In carcere senza cure

 

In carcere senza cure, così la destra ha affossato la riforma

 

L’Unità, 25 giugno 2002

 

Massimo vive su una sedia a rotelle per una paralisi al nervo sciatico e dentro il suo corpo ha due viti, spezzate in seguito ad una frattura del femore sinistro. Per i medici, già dal 2000 doveva essere operato con urgenza. Mohammad da due anni lotta per avere una protesi dentaria. Quindici giorni fa gli hanno tolto una cisti dentale. Grugy ha subìto nel 2001 un’operazione di cancro alla gola e quattro mesi fa ha scoperto di avere due cisti alla tiroide. Non riesce a deglutire. I medici hanno richiesto esami urgenti. Gli era stata fissata una visita in ospedale per il 5 giugno.

Ma la scorta non c’ era. Mario, che per precedenti malattie cammina con le stampelle oppure è costretto a muoversi con la sedia a rotelle, ha avuto per molto tempo un ago da siringa dimenticato dall’infermiere nel suo gluteo sinistro. L’ago, però, si è mosso andandosi a conficcare nello scavo pelvico. In seguito ad una caduta, l’ago, come risulta dalle lastre, si è spezzato in due parti. Per il chirurgo "si ritiene indispensabile l’asportazione chirurgica in tempi brevi".

Ebbene, Mario, così come tutti gli altri, sono ancora lì nel carcere romano di Rebibbia, ad aspettare di essere curati. Frammenti di storie che arrivano dal pianeta carcere. Schegge di umana disperazione che offendono la dignità di tutti. E che come ferite aperte mettono a nudo la vergogna di una sanità penitenziaria, che lungi dal voler essere civile e avanzata, ha perso l’occasione di mettere in atto una riforma annunciata ma mai realmente applicata.

Una riforma nata nella scorsa legislatura e voluta da Rosy Bindi che con una legge delega conferì al governo l’incarico di trasferire l’assistenza sanitaria dei detenuti dal ministero di Giustizia a quello della Salute. L’esecutivo emanò un decreto con il quale trasferì al servizio sanitario nazionale i soli set tori dell’assistenza dei detenuti tossicodipendenti e il passaggio, questo per tutti detenuti, alle ASL in via sperimentale delle regioni Lazio, Toscana e Puglia.

Rinviando su tutto il resto. Antigone, associazione che si occupa delle condizioni carcere, ha in questi anni monitorato l’effettivo passaggio e non ha ombra di dubbio: la legge è rimasta lettera morta. Ma non è tutto. L’ultima scadenza del decreto, dopo una prima proroga, è tra cinque giorni. Se entro il 30 giugno, l’esecutivo non approva il decreto attuativo della riforma o non proroga ulteriormente il termine, la riforma sanitaria della Bindi sarà definitivamente carta straccia.

E l’ultima speranza dei malati di sopravvivere in carcere, si dissolverà rapidamente come lacrime nella pioggia. "Ci chiediamo come a tre anni dall’approvazione della riforma, le ASL non siano ancora entrate in carcere", dice Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria, che aggiunge: "Faccio appello al sindaco Veltroni in quanto responsabile del diritto alla salute dei suoi cittadini".

Ma come è andata a finire la sperimentazione in quelle tre regioni? "Ovviamente la situazione non è ovunque la stessa - spiega Claudio Sarzotti di Antigone, che ha appena pubblicato un dettagliato libro sull’argomento - anche se il dato comune è che nessuno ha mai formalizzato il passaggio al ministero della Salute e i dirigenti sanitari rispondono ancora all’amministrazione penitenziaria.

Fatta eccezione per la Toscana, la malasanità regna nelle carceri del Lazio e della Puglia. E gli stessi medici lo ammettono. "Ci manca tutto - dice Sandro Libianchi, medico di Rebibbia e presidente del Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane - in particolare i farmaci per i cardiopatici, per i malati di tumore, per chi soffre di malattie respiratorie e per i malati di Aids.

E il fatto che il ministero della Giustizia non abbia competenze specifiche in materia sanitaria fa sì che non ci sia un adeguato controllo terapeutico ed epidemiologico di quanto avviene". Il contratto del personale sanitario in carcere, oggi, è per l’80% "a parcella": l’amministrazione, quindi, paga un ortopedico o un cardiologo per svolgere l’attività medica. Dal che ne derivano, tra l’altro, ovvi pericoli di discriminazione tra detenuti. Quindi: medicinali insufficienti, pochi dottori, difficoltà, nei piccoli istituti, a garantire la guardia medica 24 ore su 24, come previsto della legge, metadone che in alcune carceri,violando le norme, non viene somministrato.

Drammatiche condizioni alle quali vanno aggiunte situazioni paradossali come quelle patite dai detenuti del carcere di Bari o di Lecce. Persone affette da tubercolosi sono state trovate nella stessa cella con compagni sieropositivi. Rischio di contagio: altissimo. Reclusi portatori di handicap fisici "parcheggiati" nel centro clinico per l’impossibilità di abbattere le barriere architettoniche e ritardi, come quelli avvenuti nel carcere di Lecce, nella somministrazione di farmaci ai malati di Aids. "L’amministrazione penitenziaria non ha mai voluto applicare la riforma - dice Stefano Anastasia, presidente di Antigone - e con il cambio di governo è venuto meno il riferimento a quell’arco di forze che l’avevano sostenuta. A tre giorni dalla scadenza questi castelli di carta rischiano di cadere".

Intanto una raccapricciante testimonianza registrata su un CD Rom, prodotto dai detenuti di Rebibbia, è la prova che per alcuni non c’è più molto tempo. "Ho 8 linfociti e sto in Aids conclamato", dice Luigi da un letto del braccio G 14. "Non dovrei stare qui dentro".

 

 

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