psicologica dei traumi riportati, non sappia riconoscere il pericolo attuale per se o per la propria famiglia, o che ritenga tale pericolo impossibile da combattere, magari semplicemente per l’eccessiva capacità offensiva riconosciuta in capo al proprio sfruttatore. Consapevole di ciò, il legislatore ha voluto porre in essere alcune presunzioni che agevolano le persone straniere di giovanissima età nell’accedere a uno strumento (il permesso di soggiorno per motivi umanitari) ritenuto fondamentale, in prima battuta, per il rispetto della persona e, in seconda, per l’ordine pubblico. A quest’ultimo proposito, rileva l’inserimento nel tessuto sociale di persone straniere niente affatto pericolose, destinate tuttavia alla clandestinità e dunque a una potenziale destabilizzazione dell’ordine pubblico. Più esattamente, la presunzione operata si concentra su quelle forme di sfruttamento e di violenza che giungono a fare commettere al minore un reato. La scelta non è casuale, ma tiene conto della realtà attuale, caratterizzata da processi di sfruttamento minorili tesi alla commissione di reati o allo sfruttamento sessuale. Per quest’ultimo, come è noto, il legislatore ha approntato altri strumenti normativi tesi, al pari del comma 6 dell’art 18, al rafforzamento della tutela delle giovanissime persone straniere. L’art.18., comma 6, in definitiva, appresta una tutela aggiuntiva che consiste nel sancire talune presunzioni attinenti ai requisiti richiesti per l’accesso al "programma di protezione e inclusione sociale" di cui all’art.18: si presume, anzitutto, che il minore che commette un reato è probabilmente vittima di violenza o sfruttamento tesi a far commettere il reato medesimo, e, in secondo luogo, che sussista un pericolo per se o per la propria famiglia che il minore non è in grado di riconoscere o che pensa di non poter combattere. Le presunzioni ovviamente sono di tipo assoluto, risultando eccessivamente oneroso e probabilmente intrinsecamente contraddittorio il riconoscimento alle autorità amministrative del compito di accertare il reale contenuto della presunzione caso per caso. Ciò anche in ragione della provenienza estera della persona. Non avrebbe senso attribuire alla questura il compito di verificare se quel preciso giovane straniero ha commesso il reato in quanto forzato dai propri genitori, magari non identificati o al momento rimpatriati al Paese di origine. Lo stesso dicasi per il pericolo corso dal minore o ancor peggio dalla famiglia, che è possibilmente domiciliata in luogo lontanissimo. Se tali operazioni sono di norma accertabili dalle forze dell’ordine è solo grazie alla collaborazione e alla consapevolezza della vittima; sarebbe, viceversa, estremamente difficile e oneroso nel caso di giovani intimoriti (e a volte ancor più desocializzati in seguito all’espiazione della pena) che non hanno maturato né la consapevolezza dell’offesa e del pericolo, né la determinazione alla collaborazione con l’apparato repressivo. D’altra parte, il legislatore ha predisposto altri filtri per assicurarsi che lo strumento non venga abusato. Infatti, come meglio si dirà, è sempre necessario che l’iniziativa parta e venga posta in essere o da un magistrato, o da un servizio sociale competente ovvero da una associazione accreditata, ossia iscritta negli appositi registri di cui all’art.27 del decreto di attuazione 394/99. Inoltre, la persona straniera deve non solo avere dichiarato di volere aderire a un programma di assistenza e integrazione sociale (così come di norma richiesto dall’art.18), ma anche di aver già dato prova concreta di partecipazione. Infine, si consideri come il beneficio concesso sia pur sempre limitato al rilascio di un permesso di soggiorno e pur sempre destinato a chi durante la minore età ha commesso un reato, dimostrando per questa via, se non necessariamente uno sfruttamento o una violenza con annesso pericolo attuale, quanto meno un probabile disagio sociale o familiare che è comunque meritevole di attenzione. In altri termini, la norma in esame è in ogni caso destinata a soggetti socialmente deboli e concede una mera regolarizzazione amministrativa a chi comunque ha già espiato la pena, "scontando" il costo delle esigenze di prevenzione generale e individuale: il rischio di eventuali presunzioni infondate, dunque, non mette a repentaglio alcun valore fondante l’ordinamento giuridico. L’approfondimento svolto sulla ratio della norma conduce in definitiva a rimarcare l’identità di finalità con il più generale strumento di cui ai primi commi dell’art.18. Ciò permette di capire meglio il senso della nozione di "espiazione di una pena detentiva". Anzitutto, per "pena detentiva" deve semplicemente intendersi ciò che sancisce l’art. 18 del codice penale, che distingue la totalità delle pene in detentive e pecuniarie. Cosicché, debbono intendersi detentive (semplicemente) tutte le pene che non sono pecuniarie. La ragione della scelta è abbastanza intuitiva, i reati la cui consumazione conduce all’espiazione di una pena detentiva puniscono condotte piuttosto gravi, la cui commissione da parte di un minore può legittimamente dare luogo a quelle presunzioni di cui si è detto. Di contro, le pene pecuniarie perseguono la repressione di condotte molto meno gravi, rispetto alle quali sarebbe di certo eccessivo presumere in capo al minore quelle violenze o sfruttamenti che fondano il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Allo stesso tempo, e in base alla medesima ratio, l’espressione "pena detentiva" restringe il campo di applicazione alle sole limitazioni della libertà personale che abbiano il contenuto di pena, escludendo dal novero quelle restrizioni che hanno natura e finalità di misura cautelare. In altri termini, la norma in esame non potrà trovare applicazione nei casi in cui la persona straniera ha subito una limitazione della libertà personale a causa di una misura cautelare: in questi casi il procedimento giudiziario è ancora in corso ed è destinato a sfociare in una pronuncia giurisdizionale di innocenza o di colpevolezza. Solo in quest’ultimo caso, la persona straniera potrà eventualmente rientrare tra i soggetti legittimati. In definitiva, l’art.18, comma 6 richiede l’espiazione di una pena definitiva non di tipo pecuniario, a prescindere dalle modalità con cui in pratica si è dato seguito all’esecuzione della pena. Seguendo, infatti, la ratio evidenziata non avrebbe alcun senso tentare una distinzione ulteriore all’interno delle pene che limitano la libertà individuale del reo. Sarebbe contraddittorio, in tal senso, escludere i casi in cui la persona straniera ha fruito di una pena alternativa dopo un periodo di carcere o di una pena sostitutiva sin dall’inizio della stessa. Ciò anzitutto in quanto il fondamento della norma è stato ravvisato nella commissione di un reato di una certa rilevanza e non anche in un improbabile risarcimento istituzionale a favore di chi ha vissuto il carcere con i suoi effetti desocializzanti e criminogeni. In secondo luogo, si creerebbero delle incostituzionali e inspiegabili differenze di trattamento tra chi ha avuto la possibilità di fruire di misure alternative (che verrebbe discriminato) da chi tale possibilità non l’ha avuta (che verrebbe agevolato), magari proprio a causa di comportamenti non compatibili. Si creerebbero situazioni paradossali, come l’esclusione di un minore di anni 21 che a causa del suo stato di salute precario è riuscito a ottenere la detenzione domiciliare in casa di cura, e solo per questo sarebbe impossibilitato a fruire della regolarizzazione di cui al 6° comma art.18. In generale, le misure alternative, che svolgono una funzione di risocializzazione a vantaggio del detenuto, andrebbero viceversa a compromettere proprio il suo futuro inserimento nella società. Così un magistrato, che crede sia giunto nell’interesse della persona il momento di operare un affidamento in prova, dovrebbe rinunciarvi perché ciò pregiudicherebbe la possibilità di seguire un più strutturato percorso di stabile inserimento sociale nel contesto italiano. Evidentemente una interpretazione tesa ad applicare la norma solo in presenza di un detenzione in carcere sarebbe contraria alla ratio della norma, ai principi costituzionali relativi alla funzione rieducativa della pena, alle finalità perseguita dall’istituto delle sanzioni alternative, al principio di uguaglianza di cui all’art.3 cost. e, infine, anche alla lettera stessa dell’art.18 c.p. che in fondo distingue solo le pene detentive e quelle pecuniarie. Quanto sopra evidenziato in particolare per le pene alternative può integralmente ripetersi per quelle sostitutive, tanto più se si pensa che tra queste si annovera anche la semidetenzione, che pur sempre costringe la persona a trascorrere almeno dieci ore giornaliere dentro l’istituto penitenziario. Dubbi ermeneutici più complessi, viceversa, possono porsi rispetto ad alcuni istituti minorili. Segnatamente, rispetto al "non luogo a procedere per irrilevanza del fatto" sembra debba escludersi l’applicabilità dell’art 18, comma 6 a favore del minore, non tanto perché tecnicamente si tratta di una assoluzione nel merito (per mancanza di tipicità o se si preferisce di offensività), quanto per le stesse ragioni che escludono i casi in cui viene inflitta la semplice pena pecuniaria: si tratta di comportamenti non gravi, non idonei a fare insorgere le presunzioni che fondano la ratio della norma. Di più incerta soluzione è il problema del perdono giudiziario, in quanto seppur si tratta di una sentenza di proscioglimento, che tra l’altro presuppone che il giudice valuti che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati, è di contro innegabile che si è innanzi a una pronuncia che ha accertato l’esistenza di tutte le condizioni necessarie per un rinvio a giudizio o per una condanna relativi a un fatto illecito che può essere di un certo rilievo (applicazione in concreto di una pena fino ai due anni). In altri termini, in caso di perdono giudiziario si è innanzi a un minore che ha posto in essere una condotta illecita grave. Ciò induce a includere anche l’ipotesi del perdono giudiziario fra quelli che danno la possibilità di ricorrere all’art.18, comma 6, seppur con alcune remore che sono legate alla "forzatura" così operata della lettera della norma, in cui si parla di espiazione di una "pena". Tuttavia, si può fare appello all’interpretazione analogica che legittimamente permette in caso di norme di favore il travalicamento dei limiti letterari, al fine di un pieno rispetto della coerenza dell’ordinamento giuridico. Più certa, viceversa, appare la soluzione nel caso di messa alla prova, riscontrandosi tutti i requisiti richiesti e nessun ostacolo reale all’applicazione della norma in esame. Questo istituto, infatti, implica anzitutto che il minore abbia potuto commettere un fatto illecito anche abbastanza grave; sancisce, in secondo luogo, la possibilità che il giudice impartisca misure idonee a riparare le conseguenze del reato e promuovere la conciliazione con la vittima del reato; ma soprattutto stabilisce che il minore stesso venga affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, che svolgeranno una serie di attività di osservazione e "trattamento", solo il cui esito positivo consentirà al giudice di dichiarare il processo estinto. In altri termini, il minore è comunque soggetto a una serie di limitazioni della propria libertà, rischia una riapertura del processo con eventuale condanna e probabilmente ha commesso una reato anche di una certa importanza. Esistono dunque tutti gli elementi per affermare che anche nel caso di messa alla prova il minore ha diritto di accedere ai programmi di protezione e "inserimento" sociale di cui all’art. 18, comma 6: ciò fra l’altro senza ricorrere a una interpretazione analogica, rientrando una tale operazione ermeneutica tra quelle aventi natura semplicemente estensiva. Infine,si analizzi l’ipotesi di sospensione condizionale della pena. In questo caso, il giudice accerta la commissione di un reato anche abbastanza grave, infligge una pena detentiva che può arrivare fino alle soglie dei tre anni, ma in seguito a una prognosi favorevole della personalità dell’imputato decide di sospendere la pena stessa, a condizione che il reo non commetta altri reati nel periodo considerato. Cosicché, ricorrono tutti gli elementi che caratterizzano la norma in esame, esistono i presupposti che ne fondano le finalità: la persona ha commesso un reato e l’ordinamento giuridico ha inflitto una pena detentiva. Il fatto che nello specifico l’esecuzione sia stata sospesa non intacca la necessità di intervenire a favore della persona straniera, al pari di quanto si è già avuto modo di argomentare a proposito delle pene alternative. Anche in questo caso, ad esempio, sarebbe contrario alla logica, oltre che al principio di uguaglianza, concedere l’opportunità di una regolarizzazione amministrativa a chi ha mostrato di non avere una personalità adatta alla sospensione della pena, negando l’uguale possibilità a chi viceversa sin dall’inizio aveva manifestato una capacità di migliore inserimento nel tessuto sociale. Si è dunque chiarito il giusto significato sia della locuzione "pena detentiva", da intendersi come sanzione non pecuniaria che sottende la commissione di un fatto illecito rilevante, sia della nozione di "espiazione", da interpretarsi come adempimento del percorso "riabilitativo" individuato dal giudice. Rimane assai dubbia la esatta portata dell’affermazione per la quale il permesso di soggiorno per motivi umanitari viene rilasciato "all’atto delle dimissioni dall’istituto di pena" a chi "ha terminato" l’espiazione di una pena detentiva. Fino a questo punto, si è chiarito come non sia possibile interpretare tale disposizione nel senso che il permesso può essere rilasciato solo a chi ha finito di scontare la pena detentiva fino alla fine all’interno del carcere, escludendo chi al momento in cui termina la pena sia già uscito dal carcere, magari con misura alternativa (e chi in carcere è riuscito a non entrarci per nulla). Si è visto come una tale interpretazione è così tanto contraria alla ratio legis dell’art.18, ai principi generali dell’ordinamento giuridico (e penitenziario in particolare) e ai valori costituzionali (soprattutto di uguaglianza) da risultare del tutto improponibile. Si tratta allora di meglio intendere il senso non tanto o non solo del concetto di "all’atto delle dimissioni dall’istituto di pena", quanto della nozione di "ha terminato". Al primo concetto, infatti, può essere data una interpretazione coerente affermando che in ogni caso il permesso non può essere rilasciato quando la persona ancora si trova in carcere. Dunque, il permesso può essere accordato solo successivamente alla fuoriuscita dal carcere, non prima. Il legislatore ha deciso che non è opportuno regolarizzare con un permesso umanitario chi ancora vive dentro una struttura penitenziaria. La scelta è opinabile, ma non entra in contrasto con i principi sopra evidenziati. Di contro, è lapalissiano che la norma non può essere letta nel senso di consentire il rilascio "solo al momento dell’atto delle dimissioni", ma nel significato di permettere il rilascio "non prima dell’atto delle dimissioni". La disposizione dunque non pretende come requisito imprescindibile che ci sia coincidenza fra la fine pena e la dimissione dall’istituto penitenziario, ma stabilisce che nel caso in cui la persona debba scontare anche solo una parte della pena in carcere, il permesso non potrà esserle rilasciato se non dopo che sia fuoriuscita dal carcere medesimo. Dunque la disposizione va letta nel senso di consentire il rilascio " non prima dell’atto delle dimissioni dall’istituto di pena". Il vero problema interpretativo si concentra viceversa sul secondo punto, ossia sulla affermazione che sancisce il rilascio del permesso quando la persona "ha terminato" di espiare la pena. Potrebbe, infatti, legittimamente affermarsi che la locuzione significa che il permesso sarà rilasciato al momento in cui è ultimato il percorso e non anche prima: probabilmente anche per evitare di regolarizzare una persona straniera prima che abbia del tutto scontato le conseguenze dell’illecito penale consumato. In definitiva, il permesso, secondo questa prima interpretazione, sarebbe rilasciabile non solo a condizione che la persona sia fuoriuscita dal carcere, ma solo a patto di avere finito di espiare l’intera pena. Cosicché, l’attivazione del programma di inserimento sociale partirebbe prima, ma la regolarizzazione sarebbe praticabile solo dopo la fine della misura alternativa, della messa in prova, della sospensione della pena e così via. Si tratta sicuramente di una interpretazione possibile, molto restrittiva, ma in definitiva praticabile. Tuttavia, è prospettabile un’altra lettura, maggiormente rispondente non solo alla ratio complessiva della norma in esame, ma anche delle finalità perseguite dal sistema delle misure alternative e sostitutive. Si potrebbe, senza forzare la lettera, ritenere che ancora una volta la locuzione in esame ("ha finito di espiare") si riferisca al solo aspetto della detenzione in carcere, così da fare da pendant con la precedente affermazione relativa all’atto di "dimissione dall’istituto di pena". Nel caso di detenzione, cioè, è necessario che la persona straniera abbia finito del tutto di espiare la parte (solo eventuale) che è previsto trascorra in carcere. Finita questa parte della pena, sarà allora possibile il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, anche in presenza di una residuale parte da espiare secondo modalità differenti dalla reclusione in istituto penitenziario. Si tratta, in definitiva, di due interpretazioni possibili, anche se seguire la prima potrebbe significare assistere a dei casi di persone che da tempo si trovano in affidamento in prova o messa in prova o in altre situazione di forte "integrazione sociale", avendo anche da tempo seguito un programma in tal senso, ma che rimangono impossibilitate ad accedere a un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
I presupposti e gli attori coinvolti
La norma stabilisce che il permesso venga rilasciato "anche su proposta del procuratore della Repubblica o del giudice di sorveglianza presso il tribunale dei minori". Il legislatore, a proposito dei soggetti coinvolti e dei ruoli loro attribuiti, ha voluto senza dubbio ricalcare il modello di cui ai primi commi dell’art.18, divenuto oramai noto in tutto il mondo e nella Comunità Europea in particolare, dove da tempo è oggetto di studio. Si tratta del cosiddetto "doppio binario", secondo cui l’iniziativa della speciale regolarizzazione è affidata o agli attori sociali legittimati (servizi sociali, enti locali e associazionismo iscritto nelle speciali liste di cui all’art.27 Dpr. 394/99) o all’autorità amministrativa e giudiziaria. Quest’ultima, tuttavia, nel caso specifico non è costituita soltanto dal procuratore, ma anche dal giudice di sorveglianza presso il tribunale dei minori, ciò in quanto, qualora il soggetto legittimato fosse un minore (di anni 21, invero), scatterebbero i noti meccanismi di tutela suppletiva che attribuiscono alla figura del giudice di sorveglianza del tribunale dei minori un ruolo del tutto peculiare. Sembra pacifico, dunque, che il legislatore abbia voluto - con l’espressione "anche su proposta" - ripetere lo schema esposto nei commi precedenti, attribuendo in particolare all’associazionismo e ai servizi sociali competenti un ruolo determinante. D’altra parte, sarebbe stata insensata una scelta opposta, che escludesse in questo caso il ruolo dei servizi sociali pubblici e privati, tanto più se si considera che lo stesso legislatore ritiene i destinatari di questa norma soggetti particolarmente meritevoli di tutela. Semmai, deve precisarsi che, nel caso di specie, se le associazioni private legittimate sono le stesse di quelle di cui all’ordinario permesso di soggiorno per motivi umanitari, i servizi sociali pubblici qui coinvolti viceversa sono costituiti in primo luogo dal CSSA e dal’USSM, essendo questi i soggetti che istituzionalmente sono preposti all’assistenza (rispettivamente) dei maggiorenni e dei minorenni che dal carcere transitano al "mondo esterno" in continuazione di espiazione pena. Ciò non toglie, tuttavia, la legittimazione dei servizi sociali comunali, a cui di norma è riconosciuta questa competenza; semplicemente viene ampliata la gamma dei soggetti che possono proporre ed eseguire uno dei programmi tesi al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ovviamente, il rilascio del permesso di soggiorno rimane compito esclusivo della questura del luogo in cui la persona straniera ha stabilito il proprio domicilio, ma pur sempre in base all’esistenza dei requisiti richiesti dalla legge. A tal proposito, è necessario ricordare, come si è già detto, che anche qui i requisiti in teoria sono quelli dello sfruttamento o violenza e del pericolo attuale, solo che nel caso di specie opera una presunzione iure et de iure (e dunque non suscettibile di prova contraria) che trova valide ragioni (già esposte) e che sottrae alla questura il potere di sindacare circa la loro esistenza o fondatezza. In altri termini, i requisiti della violenza o grave sfruttamento e del pericolo sono presunti come esistenti dal legislatore sempre e comunque, senza l’obbligo di doverne dimostrare la sussistenza o l’opposta possibilità di provarne l’inesistenza. La questura, viceversa, avrà il potere/dovere di accertare i requisiti richiesti e non presupposti dal legislatore, ossia:
E proprio rispetto a quest’ultimo punto che sono sanciti maggiori poteri di accertamento della questura. Infatti, se di norma, quest’ultima si limita a verificare che vi sia stata una presa in carico da parte dei servizi sociali o delle associazioni competenti, in questo caso dovrà vagliare due ulteriori requisiti. Il primo, consiste nell’accertare che il programma di assistenza e integrazione sociale sia stato già predisposto e abbia avuto inizio; il secondo, è costituito dal valutare che la persona abbia "dato prova concreta di partecipazione", ossia che non solo vi sia stata adesione al sopramenzionato programma, ma anche che questo sia stato intrapreso in concreto, ossia con iniziali risultati positivi. In pratica il legislatore, se da una parte dà per presupposti alcuni dei requisiti normalmente richiesti, dall’altra, esige maggiori sicurezze sulla effettiva possibilità di un "inserimento sociale"; a tal proposito, attribuisce (tra l’altro) all’autorità amministrativa (alla quale sottrae il potere di vagliare lo sfruttamento/violenza e il pericolo attuale) un ulteriore potere di controllo. Di contro, si noti che molto probabilmente deve precludersi una capacità della questura di indagare nel merito circa la partecipazione positiva al programma da parte della persona straniera, dovendosi invece limitare ad accertare la veridicità dei fatti affermati dai servizi sociali (pubblici e privati)e non anche la loro valutazione. La questura, dunque, accerta che effettivamente la persona straniera abbia posto in essere le azioni predisposte nel programma, senza tuttavia potere sindacare sulla congruità dello stesso, che infatti viene apprestato da soggetti (associazioni iscritte e servizi sociali) che hanno già ricevuto una "approvazione" statale del loro operato (che potrà ovviamente essere messo in discussione, ma solo dalla autorità governativa competente a tal scopo). Infine, relativamente agli specifici contenuti del programma, può certamente farsi riferimento a quanto ordinariamente previsto rispetto al permesso per motivi umanitari di cui ai primi commi dell’art.18. Lo stesso dicasi, ovviamente, per quanto riguarda la conclusione del programma, la convertibilità del permesso di soggiorno in motivi di lavoro (anche autonomo) o di studio e la correlativa possibilità di ottenere la revoca di eventuali precedenti decreti di espulsione.
Volendo brevemente compendiare quanto fin qui esposto, può dirsi che l’art 18, comma 6 prevede il rilascio (su iniziativa del procuratore, del magistrato di sorveglianza del tribunale dei minori, dei servizi sociali competenti o di una associazione accreditata) di un permesso di soggiorno per motivi umanitari (valido 6 mesi, rinnovabile per un ulteriore anno e convertibile in motivi di lavoro o studio) a favore delle persone straniere (maggiorenni o minorenni) che durante la minore età hanno commesso un reato punito con pena detentiva e per il quale sono state condannate (eventualmente anche con sospensione) a una detenzione, a una pena alternativa o sostitutiva ovvero a una messa in prova (forse anche con perdono giudiziario), finita di scontare (solo per la parte relativa alla eventuale detenzione in carcere), e che hanno intrapreso positivamente un "programma di assistenza e integrazione sociale" sostenuto dai servizi sociali competenti o da una associazione accreditata.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art.18, comma 6°, T. U. Un importante strumento di tutela per le persone straniere che scontano un pena
Il presente lavoro nasce dalla esigenza di colmare in parte la carenza di attenzione prestata sia dai giuristi che dall’associazionismo all’istituto di cui al 6° comma dell’art. 18, T.U.Imm. Si tratta, infatti, di un importante strumento di supporto per migranti che hanno scontato (o stanno ancora espiando) una pena detentiva, che è stato a lungo trascurato, trovando una scarsissima applicazione, a fronte di uno sviluppo sistematico dell’analogo strumento sancito nei commi precedenti della medesima disposizione. Ciò stupisce tanto più se si pensa che la categoria protetta dalla norma giuridica è composta da soggetti migranti, che stanno espiando una pena, presumibilmente di giovanissima età. Una situazione di straordinaria debolezza sociale resa ancora più acuta dalla radicalizzazione dell’intolleranza verso i migranti che hanno commesso degli illeciti penali. Una spiegazione, come sempre, risiede nel principio per il quale tanto più debole è il soggetto sociale, tanto più scarsa sarà la sua capacità di pressione politica e dunque la possibilità di ottenere tutela. L’art 18, comma 6 Testo Unico Immigrazione prevede il rilascio (su iniziativa del procuratore, del magistrato di sorveglianza del tribunale dei minori, dei servizi sociali competenti o di una associazione accreditata) di un permesso di soggiorno per motivi umanitari (valido 6 mesi, rinnovabile per un ulteriore anno e convertibile in motivi di lavoro o studio) a favore delle persone straniere (maggiorenni o minorenni) che durante la minore età hanno commesso un reato punito con pena detentiva e per il quale sono state condannate (eventualmente anche con sospensione) a una detenzione, a una pena alternativa o sostitutiva ovvero a una messa in prova (forse anche con perdono giudiziario), finita di scontare per la parte relativa alla eventuale detenzione in carcere, e che hanno intrapreso positivamente un "programma di assistenza e integrazione sociale" sostenuto dai servizi sociali competenti o da una associazione accreditata.
Schema:
L’art.18, comma 6 recita testualmente: "Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo può essere altresì rilasciato, all’atto delle dimissioni dall’istituto di pena, anche su proposta del procuratore della Repubblica o del giudice di sorveglianza presso il tribunale dei minori, allo straniero che ha terminato l’espiazione di una pena detentiva, inflitta per i reati commessi durante la minore età e ha dato prova concreta di partecipazione a un programma di assistenza e integrazione sociale" Associazione per la tutela dei diritti delle persone minori in difficoltà
L’Associazione Diritti minori nasce nel 2003 con l’intento di tutelare e di promuovere i diritti e le opportunità delle persone minori che si trovano in situazioni di disagio o difficoltà, con particolare riguardo a coloro che, provenendo da altri Paesi, incontrano di fatto molti maggiori ostacoli alla tutela dei propri interessi fondamentali. L’Associazione si avvale di molteplici competenze, in primo luogo di carattere giuridico, sociologico e pedagogico. L’associazione si propone:
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