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Sieropositivi all'hiv in carcere abbandonati a se stessi di Umberto Billo (*)
IL GAZZETTINO, 3 giugno 2002
All’inizio degli anni ‘90 lavorai negli istituti di pena veneziani con il Presidio per le Tossicodipendenze dell’allora ministero di Grazia e Giustizia per l’assistenza ai Tossicodipendenti sieropositivi all’Hiv. Ho un bel ricordo di quegli anni, della professionalità e umanità del personale di Polizia Penitenziaria, del personale sanitario e di tutti quegli operatori impegnati, dai padri ai volontari alle altre figure sempre presenti all’interno di Santa Maria Maggiore, del Carcere Femminile della Giudecca, della Casa Lavoro, per il sostegno morale e fisico, e per il recupero sociale delle persone recluse. Aiuto molto apprezzato da chi sconta la pena. Per quanto riguarda il rapporto tra tossicomania ed extracomunitari, ricordo solo che questi ultimi arrivavano "nuovi giunti" all’Ufficio Matricola del Carcere, per motivi di traffico internazionale di droga o per spaccio di sostanze stupefacenti e, per quanto ho visto con i miei occhi, non dipendenti da sostanze e tanto meno in crisi di astinenza, anche se poi per ottenere qualche vantaggio personale - per esempio per avere farmaci da usare poi come merce di scambio - spesso arrivavano in infermeria con richieste varie. Mentre i ragazzi e ragazze italiani che giungevano per reati collegati al reperimento di denaro per l’acquisto dì droga e/o per detenzione di quantità di droga, spesso solo per uso personale, sempre chiedevano aiuto e si sottoponevano volontariamente al protocollo di disintossicazione. Al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia mi permetto di ricordare che, se da parte delle Aziende Sanitarie Locali fossero rispettate le leggi in materia, in questi luoghi sarebbero dovuti già da tempo entrare medici e infermieri del Servizio Sanitario Nazionale per la dovuta assistenza ai cittadini che si trovano temporaneamente in condizioni di restrizione della libertà personale e sempre più frequentemente in condizioni di doppia diagnosi (dipendenza innestata su sofferenza psichiatrica preesistente e/o comorbilità psichiatrica conseguente all’abuso di sostanze): la Regione Lombardia, nel solco tracciato dal Network Europeo dei Servizi per la Tossicodipendenza e Hiv/Aids in Carcere (Endhasp) e la Città di Milano, hanno stipulato da anni un protocollo d’intervento dell’Unità Operativa Area Penale e Carceri, diretta come tutte da un medico, per determinare l’attivazione contemporanea del sistema dei servizi della giustizia, della sicurezza e della cura. Dopo il I. Seminario Europeo sulle misure alternative (Amburgo, agosto-settembre 2001) e la V Conferenza europea sui servizi per le tossicodipendenze (Bruxelles ottobre 2001), dal 14 al 16 marzo 2002 con il patrocinio del ministero della Salute, si è tenuto un convegno internazionale (dove peraltro ho notato l’assenza di operatori sanitari nostrani gravitanti attorno al pianeta carcere) per promuovere la cooperazione tra professionalità, gruppi ed associazioni interessati a sviluppare collegamenti ed a superare le barriere, tuttora esistenti, tra il sistema della comunità ed il sistema del carcere e la diffusione delle cosiddette "buone prassi" (per maggiori dettagli ed indirizzi vedasi il sito Internet: www.lacuravalelapena.supereva.it). Concludo ricordando che il prefetto nominato dal Governo per queste problematiche ha già lanciato un allarme disgraziatamente fondato: la cocaina sta dilagando tra i bambini di 9 anni e molti tossicomani stanno occupando centri di potere economico e politico con la conseguenza che in Italia si sta formando una classe dirigenziale altamente ricattabile. Come arriveremo al 25 giugno, giornata mondiale dedicata ai problemi della droga se, a distanza di anni dalla promulgazione di leggi chiare e precise, il Servizio Sanitario Nazionale, eludendo le leggi italiane, non è ancora entrato nelle carceri per assistere i cittadini?
(*) Responsabile Gruppo di lavoro Contromobbing |